«IN LUI SONO NASCOSTI TUTTI I TESORI DELLA SAPIENZA E DELLA CONOSCENZA» (COL 2,3)
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«IN LUI SONO NASCOSTI TUTTI I TESORI DELLA SAPIENZA E DELLA CONOSCENZA» (COL 2,3)
Romano Penna*
Quando si riflette sull’evento della croce di Cristo, facendone esplicito argomento di discorso, non è possibile ignorare l’apporto ermeneutico proprio dell’apostolo Paolo, che del Crocifisso è stato, per così dire, il più grande ‘cantore’ nell’ambito delle origini cristiane. Perciò, la sessione pomeridiana del convegno è stata sostanzialmente consacrata a lui con ben tre relazioni. In più, come era necessario, se ne è dedicata una specifica all’Apocalisse giovannea. Nel primo intervento, il Prof. Antonio Pitta, Preside della Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale a Napoli e ivi Docente ordinario di Nuovo Testamento, ha svolto il tema «I figli d’Israele e la gloria di Cristo, icona di Dio (2Cor 4,4)». Rifacendosi a un suo recentissimo commento alla Seconda lettera ai Corinzi, Pitta ha inserito il passo preso in esame (cf. 2Cor 4,4: «… ai quali il dio di questo mondo ha accecato la mente incredula, perché non vedano lo splendore della gloria del glorioso
vangelo di Cristo che è immagine di Dio») nel suo proprio contesto epistolare. La esposizione paolina, infatti, è comprensibile all’interno di una ampia riflessione storico-salvifica che confronta ma anche contrappone due diverse manifestazioni della gloria di Dio: una è quella che risplende sul volto di Mosé, che dopo il suo incontro con Dio nessuno degli Israeliti poteva guardare, mentre l’altra è appunto la gloria che brilla sul volto di Cristo, che invece è ben visibile e anzi contemplabile nonostante il paradosso di un volto apparentemente poco ‘glorioso’. È vero che la 2Cor parla della croce soltanto più avanti (cf. 13,4a: «Egli fu crocifisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio») e in rapporto all’esistenza cristiana (cf. 13,4b: «E anche noi siamo deboli in lui, ma saremo vivi con lui per la potenza di Dio nei vostri riguardi»); però il Cristo di cui già prima Paolo discorre non è altro che il crocifisso, certamente risorto, ma che proprio in quanto
tale ripresenta sempre di continuo al cristiano il valore inestimabile ed efficace del suo morire (cf. 4,10: «… portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo…»). È appunto su questa base che Paolo rileva l’aspetto transeunte della Legge mosaica, la quale risulta tale proprio perché la morte di Gesù Cristo rappresenta una ulteriore anche se insospettabile rivelazione di Dio. Pitta mette bene in luce che quanto è destinato ad essere eliminato non è di per sé l’antica alleanza, ma la transitorietà della sua gloria. La relazione del prof. Mario F. Collu, cp, Docente nell’Istituto Pastorale della Facoltà di Teologia dell’Università Lateranense, è dedicata a «La visione del Signore della gloria» in 1Cor 2,8. Partendo dalla constatazione delle antinomie, costantemente presenti nell’argomentazione di Paolo (in questo caso individuabili nell’accostamento dei due eoni e delle due sapienze, coesistenti ma anche contrastanti), Collu pone l’esposizione paolina sullo sfondo delle divisioni interne alla comunità corinzia, propiziate da una certa aria culturale dominata dalla retorica e da una logica insofferente dell’annuncio di una possibile salvezza legata a un crocifisso. Ma è proprio questa realtà che nasconde e insieme paradossalmente rivela «il mistero di Dio» (1Cor 2,1). È nella croce, infatti, che trapela e in definitiva si manifesta «ciò che occhio mai non vide né orecchio udì né mai salì in cuore d’uomo» (ib. 2,9), suscitando la percezione di una ‘visione’ sorprendente perché inattesa. Una comprensione del genere, però, non è possibile se non per il tramite dello Spirito, che scruta le profondità di Dio ed è in grado di porre l’uomo in connessione omogenea con lui. Parlare di Cristo come «Signore della gloria» significa infatti trasferire a Gesù una dimensione divina, che gli viene attribuita nel momento meno divino come’è quello della sua morte in croce. Da parte sua Angela Maria Lupo, Docente di Sacra Scrittura all’Istituto Interdiocesano di Scienze Religiose dei Castelli Romani, svolge una personale riflessione su «La rappresentazione del * Romano Penna, Ordinario di Nuovo Testamento alla Pontificia Università Lateranense. Crocifisso» in Gal 3,1-2. L’interesse di questo passo sta nel fatto che esso è l’unico in cui Paolo utilizza un verbo per così dire ‘descrittivo’, per esprimere però non il Crocifisso ma il suo annuncio.
