Archive pour septembre, 2010

Vergine con Bambino

Vergine con Bambino dans immagini sacre

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Publié dans:immagini sacre |on 10 septembre, 2010 |Pas de commentaires »

Un cristianesimo senza Paolo?

dal sito:

http://www.stpauls.it/jesus/0809je/0809je84.htm

ANNO PAOLINO – LA DEBOLEZZA

Un cristianesimo senza Paolo?

di Andrea Riccardi 

Vari pensatori, a cominciare da Nietzsche, hanno cercato di separare Paolo da Gesù. Nell’apostolo delle genti, infatti, vedono « l’inventore » dell’universalismo cristiano, il predicatore globale di un Vangelo fondato sulla forza dei deboli e sulla speranza della resurrezione. Questo intervento del professor Andrea Riccardi anticipa, sul tema, il contenuto di un suo volume di prossima pubblicazione presso le Edizioni Paoline.
 

Paolo è l’apostolo di Gesù: «Paolo, servo di Gesù Cristo, apostolo per vocazione» – si legge nell’incipit della Lettera ai romani. Paolo grida: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse, la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?». Invece una lunga storia ha insistito per separare Paolo da Gesù, facendo di questi una nobile figura eterea. L’apostolo sarebbe l’abile manipolatore del messaggio del rabbi galileo, fondando una religione universale. Separare Paolo da Gesù è sembrato a taluni la via per andare all’autentica figura del Maestro, liberarlo dall’impalcatura di grande religione. Ma la Chiesa ha sempre reagito, fin dal canone delle Scritture, affermando che la testimonianza dell’apostolo Paolo è parte integrante della rivelazione cristiana. Separare Gesù da Paolo è separarlo, in parte, dalla Parola.

Colpire Paolo è un’operazione per svuotare il cristianesimo. Friedrich Nietzsche ha visto nell’apostolo «il tipo antitetico della buona novella, il genio dell’odio», animato da istinto di potenza ebraico: «L’invenzione di Paolo, il suo mezzo per realizzare la tirannide dei sacerdoti, per formare delle mandrie: la fede nell’immortalità…». Con Paolo, il mondo dei deboli ha vinto, distruggendo il paganesimo, il dominio dei forti e dei saggi, le nazioni: «Divenne padrone il gran numero», scrive il filosofo tedesco, «la tendenza democratica degli istinti cristiani ebbe la vittoria… Il cristianesimo non era nazionale, non era condizionato dalla razza – si volgeva a ogni specie di diseredati della vita, trovava ovunque i suoi alleati. Il cristianesimo ha alla sua base la rancune dei malati, l’istinto diretto contro i sani, contro la salute. Tutto quanto è ben fatto, fiero, tracotante, soprattutto la bellezza, offende a esso gli occhi e le orecchie. Ricordo ancora una volta l’inestimabile espressione di Paolo: « Quel che per il mondo è debole… Dio lo ha eletto »».

Questa lunga citazione è un po’ la summa delle ricorrenti critiche a Paolo. Vi si legge l’antipatia per un cristianesimo di deboli, che varca i confini della nazione e della razza. L’universalismo cristiano, fondato sulla forza dei deboli, sulla « bugia » della resurrezione di Gesù e sulla vita eterna, secondo Nietzsche, è la sciagura dell’umanità, in cui Paolo ha un ruolo decisivo. Per questo Paolo va colpito, perfino epurato dal cristianesimo. Alfred Rosenberg, ideologo nazista, si muoveva nello stesso senso: «Paolo ha raccolto in modo del tutto intenzionale i lebbrosi di tutte le nazioni e le culture in tutti i Paesi dell’orbe, per scatenare un’insurrezione dell’inferiore». Il nazismo si fece patrocinatore di un cristianesimo positivo, emancipato dall’ortodossia ecclesiastica e imbevuto della volontà di dominio razziale tedesco. Il « Gesù ariano », tipico della confusa mistica nazista, andava separato da Paolo, l’ebreo che aveva giudaizzato il cristianesimo.

San Paolo, rilievo nella cattedrale di Avila, in Spagna
(foto Periodici San Paolo).

La tragica vicenda del nazismo, sino all’epurazione dell’ebraismo dal cristianesimo e di Paolo l’ebreo, mostra come la grande battaglia per la difesa dell’ortodossia cristiana e per l’integrità delle Scritture abbia un valore che talvolta sfugge nelle polemiche quotidiane. Colpire Paolo è amputare il cristianesimo o per un vago culto di Gesù o per farne una religione della nazione o di una civiltà. Ma ben altro è stato ed è il cristianesimo, come si vede dall’avventura cristiana di Paolo, parte integrante delle Scritture cristiane.

La debolezza. Paolo, di fronte al mondo strutturato della sapienza greca, al messianismo ebraico così appassionante, innanzi al potere dominante di Roma, ha messo al centro la debolezza. Nietzsche aveva colto nel segno. Il suo non è un progetto di regno o di impero. Con pochi fratelli e sorelle, deboli e periferici, riceve la rivelazione di un Dio debole, il cui volto è Cristo crocifisso. Annuncia: «Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti». I deboli, costruendo una realtà debole come le comunità cristiane, predicando un crocifisso, hanno la missione di confondere i forti: le culture e le mentalità consolidate, le idolatrie, il potere in tutte le sue forme. Il primo capitolo della Prima lettera ai Corinti è chiaro: «Ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini». La sfida cristiana fa emergere un’altra forza nella stoltezza e nella debolezza.

La debolezza pervade la stessa figura di Paolo, come scrive ai Corinti ricordando come si presentò: «Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso. Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione…». «Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze», dice Paolo, «perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole è allora che sono forte».

San Paolo protegge santa Francesca Romana, monastero di Tor Tre Teste,
a Roma (foto A. Del Canale/Periodici San Paolo).

Paolo non fugge la debolezza o la nasconde. Ma, nel suo stesso porgersi, esprime la « forza debole » del cristianesimo, che non si fa arrogante per non essere povero e non si vergogna dei panni umili della debolezza comune a quasi tutti gli uomini. La coppia « debole forte », nel corpus paulinum, ha un rilievo decisivo nel mostrare la forza dei deboli e la debolezza dei potenti: il debole, il disprezzato dal mondo culturale e politico imperante, partecipano alla debolezza di Gesù, alla sua croce, rivestendosi della forza della sua resurrezione. L’apostolo, con il Vangelo, propone di fare un salto ancora più grande che far divenire ricco il povero o potente il debole. I deboli, forti della potenza di Gesù, sono già « beati »: «Beati i miti, perché erediteranno la terra». Sì, questi deboli, in un modo particolare, diverso dagli imperi, possederanno la terra. Non è necessario omologarsi alle potenze del mondo, per comunicare il Vangelo. Non è necessario conquistare una terra, ma, pur nelle persecuzioni, nella debolezza, il Vangelo parla ai cuori. Attraverso discepoli deboli, si può comunicare Gesù agli uomini e, così, cambiare il mondo. Ha scritto giustamente il grande teologo ortodosso francese Olivier Clément: «Le sole rivoluzioni creatrici della storia sono nate dalla trasformazione dei cuori».

