Archive pour septembre, 2010

San Bernardo: La gloria della croce

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100914

Esaltazione della santa Croce, festa : Jn 3,13-17
Meditazione del giorno
San Bernardo (1091-1153), monaco cistercense e dottore della Chiesa
Meditazione sulla Passione VI, 13-15 ; PL 184, 747-752

La gloria della croce

        Lungi da me l’idea che ci sia, per me, altro vanto che nella croce del Signore mio Gesù Cristo (Gal 6, 14). La croce è la tua gloria, la croce è il tuo impero. Sulle tue spalle è il segno della sovranità (Is 9, 5). Chi porta la croce, porta la gloria. Perciò la croce, che fa paura agli infedeli, è per i fedeli più bella di tutti gli alberi del paradiso. Cristo ha forse temuto la croce ? E Pietro ?  E Andrea ? Al contrario l’hanno desiderata. Cristo si è lanciato verso di essa come prode che percorre la via (Sal 19, 6): «  Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi prima della mia passione » (Lc 22, 15). Ha mangiato la Pasqua, soffrendo la sua passione, quando passò da questo mondo al Padre. Sulla croce mangiò e bevve, si inebriò e si addormentò… Chi potrebbe ormai temere la croce ?

        Posso, Signore fare il giro del cielo e della terra, del mare e delle steppe, mai ti troverò se non sulla croce. Là, dormi, là, pasci il tuo gregge, là ti riposi al meriggio (Ct 1, 7). Su questa croce, colui che è unito al suo Signore canta con dolcezza : « Tu, Signore, sei mia difesa, tu sei mia gloria e sollevi il mio capo » (Sal 3, 4). Nessuno ti cerca, nessuno ti trova, se non sulla croce. O Croce di gloria, radicati in me, perché io sia trovato in te.

Exécutant anonyme Ecole Italie ; Florence Titre LA TRINITE, ENTOUREE DE CHERUBINS Période 1er quart 16e siècle Matériaux

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http://www.artbible.net/3JC/-Mat-27,32_Crucifixion/index9.html

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Omelia per la Festa dell’Esaltazione della Santa Croce, seconda lettura: Ef, 2-6-11

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/13551.html

Omelia (14-09-2008)  su Ef, 2-6-11
seconda lettura

Eremo San Biagio

Dalla Parola del giorno
Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato.

Come vivere questa Parola?
Il significato profondo di questa festa è racchiuso in questa breve pericope paolina, che ci fa contemplare, quasi al rallentatore per meglio assaporarne il senso, il progressivo inabissarsi del Figlio di Dio nell’umiltà della condizione umana.
Lo sguardo è invitato a fissarsi, inizialmente, sull’indicibile realtà divina del Verbo: il suo essere Dio come il Padre. E poi quel volontario svuotare annullare se stesso assumendo la nostra stessa natura umana, la condizione di ‘servo’. Non si ha tempo di riscuotersi dallo stupore, che Paolo incalza: “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte”. E non basta ancora: il Figlio dell’Altissimo giunge ad annichilire se stesso fino al punto di abbracciare la più infamante delle morti: quella di croce, la morte del ‘maledetto’ da Dio oltre che dagli uomini.
L’abitudine a vedere il Crocifisso nei nostri ambienti, ci ha fatto perdere molto di questa tremenda realtà. Dio che si rende abietto dinanzi alla sua creatura.
No, non si capirà mai fino in fondo l’infinito amore di Dio, se non ci si lascia afferrare dalla durezza di questa immagine!
Ma allora, perché si parla di ‘esaltazione’?
Perché proprio in questo limite estremo, oltre il quale Gesù non poteva spingersi, possiamo contemplare che “Dio ha tanto amato il mondo”. Qui, sulla croce appare in pienezza la ‘gloria’ di Dio, cioè si svela il suo volto, il suo essere profondo: il suo essere Amore.
Dinanzi a questa realtà sublime inconcepibile per la mente umana, c’è solo da piegare il ginocchio in un muto adorante, riconoscente atto d’amore.
Oggi, nel mio rientro al cuore, sosterò in silenziosa contemplazione del Crocifisso.