Il verbo greco utilizzato dall’Apostolo infatti significa letteralmente «delineare davanti (agli occhi)», o nel senso di dipingere visivamente qualche cosa (naturalmente qui in senso metaforico) oppure di presentare e offrire apertamente/pubblicamente qualche messaggio. Probabilmente l’una sfumatura non sta senza l’altra. Certo è che Paolo si raffigura il Cristo in termini molto concreti e realistici, soprattutto pensato in funzione di una sua destinazione universale senza limiti, fruibile da tutti. L’importante per il cristiano è di non farsi ammaliare da altre prospettive salvifiche (in effetti, l’altro verbo impiegato da Paolo richiama l’idea di un incantesimo) e rimanere invece fedeli alla figura tratteggiata dal kérygma apostolico. L’alternativa sarebbe quella di un legalismo moralistico, sempre seducente, che però annullerebbe la grazia di Dio e cioè l’assoluta gratuità del suo intervento in favore dell’uomo peccatore (cf. Gal 2,21; 5,4).
Infine, la relazione del Prof. Giovanni Odasso, Ordinario di Introduzione alla Sacra Scrittura nella Facoltà di Teologia della Universtà Lateranense, ha preso in considerazione il tema centrale dell’Apocalisse di Giovanni, formulato come «La visione dell’Agnello immolato» in Ap 5,6. Dopo aver inserito il testo nel suo contesto (posto cioè in rapporto con il cap.4 concernente la visione del trono celeste di Dio), l’accurata analisi di 5,6 rivela il paradosso esistente nei lineamenti della figura (metaforica) dell’Agnello, che da una parte è immolato/sgozzato e dall’altra, ciononostante, è ritto in piedi! Odasso interpreta doppiamente la visione giovannea sulla base di un riferimento, sia al Servo sofferente di Isaia 53 (cf. v.7: «come agnello condotto al macello»), sia all’agnello pasquale
di cui si legge in Esodo 12. L’Agnello dell’Apocalisse è perciò il Messia in quanto realizza la
Pasqua eterna e insieme è il Servo che porta il disegno salvifico di Dio a tutte le genti (con
l’interrogativo se si possa anche scorgere sullo sfondo una allusione al sacrificio di Isacco in Gen 22). Il fatto che questo Agnello sia poi in grado di aprire il libro dai sette sigilli dice tutta la sua sovranità sulla storia, e il canto di vittoria che ne segue esprime finalmente l’esultanza dei redenti che a quel sangue devono tutta la propria identità di salvati.
Sono così presi in esame i principali testi neotestamentari che risultano attinenti al tema generale del convegno: «La visione del Dio invisibile nel volto del Crocifisso». Ne consegue che la ‘visione’ in oggetto prende corpo sotto diversi angoli ermeneutici, talmente essa è ricca e sfaccettata. La gloria che promana dal volto del Crocifisso, infatti, è variamente percepibile: in rapporto antinomico a quella della legge mosaica (cf. 2Cor 4,4), in rapporto antitetico alla sapienza di questo mondo (cf. 1Cor 2,8), in rapporto al rischio di scambiarla con alternative insostenibili (cf. Gal 3,1-2), e in rapporto all’agnello pasquale che prelude e anticipa le nozze escatologiche (cf. Ap 5,6). Ce n’è abbastanza per dire che «in lui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza»
(Col 2,3).
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