Paolo ha scelto di passare attraverso i cuori con la debolezza della parola: «È piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione». Il cristianesimo nascente, preso dalla passione di dire il nome di Gesù al mondo intero, sceglie la parola, l’incontro, il viaggio, la lettera, lo scritto, la liturgia, l’amore. Così Paolo e i suoi discepoli incontrano uomo dopo uomo, gruppo dopo gruppo, città dopo città, per comunicare Gesù risorto. Questa non è solo una stagione iniziale di storia cristiana, ma è nei cromosomi dei cristiani di tutti i tempi. C’è una diversità con l’origine dell’islam e la vita di Muhammad. Quest’ultimo ha scelto di estendere l’islam al resto del mondo con un’avanzata di fede e di potere politico e militare. Non così si estende il regno del Kyrios crocifisso. Paolo, discepolo di Gesù, ha scelto di andare per il mondo senza cercare potere politico. Così è stato per vari secoli della storia cristiana e questa scelta fa parte dei cromosomi del cristianesimo.

Un uomo come noi. Molti studiosi hanno insistito sul livello culturale di Paolo. Tante indagini sulla sua cultura sembrano quasi innalzarlo dagli uomini del suo tempo. Paolo è uomo di più mondi: ebraico della diaspora con studi e legami a Gerusalemme, greco di Tarso, cittadino romano. Ma stiamo attenti a non fare di Paolo il prodotto della sua cultura particolare, quasi fosse naturale gettarsi nella missione: si deconsidera così l’immenso salto della sua esistenza.

Bisogna parlare della debolezza di Paolo, ma cogliere la forza che gli fa compiere un salto nel mondo per comunicare il Vangelo. Paolo, nonostante la grazia particolare dell’incontro con Gesù, non è staccato dalle comunità cristiane. Una comunità lo accoglie, lo libera, lo accompagna, lo conferma. È gente che sente la passione di comunicare il Vangelo all’altro, anche se non sa bene come. Prima c’è la comunità damascena: Anania sa che Paolo è un persecutore, ma docilmente va ad accoglierlo, percorrendo la Via Recta di Damasco. Penso sempre ai suoi sentimenti, mentre faceva quei metri per andare a visitare quel « nemico ». Barnaba, il cipriota, lo va a cercare mentre vive anni oscuri a Tarso. Paolo non si separa da Pietro, dagli apostoli e dalla comunità di Gerusalemme.

Il grande Giovanni Crisostomo, comunicatore appassionato della Parola di Dio ad Antiochia e a Costantinopoli, aveva colto il rischio di una mitizzazione di Paolo. Affermava invece che per tutti è possibile imitarlo: «…Sforziamoci di divenire come lui e non pensiamo che ciò sia impossibile… egli aveva un corpo come il nostro, si nutriva come noi, aveva la stessa anima, ma grande era la sua volontà, magnifico il suo impegno; è stato questo a renderlo così. Nessuno disperi, nessuno si tiri indietro…». Di stagione in stagione della storia, i cristiani si debbono misurare con la passione e la fede di Paolo: sono interpellati dal suo radicale «guai a me se non evangelizzo!». Lo si può completare con un macarismo, una beatitudine, dicendo che la felicità di Paolo è comunicare il Vangelo: beato chi comunica il Vangelo!

Un’icona di san Paolo nella chiesa di Santa Tecla, a Filippi (foto G. Mandel).

Muri e multiculturalità. Grandi sono gli abissi tra una cultura e un’altra. I mondi che Paolo affronta sono consolidati, forti e orgogliosi della loro tradizione, anche se vivono gli uni accanto agli altri. La storia dei viaggi di Paolo è rivelatrice della sua ambizione: vuole toccare la gente delle civiltà multiculturali del suo tempo, che convivono, più o meno in pace, sotto il potere di Roma. Egli mira alle grandi città e, finalmente, alla capitale, Roma. Pier Paolo Pasolini aveva colto l’enorme salto umano e culturale di Paolo, che lo porta tanto oltre il suo mondo. Lo si vede nella sceneggiatura del film su Paolo, mai realizzato, su cui lavorò tra gli anni Sessanta e Settanta. Colloca l’apostolo tra Parigi, Roma e New York. Questa metropoli, cuore dell’Occidente, è la Roma di Paolo, dove – secondo Pasolini – viene ucciso sul ballatoio di un alberghetto, con due colpi di fucile.

Paolo va lontano, in mondi diversi, perché sente di avere un tesoro da comunicare. L’espressione «gentili» poco rappresenta il complesso pluralismo mediterraneo, che aveva vissuto la globalizzazione di Roma. Globalizzazione è espressione usata per il mondo dopo il crollo dell’impero sovietico, l’apertura dei mercati. Ma non è la prima globalizzazione. Ogni impero è, a suo modo, una globalizzazione. Lo è stato quello romano, caratterizzato da un processo di unificazione politica ed economica, che lasciava in vita le diversità etniche, culturali, religiose. Era un mondo che tanto investiva sulle comunicazioni, soprattutto sulle strade. Roma non omogeneizzava al suo modello, lasciava vivere altre culture, anche se faceva sentire la sua presenza dominatrice. In quel tempo il Mediterraneo era abitato da tanti dei e dai loro luoghi sacri. L’autorità politica aveva una politica inclusivista verso i culti. Il ritualismo dei tanti culti fondava la pax deorum su una specie di patto un po’ impersonale e legale con gli dei. L’ebraismo, un monoteismo esclusivista, era però riconosciuto come religio licita.

Il pluralismo religioso sembra parlare di tolleranza. Si è molto insistito sulla carica di intolleranza portata dall’esclusivismo del monoteismo. Con quelle proiezioni tipiche sul passato, si è guardato con nostalgia al fenomeno del « paganesimo »: espressione di tolleranza e liberalismo a fronte delle rivendicazioni intolleranti dei monoteismi. Alain de Benoist, in un libro di qualche anno fa, Come si può essere pagani?, affermava che «il paganesimo, a dire il vero, non è mai morto», ma vive nel rifiuto della pretesa dell’unico Dio, nella possibilità di unirsi al divino, nel rigetto del peccato originale. Questa sarebbe la condizione ideale dell’uomo, forzato dall’esclusivismo giudeo-cristiano.