Grazie, Gesù!

La parola di una martire del XX secolo
Gesù Crocifisso dev’ essere l’oggetto di ogni tua brama, di ogni tuo desiderio, di ogni tuo pensiero.
Edith Stein 

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Omelia per la Festa dell’Esaltazione della Santa Croce, prima lettura: Nm 21, 4b-9: Il serpente di fuoco

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/13564.html

Omelia (14-09-2008)  su Nm 21, 4b-9 – seconda lettura
don Marco Pratesi

Il serpente di fuoco

Nel suo lungo cammino Israele si trova ancora in difficoltà. Di fronte alle fatiche e ai disagi viene a prodursi una situazione di tedio, scoraggiamento, insofferenza, demoralizzazione. La lamentela degli israeliti palesa un orizzonte totalmente buio: siamo in cammino verso la morte, verso il nulla. Essa inoltre non accusa esplicitamente Dio (è ben rischioso!), ma solo Mosè, quasi si trattasse di un cammino voluto soltanto da lui. Le coordinate sono del tutto smarrite, e il disorientamente assume l’aspetto della nausea e dell’accidia.
All’accidia segue in modo provvidenziale uno scossone, perché adesso, con l’arrivo dei serpenti, il male si fa aperto, incalzante, minaccioso. Anzi, insuperabile: qui si deve proprio sperare soltanto nella buona sorte, perché contro i serpenti non c’è nulla da fare, chi è morso muore senza scampo. Il testo usa una espressione strana ma molto suggestiva: «serpenti di fuoco» (v. 6, versione CEI: «brucianti»). Tale modo di esprimersi si riferisce al loro colore rosso, oppure al dolore bruciante che il loro morso infligge?
A questo punto c’è la presa di coscienza: accidia e lamentela sono finalmente percepite come un comportamento negativo, che provoca morte. Ecco la richiesta dell’intercessione di Mosè, quindi nuovamente l’accoglienza del suo ruolo nel piano di Dio e di ciò che egli in esso rappresenta, cioè l’alleanza.
La risposta di Dio è un segno. Nell’antico oriente il serpente era anche simbolo di vita e guarigione, e assai probabilmente si risente qui tale influsso. Chi guarderà al segno sarà salvato. Il segno di vita riproduce in qualche modo la causa di morte, sia per la forma sia per il colore. L’ordine di Dio infatti prescrive a Mosé di fare un serpente «di fuoco» (v. 8, la CEI omette la precisazione) ed è pertanto preferibile pensare che il materiale impiegato sia piuttosto il rame, di colore rosso vivo, con chiaro riferimento al fuoco dei serpenti. La lingua ebraica infatti (come del resto il greco e il latino) non distingue chiaramente tra rame e bronzo (che è quasi tutto rame).
La presentazione del segno consente una verifica: quella della fede. La salvezza è offerta, ma è richiesto comunque qualcosa: guardare al segno, il che implica fiducia in Mosè e in Dio. Poiché quel serpente non può avere in sé nessun potere sanante se non quello che Dio stesso gli conferisce, e alzare gli occhi a lui è un atto di fede nella parola data da Dio attraverso Mosè: «chi si volgeva a guardarlo era salvato non da quel che vedeva, ma solo da te, Salvatore di tutti» (Sap 16,7).
Lì, in quel serpente rosso, io vedo la causa di morte trasfigurata in causa di vita. C’è una metamorfosi, non un’abolizione; una trasformazione, non una cancellazione. Non posso saltare il male e la morte. Ma se io credo, la morte diventa vita, perché proprio lì io scopro che mi sbaglio, e di grosso, quando entro nell’orizzonte dell’accidia e interpreto l’azione di Dio come un portarmi verso il nulla.
Non solo. Mentre i serpenti mortiferi sono molti, il segno vivificante è uno solo: da molte morti a una sola salvezza (cf. Rm 5,15-16). Posso morire da solo, ma non salvarmi da solo. Posso perdermi per le mie strade, ma essere liberato solo in un popolo che crede.
Il serpente di rame sarà conservato nel tempio di Gerusalemme finché il pio re Ezechia, per evitare tentazioni idolatriche, lo distruggerà (cf. 2Re 18,4). Oramai il segno innalzato sul mondo per la salvezza di chi crede sarà soltanto Gesù crocifisso e risorto (cf. Gv 3,14-15). 

