Il midbar: significato e contesto
dal sito:
http://www.cristianesimo.altervista.org/bibbia/ildeserto.html
Il Deserto
Il midbar: significato e contesto
L’etimologia di “midbar” è incerta. Sebbene il termine sia attestato in altre lingue semitiche, esso copre un campo lessicale ampio e stratificato che rende i suoi significati non sempre affini. Il significato base è da ricondursi a territori aridi e semiaridi, adatti al pascolo. Nell’A.T. si hanno 271 ricorrenze di midbar (solo al singolare). La LXX e il N.T. rendono il termine 244 volte con eremos, parola greca che copre anche alcuni sinonimi di midbar, i quali tuttavia si legano ad esso soltanto per l’ambito semantico relativo all’aspetto ecologico e geografico del “deserto”.
Non è facile dare una spiegazione compiuta delle differenze di vedute cui è sottoposto il “deserto” nell’intero Antico Testamento: è una terra che incute terrore e orrore, ma nella quale possono sbocciare amori e romanzi pastorali (Cant. 3,6; 8,5). Non solo le oscillazioni climatiche, ma anche quelle politiche si riflettono nel linguaggio figurato biblico, legato alla realtà geografica e geologica del paesaggio arabo-palestinese. Ma le sei regioni geografiche nelle quali l’A.T. suddivide il «paese» non sono chiaramente determinate nelle dimensioni.
L’esplorazione archeologica del deserto di Giuda, del Negev e della penisola del Sinai non ha sostanzialmente modificato l’immagine che risulta dai racconti biblici. Le fonti (anche assire) menzionano la presenza di insediamenti isolati del deserto, sviluppatisi probabilmente a seguito della stabilizzazione governativa nelle terre coltivate che poteva mantenere basi militari per frenare i pericolosi attacchi nomadici, che per mezzo delle veloci cavalcature detenevano il monopolio delle vie commerciali: la paura che le popolazioni israelitiche nutrivano verso di essi si riflette nella terminologia con la quale vengono indicati negli scritti, qualificandoli come predoni e briganti. D’altra parte, le difficoltà del deserto e la mancanza di limiti geografici ben precisi resero questo territorio sostanzialmente avulso dal controllo delle istituzioni del paese civilizzato e delle sue leggi: il midbar diviene dunque luogo di rifugio per agitatori e malviventi, un asilo per esiliati e fuggiaschi, tanto nella realtà dei fatti quanto nel topos letterario.
Il midbar nell’Antico Testamento
Il tema del deserto nell’Antico Testamento copre un arco letterario che va dal libro dell’Esodo al libro dei Numeri, passando per quello del Levitico. È un tema denso di significato, di storia e di teologia dell’antico Israele: in esso sono condensati i momenti fondanti della storia di questo popolo, come la rivelazione divina, l’alleanza, la legge, la terra promessa. Non è possibile comprendere fino in fondo quanto presente in questi testi senza fare luce sul background culturale e letterario che precede la redazione finale degli stessi, quella che sostanzialmente oggi noi leggiamo.
Gli studiosi infatti hanno oggi messo in luce almeno tre grandi tradizioni confluite nel libro del Pentateuco, alle quali si aggiunge la più isolata tradizione “deuteronomistica” (D), presente nel solo libro del Deuteronomio, ma che tuttavia influenza i successivi libri cosiddetti storici di Giosuè, Samuele, 1-2Giudici e 1-2Re. Si tratta delle tradizioni E, J, P:
la tradizione E è la tradizione Elohista, sviluppatasi a nord di Gerusalemme. È la tradizione originaria, e per questo molto importante, che ha dato l’impronta profetica ai testi sopra citati, trasformando l’esodo in un’epopea religiosa;
nel sud, specialmente nei territori di Gerusalemme e Giuda, si sviluppa la tradizione Jahwista (J), che vede in Mosè più che un grande profeta, un condottiero politico impegnato nella difesa del suo popolo e alla sua liberazione dall’Egitto;
con il secondo tempio (post esilio babilonese) si sviluppa la tradizione Sacerdotale o Presbiterale (P), che raccoglie e riordina le due tradizioni precedenti, organizzandole in un quadro definitivo e organico, garantendo la stesura finale del Pentateuco e accentuando gli aspetti sacrali e rituali della figura di Mosè e della sua legislazione.