Il pluralismo tra tolleranza e radicalismo. Nelle città mediterranee di allora, come nelle nostre, non esistono più spazi omogenei: gente diversa vive l’una accanto all’altra. L’immigrazione ha portato genti diverse. Non ci sono più ambienti omogenei da un punto di vista etnico e religioso. La globalizzazione tutto avvicina, ma anche, avvicinando tutti, fa sentire minacciati nella propria identità. Negli ultimi anni abbiamo assistito alla rinascita di tante identità etniche, religiose, culturali, talvolta assumendo atteggiamenti aggressivi e conflittuali.

I diversi mondi si ritrovano non solo nell’ambiente di Paolo, ma in lui stesso. Paolo aveva un’«anima di frontiera», venendo da Tarso, dove cultura semitica e cultura ellenistica si incontravano. Era un uomo della diaspora. La sua lingua materna era l’aramaico, ma aveva appreso a conoscere la Bibbia dei Settanta in greco. Il greco era la sua lingua, parlato come la koiné. Aveva vissuto a Tarso accanto a un centro di filosofia stoica e a un culto misterico fiorente e sensuale. Aveva ascoltato i predicatori ambulanti cinici. Paolo, romano nel nome, aveva frequentato tre mondi e tre culture: ebraica, greca e romana. Come tanti nell’élite ebraica, Paolo è poliglotta. Sono dati tante volte ricordati.

I santi Pietro e Paolo, opera del XV secolo, Biblioteca Braidense
(foto F. Tagliabue/Periodici San Paolo).

Uomo cosmopolita, figlio del mondo dell’ulivo, tipico prodotto della globalizzazione greco-romana, opera una scelta: è ebreo fervente. Il mondo plurale non crea solo relativismo, ma anche scelte che definiscono la propria identità. Paolo approfondisce ai piedi del grande Gamaliele la tradizione farisaica della sua famiglia, fondando una forte identità ebraica. Si può ipotizzare una reazione al cosmopolitismo e alla divaricazione delle interpretazioni dell’ebraismo. Nonostante gli studi presso Gamaliele, l’identità di Paolo, come si vede dalla lotta violenta anticristiana, approda al fanatismo. L’uomo è «fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore», come un fanatico integrista. La globalizzazione produce oggi non tanto il cosmopolitismo, ma spesso identità forti e talvolta aggressive; infatti, in un mondo esposto a tutti i venti, non si vive nudi e senza identità. Nella multiculturalità mediterranea, la conversione porta Paolo non a rinunciare al monoteismo, bensì ad approfondirlo in una fede fondata sull’unico salvatore, Gesù. Il cittadino romano crede che il Vangelo possa diventare la speranza dell’umanità.

Il Vangelo in un mondo al plurale. Ma non si affermava, con i cristiani, un gruppo in più in quel mondo di Roma dove, come scriveva Giovenale, «già da tempo l’Oronte si era riversato nel Tevere»? Era il mondo di Antiochia sull’Oronte, dove le barriere etniche venivano superate in una logica cosmopolita. Oggi, di fronte a un mondo al plurale, dopo tanto combatterci, sappiamo che la pace richiede il rispetto per la sua identità. La pace però non è l’ibernazione delle identità l’una accanto all’altra, come se il mondo fosse un grande Libano. Il messaggio, di cui Paolo è testimone, ci dice che la pace si fa dell’amore per l’altro, della comunicazione della fede, della presenza di una piccola comunità cristiana, anche minoritaria. È la pace che si fonda su quella fede di Paolo: «Egli infatti è la nostra pace». In un mondo pluralista, Paolo crede che Gesù è il Kyrios di ogni uomo e donna, destino di popoli diversi, seme di un regno di pace. Ha scritto giustamente Barbaglio: Paolo «si sente impegnato a superare le più profonde fratture che allora dividevano l’umanità, scissa nei campi contrapposti di greci e barbari, pagani e giudei. Secondo la sua convinzione, il Vangelo di Cristo costituiva il fattore decisivo dei popoli chiamati a formare una nuova comunità umana universale…».

Grundmann ricostruisce l’atteggiamento di Paolo: «Quando Paolo proclama in una città il nome del Signore Gesù, facendolo conoscere mediante la predicazione e l’annuncio del suo messaggio, egli prende possesso di questa città per il suo Kyrios, e se si tratta del capoluogo di una provincia prende possesso della provincia… È secondario che i diversi cittadini lo sappiano e lo riconoscano». In quella città, attraverso la predicazione del Vangelo e una comunità cristiana c’è il seme della pace. Non si tratta di migliaia di cristiani, ma probabilmente di centinaia di membri. Eppure sono comunità che Paolo prende sul serio, tanto da rivolgere loro testi tanto elaborati teologicamente e sofferti umanamente. Paolo non dimentica quelle piccole comunità, talvolta rissose e infedeli. Freme di affetto per esse.

Ma che può cambiare in una città con l’esistenza di un piccolo gruppo di cristiani? La missione porta i discepoli a un nuovo interesse per gli altri, a non fermarsi di fronte alla loro diversità, a non arrestarsi di fronte all’abisso profondo che divide. In questo senso Giovanni Paolo II ha insegnato che dialogo e missione appartengono allo stesso orizzonte di amore per l’altro. Paolo non si ferma davanti ai muri e agli abissi che dividono le culture. Bisognava passare a un’altra cultura. Questo non vuol dire appiattirsi sulla nuova cultura. Non è acquiescenza: «Non conformatevi alla mentalità di questo secolo…», scrive. La debolezza del predicatore chiede una grande fedeltà al Vangelo e una grande sensibilità alla cultura e alla mentalità della gente che incontra.

Paolo ha un solo strumento: la parola, facile da sopraffare, eppure rivelatrice di un’inaspettata energia. Ricordate l’episodio dei due apostoli, Pietro e Giovanni, di fronte all’uomo paralizzato, forse significativo di un’umanità paralizzata e mendicante: «Non possiedo né oro né argento, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, alzati e cammina». E lo sollevò per la mano destra. È la forza della Parola. Forza debole di fronte alle potenze di controllo politico, economico, mercantile del mondo. Ma forza di Dio, capace di fare miracoli.

