NEL TEMPO DEL DOLORE (Gianfranco Ravasi)
dal sito:
http://www.cesil.com/dicembre00/italiano/10ravit.htm
NEL TEMPO DEL DOLORE
Gianfranco Ravasi
( DICEMBRE 2000…circa)
Dare un senso al dolore, combattere la sofferenza dell’uomo non solo con la scienza, ma anche con la sapienza dei testi antichi; per questo diamo la parola a Monsignor Gianfranco Ravasi, Prefetto della Biblioteca Ambrosiana, membro della Pontificia Commissione dei Beni Culturali della Chiesa, insigne teologo e biblista, scrittore e pubblicista di chiara fama e di rara dottrina.
Per millenni l’umanità ha cercato di assediare la cittadella apparentemente invalicabile del dolore. Già l’antica sapienza egizia registrava la sconfitta della ragione con le emozionanti righe del “papiro di Berlino 3.024” (2200 a.C.), significativamente intitolato dagli studiosi Dialogo di un suicida con la sua anima, dialogo che ha come approdo solo la morte vista come liberazione, guarigione, profumo di mirra, brezza dolce della sera, fior di loto che sboccia. L’accanimento della teodicea, cioè del tentativo di difendere Dio dall’attacco dell’”ateismo” che fa leva proprio sul dolore, ha dovuto sempre confrontarsi con le alternative lapidarie del filosofo greco Epicuro, così come ce le ha trasmesse lo scrittore cristiano Lattanzio nella sua opera De ira Dei (c. 13): “Se Dio vuol togliere il male e non può, allora è impotente. Se può e non vuole, allora è ostile nei nostri confronti. Se vuole e può, perché allora esiste il male e non viene eliminato da lui?” E’ proprio attorno a questi dilemmi e soprattutto quando si entra nella regione tenebrosa della sofferenza personale che si confrontano le religioni e gli agnosticismi.
Emblematica è l’affermazione del pensatore ateo francese Jean Cotureau: “Non credo in Dio. Se Dio esistesse, sarebbe il male in persona. Preferisco negarlo piuttosto che addossargli la responsabilità del male” . E proprio per difendere Dio da questa accusa infamante, si è fatto di tutto nella storia dell’umanità, ricorrendo appunto a quella “teodicea” a cui sopra si accennava, percorrendo le strade più disparate, talvolta quasi impraticabili.
Si è, così, fatto ricorso al dualismo, introducendo – accanto al Dio buono e giusto – un’altra divinità negativa e ostile, un dio del male (pensiamo, a titolo esemplificativo, al manicheismo e a tante forme apocalittiche estremiste).
Ci si è appellati alla cosiddetta “teoria della retribuzione”, peraltro ben attestata anche nella Bibbia, come vedremo: il binomio delitto-castigo ci invita a scoprire in ogni dolore un’espiazione di colpa, se non personale, almeno altrui (e così si cercherebbe di giustificare anche la sofferenza dell’innocente).
Per altri sarebbe, invece, da imboccare la via pessimistica radicale: la realtà è strutturalmente negativa proprio per il suo limite creaturale (da spiegare sarebbe eventualmente la felicità o il bene quando si presentano nella vita!).
Per contrasto, non è mancata anche una lettura ottimistica altrettanto radicale della realtà per cui il male è solo un non-essere, un dato concettuale, un’apparenza da superare scoprendo la serenità profonda dell’essere.
In questa luce si pongono le visioni panteistiche come lo stoicismo greco-romano o il brahamanesimo indiano per il quale il male è solo maya, cioè “illusione”.
In questa linea si collocano anche certe concezioni evoluzionistiche che considerano il dolore come il residuato di un mondo ancora imperfetto e in costruzione.
Le energie cosmiche e il progresso umano sono la via da percorrere per la graduale eliminazione di ogni negatività. Gli stessi testi sacri ebraico-cristiani, cioè la Bibbia, affrontano l’interrogazione che la sofferenza genera secondo prospettive differenti. C’è, così, nei capitoli 2-3 della Genesi il ricorso alla libertà umana che, nella solitudine drammatica delle sue scelte, può seminare violenza, oppressione, devastazione, prevaricazione e lacrime.