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Omelia per la Festa dell’Esaltazione della Santa Croce: Dio ha tanto amato il mondo

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/13602.html

Omelia (14-09-2008) 
don Daniele Muraro 
Dio ha tanto amato il mondo

Ad interrompere il normale decorso delle Domeniche dal tempo Ordinario interviene quest’oggi la festa della “Esaltazione della santa Croce”. Approfittiamo dell’occasione per tornare a riflettere sull’evento centrale della nostra salvezza, quello di cui già si parlava nel Vangelo dell’ultima domenica di Agosto: la morte in croce di Gesù.
Allora l’annuncio della passione era stato prima causa di sdegno da parte di Pietro e poi motivo di ammaestramento a tutti quanti da parte del Signore: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua.”
L’evangelista Giovanni ci informa che dello stesso tema Gesù aveva già trattato durante un colloquio privato con un certo Nicodemo. Nicodemo è personalità ragguardevole all’interno della società del tempo e perciò si mette in contatto con Gesù non di giorno alla luce del sole, ma nel corso di un visita notturna, lontano da sguardi indiscreti.
Egli è Dottore della Legge, cioè si dedica allo studio approfondito della Bibbia e in qualità membro del Sinedrio partecipa alle sedute di questo supremo organo giudiziario ebraico quando si riunisce a Gerusalemme. Con tutta evidenza interviene anche al processo contro Gesù e possiamo pensare che nella circostanza si astenne dalla condanna. Forse esce dalla sala della riunione prima della sentenza. In ogni caso, quando Gesù è ormai morto, troviamo Nicodemo sul Calvario, intento a recuperare il corpo del Signore staccandolo dal legno della croce perché poi potesse essere onorato con una degna sepoltura.
Anche se non abbiamo notizie di una sua evidente conversione, possiamo dire che fin dal principio egli non fu pregiudizialmente contrario alla persona di Gesù e al suo messaggio e al momento cruciale seppe esporsi per un’opera di misericordia e di ossequio. Di sicuro i ragionamenti che Gesù scambia con lui durante i colloqui notturni nel suo animo avevano lasciato il segno.
Come si conviene durante il colloquio con uno dei maestri in Israele, Gesù parla a Nicodemo in maniera elaborata facendo leva sulla sua cultura religiosa scritturistica.
Nicodemo conosce bene la storia del serpente di bronzo che Mosè aveva fatto fare per liberare dal morso velenoso di serpenti veri. Siamo nel deserto, durante i quarant’anni di pellegrinaggio prima di entrare nella terra promessa. Dopo le proteste di quelli che non sopportavano più il viaggio e i disagi che l’ambiente inospitale comportava erano spuntati fra la sabbia delle dune delle serpi la cui puntura provocava ferite mortali. Esse bruciavano nella carne come fossero state arroventate al fuoco fino al decesso. Un gran numero d’Israeliti perde la vita e così Dio interviene per alleviare la piaga e ordina a Mosè di fondere un simulacro di serpente in bronzo, rossastro anche lui come il fuoco, ma salutifero.
Quando qualcuno resta morsicato, se si gira subito e guarda verso l’asta alla cui sommità era stato collocato il serpente di bronzo, costui resta in vita.
