Le feste ebraiche: Al suono dello shofar
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Le feste ebraiche
Al suono dello shofar
di Giacoma Limentani
Il corno d’ariete, che da sempre chiama a raccolta Israele, nei momenti di gioia o di penitenza, è la colonna sonora di tutte le grandi feste ebraiche. Da Rosh ha-shanah allo Jom Kippur ai giorni di Succoth, il calendario ebraico evoca memorie e speranze della storia del popolo d’Israele.
«La festa è collegata allo scorrere del tempo e quindi a una delle dimensioni essenziali della vita… Insieme nella festa convivono passato e futuro… Senza la festa che dà senso al tempo… la vita – la storia – sarebbe un agglomerato informe di momenti… senza un filo conduttore». Sono parole di Filippo Gentiloni, prese dalla postfazione a Le feste ebraiche (Edizioni Com Nuovi Tempi, 1999), gentile libretto che segue gli ebrei nei giorni speciali del loro calendario, evocando memorie, speranze e suoni, soprattutto suoni. Di preghiera come di studio oppure di canto, di campanelle come di corno.
Lo shofar, il corno d’ariete che da sempre chiama a raccolta Israele per la gioia e la penitenza, vi fa la parte del leone, in ricordo di come echeggiò nell’immensità dell’abisso primevo, proclamando che da sempre e per sempre l’Eterno è Dio. L’Eterno creatore, onnisciente e infinito che nel sesto giorno, fra la creazione della prima coppia umana e l’avvento della gioia sabbatica, all’umanità ha fatto dono dell’ariete, destinato a sostituire Isacco sull’altare sacrificale (Genesi 22). È il corno di quell’ariete a echeggiare ogni volta che lo shofar fa udire la sua voce, ricordando che con i lacci che lo legarono sull’altare Isacco accettò i lacci dei precetti divini che regolano la vita generando vita. Così l’ebreo deve costantemente aderire a quei precetti per vivere e non morire: l’universo e il suo essere sono anche stati creati per mezzo di quei precetti, da Dio affidati poi a Mosè con il compito di insegnarli al popolo e di raccoglierli nel grande insegnamento della Torah (la Legge).
Il sovrapporsi dei diversi eventi, gli sfalsamenti tra i loro effettivi tempi di accadimento non devono stupire. Il concetto ebraico di tempo risponde a logiche diverse dalla logica storica occidentale, epperò anche indispensabili proprio alla comprensione dei singoli eventi della storia, soprattutto se collegati a ebraiche ricorrenze e festività. Pur celebrando eventi specifici e perciò suscitando memorie e riti ad essi peculiari, nessuna festa o ricorrenza può essere compresa e vissuta senza tener conto delle altre, perché tutte sono fra loro connesse dallo spirito di quei precetti. Tutte a cominciare dal Rosh hashanah: il Capodanno che ricorda insieme la creazione del mondo e i lacci da Isacco accettati sull’altare.
Perché i precetti sono il respiro della Torah eterna con le cui lettere è stato creato il mondo, e che eternamente arde di fuoco nero sul bianco fuoco del grembo divino. Le sue lettere, essendo fiamme, nei venti del tempo variano continuamente di forma, mentre le lettere della Torah scritta da Mosè hanno la fissa linearità della scrittura umana. La Torah scritta va quindi costantemente integrata dalla Torah orale: quello studio o Talmùd che vive delle ormai millenarie speculazioni e discussioni con le quali i Maestri aggiornano i precetti per adeguarli a tempi e luoghi del vivere ebraico, insieme sviscerandone le storie con fiori di amorosa fantasia.
Uno di questi fiori insegna che a Rosh ha-shanah il Giudice supremo spalanca il libro della vita, il libro della morte e quello dei giudizi sospesi, per registrare nel primo i giusti, nel secondo i malvagi e nel terzo quanti non sono malvagi, ma neppure proprio giusti. Non li registra però subito, perché sa quanto sia difficile per gli esseri umani riconoscere i propri torti. Aprendo quei libri al suono dello shofar che proclama l’inizio dell’anno, Egli dà l’avvio ai dieci Jamìm Noraìm o Giorni tremendi, che di nuovo al suono dello shofar si concluderanno alla fine dello Jom Kippur o Giorno dell’espiazione.