Dietro la formazione di queste tradizioni è tracciabile la complessa storia politica delle tribù israelitiche, una storia fatta di dominazioni, di esili, di influenze dei vari imperi che le circondavano, come quello egiziano a sud e quello babilonese a nord.
Il midbar nella storia biblica di Israele
La storia dell’Esodo comincia con la narrazione della vita di Mosè: la fusione delle varie tradizioni culturali ha lasciato un personaggio dotato di grande carisma profetico e politico. Con Mosè, si assiste alla definitiva teofania di Jhwh, con la rivelazione del Suo Nome, con le tavole della Legge e la promessa della terra. Dal punto di vista geografico, è il “deserto” il luogo scelto da Dio per la sua rivelazione: oggi comunemente questo momento è conosciuto come “teofania del Sinài”, ma in realtà questo monte è il lascito della tradizione J, che nell’VIII sec. a.C. si fonde a Gerusalemme con la tradizione E, più legata alla regione di Madian (una vasta regione di nomadi, comunque anch’essa desertica). Un precisazione probabilmente deuteronomistica individua il sito nel monte (o deserto) Horeb. La teofania assume caratteri rituali: il piccolo rovo è una pianta tipica del Sinai, che nella stagione secca prende fuoco facilmente, ma che nel racconto biblico non si consuma. Mosè si trova dunque in un territorio nel quale il fuoco e il recinto sacro rendono la concezione della presenza divina molto particolare. Dunque Dio per manifestarsi sceglie il silenzio e l’immensità del deserto, dove l’uomo, solo, si trova di fronte all’infinito.
«I caratteri di questa origine religiosa della tradizione biblica dell’Esodo si riscontrano anche nei riti e nel culto, dalla stessa Pasqua, con il sacrificio dell’agnello, ai vari riti nel tempio gerosolimitano, fino alle pratiche alimentari e alle leggi di purità».
L’origine del nome, o tetragramma sacro (Jhwh), è ad oggi semanticamente e geograficamente oscura: è in ogni caso legata al tema del deserto, e probabilmente è una forma continuativa del verbo essere, espressione della presenza costante di Dio nell’esodo e nella storia israelitica.
Con la rivelazione a Mosè si viene anche a conoscenza (Es 6,3) del fatto che Dio si era presentato ai padri con l’appellativo di “El Shaddai” (Dio protettore, o forte, o della montagna o addirittura della steppa).
Alla figura di Mosè si affianca quella di Aronne: le tradizioni confluite nel testo presentano queste due figure come uomini autori di potenti segni e prodigi, che vengono contrapposti all’Egitto, al suo Faraone e ai fallaci sortilegi dei maghi egizi, a dimostrazione che Israele, in quanto popolo guidato e protetto dall’assistenza divina, è più forte. Qui comincia il lungo cammino di uscita dall’Egitto, che porterà il popolo israelitico a prendere possesso della terra promessa.
In tal modo, Israele interpreta le proprie origini in senso religioso e nel contesto dell’esodo, tralasciando le proprie origini storiche e patriarcali nelle terre mesopotamiche, relegate nel più ampio contesto della formazione del mondo raccontata nel primo libro del Pentateuco, quello del Genesi.
Non sono irrilevanti le ripercussioni sulla vita civile: ad esempio, il calendario in uso a Canaan prevedeva l’inizio in autunno, verso la stagione delle piogge. Un’arcaica tradizione confluita in Es 12,21-23 «inserisce il rito pasquale in un contesto di transumanza del gregge tra la stagione delle piogge e quella della siccità, più aspra e rischiosa, per il nomade della steppa e del deserto». Nel corso della luna piena del mese di marzo-aprile (Abib in Canaan, poi Nisan secondo l’uso babilonese): al dio protettore veniva immolato un agnello affinché il gregge fosse protetto per un anno dai demoni distruttori; il sangue del sacrificio veniva posto sui pioli della tenda per allontanare il germe di morte e assicurare in tal modo la vita alle persone e al loro gregge.