A Nicodemo Gesù spiega che questi fatti valgono come preannuncio della vera e definitiva salvezza che Dio concede a tutto il popolo attraverso di Lui. Però come fu necessario innalzare il serpente nel deserto perché tutti potessere guardare verso quella effige, allo stesso modo sarebbe stato necessario che Lui stesso salisse sopra una croce.
Chi si rivolgeva con fede verso il serpente di bronzo otteneva che il veleno che lo tormentava fosse neutralizzato. In maniera simile allo scopo di eliminare il tossico del peccato dall’animo umano Dio aveva scelto di innalzare un segno di guarigione e di salvezza per tutti e sarebbe stato il Figlio di Dio inchiodato sulla croce con le braccia spalancate ad accogliere quelli che si rivolgevano a Lui.
Si tratta di una rivelazione straordinaria che non avrà mancato di turbare il dotto Nicodemo e di cui Egli si sarà sforzato di afferrare il significato giusto. Come poteva un uomo parlare con tanta libertà della sua morte e poi prevedendola per sé in modo così violento e disonorante?
Sappiamo dagli autori romani che il supplizio della croce era riservato agli schiavi. Ne troviamo l’eco anche nell’inno di san Paolo che fa da seconda lettura: venendo fra noi Gesù assunse “una condizione di servo”, cioè di schiavo, e si fece obbediente “fino alla morte e, sottolineato, a una morte di croce”.
Qualche decennio prima il grande uomo di stato Cicerone aveva scritto: “Perfino la semplice parola croce deve stare lontana, non solo dalle labbra dei cittadini romani, ma anche dai loro pensieri, dai loro occhi, dalle loro orecchie”.
Cicerone intendeva proporre ai suoi concittadini romani un cammino di civiltà, quella che ai nostri giorni ha portato all’abolizione della tortura e della pena di morte, eppure le violenze al mondo non sono finite.
Ogni giorno tornano di tragica attualità ogni genere di soprusi e di stermini. Fame, guerra, ferocia, odio non cessano di mietere vittime sul pianeta terra.
Di fronte a scene di questo tipo, guardare da un’alta parte talvolta non solo è consigliabile ma è anche necessario se si vuole mantenere il proprio equilibrio mentale. Però non si può sempre ignorare il male e la violenza che c’è nel mondo. Come comportarsi allora? La liturgia di oggi ci invita a guardare con fede al Crocifisso per ricevere da lui la guarigione dai morsi del peccato prima origine di ogni altro male fisico e morale.
Nel passato di fronte a ciò che superava la capacità di reazione umana si alzavano spesso gli occhi al cielo, ai nostri giorni questo atteggiamento sta diventando meno frequente. In ogni caso la croce di Gesù sta lì sospesa fra cielo e terra a dirci che non possiamo rivolgersi a Dio se non passando attraverso il sacrificio del suo Figlio Gesù, ma nemmeno possiamo ignorare l’ombra di sollievo e di ammonimento che questa croce spande sulle vicende umane.
C’è una croce piantata sulla terra così saldamente che nessuna forza umana la può svellere, le sue braccia sono così ampie che possono coprire l’orizzonte intero e la sua sommità è così alta che arriva al cielo: è la croce di Gesù che noi oggi veneriamo. 