C’è la voce altissima di Giobbe che, attraverso un tragico itinerario di spoliazione e di protesta, giunge alla scoperta di un progetto trascendentale, invalicabile agli schemi semplificatori della filosofia e della stessa teologia, dotato però di un suo senso, di una metarazionalità suprema che è conoscibile solo per rivelazione, per contemplazione.
C’è il misterioso Servo del Signore, “uomo di dolori”, cantato da Isaia (c. 53), che nel dolore dell’innocente vede un seme di fecondità e non di morte, che si dirama nel deserto della storia.
C’è soprattutto la figura di Cristo che incontra costantemente la degenerazione causata dal male, la assume su di sé attraversando la galleria oscura della passione e della morte: egli, però, con questa solidarietà estrema depone nel limite umano una scintilla della sua divinità che esplode nella luce della resurrezione, cioè della ri-creazione del mondo e dell’umanità in una nuova dimensione ove, come dichiara il libro dell’Apocalisse, “non ci sarà più morte, né il lutto, né il lamento, né l’affanno, perché le cose di prima sono passate” (21,4).
Noi, però, vorremmo ora – molto più modestamente – indicare due linee di interpretazione e di comportamento di fronte alla lacerazione della sofferenza, consapevoli comunque del mistero che essa coinvolge. Eschilo nei Persiani pone l’eterna domanda che sale dal respiro di dolore dell’umanità: “Io grido in alto le mie infinite sofferenze, dal profondo dell’ombra chi mi ascolterà?” (v. 635).
La prima considerazione vuole porre l’accento sulla simbolicità del dolore. E’, come dice il titolo di una suggestiva opera autobiografica della scrittrice americana Susan Sontag, la metafora di un’esperienza più alta (Ilness as metaphor, 1978). E’ indice di un “male oscuro” e radicale, per usare il titolo di un romanzo del nostro Giuseppe Berto (1964). La sofferenza non è mai solo una questione fisica, ma coinvolge “simbolicamente” corporeità e spiritualità. Essa può contemporaneamente generare disperazione e speranza, tenebra e luce; può essere distruzione e purificazione; riduce alla bestialità (certe malattie sono umiliazione e sconfitta di ogni dignità umana) ma può anche trasfigurare, “distillando” come in un crogiuolo le capacità più alte, divenendo luminosità interiore e catarsi.
Il grande mistico medievale Meister Eckhart (1260 ca.-1327) affermava che “nulla sa più di fiele del soffrire, nulla sa più di miele dell’aver sofferto; nulla di fronte agli uomini sfigura il corpo più della sofferenza, ma nulla di fronte a Dio abbellisce l’anima più dell’aver sofferto”.
Proprio per questa dimensione simbolica del soffrire umano, l’approccio nei confronti del malato non può essere parziale.
Da un lato, è indubbia la necessità della terapia medica: dopo tutto, quasi a metà del Vangelo di Marco è un racconto di guarigioni operate da Cristo al punto tale che un teologo, René Latourelle, ha scritto che “i Vangeli senza miracoli di guarigione sono come l’Amleto di Shakespeare senza il principe”. Dall’altro lato, la pura biologicità e la tecnica asettica sono insufficienti ed esigono un incontro, un dialogo, un supplemento di umanità.
Mai come nel dolore ci si accorge di non avere un corpo ma di essere un corpo che è segno di una realtà interiore più profonda.
Sono suggestive dal punto di vista simbolico le narrazioni evangeliche delle guarigioni dei lebbrosi: contravvenendo tutti i divieti rituali e sanitari del tempo, Gesù “li tocca” e con questo gesto vuole quasi assumere su di sé il male, condividendone il peso e l’amarezza.
Mai come nel dolore l’uomo si accorge della falsità delle parole di conforto dette in modo estrinseco e senza autentica partecipazione. Giobbe, al riguardo, è estremamente chiaro: gli amici che cercano di consolarlo in modo arido e frigido sono da lui definiti “intonacatori di menzogna” (13, 4), maestri nei “sofismi di cenere” (13, 12), “consolatori stomachevoli”, capaci solo di “discorsi d’aria” (16, 2-3), pronti ad offrire “decotti di malva” (6,6) che non possono certo placare la furia ardente della sofferenza intima. Anzi, il malato scopre che, alla fine, egli rimane solo col suo male.