Publié dans:STUDI DI VARIO TIPO |on 10 septembre, 2010 |Pas de commentaires »

Le feste ebraiche: Al suono dello shofar

dal sito:

http://www.sanpaolo.org/jesus00/0799je/0799je74.htm

Le feste ebraiche

Al suono dello shofar

di Giacoma Limentani
      
 
    Il corno d’ariete, che da sempre chiama a raccolta Israele, nei momenti di gioia o di penitenza, è la colonna sonora di tutte le grandi feste ebraiche. Da Rosh ha-shanah allo Jom Kippur ai giorni di Succoth, il calendario ebraico evoca memorie e speranze della storia del popolo d’Israele.
«La festa è collegata allo scorrere del tempo e quindi a una delle dimensioni essenziali della vita… Insieme nella festa convivono passato e futuro… Senza la festa che dà senso al tempo… la vita – la storia – sarebbe un agglomerato informe di momenti… senza un filo conduttore». Sono parole di Filippo Gentiloni, prese dalla postfazione a Le feste ebraiche (Edizioni Com Nuovi Tempi, 1999), gentile libretto che segue gli ebrei nei giorni speciali del loro calendario, evocando memorie, speranze e suoni, soprattutto suoni. Di preghiera come di studio oppure di canto, di campanelle come di corno.

Lo shofar, il corno d’ariete che da sempre chiama a raccolta Israele per la gioia e la penitenza, vi fa la parte del leone, in ricordo di come echeggiò nell’immensità dell’abisso primevo, proclamando che da sempre e per sempre l’Eterno è Dio. L’Eterno creatore, onnisciente e infinito che nel sesto giorno, fra la creazione della prima coppia umana e l’avvento della gioia sabbatica, all’umanità ha fatto dono dell’ariete, destinato a sostituire Isacco sull’altare sacrificale (Genesi 22). È il corno di quell’ariete a echeggiare ogni volta che lo shofar fa udire la sua voce, ricordando che con i lacci che lo legarono sull’altare Isacco accettò i lacci dei precetti divini che regolano la vita generando vita. Così l’ebreo deve costantemente aderire a quei precetti per vivere e non morire: l’universo e il suo essere sono anche stati creati per mezzo di quei precetti, da Dio affidati poi a Mosè con il compito di insegnarli al popolo e di raccoglierli nel grande insegnamento della Torah (la Legge).

Il sovrapporsi dei diversi eventi, gli sfalsamenti tra i loro effettivi tempi di accadimento non devono stupire. Il concetto ebraico di tempo risponde a logiche diverse dalla logica storica occidentale, epperò anche indispensabili proprio alla comprensione dei singoli eventi della storia, soprattutto se collegati a ebraiche ricorrenze e festività. Pur celebrando eventi specifici e perciò suscitando memorie e riti ad essi peculiari, nessuna festa o ricorrenza può essere compresa e vissuta senza tener conto delle altre, perché tutte sono fra loro connesse dallo spirito di quei precetti. Tutte a cominciare dal Rosh hashanah: il Capodanno che ricorda insieme la creazione del mondo e i lacci da Isacco accettati sull’altare.

Perché i precetti sono il respiro della Torah eterna con le cui lettere è stato creato il mondo, e che eternamente arde di fuoco nero sul bianco fuoco del grembo divino. Le sue lettere, essendo fiamme, nei venti del tempo variano continuamente di forma, mentre le lettere della Torah scritta da Mosè hanno la fissa linearità della scrittura umana. La Torah scritta va quindi costantemente integrata dalla Torah orale: quello studio o Talmùd che vive delle ormai millenarie speculazioni e discussioni con le quali i Maestri aggiornano i precetti per adeguarli a tempi e luoghi del vivere ebraico, insieme sviscerandone le storie con fiori di amorosa fantasia.

Uno di questi fiori insegna che a Rosh ha-shanah il Giudice supremo spalanca il libro della vita, il libro della morte e quello dei giudizi sospesi, per registrare nel primo i giusti, nel secondo i malvagi e nel terzo quanti non sono malvagi, ma neppure proprio giusti. Non li registra però subito, perché sa quanto sia difficile per gli esseri umani riconoscere i propri torti. Aprendo quei libri al suono dello shofar che proclama l’inizio dell’anno, Egli dà l’avvio ai dieci Jamìm Noraìm o Giorni tremendi, che di nuovo al suono dello shofar si concluderanno alla fine dello Jom Kippur o Giorno dell’espiazione.

A Rosh ha-shanah è bene mangiare delle fettine di mela intinte nel miele, perché la dolcezza del miele sia di buon auspicio all’anno che deve iniziare con un così severo autogiudizio, e la freschezza del frutto mantenga vivi i risultati del giudizio nella memoria e nelle intenzioni. In questi giorni, detti anche Giorni del suono per via dello shofar che li chiude fra due parentesi, nei pressi delle sinagoghe una campanella annuncia l’ora delle Selichòt, poetiche invocazioni di perdono che precedono il culto mattutino fondendosi alle lodi di Colui che leggendo nei cuori sa in quanti di essi e fino a che punto il processo d’espiazione segua l’auspicato corso.

Il rito del Tashlich o « gettamento », che nel pomeriggio del primo giorno porta gli ebrei a svuotarsi le tasche nel più vicino fiume o ruscello pregando che l’acqua porti i peccati in fondo al mare, non deve significare un gettarsi alle spalle le azioni da dimenticare. Con l’inizio dell’anno esso pubblicamente rinnova l’assunzione di responsabilità nei confronti del Creatore, nella piena consapevolezza che le sue creature assolvono le offese arrecate alla sua Maestà, solo dopo che hanno fra loro regolato ogni debito e riparato a ogni danno e insulto, sinceramente chiedendo perdono e perdonando. L’assunzione di responsabilità deve inoltre sconfinare dal privato al collettivo: la mancanza di uno solo può avvelenare l’intera società, perché ignorarla, oppure tollerare che altri ne soffrano, equivale a rendersene correi.

Lungi dall’allontanare, il rigore dei Giorni tremendi ha il potere di rinsaldare il cordone ombelicale che lega gli ebrei fra loro e all’ebraismo. Ecco infatti, nello Jom Kippur, comparire in sinagoga avvolti nel tallet (uno scialle bianco bordato di frange, che gli ebrei indossano al momento della preghiera; il numero dei nodi delle frange simboleggia il Nome di Dio) anche i più tiepidi e i più distratti. Eccoli, impalliditi non solo dal totale digiuno che caratterizza questo giorno, cercare una persona cara da benedire o dalla quale farsi benedire, perché quando le famiglie si riuniscono in grappoli, mentre l’officiante invoca il Nome per eccellenza, restare isolati è come essere soli nell’universo. Il suono dello shofar scioglie infine ogni tensione e, fra abbracci, strette di mano e sorrisi di perdono concessi e ricambiati, si canta la preghiera di Ne’ilah o chiusura: «Spalanca dall’alto la porta della misericordia, e accogli gli integri prima che si chiuda la porta di (questo) giorno».