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dom Prosper Guéranger – 14 settembre: Esaltazione della Santa Croce

dal sito:

http://www.unavoce-ve.it/pg-14set.htm

L’anno liturgico di dom Prosper Guéranger

14 SETTEMBRE

ESALTAZIONE DELLA SANTA CROCE

Il senso della festa della Croce.

« Abbiate in voi, fratelli miei, lo stesso sentimento da cui era animato Cristo Gesù il quale esistendo nella forma di Dio, non considerò questa sua eguaglianza con Dio come una rapina, ma annichilì se stesso, prendendo la forma di servo e, divenendo simile agli uomini, apparve come semplice uomo. Egli umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce ». Le parole dell’Apostolo, che leggiamo nell’Epistola della Messa, ci danno il senso della festa che oggi celebriamo. I termini schiavo, croce sono, è vero, per noi parole correnti, perché hanno perduto il senso abbietto che avevano nel mondo antico, prima dell’era cristiana e perciò i destinatari della lettera di san Paolo capivano meglio di noi l’orrore della cosa e misuravano meglio di noi quanto Gesù Cristo si era abbassato con l’Incarnazione e la morte sulla Croce. (Fil, 2, 6-11, traduzione dal sito)

Il supplizio della Croce.

Non era la croce considerata dagli antichi come « il supplizio più terribile e più infamante » (Cicerone, In Verrem II)? Era allora cosa frequente vedere un ladro o uno schiavo messo in croce e ciò che di questo supplizio indirettamente conosciamo ci permette di valutarne l’atrocità. Il crocifisso moriva con lenta agonia, soffocato per l’asfissia, determinata dalla estensione delle braccia in alto, e torturato da crampi ai nervi irrigiditi.

Il culto della Croce.

Il Cristo ha subito lo spaventevole supplizio per ciascuno di noi; ha offerto al Padre, con un amore infinito, il sacrificio del suo corpo disteso sulla Croce. Lo strumento di supplizio, fino allora oggetto di infamia, diventa per i cristiani la gloria e san Paolo non vuole aver gloria che nella croce del Signore, nella quale risiede la nostra salvezza, la nostra vita, la risurrezione, e per la quale siamo stati salvati e liberati (Introito della Messa).
Il culto della Croce, strumento della nostra redenzione, si è molto diffuso nella Chiesa: la Croce è adorata e riceve omaggi, che non si concedono ad altre reliquie e le feste della Santa Croce rivestono particolare splendore.
È stato già festeggiato il fortunato avvenimento del rinvenimento della Croce il tre maggio, oggi la Chiesa celebra l’Esaltazione della Croce, festa che ha un’origine complessa ma che la storia ci permetterà di precisare.

Origine della festa.

La data del 14 settembre segna l’anniversario di una dedicazione che lasciò nella storia ecclesiastica un profondo ricordo.
Il 14 settembre del 335 una folla considerevole di curiosi, di pellegrini, di monaci, di clero, di prelati, accorsi da tutte le province dell’Impero, si riunivano a Gerusalemme per la Dedicazione del magnifico santuario restaurato dall’imperatore Costantino nel luogo stesso dove il Signore aveva sofferto ed era stato sepolto.
L’anniversario continuò ad essere celebrato con non minore splendore negli anni seguenti. La pellegrina Eteria, venuta a Gerusalemme, al tramonto del IV secolo, ci riferisce che più di 50  vescovi assistevano ogni anno alla solennità del 14 settembre. La Dedicazione aveva rito pari alla Pasqua e all’Epifania e si protraeva per otto giorni con immenso concorso di pellegrini.

Doppio oggetto della festa.

Altri elementi si aggiunsero in seguito alla festa anniversaria della Dedicazione. Primo fu il ricordo dell’antica festa giudaica dei Tabernacoli, che coronava le fatiche della vendemmia. Si credeva che fosse celebrata il 14 settembre e la festa cristiana della Dedicazione doveva prenderne il posto. Dal secolo IV un altro ricordo, questo prettamente cristiano, si attaccava alla festa del 14 settembre. e cioè il ritrovamento del legno sacro della Croce. Una cerimonia liturgica detta elevazione o esaltazione (hypsosis) della Croce ricordava tutti gli anni la fortunata scoperta. Il luogo in cui la Croce era stata innalzata era considerato centro del mondo e per questo un sacerdote alzava il legno sacro della Croce verso le quattro diverse parti del mondo. I pellegrini, a ricordo della cerimonia, si portavano a casa una minuscola ampolla contenente dell’olio, che era stata posta a contatto del legno della Croce.

Diffusione della festa.