Nella stessa Bibbia è dunque possibile ritrovare le tradizioni storiche di un popolo di origine nomade, che venerava un dio protettore nel deserto profondo (raggiungibile con tre giorni di cammino secondo Es 3,18), una religione non compresa e per questo avversata dagli stessi Egizi.
Queste tradizioni prettamente storiche confluiscono poi nel racconto dell’Esodo dall’Egitto, trasformate nel sangue posto sugli stipiti delle porte per far passare oltre l’Angelo della Morte inviato da Dio stesso: il termine Pasqua, che nella liturgia israelitica è la festa della liberazione dall’Egitto, se nella lingua egizia significa “festa” in genere, nella lingua ebraica, grazie alla radice psh assume anche il significato di “saltare” o “passare oltre”. Il testo di Es 12, la cui redazione definitiva si deve alla tradizione sacerdotale del secondo tempio in Gerusalemme, fissa dunque «la liturgia definitiva che riassumeva tutta la storia delle origini religiose di Israele all’inizio dell’anno».
Segue la descrizione della festa degli Azzimi.
La centralità della Pasqua a questo punto del racconto ha origini sia storiche che religiose (o teologiche): in esso si fondono le tradizioni festive della Palestina sedentaria, alle quali appartengono le celebrazioni agricole, con le tradizioni dell’originario popolo nomadico, alle quali appartiene il rito della transumanza primaverile.
Il midbar nel significato storico e geografico del popolo di Israele
Il tema del deserto dunque pervade profondamente sia le origini storiche del futuro popolo israelitico, sia le origini religiose che quel popolo ha riletto nel tempo e poi finalmente fissato in una forma definitiva con la tradizione sacerdotale dopo l’esilio babilonese. La fusione di tradizioni diverse precedentemente accennata anche nel caso dell’Esodo è particolarmente evidente: dal testo sembrano emergere più esodi, più itinerari alternativi: in mancanza di dati esterni che possano in qualche modo far luce sullo svolgimento dei fatti a livello storico, occorre evitare sia di frammentare il testo in maniera eccessiva, sia di porsi in modo del tutto scettico verso di esso.
Proprio le diverse tradizioni E e J hanno infatti lasciato una straordinaria lettura del tema del deserto: esso non è solo il luogo dell’infinito, della teofania divina, della sfida di sopravvivenza che pone all’uomo (mancanza di acqua e di cibo, animali nocivi, gruppi etnici e tribali ostili); è anche un luogo di ambiguità, dove si misura la fedeltà umana al patto con Dio, dove si registrano momenti di tensione e di drammaticità, di abbandono e di riscatto, dove si consuma «l’eterno dramma tra la volontà divina e le sue promesse e la risposta o fedeltà dell’uomo e del popolo a tali promesse, nella continua mediazione degli uomini di Dio e del culto a Lui rivolto». Sia nell’uno che nell’altro caso, non manca mai la presenza di Dio: protettivo e provvidenziale quando si tratta di aiutare il proprio popolo che lo ha accolto e che segue le sue direttive nella prova, ma che punisce e abbandona chi non gli è fedele. Da qui tutta la serie di segni che contraddistinguono il cammino del popolo attraverso il deserto fino alla conquista della terra promessa.
È bene però sottolineare che questi segni non sono dei “miracoli”: sono eventi naturali, tipici di quei luoghi, che Dio porta al suo estremo compimento provvidenziale. Non vi sono deroghe alle leggi naturali che Lui stesso ha stabilito, ma hanno un’espressione prodigiosa in quanto segno che Dio non abbandona il popolo fedele.
