domenica 17 ottobre 2010, omelia sulla seconda lettura: 2 Timoteo 3,14-4,2
dal sito:
http://www.nicodemo.net/NN/ms_pop_vedi2.asp?ID_festa=250
2 Timoteo 3,14-4,2
L’efficacia delle Scritture
La lettera si apre con il prescritto e il ringraziamento epistolare, nel quale l’autore ricorda la fede di Timoteo, ricevuta dalla madre e dalla nonna (1,1-5). Viene poi il corpo della lettera in cui sono svolti i seguenti temi: A. Il vero pastore (1,6-18); B. Il comportamento di Timoteo (2,1-26); C. Gli ultimi tempi (3,1-17); D) Il testamento di Paolo (4,1-18). Il testo liturgico riprende la finale della terza parte, nella quale si parla della perseveranza di Timoteo (3,14-15) e dell’efficacia delle Scritture sulle quali egli deve basare il suo insegnamento (3,16-17), nonché l’inizio della quarta, che contiene un pressante appello rivolto a Timoteo perché assuma fino in fondo il suo ruolo di pastore (4,1-2).
L’autore ha ricordato la fedeltà di Timoteo a Paolo e lo ha esortato a proseguire su questa linea, nonostante le sofferenze e persecuzioni, sapendo che i malvagi avranno la peggio (cfr. 3,10-15). Dopo di che egli prosegue: «Tu però rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente. Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù» (3,14-15). La saldezza nella quale Timoteo deve rimanere si fonda sulla sua formazione dottrinale: questa è frutto di un «imparare» (manthanein) da cui egli ha ricavato una fede incrollabile. In altre parole la fede, che nel linguaggio biblico significa «essere saldo», si basa sull’adesione a quanto si è imparato. Questo processo di apprendimento presuppone una catena continua e fedele di «maestri» che Timoteo deve riconoscere. L’idea di continuità e fedeltà è data mediante il ricordo dell’educazione religiosa ricevuta da Timoteo fin dall’infanzia.
A questo motivo di sicurezza se ne aggiunge un altro, quello derivante dalle Scritture. Si tratta di testi autorevoli e sicuri che Timoteo conosce bene perché li ha appresi fin dall’infanzia (cfr. 2Tm 1,5) e ha riposto in essi la sua fede. L’autorità delle Scritture consiste, a differenza di quella dei documenti profani, nella loro capacità di comunicare una sapienza che conduce alla salvezza. Questa però deriva non da una semplice conoscenza dei testi, ma dalla fede in Gesù Cristo. Questi appare così non solo come fonte della salvezza, ma anche come l’unica chiave interpretativa della Scrittura.
L’efficacia delle Scritture ai fini della salvezza viene poi ulteriormente approfondita: «Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (3,16-17). L’espressione «tutta la scrittura» (pasa graphê) può indicare tutta la collezione dei libri sacri oppure ciascun libro preso individualmente. Essa è «ispirata da Dio» (theopneustos), cioè è composta sotto l’influsso dello Spirito di Dio: questa espressione può anche significare che la Scrittura «spira Dio», cioè è capace di infondere lo Spirito di Dio in colui che si accosta a essa. In forza dello Spirito che è in essa e promana da essa, la Scrittura è utile alla formazione completa e matura del cristiano. La sua opera viene descritta con quattro sostantivi: essa è fonte di insegnamento (didascalia), genera convinzione (elegmon) e correzione (epanorthôsis) e infine provvede all’educazione (paideia). Mentre l’insegnamento richiama la formazione intellettuale, gli altri tre sostantivi riguardano piuttosto la prassi. L’ultimo poi, la paideia, che si rifà al lessico tipico dell’ambiente ellenistico, è collegato con un vocabolo di schietto sapore biblico, ma non estraneo al gusto ellenistico, la «giustizia» (diakoiosyne). L’autentica parola ispirata dalla potenza di Dio, dal suo Spirito, rivela tutta la sua efficacia nel guidare e sostenere una prassi cristiana conforme alla volontà di Dio, cioè alla giustizia. A questa descrizione dell’efficacia della Scrittura è collegata, mediante una preposizione che indica finalità (hina, perché, affinché), una frase che mette in luce la meta a cui tende la Scrittura. Essa opera per la maturità cristiana che si rivela nelle opere buone, cioè nella prassi di carità. Questa osservazione finale vale in primo luogo per l’«uomo di Dio», un’espressione che indica anzitutto il responsabile della comunità cristiana (cfr. 1Tm 6,11). Ma, in base alla tematica della lettera, è chiaro che egli è proposto come modello o norma per tutti i cristiani.