La cerimonia prese un’importanza sempre più grande e avvenne che nel VI secolo il ricordo del rinvenimento della Croce e la Dedicazione avvenuta sul Golgota passarono in secondo piano.
I frammenti del sacro legno furono distribuiti nel mondo e con i frammenti si diffuse nelle Chiese cristiane la cerimonia della Esaltazione. Costantinopoli adottò la festa nel 612, sotto l’imperatore Eraclio e Roma l’ebbe nel corso del secolo VII. Sotto papa Sergio († 701) al Laterano il 14 settembre si ripeteva l’adorazione della Croce del Venerdì Santo e gli antichi Sacramentari hanno conservato un’orazione ad crucem salutandam in uso in tale cerimonia. Il rito durò poco e scomparì dagli usi romani, ma l’orazione restò nelle raccolte di orazioni private (Ephemerides liturgicae, 1932, p. 33 e 38, n. 16). Ai nostri tempi l’adorazione della Croce il 14 settembre si fa ormai solo nei monasteri e in poche chiese.

Nuovo splendore della festa.

Un avvenimento venne nel corso dei secoli a rinnovare lo splendore della festa della Esaltazione. Gerusalemme nel 614 era stata occupata dai Persiani e messa a ferro e fuoco. Dopo le vittorie del pio imperatore Eraclio, la città santa era stata restaurata ed Eraclio aveva ottenuto che fosse restituita la Santa Croce, portata dagli invasori a Ctesifonte. Il 21 marzo del 630, la Croce fu di nuovo eretta nella Chiesa del S. Sepolcro e si riprese il 14 settembre seguente la cerimonia della Esaltazione.
Carattere nuovo della festa.
Si resta stupiti nel vedere che la festa, ripristinata con l’antica cerimonia, ha un nuovo carattere di tristezza e di penitenza. Hanno forse contribuito a fare della cerimonia di adorazione un rito di intercessione, nel corso del quale si ripete il Kyrie eleison, le sventure dell’Impero.  Il digiuno diventa in quel giorno di rigore, almeno nel mondo monastico. Il carattere di intercessione resta nei testi della nostra liturgia proprii della festa di questo giorno (gli altri testi sono presi dalla festa del 3 maggio o dalla Settimana Santa). Offertorio e Postcommunio chiedono protezione e soccorso mentre il Vangelo ricorda l’Esaltazione del Figlio dell’Uomo sulla Croce, figurata dal serpente di bronzo.
Essendo stata l’adorazione della Croce un rito della festa di oggi per molto tempo, riportiamo la preghiera composta da sant’Anselmo per la cerimonia del Venerdì Santo.
O Croce Santa, la vista della quale ci ricorda un’altra croce, quella sulla quale Nostro Signore Gesù Cristo ci ha strappati con la sua morte alla morte eterna, nella quale stavamo precipitando miseramente, risuscitandoci alla vita eterna perduta per il peccato, adoro, venero, glorifico in te la Croce che rappresenti e, in essa, il misericordioso Signore. Per essa egli compì la sua opera di misericordia. O amabile Croce, in cui sono salvezza, vita, e resurrezione nostra! O legno prezioso per il quale fummo salvati e liberati! O simbolo di cui Dio ci ha segnati! O Croce gloriosa della quale soltanto dobbiamo gloriarci!
Come ti lodiamo? Come ti esaltiamo? Con quale cuore ti preghiamo? Con quale gioia ci glorieremo di te? Per te è spogliato l’inferno; è chiuso per tutti coloro che in te sono stati riscattati. Per te i demoni sono terrificati, compressi, vinti, schiacciati. Per te il mondo è rinnovato, abbellito, in virtù della verità che splende e della giustizia che regna in Lui. Per te la natura umana peccatrice è giustificata: era condannata ed è salvata; era schiava del peccato e dell’inferno ed è resa libera; era morta ed è risuscitata. Per te la beata città celeste è restaurata e perfezionata. Per te Dio, Figlio di Dio, volle per noi obbedire al Padre fino alla morte (Fil 2,8-9). Per questo egli, elevato da terra, ebbe un nome che è al di sopra di ogni nome. Per te egli ha preparato il suo trono (Sal 9,8) e ristabilito il suo regno.
Sia su di te e in te la mia gloria, in te e per te la mia vera speranza. Per te siano cancellati i miei peccati, per te la mia anima muoia alla sua vita vecchia e sorga a vita nuova, la vita della giustizia. Fa’, te ne prego, che, avendomi purificato nel battesimo dai peccati nei quali fui concepito e nacqui, tu ancora mi purifichi da quelli che ho contratto dopo la nascita alla seconda vita, e che per te io pervenga ai beni per i quali l’uomo è stato creato per il medesimo Gesù Cristo Nostro Signore, cui sia benedizione nei secoli.