La manna (Es 16 e Nm 11) è una secrezione di un albero sinaitico (la tamarix mannifera), che in epoca primaverile nel rigore notturno tende a solidificarsi, assumendo un sapore dolciastro: è nutriente e si trova nella zona nord della penisola. Le quaglie (racconto svolto parallelamente a quello della manna) sono animali che sorvolano la penisola sinaitica: quando lo fanno a bassa quota, possono essere prese anche “al volo”, oppure cacciate quando si posano a terra per riposarsi durante le migrazioni. In entrambi i casi, i racconti sviluppatisi attorno a questi dati hanno assunto una forma densa e piena di significati religiosi, né miracolistici né antistorici come qualcuno potrebbe essere portato a pensare leggendo asetticamente questa letteratura.
Nel deserto si incontrano anche i nemici: nella prima parte dell’esodo troviamo l’episodio della battaglia contro Amaleq (Es 17): è necessario dunque per Mosè e il popolo organizzarsi anche dal punto di vista politico, con strutture di governo e gestione: viene così istituito un gruppo di settanta giudici (Es 18, durante il soggiorno del suocero di Mosè Ietro presso Mosè stesso secondo la tradizione E): a questo organismo si rifarà più tardi il Sinedrio, la massima istituzione giudaica, e ai settanta giudici si rifà Gesù quando deve inviare settanta discepoli affinché lo precedano nelle città dove sta per recarsi (Lc 10,1).
L’arrivo e la permanenza sul monte Sinai copre una sezione letteraria che va da Es 19 sino a Nm 10,10, comprendendo anche tutto il Levitico. «La grande amplificazione letteraria, teologica, legislativa e culturale è dovuta all’importanza che ha assunto, nella storia del popolo biblico, l’origine della religione mosaica, che ha caratteri tipici, legati all’esperienza del deserto, in particolare del deserto tra l’Egitto e Canaan o la Palestina».
È il deserto dunque il punto centrale dell’origine della religione israelitica, così come Gerusalemme o Sion ne saranno il punto di arrivo finale e la realizzazione piena. Da esso origina la tradizione, e ad esso si richiamano leggi e norme nate anche in contesti diversificati, ma in continuità con la tradizione originale. Non ha molta importanza determinare se il monte si trovasse nel deserto o in un punto specifico del deserto, se si chiamasse Sinai oppure Horeb: i rivoli successivi della tradizione, sviluppatisi all’interno di una vastissima letteratura sull’argomento, sono stati raccolti poi nella redazione finale dalla tradizione sacerdotale P, e non è necessario chiarirne le origini in questo contesto.
La teofania del Sinai è presentata in modo naturistico, alla maniera di altre divinità medio-orientali antiche (Es 19,16-17.19 e 20,18-21): “Il popolo si tenne lontano e Mosè si avvicinò alla nuvola oscura, dove c’era Dio”. In tale contesto, la tradizione E pone il cosiddetto decalogo (Es 20,1-17), poi ripreso da altre tradizioni, in particolare quella deuteronomistica (Dt 5,6-21). E d’altronde è l’intera sezione del trittico “Teofania-Leggi-Rito dell’Alleanza” ad essere originata nella tradizione E (santuari centrali di Beniamino, Efraim e Manasse, forse addirittura Shilo), sulla quale si sono poi impostate altre tradizioni di origine gerosolimitana (RJE): «la ricchezza, ma anche la frammentarietà, di queste tradizioni sull’alleanza sinaitica non deve sconcertare: deve anzi accentuare la convinzione di trovarci di fronte ad un dato fondamentale e costitutivo, variamente ripreso nell’arco della tradizione orale e scritta, e impreziosito dall’esperienza viva del popolo di Dio, scaturita appunto dalla rivelazione sinaitica».
Tutta la seguente parte di questa lunghissima sezione letteraria di tradizione sacerdotale è incentrata su un complesso legislativo notevolmente omogeneo legato al culto, cioè alle persone, agli edifici, agli oggetti, ai riti. È un microcosmo che cristallizza e struttura in riti e norme cultuali l’anima religiosa d’Israele, con contenuti precisi ed obbligati, ma per ciò stesso ridondanti e complicati nella loro meticolosità. L’origine di questo quadro univoco e completo va dunque ricercata nella comunità cultuale che si muove intorno al tempio di Gerusalemme dal VI al II secolo a.C. e oltre.