A Rosh ha-shanah è bene mangiare delle fettine di mela intinte nel miele, perché la dolcezza del miele sia di buon auspicio all’anno che deve iniziare con un così severo autogiudizio, e la freschezza del frutto mantenga vivi i risultati del giudizio nella memoria e nelle intenzioni. In questi giorni, detti anche Giorni del suono per via dello shofar che li chiude fra due parentesi, nei pressi delle sinagoghe una campanella annuncia l’ora delle Selichòt, poetiche invocazioni di perdono che precedono il culto mattutino fondendosi alle lodi di Colui che leggendo nei cuori sa in quanti di essi e fino a che punto il processo d’espiazione segua l’auspicato corso.
Il rito del Tashlich o « gettamento », che nel pomeriggio del primo giorno porta gli ebrei a svuotarsi le tasche nel più vicino fiume o ruscello pregando che l’acqua porti i peccati in fondo al mare, non deve significare un gettarsi alle spalle le azioni da dimenticare. Con l’inizio dell’anno esso pubblicamente rinnova l’assunzione di responsabilità nei confronti del Creatore, nella piena consapevolezza che le sue creature assolvono le offese arrecate alla sua Maestà, solo dopo che hanno fra loro regolato ogni debito e riparato a ogni danno e insulto, sinceramente chiedendo perdono e perdonando. L’assunzione di responsabilità deve inoltre sconfinare dal privato al collettivo: la mancanza di uno solo può avvelenare l’intera società, perché ignorarla, oppure tollerare che altri ne soffrano, equivale a rendersene correi.
Lungi dall’allontanare, il rigore dei Giorni tremendi ha il potere di rinsaldare il cordone ombelicale che lega gli ebrei fra loro e all’ebraismo. Ecco infatti, nello Jom Kippur, comparire in sinagoga avvolti nel tallet (uno scialle bianco bordato di frange, che gli ebrei indossano al momento della preghiera; il numero dei nodi delle frange simboleggia il Nome di Dio) anche i più tiepidi e i più distratti. Eccoli, impalliditi non solo dal totale digiuno che caratterizza questo giorno, cercare una persona cara da benedire o dalla quale farsi benedire, perché quando le famiglie si riuniscono in grappoli, mentre l’officiante invoca il Nome per eccellenza, restare isolati è come essere soli nell’universo. Il suono dello shofar scioglie infine ogni tensione e, fra abbracci, strette di mano e sorrisi di perdono concessi e ricambiati, si canta la preghiera di Ne’ilah o chiusura: «Spalanca dall’alto la porta della misericordia, e accogli gli integri prima che si chiuda la porta di (questo) giorno».
Si racconta che il Kippur era appena trascorso quando Rabbi Shammaj (Shammaj ha-Zaken, detto « l’anziano », 50 a.C.-30 d.C.; fu uno dei grandi capi morali e religiosi del suo tempo) prese scala e attrezzi da muratore e andò a scoperchiare la camera dove una nuora amatissima stava per partorire, per ricoprirla poi subito con un tetto di fronde, frutta e fiori. Non era impazzito: come tutto Israele, avvertiva l’approssimarsi del 15 di Tishrì e con esso l’arrivo della Festa delle capanne: la Chag ha-Succoth, detta anche Chag ha-Assif per via del raccolto, che in Israele ha luogo e si festeggia in questo periodo dell’anno. Anche Zeman Simchatenu o « tempo della nostra gioia » è detto questo periodo, per la grande allegria che porta con sé, della quale Rabbi Sham-maj voleva che nuora e nipote potessero cogliere almeno gli echi. In quell’epoca lontana il Tempio di Gerusalemme era meta di festosi pellegrinaggi, e la città tutto un germogliare di capanne fronzute dove la gente andava ad abitare come prescritto in Levitico 30. Oggi, e soprattutto nella diaspora, nei sette giorni di Succoth qualunque terrazza, giardino od orticello può servire all’uopo, ma chi non ne dispone può comunque beneficiare della capanna comune offerta dalla più vicina sinagoga. L’importante è consumarvi almeno un pasto al giorno e lì studiare, conversare e ricordare, avendo sulla testa un tetto che lasci vedere il cielo; intorno, pareti adorne dei fiori e della frutta di cui l’autunno è prodigo; e nell’anima una sicurezza che dipende dalla fiducia nella misericordia dell’Eterno molto più che in qualsiasi struttura di cemento armato.