da: dom Prosper Guéranger, L’anno liturgico. – II. Tempo Pasquale e dopo la Pentecoste, trad. it. L. Roberti, P. Graziani e P. Suffia, Alba, 1959, p. 1072-1076

Publié dans:FESTE DEL SIGNORE |on 13 septembre, 2010 |Pas de commentaires »

13 NOVEMBRE : SAN GIOVANNI CRISOSTOMO (UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE ANNO 2004)

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/liturgy/2004/documents/ns_lit_doc_20041127_giovanni-crisostomo_it.html

UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE
DEL SOMMO PONTEFICE     

(OFFICE FOR THE LITURGICAL CELEBRATIONS OF THE SUPREME PONTIFF
CALENDAR OF CELEBRATIONS
PRESIDED OVER BY THE HOLY FATHER JOHN PAUL II -2004)

SAN GIOVANNI CRISOSTOMO

            “Crisostomo”, vale a dire “bocca d’oro”, fu il soprannome dato a Giovanni a motivo del fascino suscitato dalla sua arte oratoria. Nato ad Antiochia in una data non precisabile tra il 344 e il 354, Giovanni si dedicò agli studi di retorica sotto la direzione del celebre Libanio; pare che questi lo stimasse a tal punto da rispondere a chi gli chiedeva chi volesse come suo successore: “Giovanni, se i cristiani non me lo avessero rubato!” Dopo aver ricevuto il battesimo, Giovanni frequentò la cerchia di Diodoro, il futuro Vescovo di Tarso: nel gruppo di discepoli che si radunavano attorno a costui imparò a leggere le Scritture secondo il metodo antiocheno, attento alla spiegazione letterale dei testi, e compì i primi passi lungo quel cammino spirituale che lo condurrà a lasciare la città e a vivere alcuni anni in solitudine sul monte Silpio, nei pressi di Antiochia.

            Rientrato in città, fu ordinato diacono dal Vescovo Melezio nel 381 e, cinque anni più tardi, presbitero dal Vescovo Flaviano, che gli fu maestro non solo di eloquenza, ma anche di carità e saldezza nella fede. Furono anni di intensa predicazione: Giovanni commentava le Scritture secondo i principi esegetici della scuola antiochena, aliena da ogni allegorismo e sostanzialmente fedele alla lettera del testo biblico. La predicazione di Giovanni si traduceva sovente in esortazione morale: ora, veniva presa di mira la passione per gli spettacoli che eccitava i cristiani di Antiochia, ora la rilassatezza dei costumi. Con grande zelo esorta a radicare la propria vita di credenti nella conoscenza delle Scritture, a vivere un’intensa vita spirituale senza ritenere che essa sia riservata soltanto ai monaci, a praticare la carità nella cura sollecita per il “sacramento del fratello”. “È un errore mostruoso credere che il monaco debba condurre una vita più perfetta, mentre gli altri potrebbero fare a meno di preoccuparsene … Laici e monaci devono giungere a un’identica perfezione” (Contro gli oppositori della vita monastica 3, 14).

            Nel 397 Giovanni fu chiamato a Costantinopoli quale successore del Patriarca Nettario. Nella capitale dell’impero il nuovo Patriarca si dedicò con grande zelo alla riforma della Chiesa: depose i Vescovi simoniaci, combatté l’usanza della coabitazione di preti e diaconesse, predicò contro l’accumulo delle ricchezze nelle mani di pochi e contro l’arroganza dei potenti, e destinò gran parte dei beni ecclesiastici a opere di carità. Anche a Costantinopoli continua il suo ministero di predicatore della Parola e di operatore di pace. La sua opera di evangelizzazione si estende ai goti e ai fenici. Intransigente quando la fede è minacciata, predica l’amore per il peccatore e per il nemico. “Il popolo lo applaudiva per le sue omelie e lo amava”, afferma lo storico Socrate (Storia ecclesiastica 6, 4).