Si racconta che il Kippur era appena trascorso quando Rabbi Shammaj (Shammaj ha-Zaken, detto « l’anziano », 50 a.C.-30 d.C.; fu uno dei grandi capi morali e religiosi del suo tempo) prese scala e attrezzi da muratore e andò a scoperchiare la camera dove una nuora amatissima stava per partorire, per ricoprirla poi subito con un tetto di fronde, frutta e fiori. Non era impazzito: come tutto Israele, avvertiva l’approssimarsi del 15 di Tishrì e con esso l’arrivo della Festa delle capanne: la Chag ha-Succoth, detta anche Chag ha-Assif per via del raccolto, che in Israele ha luogo e si festeggia in questo periodo dell’anno. Anche Zeman Simchatenu o « tempo della nostra gioia » è detto questo periodo, per la grande allegria che porta con sé, della quale Rabbi Sham-maj voleva che nuora e nipote potessero cogliere almeno gli echi. In quell’epoca lontana il Tempio di Gerusalemme era meta di festosi pellegrinaggi, e la città tutto un germogliare di capanne fronzute dove la gente andava ad abitare come prescritto in Levitico 30. Oggi, e soprattutto nella diaspora, nei sette giorni di Succoth qualunque terrazza, giardino od orticello può servire all’uopo, ma chi non ne dispone può comunque beneficiare della capanna comune offerta dalla più vicina sinagoga. L’importante è consumarvi almeno un pasto al giorno e lì studiare, conversare e ricordare, avendo sulla testa un tetto che lasci vedere il cielo; intorno, pareti adorne dei fiori e della frutta di cui l’autunno è prodigo; e nell’anima una sicurezza che dipende dalla fiducia nella misericordia dell’Eterno molto più che in qualsiasi struttura di cemento armato.

A Succoth infatti, e nelle sue capanne, l’ebreo torna ad affidarsi al Signore così come gli si affidò uscendo dall’Egitto, e celebra i doni da lui ricevuti nel deserto finché, nel giorno settimo e conclusivo, corre in sinagoga agitando un fascio di rami di cedro, palma, mirto e salice detto Lulav,e lì esplode nei canti di Oshannàh Rabbà: la Grande Osanna, le cui invocazioni di aiuto e salvezza si mescolano alle lodi di Colui che tutti aiuta. Segue Sheminì Azeret, il 18 del mese, dedicato alle preghiere per la pioggia dalla quale ogni fertilità dipende, e le ricorrenze d’inizio d’anno si concludono infine il 19 di Tishrì con Simchat Torah. Gioia della Torah è chiamato questo giorno nell’officiatura del quale, con un’enfasi che ne sottolinea l’importanza, il ciclo delle letture settimanali della Torah termina e ricomincia grazie a due particolarissimi sposi. Al Chatàn Torah o Sposo della Torah, per speciali meriti che l’hanno distinto nel corso dell’anno, è affidata la lettura dell’ultimo brano, mentre la lettura del primo, quale incoraggiamento per il futuro, è affidata a un giovane detto Chatàn Bereshit o Sposo dell’inizio. Il susseguirsi delle due letture sottolinea la circolarità del Testo per eccellenza, e del suo insegnamento superiore a ogni tempo, che nei cicli della storia non deve subire interruzioni.

Tanto spazio dedicato alle sole festività del mese di Tishrì può far attribuire loro un’importanza sproporzionata rispetto alle altre feste e ricorrenze. Se infatti il Capodanno ricorda la creazione degli elementi di cui consta il mondo, è Pesach, la Pasqua, a portare con sé le leggi che ne regolamentano l’uso, e i Maestri d’Israele insegnano che il miracolo della creazione spiega il dono della Legge sul Sinai, in quanto da esso viene spiegato. Un gioco al rimbalzo, quindi, per orientarsi nel quale è più facile procedere per nessi che non basarsi su un calendario che pone Pesach nel mese di Nissan (corrispondente a marzo-aprile del calendario gregoriano), il quale a sua volta merita un discorso a parte proprio come il mese di Tishrì.

Giacoma Limentani
  

Le feste ebraiche si suddividono in tre grandi categorie: le « feste del pellegrinaggio » (Pesach, Shavuot e Succoth), le « feste solenni » (Rosh ha-shanah e Kippur), le « feste non solenni » (Purim e Hannukka).
Le « feste del pellegrinaggio ». All’epoca in cui il Tempio costituiva il centro della vita religiosa, gli ebrei si recavano in pellegrinaggio a Gerusalemme in tre diverse occasioni dell’anno: Pesach, Shavuot, Succoth. Pesach, Pasqua, cade solitamente durante il mese di aprile e ricorda la liberazione degli ebrei dalla schiavitù in Egitto. Shavuot, « festa delle settimane o pentecoste », viene celebrata esattamente cinquanta giorno dopo la Pasqua e ricorda la consegna delle Tavole della Legge sul Sinai. Succoth, o « festa delle capanne », ricorda i quarant’anni di permanenza nel deserto del popolo d’Israele durante l’esodo verso la terra promessa (accanto: la preghiera nel giorno di Succoth).

Le feste ebraiche nel 1999.
Purim, martedì 2 marzo; Pesach, giovedì 1° aprile; Shavuoth, venerdì 21 maggio; Rosh ha-shanah, sabato 11 settembre; Kippur, lunedì 20 settembre; Succoth, sabato 25 settembre; Hannukka, sabato 4 dicembre.

Le « feste solenni ».
Rosh ha-shanah, Capodanno. È la festa che ricorda la creazione del mondo. In questa festività, chiamata anche « giorno del giudizio » e « giorno dello shofar », gli ebrei sono invitati a un profondo « esame di coscienza ». Dieci giorni dopo, cade la festa di Kippur, il « giorno del perdono », consacrato alla preghiera e alla meditazione, e scandito da un digiuno completo che dura venticinque ore. In occasione della festa di Kippur l’ebreo è chiamato a perdonare i torti subiti e a chiedere il perdono di Dio e degli uomini per il male che può aver causato.