A Succoth infatti, e nelle sue capanne, l’ebreo torna ad affidarsi al Signore così come gli si affidò uscendo dall’Egitto, e celebra i doni da lui ricevuti nel deserto finché, nel giorno settimo e conclusivo, corre in sinagoga agitando un fascio di rami di cedro, palma, mirto e salice detto Lulav,e lì esplode nei canti di Oshannàh Rabbà: la Grande Osanna, le cui invocazioni di aiuto e salvezza si mescolano alle lodi di Colui che tutti aiuta. Segue Sheminì Azeret, il 18 del mese, dedicato alle preghiere per la pioggia dalla quale ogni fertilità dipende, e le ricorrenze d’inizio d’anno si concludono infine il 19 di Tishrì con Simchat Torah. Gioia della Torah è chiamato questo giorno nell’officiatura del quale, con un’enfasi che ne sottolinea l’importanza, il ciclo delle letture settimanali della Torah termina e ricomincia grazie a due particolarissimi sposi. Al Chatàn Torah o Sposo della Torah, per speciali meriti che l’hanno distinto nel corso dell’anno, è affidata la lettura dell’ultimo brano, mentre la lettura del primo, quale incoraggiamento per il futuro, è affidata a un giovane detto Chatàn Bereshit o Sposo dell’inizio. Il susseguirsi delle due letture sottolinea la circolarità del Testo per eccellenza, e del suo insegnamento superiore a ogni tempo, che nei cicli della storia non deve subire interruzioni.
Tanto spazio dedicato alle sole festività del mese di Tishrì può far attribuire loro un’importanza sproporzionata rispetto alle altre feste e ricorrenze. Se infatti il Capodanno ricorda la creazione degli elementi di cui consta il mondo, è Pesach, la Pasqua, a portare con sé le leggi che ne regolamentano l’uso, e i Maestri d’Israele insegnano che il miracolo della creazione spiega il dono della Legge sul Sinai, in quanto da esso viene spiegato. Un gioco al rimbalzo, quindi, per orientarsi nel quale è più facile procedere per nessi che non basarsi su un calendario che pone Pesach nel mese di Nissan (corrispondente a marzo-aprile del calendario gregoriano), il quale a sua volta merita un discorso a parte proprio come il mese di Tishrì.
Giacoma Limentani
Le feste ebraiche si suddividono in tre grandi categorie: le « feste del pellegrinaggio » (Pesach, Shavuot e Succoth), le « feste solenni » (Rosh ha-shanah e Kippur), le « feste non solenni » (Purim e Hannukka).
Le « feste del pellegrinaggio ». All’epoca in cui il Tempio costituiva il centro della vita religiosa, gli ebrei si recavano in pellegrinaggio a Gerusalemme in tre diverse occasioni dell’anno: Pesach, Shavuot, Succoth. Pesach, Pasqua, cade solitamente durante il mese di aprile e ricorda la liberazione degli ebrei dalla schiavitù in Egitto. Shavuot, « festa delle settimane o pentecoste », viene celebrata esattamente cinquanta giorno dopo la Pasqua e ricorda la consegna delle Tavole della Legge sul Sinai. Succoth, o « festa delle capanne », ricorda i quarant’anni di permanenza nel deserto del popolo d’Israele durante l’esodo verso la terra promessa (accanto: la preghiera nel giorno di Succoth).
Le feste ebraiche nel 1999.
Purim, martedì 2 marzo; Pesach, giovedì 1° aprile; Shavuoth, venerdì 21 maggio; Rosh ha-shanah, sabato 11 settembre; Kippur, lunedì 20 settembre; Succoth, sabato 25 settembre; Hannukka, sabato 4 dicembre.
Le « feste solenni ».
Rosh ha-shanah, Capodanno. È la festa che ricorda la creazione del mondo. In questa festività, chiamata anche « giorno del giudizio » e « giorno dello shofar », gli ebrei sono invitati a un profondo « esame di coscienza ». Dieci giorni dopo, cade la festa di Kippur, il « giorno del perdono », consacrato alla preghiera e alla meditazione, e scandito da un digiuno completo che dura venticinque ore. In occasione della festa di Kippur l’ebreo è chiamato a perdonare i torti subiti e a chiedere il perdono di Dio e degli uomini per il male che può aver causato.
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