            Tutto questo gli procurò molti amici e molti nemici: amato dai poveri come un padre, fu osteggiato dai potenti, che vedevano in lui una temibile minaccia per i loro privilegi. L’inimicizia nei suoi confronti crebbe con l’ascesa al potere dell’imperatrice Eudossia. Costei, nel 403, con l’appoggio del Patriarca di Alessandria, Teofilo, indisse un processo contro Giovanni e lo fece deportare e condannare all’esilio. Il decreto di condanna fu revocato dopo poco tempo e Giovanni poté rientrare in diocesi, ma solo per pochi mesi. Durante la celebrazione della Pasqua del 404 le guardie imperiali fecero irruzione nella cattedrale della città provocando uno spargimento di sangue; vi furono disordini per diversi giorni. Poco dopo la festa di Pentecoste, Giovanni fu arrestato e nuovamente condannato all’esilio. Per evitare mali ulteriori, il Patriarca lasciò la casa episcopale uscendo da una porta secondaria; si congedò dai Vescovi riuniti in sacrestia e fece chiamare la diaconessa Olimpia e le sue compagne, che conducevano una vita comunitaria a servizio della chiesa nella casa accanto a quella del Vescovo. “Venite, figlie, ascoltatemi. Per me è giunta la fine, lo vedo. Ho terminato la corsa e forse non vedrete più il mio volto” (Palladio, Dialogo sulla vita di Giovanni Crisostomo, 10). Con queste parole il padre si accomiata dalle sue figlie spirituali.

Giovanni fece appello al papa Innocenzo I, che ne riconobbe l’innocenza; ma ciò nonostante fu costretto a lasciare Costantinopoli. Alla sua partenza vi furono tumulti in città: venne appiccato fuoco a una chiesa adiacente al palazzo del senato e questo fornì un pretesto alle autorità imperiali per arrestare e perseguitare i seguaci di Giovanni. Questi fu confinato a Cucuso, una piccola città dell’Armenia, ma anche in questo luogo sperduto era raggiunto dalle manifestazioni di affetto dei suoi fedeli, e così i suoi nemici provvidero a farlo partire per una sede ancora più lontana. Avrebbe dovuto raggiungere Pizio, sul Ponto, ma morì lungo il viaggio, a Comana, stremato dalle marce forzate a cui era stato sottoposto. Era il 14 settembre 407.

            “Gloria a Dio in tutto: non smetterò di ripeterlo, sempre dinanzi a tutto quello che mi accade!” (Lettere a Olimpia, 4). In queste parole troviamo condensata la testimonianza di Giovanni; anche in mezzo alle molte tribolazioni che occorre attraversare per entrare nel regno dei cieli (cf. At 14, 22), Giovanni “Boccadoro” ci insegna a cogliere la luce della risurrezione che già si sprigiona dalla croce e a portare la croce nella luce del Cristo risorto. Allora ogni discepolo può proclamare con gioia: “Gloria a Dio in tutto!”.

Il Martirologio romano, come pure i sinassari orientali, hanno iscritto la festa di Giovanni al 27 gennaio, anniversario del ritorno del corpo a Costantinopoli. Attualmente nel calendario romano la sua festa è celebrata il 13 settembre. Nello stesso giorno la festa è celebrata presso i siri. La Chiesa bizantina lo festeggia anche il 30 gennaio, insieme a San Basilio e a San Gregorio di Nazianzo, e il 13 novembre, giorno del suo ritorno dall’esilio. In Oriente si incontrano molti monasteri a lui dedicati. Dottore della Chiesa, Giovanni circonda con i Santi Atanasio, Ambrogio e Agostino, la Cattedra del Bernini nell’abside della Basilica Vaticana. Papa Giovanni XXIII pose il Concilio Vaticano II sotto la sua protezione.    

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