In questo lungo periodo (ca. 11 mesi) il popolo d’Israele è stanziato sul Sinai: il suo cammino riprenderà in Nm 10,11 (trad. P) con il trasferimento a Moab, dopo la celebrazione della Pasqua. Con la ripresa del cammino, che in ogni caso la tradizione P integra con norme cultuali e legali, tornano anche i racconti più propriamente narrativi, legati ad episodi nel deserto, delle tradizioni E e J (come già in Esodo).
La teologia del midbar
Dall’uso del vocabolario legato a midbar nelle tradizioni del viaggio nel deserto risulta essenzialmente la sua dimensione teologica. Due grandi nuclei coprono l’intero complesso letterario: da un lato l’accentuazione enfatica della smisurata benevolenza, grazia e amore paterno di Dio, dall’altro il dubbio di Israele circa la potenza di Dio stesso. Si possono ricondurre a questi due nuclei i motivi principali che portarono allo sviluppo di valutazioni fortemente contrastanti per questo periodo nella storia della fede di Israele.
Più tentativi sono stati fatti per spiegare queste differenze, ma non tutte hanno il fondamento necessario per essere accettate. Una di queste teorie prevede il carattere nomadico della prima società israelitica, carattere che tuttavia non è possibile provare per mezzo dell’Antico Testamento, il quale al contrario lo presenta per civiltà non israelitiche.
Come detto, il ricordo di un periodo di peregrinazione nel deserto fa sì che il termine spaziale midbar riceva anche un’impronta temporale: questa fusione non è riscontrabile nell’uso di termini equivalenti. Una temporalità che in ogni caso si configura come periodo di transizione all’interno di una più grande composizione a carattere circolare (che inizia con la Pasqua che simboleggia l’Esodo in Es 12 per concludersi con la Pasqua in Galgala), sul cui carattere sono stati dati pareri discordanti: l’ordine di grandezza di questo periodo (“soli” «40 anni»), se confrontato con altri dati numerici (come i 400 anni di schiavitù in Egitto, o anche i 70 anni della cattività babilonese), trasmette un’impressione concreta del limitato valore riconosciuto all’epoca del deserto nel modello storico biblico. Da questo punto di vista, molti studiosi non riconoscono a questa fase di transizione, di passaggio, quel valore escatologico, quel valore di traguardo finale della storia d’Israele all’interno dell’Antico Testamento, valore che invece si dimostrerà chiaro e forte in un momento di grande agitazione politica quale fu il I sec. d.C.
Questo periodo di 40 anni può essere suddiviso in due fasi: la prima fase (uscita dall’Egitto, teofania sul Sinai, ricevimento della legge) rappresenta il «periodo di findanzamento» di Israele con Dio, e ha durata di circa un anno; la seconda fase, che si chiude con la guerra contro i Madianiti, Nm 31, dura circa 38 anni. Questo lungo “ritardo” dell’arrivo in Canaan è dovuto alla peccaminosità di Israele: un periodo di sventura come punizione di Dio (Deut 8,2.16), così interpretato da tutte le tradizioni e da tutti gli strati letterari del Pentateuco. Ezechiele vede in questo periodo il prototipo del castigo divino (Ezech 20,35-38). Nm 11,1-31,5 offre un resoconto particolareggiato di quel periodo: i 12 capitoli che ne costituiscono il nucleo, intitolabile «Libro delle mancanze di Israele», presenta il termine midbar ben 24 volte. È lecito supporre che una visione di questo genere non si sia formata soltanto per mezzo di singole citazioni letterarie e allusioni isolate, ma anche attraverso la recitazione di tradizioni storiche, soprattutto in una cornice liturgica: possibile culto di una comunità sedentaria, rurale e urbana, affatto diversa da quell’«Israele nel deserto».
Questi atteggiamenti contrastanti vanno in parte ricondotti a concezioni radicate nella sfera cultuale mitica dell’Oriente antico e relative all’accezione di midbar come “terra da pascolo”-”tratturo”.