Publié dans:EBRAISMO |on 10 septembre, 2010 |Pas de commentaires »

Davide (ho scelto questa immagine in riferimento ai salmi)

Davide (ho scelto questa immagine in riferimento ai salmi) dans immagini sacre

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Publié dans:immagini sacre |on 9 septembre, 2010 |Pas de commentaires »

SALMO 39: I miei giorni sono un soffio – di Gianfranco Ravasi

dal sito:

http://www.apostoline.it/riflessioni/salmi/Salmo39.htm

I SALMI   CANTI SUI SENTIERI DI DIO

« I miei giorni sono un soffio » (Salmo 39)

di Gianfranco Ravasi

… proviamo per una volta a spezzare i fili dorati degli anni giovani e tesi al futuro, e con un antico poeta dei Salmi mettiamoci in ascolto di un canto aspro. È il Salmo 39 (38 nella numerazione della liturgia) che ha per tema il fluire del tempo che ci sfugge come sabbia dalla mano lasciando alle spalle – come scriveva il celebre romanziere francese Proust – solo le foglie galleggianti dei ricordi sulla palude della vita.

Questa straziante preghiera, « forse la più bella di tutte le suppliche del Salterio », come l’ha definita uno studioso dei Salmi, è una meditazione autobiografica sul « male di vivere », sulla miseria della condizione umana, sulla radicale fragilità dell’esistenza. Essa sembra annodarsi ad un filo nero che si dipana all’interno di tutte le letterature e di tutte le religioni. « Noi, come le foglie fa nascere la fiorita stagione della primavera, appena sbocciano ai raggi del sole; simili ad esse per pochissimo tempo godiamo dei fiori della giovinezza. Ma nere ci stanno ai fianchi le Parche ed è subito meglio esser morto che vivere »: così nel VII-VI sec. a.C. scriveva Mimnermo, poeta greco dell’amore. Leggiamo subito il nucleo centrale poetico del nostro salmo.

Rivelami, Signore, la mia fine;
quale sia la misura dei miei giorni
e saprò quanto è breve la mia vita.

Vedi, in pochi palmi hai misurato i miei giorni
e la nostra esistenza davanti a te è un nulla.
Solo un soffio è l’uomo che passa;
solo un soffio che si agita,
accumula ricchezze e non sa chi le raccoglie.

Sto in silenzio, non apro la bocca,
perché sei tu che agisci così…
Ogni uomo non è che un soffio (vv. 5-7.10.12).

La parola del poeta, dopo un attimo di silenzio atterrito (v. 3), esplode ed è come un fuoco devastatore che si manifesta in quella domanda bruciante: « Rivelami la mia fine! ». Dio deve aiutare l’uomo a rendersi ragione e a penetrare nel senso ultimo del limite che lo attanaglia. Un altro orante, quello del Salmo 90, pregava: « Insegnaci, Signore, a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore ». E la lezione divina è impietosa, espressa attraverso tre simboli fragranti ma impressionanti. La prima immagine è quella dell’ombra e suggerisce l’idea della vita come fantasma, come nuvola fuggevole. Pensiamo, ad esempio, alla definizione dell’uomo come « walking shadow », « ombra che cammina », coniata da Shakespeare nel Macbet.

La seconda figura è affine alla precedente: « soffio », in ebraico hebel, un vocabolo caro al libro più pessimista si tutto l’Antico Testamento, il Qohelet (o Ecclesiaste). Nell’originale ebraico il termine rimanda ad un alito di vento impalpabile, ad una nebbia inafferrabile, ad una nube che si dissolve al primo apparire del sole. Celebre è la dichiarazione programmatica di Qohelet posta in apertura e in conclusione del suo libro: « Vanità (hebel) delle vanità, tutto è vanità ». L’esistenza è percorsa dal vuoto e dal nulla, dall’assurdo e dalla miseria. Questo vocabolo risuona nel salmo per tre volte, in crescendo ed è quasi la firma poetica del salmista.

La terza immagine è quella della misura in palmi. Il palmo è la lunghezza delle quattro dita della mano e corrisponde a 7 centimetri circa, un simbolo di brevità. Già un antico testo egiziano osservava che « il tempo vissuto dall’uomo sulla terra è breve come se fosse una chimera ». E Giobbe: « I miei giorni scorrono veloci come la spola, svaniscono senza più un filo di speranza. Ricordati, vento è il mio vivere, i miei occhi non contempleranno più la felicità… Lasciami, i miei giorni sono un soffio » (c. 7). Anche nel Nuovo Testamento ci incontriamo con la stessa considerazione nella lettera di Giacomo: « Ma cos’è mai la nostra vita? Siete come vapore che appare per un istante e poi scompare (4,14).

Siamo, quindi, di fronte ad una meditazione dura, dettata dal dolore, difficile da farsi soprattutto quando si sente la freschezza della giovinezza e si immagina di aver di fronte un’immensa distesa di giorni e di anni. La preghiera del Salmo 39 spazza via le illusioni e le superficialità e si chiude con un’altra strofa di grande potenza ed amarezza realistica.

Ascolta la mia preghiera, Signore!
Porgi l’orecchio al mio grido,
non essere sordo alle mie lacrime,
perché io sono un forestiero,
uno straniero come tutti i miei padri.
Distogli il tuo sguardo, che io respiri,
prima che me ne vada e più non sia (vv. 13-14).

I due vocaboli « forestiero » e « straniero » sono un’acuta definizione della fragilità della vita umana. L’uomo p sulla terra come un estraneo che non ha la pienezza della cittadinanza, è – come diceva Goethe – « un triste viandante sulla terra oscura », un nomade vagabondo in un mondo indifferente e spesso ostile. È a questo punto che il salmista rivolge a Dio una preghiera molto strana: di solito gli oranti dei Salmi chiedono a Dio di volgere il suo volto verso la loro miseria; qui invece avviene il contrario. Il nostro autore implora Dio di « distogliere il suo sguardo » da lui e di lasciarlo respirare un istante (l’originale ebraico dice curiosamente: « fa’ che io inghiottisca la saliva », un’espressione che ancora oggi in arabo indica un momento di tregua).

Anche Giobbe pregava così: « Lasciami, che io possa respirare un istante in allegria, prima di partire per un viaggio senza ritorno nel paese delle tenebre e delle ombre mortali (10,29-22). Siamo, quindi, davanti ad una preghiera « povera » che esprime una fede nuda, senza tante illusioni o consolazioni. Se Dio ci ha fatti così, il fedele accoglie quell’istante di pace e poi si avvia verso l’abisso della morte che sigilla un’esistenza tanto breve. All’orizzonte del Salmo 39 non è ancora apparso il bagliore della Pasqua di Cristo.