Il brano liturgico abbraccia anche l’inizio dell’ultima parte della lettera, in cui è contenuto quello che più propriamente viene chiamato «testamento spirituale» dell’Apostolo: «Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento» (4,1-2). La situazione è quella di Paolo che, alla vigilia del suo martirio, consegna al discepolo, suo rappresentante e delegato, le ultime volontà (cfr. 1Tm 4,6-8). Il richiamo al credo cristiano, in cui si proclama Gesù giudice universale, stabilisce anche lo sfondo sul quale si comprende la responsabilità dei credenti. Il compito dell’annuncio fedele e perseverante si inserisce nel dinamismo della storia salvifica che si chiuderà con la definitiva manifestazione (epiphaneia) di Gesù Cristo nella sua signoria regale. Questo appello colloca l’esortazione seguente nel contesto dell’autorità divina e le dà un’autorevolezza e un’urgenza eccezionali. A questo esordio solenne fanno seguito cinque imperativi che si susseguono a catena, nei quali si riassume il dovere essenziale del pastore. Al primo posto sta l’annunzio cherigmatico della parola o vangelo. Esso deve essere attuato con «insistenza», cioè con quella costanza che permette di superare il muro dell’indifferenza; in base a essa il pastore non deve preoccuparsi eccessivamente di trovare il momento opportuno, in quanto l’efficacia della parola non dipende dalle circostanze esterne ma dalla grazia di Dio. Vengono poi l’ammonire (elenchein), il rimproverare (epitimaô) e l’esortare (parakaleô). Sono queste le tre forme classiche del servizio della parola. Ma tutto questo deve essere fatto all’insegna della magnanimità, che comporta fiducia e pazienza, e dell’insegnamento, che implica la solidità dottrinale congiunta con l’arte pedagogica ed educativa.
Linee interpretative
Questo testo è l’unico in cui si parla esplicitamente di «ispirazione» delle Scritture. Questa prerogativa significa che le Scritture sono composte da autori che non cessano di essere persone normali, ma sono assistiti dallo Spirito che ne garantisce la verità dal punto di vista della salvezza, non certo sul piano della scienza o della storia. In altre parole, le Scritture hanno una grande autorevolezza perché contengono la lunga esperienza religiosa di un popolo dal quale è sorto Gesù. Non si può quindi essere suoi discepoli se non si fa riferimento alle Scritture. Il fatto che l’opera dello Spirito si eserciti attraverso esseri umani esige però tutto un lavoro di interpretazione che deve tenere conto non solo della cultura di ogni singolo autore, ma anche dei suoi limiti che possono sfociare a volte in affermazioni che per noi oggi appaiono erronee.
L’importanza delle Scritture consiste però soprattutto nella loro utilità per la formazione dell’uomo di Dio. In altre parole, lo Spirito non si è limitato ad assistere gli autori umani nella loro opera, ma è rimasto presente nelle Scritture che rivelano perciò una grande forza di convinzione, educazione e correzione. Proprio perché contengono la memoria di una lunga esperienza religiosa, le Scritture devono diventare il costante punto di riferimento della ricerca di Dio che si attua nella comunità dei credenti. Quindi nella Scrittura non bisogna cercare la soluzione dei nostri problemi, ma lo stimolo ad andare avanti in una ricerca che non sarà mai conclusa.

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