Il midbar nel Nuovo Testamento
Il termine viene reso con il greco eremos: l’aggettivo e il sostantivo indicano lo stato di abbandono e di solitudine sia di un uomo (accezione già presente nella letteratura greca classica) sia di una cosa, sia di una località (ma non nel senso di “deserto”). La radice può anche indicare il deserto in senso proprio, infecondo, petroso e può significare anche pascolo “solitario” (cfr. Lc 15,4).
È la “regione solitaria”, ove si incontrano uomini e quindi vagano selvaggi spiriti demoniaci (Lc 8,29; topos in accordo con la tradizione giudaica), che può offrire diversi pericoli per il corpo (2Cor 11,26; Hebr 11,38; Lc 10,30) e per l’anima.
Per Gesù la “regione solitaria” è un luogo in cui nulla lo separa da Dio, e che quindi egli ricerca quando desidera evitare la folla (Mt 14,13; Mc 1,45; Lc 4,42), o in cui egli cerca di sottrarre all’inquietudine i suoi discepoli (Mc 6,31ss), ma ove talvolta lo seguono anche le turbe (Mt 15,33; Mc 8,4). Là egli ricerca innanzitutto la quiete della preghiera (Mc 1,35; Lc 5,16). Non si ravvisa alcuna analogia tra il racconto lucano dei 40 giorni nel deserto ed i racconti dell’Antico Testamento.
Il ricordo della disubbidienza israelitica, ma anche del perdono di Dio e dei segni e prodigi particolari che Dio operò per il suo popolo fungono, soprattutto in Giovanni (3,14s), da motivo per sottolineare la presenza ben più grande della vicenda di Cristo.
Nel giudaismo si attribuisce al deserto ogni grandezza e splendore: là sarebbe apparso il Messia. Per tale motivo, in questo particolare periodo storico dal deserto sorgono o vi si ritirano diversi movimenti rivoluzionari-messianici (At 21,38). Lo stesso Gesù invita la sua comunità a ritirarsi nel deserto, dove rimarrà sicura fino al giorno in cui Egli ritornerà e porrà fine all’opera di Satana. Con il tempio dato alle fiamme durante l’assedio di Gerusalemme da parte delle truppe romane nel 70 d.C., nell’ambito della prima guerra giudaica, l’estrema preghiera dei Giudei è di potersi ritirare con le donne e i figli “nel deserto”, per attendervi da Dio la salvezza finale (bell. 6,351).
Le distruzioni nemiche (Mt 12,25) o la conseguenza della collera divina (come in diversi passi profetici), possono rendere eremos una città o una regione. Viceversa, almeno nello spirito dell’A.T., può essere promessa dalla grazia divina che il deserto si trasformi in campo (Is 32,15s) o in terra fertile e irrigata (Is 51,1ss; 41,18s, etc.).
Il midbar nella letteratura qumranica
Nonostante la comunità di Qumran si configuri come rappresentante del vero Israele postesilico ristabilito e abbia posto dimora nel deserto, le ricorrenze di midbar all’interno della sua letteratura sono scarse. In un solo caso (CD 3,5-9), il termine si riferisce al viaggio d’Israele nel deserto, esprimendo verso questo periodo di permanenza nel deserto un atteggiamento negativo per altro dominante nella letteratura dell’A.T.
I Qumraniti vivono il loro tempo nel deserto come una fase di transizione e preparazione, secondo le stesse fasi vissute da Israele: esilio (qui autoimposto), purificazione, rinnovata conquista del paese. I termini caratteristici delle tradizioni del Pentateuco vengono presi in prestito per affermare con certezza che la generazione peccaminosa del deserto rappresenta la nemica della comunità.
Non sembra dunque si possano scorgere significative varianti di pensiero tra letteratura vetero-testamentaria e letteratura qumranica: entrambe vivono il deserto come rifugio dai persecutori, e sul piano temporale come un periodo di transizione in preparazione del tempo della salvezza.
«Soltanto con la nascita del movimento eremitico nel cristianesimo si cristallizzò una concezione teologica che attribuisce al deserto un proprio valore intrinseco».
Pagina scritta il 30/03/2007 |

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