Potremmo dire con Pascal: « Non vi è nulla sulla terra che non mostri o la miseria dell’uomo o la misericordia di Dio, o l’impotenza dell’uomo senza Dio o la potenza dell’uomo con Dio ».

GIANFRANCO RAVASI

(da SE VUOI)

di Gianfranco Ravasi: La Bibbia secondo gli ebrei

dal sito:

http://www.stpauls.it/jesus/0909je/0909j104.htm#top

La Bibbia secondo gli ebrei

di Gianfranco Ravasi

9 settembre 2009

biblista – Presidente del Pontificio consiglio della cultura  

Maestri nella lettura e nell’interpretazione della Torah, gli ebrei hanno una antichissima consuetudine con le Sacre Scritture. Per conoscere i loro «fratelli maggiori», dunque, i cristiani devono innanzitutto capire come essi si rapportano alla Parola di Dio.
  

Il 21 di questo mese il calendario colloca la festa di san Matteo, l’apostolo che, stando alla narrazione evangelica, era un esattore, ma che nella stesura del suo Vangelo fatto di 18.278 parole greche, distribuite ora in 1070 versetti e 28 capitoli, si rivela come uno scriba ebreo, tant’è vero che c’è chi ha ipotizzato che i cinque grandi discorsi di Gesù destinati a reggere il suo scritto vogliano ammiccare a una novella Torah o Pentateuco cristiano. Certo è che il suo è il testo evangelico più « giudaico » sia per rimandi a situazioni concrete (anche polemiche), sia per l’imponente massa di citazioni bibliche (almeno 63 sono quelle esplicite). Inoltre, l’ultimo giorno di questo mese reca anche la memoria del « biblista » san Girolamo che non solo si dedicò con passione allo studio delle Scritture, ma che fece della loro versione in latino la missione principale della propria vita, andando persino a lezione di ebraico da un rabbino.

Un rabbino legge brani della Torah con il testo in ebraico
(foto di J. Jacobson/AP/La Presse).

Ebbene, sulla scia di queste due figure, vorremmo ora riservare il nostro spazio a una sintetica e semplificata presentazione della modalità con cui l’ebraismo ha letto e legge la Parola di Dio. Dovremo naturalmente ricorrere a una terminologia « tecnica » piuttosto specifica, ma pensiamo che questo offrirà l’occasione a tutti per arricchire il nostro approccio alla Bibbia. Per chi vorrà approfondire il tema, rimandiamo alle voci specifiche dei vari dizionari biblici e alla raccolta di saggi, curata da S. J. Sierra, La lettura ebraica delle Scritture, edita dalle Dehoniane di Bologna nel 1995. Una prima menzione di questa lettura appare nello stesso Antico Testamento, proprio alle origini di quello che verrà poi denominato il giudaismo. Si tratta della scena descritta nel capitolo 8 del libro di Neemia che tempo fa abbiamo approfondito proprio in questa rubrica.

Il sacerdote Esdra, di fronte all’assemblea degli Ebrei rimpatriati dall’esilio babilonese, presiede coi leviti un rito in cui si legge la Torah «a brani distinti e con spiegazione del senso così da far comprendere la lettura» (v. 8). In quella menzione dei «brani distinti» alcuni intravedono la genesi delle parashôt, ossia delle « pericopi », cioè dei brani con cui è attualmente suddiviso il Pentateuco in modo da consentirne la lettura integrale in sinagoga nei sabati secondo un ciclo triennale o annuale. A questo proposito vorremmo qui far cenno anche alla questione della traduzione: in epoca post-esilica era divenuto dominante l’aramaico; così si procedeva spesso – dopo la lettura dell’ebraico con cui era stata scritta la Torah – alla versione nella nuova lingua popolare. Era il cosiddetto targum, che non di rado si trasformava in una vera e propria parafrasi, divenendo un documento prezioso per la storia dell’interpretazione della Bibbia nell’antichità giudaica.

Questo fenomeno ci spinge a illustrare un altro dato caratteristico, quello della derashah, cioè della «ricerca» o «esegesi» ebraica delle Scritture. Tra l’altro, ricordiamo che ciò che noi denominiamo come Bibbia, ossia «i libri» sacri, nel giudaismo era la miqra’, «lettura» (la stessa radice e lo stesso significato sono alla base del vocabolo «Corano»), o meglio Ta-NaK, un acronimo che comprendeva le tre parti in cui era articolato l’Antico Testamento: la Torah, i Nevi’îm, cioè i Profeti, e i Ketubîm, gli Scritti sapienziali. Ebbene, quella «ricerca» seguiva più percorsi: ne vorremmo evocare solo un esempio che ha come oggetto la preghiera di Anna, futura madre di Samuele, nel tempio di Silo (1Samuele 1,9-18).

La Bibbia dice che «parlava in cuor suo», cioè – spiegano i rabbini – «chi prega lo deve fare con l’intenzione del cuore»; però «muoveva le labbra», e questo perché l’orante deve sempre coinvolgere il corpo nella preghiera; ma «non si sentiva la sua voce», così da insegnarci che chi prega non deve alzare eccessivamente la voce; Anna era stata erroneamente ritenuta dal sacerdote di quel tempio un’ubriaca per questo suo comportamento: in tal modo ci è stato insegnato che all’ubriaco non è lecito pregare. Come si vede, è una minuziosa applicazione dei vari segmenti del testo sacro al comportamento del fedele.

L’altro modello di lettura ebraica delle Scritture era detto haggadah, «narrazione»: si cercava di abbellire la pagina biblica, colmandone i vuoti narrativi con libere ricostruzioni, oppure si introducevano spunti omiletici o morali o esistenziali, talora dando origine a vere e proprie trame nuove con prodotti sbocciati da un germe biblico e cresciuti a dismisura. Molti esegeti, ad esempio, ritengono che alcuni libri deuterocanonici come quelli di Tobia, Ester e Giuditta obbediscano alle regole dell’haggadah, mentre celebre è l’haggadah pasquale giudaica che è modulata molto creativamente sul racconto pasquale del capitolo 12 dell’Esodo. Questo approccio narrativo ebbe grande successo nella cosiddetta letteratura apocrifa cristiana e continuò a permanere anche nell’epoca patristica (si pensi, ad esempio, alla nota Vita di Mosè di Gregorio di Nissa, nel IV sec.).