E’ lo stesso Giobbe a descrivere in modo pittoresco e persino barocco questo isolamento quando scopre che “a mia moglie ripugna il mio alito, faccio schifo ai figli del mio ventre” (19, 17).
Nel tempo del dolore la verità non riesce a patire contraffazioni. E’, allora, in questo momento che deve scattare una specie di alleanza tra paziente e medico (infermiere, parente, assistente, cappellano e così via). E’ questa la seconda considerazione che vogliamo proporre.
Nel racconto biblico della creazione della donna si dichiara che l’uomo supera la sua solitudine solo quando trova “un aiuto che stia di fronte” (ke-negdò), che sappia quindi avere gli occhi negli occhi dell’altro, che non troneggi sopra la creatura come una divinità ma che non sia neppure inferiore e inetto come un animale.
Questa solidarietà è difficile da creare ma è indispensabile. La conoscenza tra chi cura e chi è curato deve essere meno fredda e distaccata di quanto spesso accade: deve essere fatta di comunicazione genuina, di dialogo, di ascolto, di verità detta con partecipazione (e qui si pone il delicatissimo problema della cosiddetta “verità al malato”).
Il sofferente deve sentirsi rispettato anche nel momento della debolezza, quando il pianto inonda le sue guance ed è noto che esiste sempre un pudore nel mostrare le lacrime.
Deve essere aiutato a liberarsi dei condizionamenti di una cultura della “forza”, di un “maschilismo” vanamente eroico e ad accettarsi anche nel tempo della prova. Anche Cristo di fronte alla notte della passione implora di essere liberato dal calice della sofferenza (Marco 14,36) e confessa di avere “l’anima triste fino alla morte” (Marco 14,34), scoprendo però con amarezza di non avere accanto la solidarietà affettuosa dei suoi discepoli. “Così non siete capaci di vegliare una sola ora con me?” (Matteo 26,40).
Bisogna, allora, ribadire una parola tanto abusata ed equivocata, la cui vera declinazione nell’esistenza è sempre ardua, cioè l’amore. Solo se circondato d’amore, il malato riesce ad accettarsi e a superare anche il pudore che è la consapevolezza – come affermava il filosofo Max Scheler – di “un certo squilibrio, di una certa disarmonia tra il significato e le esigenze della sua persona spirituale, da una parte, e i suoi bisogni corporei, dall’altra”. In questa luce ci sembra suggestiva una parabola che vorremmo porre a suggello di queste riflessioni molto limitate su un orizzonte immenso e incandescente, incapaci di fissare in un profilo sintetico il volto proteiforme del male. Anche per il credente, il dolore rimane una cittadella il cui centro non può essere completamente espugnato.
Come diceva il poeta cattolico francese Paul Claudel, “Dio non è venuto a spiegare la sofferenza, è venuto a riempirla della sua presenza”. E il teologo Hans Küng osservava che “Dio non ci protegge da ogni sofferenza ma ci sostiene in ogni sofferenza”. A questo proposito ci affidiamo a una figura “laica” come lo scrittore Ennio Flaiano (1910-1972). A lui era nata nel 1942 una figlia, Luisa, che già a otto anni aveva iniziato a rivelare un’encefalopatia epilettoide, e che è vissuta fino al 1992, curata amorosamente dalla madre, Rosetta Flaiano. Ebbene, lo scrittore abruzzese nel 1960 aveva pensato a un romanzo-film di cui è rimasto solo l’abbozzo. In esso si immaginava il ritorno di Gesù sulla terra, infastidito da giornalisti e fotoreporter, ma, come un tempo, attento solo agli ultimi e ai malati. Ed ecco, “un uomo condusse a Gesù la figlia malata e gli disse: ‘Io non voglio che tu la guarisca ma che tu la ami.’ Gesù baciò quella ragazza e disse: ‘In verità, quest’uomo ha chiesto ciò che io posso dare.’ Così detto, sparì in una gloria di luce, lasciando la folla a commentare i suoi miracoli e i giornalisti a descriverli”.
Gianfranco Ravasi
Prefetto della Biblioteca Ambrosiana
Milano

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