Alcuni ebrei romani all’interno della cosiddetta « Sinagoga dei giovani »,
sull’Isola Tiberina (foto di D. Giagnori/Eidon).

A questo punto tentiamo di individuare i metodi interpretativi che reggevano simili «ricerche» sul testo biblico. Quattro sono le vie adottate, stando almeno a una classificazione tradizionale. Con le loro iniziali esse ricalcherebbero le quattro consonanti della parola «paradiso» (in ebraico pardes), ossia P, R, D, S. Il primo metodo, dunque, era detto Peshat e puntava diretto al significato primario del testo, quello letterale. Il secondo andava oltre questo valore basico ed era denominato appunto Remez, «insinuazione», ed era la scoperta di significati reconditi, segreti, che talora ammiccavano persino nelle stesse lettere delle parole ebraiche, sulla scia di quel detto rabbinico che affermava: «Settanta sono i volti di ogni parola della Torah».

Giungiamo, così, al terzo metodo, il Derush, ove si ha ancora la radice verbale della «ricerca» già incontrata: attraverso il ricorso a sentenze, proverbi, parabole, dispute e altri generi letterari si applicavano i testi biblici alla storia vissuta da Israele nel passato e nel presente, aprendo squarci sul futuro. Era, quindi, un’attualizzazione della Parola di Dio. Infine, ecco il Sôd, cioè «il segreto, il mistero»: per intuire questo senso supremo e trascendente delle Scritture era necessaria una grazia particolare, ed è per questa via che si delineavano alcuni percorsi mistici ed esoterici che approdarono ad alcune opere legate alla tradizione della Kabbalah, fiorita soprattutto in epoca medievale.

Naturalmente questo quadro da noi abbozzato è fortemente schematico e non rende conto della complessità dell’accostamento che la tradizione giudaica ha operato nei confronti della Scrittura, sia nell’ambito della sinagoga e, quindi, dell’ufficialità, sia nella lettura privata, sia nella ricerca rabbinica che spesso raggiungeva livelli di alta sofisticazione, tali da introdurre vere e proprie geometrie mentali fini a sé stesse. Certo è che si teneva sempre ferma la convinzione della necessità di un significato di base legato alle parole e della presenza di un significato trascendente, pensato e voluto dal divino Autore. Era per questa strada che si configurava oltre alla Torah she-bi-ketab, cioè alla Torah scritta, fondamentale e intangibile, una Torah shebe-’al peh, ossia una Torah orale, destinata a raccogliere l’intima densità spirituale della pagina scritta.

Concludiamo con un cenno al giudaismo contemporaneo che ha aperto qualche nuovo sentiero interpretativo. Pensiamo al ricorso al testo sacro in chiave politica per giustificare, ad esempio, l’«eredità» di Israele nei confronti della Terra Santa (in questa linea un impulso fu dato da un movimento « laico » come quello sionista, ma è presente ovviamente in chiave religiosa presso i cosiddetti ebrei ortodossi). La stessa Shoah dette l’avvio a una lettura intensa e fin drammatica delle Scritture, con domande radicali sulla possibilità di credere nella Bibbia e in Dio dopo un’esperienza così tragica per la fede. Ai nostri giorni, poi, ha preso il via una lettura che tiene conto della presenza cristiana e che, perciò, apre spiragli per una nuova teologia messianica (su questo aspetto, molto specifico e problematico, abbiamo già avuto l’occasione di intervenire non molto tempo fa su queste stesse pagine, parlando degli « Ebrei messianici »).

Rimane, comunque, sempre valido l’appello contenuto negli Orientamenti e suggerimenti per l’applicazione della dichiarazione conciliare « Nostra Aetate n. 4″, proposti nel 1974 dalla Commissione per le relazioni religiose della Chiesa cattolica con l’ebraismo: «È necessario che i cristiani cerchino di capire meglio le componenti fondamentali della tradizione religiosa ebraica e apprendano le caratteristiche essenziali con le quali gli Ebrei stessi si definiscono alla luce della loro attuale realtà religiosa».

Gianfranco Ravasi

Omelia 9 settembre 2010 su 1Cor 8,13

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/19294.html

Omelia (09-09-2010) 
Eremo San Biagio

Commento su 1Cor 8,13

Dalla Parola del giorno
Se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne, per non dare scandalo al mio fratello.

Come vivere questa Parola?
Paolo affronta il problema della liceità o meno di nutrirsi di carni offerte agli idoli, ma va oltre, puntando al cuore della morale cristiana. Gli idoli di per sé sono nulla e quindi le carni provenienti dai sacrifici offerti loro e rivendute al mercato, sono come le altre, per cui ci si può nutrire di esse liberamente, senza timore di contaminarsi moralmente. Una libertà che alcuni ostentavano superbamente contrapponendo la loro coscienza forte e illuminata a quella debole e oscillante di chi ancora non si era totalmente distaccato dalla precettistica ebraica che ne imponeva l’astensione e che, di conseguenza, restava turbato e smarrito dal comportamento dei primi.
Paolo, da un lato riconosce e convalida la libertà di servirsi anche di carni offerte agli idoli, ma dall’altro condanna la mancanza di carità di chi in tal modo fa sfoggio della propria superiorità su chi considera un immaturo nella fede.
Ovviamente la carità cristiana non richiede di scadere nella simulazione, ma di assumere l’atteggiamento del buon pastore che prende in braccio gli agnellini e adatta il suo passo a quello delle pecore madri.
Oggi, in una società dove tutto è permesso, l’esercizio della libertà cristiana è ancor più messo alla prova. Innanzitutto l’autenticità della libertà che rivendichiamo va verificata nell’intimo della coscienza: è esercizio di libertà o umiliante asservimento agli idoli di turno? Va poi assunto senza facili sconti il dovere della testimonianza, che impone trasparenza nelle scelte che operiamo con sovrana libertà.

Oggi, nel mio rientro al cuore, mi chiederò: la libertà che rivendico è quella che mi è stata donata da Gesù o l’arbitrario e smodato abuso dei beni materiali fisici e morali che Dio stesso mi ha affidato?

Donami, Signore, quella sapienza che viene da te e che mi fa discernere, nel mio comportamento, dove c’è autentica libertà e dove c’è solo lo scadere in facili concessioni.

La voce di un testimone
La libertà non è una cameriera tuttofare che si può sfruttare impunemente. Né un paravento sbalorditivo dietro il quale si gonfiano fetide ambizioni.
Raoul Follerau 

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 8 septembre, 2010 |Pas de commentaires »
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