Archive pour août, 2010

IL RITRATTO DELL’UOMO IN GN 2,4B-25

dal sito:

http://www.paroledivita.it/upload/2007/articolo2_28.asp

IL RITRATTO DELL’UOMO IN GN 2,4B-25
 
Michelangelo Priotto

Con il capitolo secondo (la nuova unità inizia al v. 4b) il redattore biblico, abbandonato lo stile solenne e liturgico della precedente narrazione sacerdotale (1,1-2,4a), introduce il lettore in un nuovo racconto, un grande affresco dai colori vivaci e pittoreschi, nel quale descrive con rara bellezza la figura centrale del creato: l’uomo. È lui infatti il protagonista ed è attorno a lui e su di lui che si disegna il progetto divino della creazione. Il precedente racconto della creazione colloca certamente l’uomo al culmine dell’opera divina, ma il vertice della narrazione è costituito senza dubbio dal sabato, meta e ideale di tutta la creazione; l’accento è profondamente teocentrico!

Il racconto di Gn 2 invece pone al centro l’uomo; è lui che entra in scena per primo ed è con lui che tutto il creato riceve senso. Prima di lui non c’era ancora l’elemento fecondatore e datore di vita: l’acqua; è a partire da lui che le creature ricevono il nome e sono umanizzate.

L’uomo tratto dalla terra
Il racconto ci offre anzitutto una descrizione particolarmente attenta dell’essere umano[1]:

Allora il Signore Dio plasmò l’uomo, polvere dal suolo,
e soffiò nelle sue narici un alito di vita,
e l’uomo divenne un essere vivente (Gn 2,7).

Il versetto è articolato su tre proposizioni in ordine ascendente. Nella prima si evidenzia la dimensione terrestre dell’uomo; nella seconda si descrive plasticamente il dono da parte di Dio di uno spirito di vita; infine la conclusione dell’azione creatrice di Dio: l’uomo è diventato un essere vivente. Con un forte antropomorfismo si evidenzia il fatto che l’uomo riceve da Dio la sua consistenza e la sua vitalità.
La materia da cui l’uomo è tratto è interamente terrena; nelle sue vene non scorre il sangue di un dio immolato e neppure è formato dalle lacrime della divinità solare. L’autore biblico determina con precisione la materia da cui l’uomo viene formato: si tratta anzitutto della «polvere» (‘apar), ulteriormente specificata come «polvere dal suolo»[2]. È significativo che la prima dimensione dell’uomo sia costituita dalla comune appartenenza alla terra; il termine «polvere» infatti è intimamente connesso col sostantivo «terra», di cui esprime lo stato di porosità, di mollezza.
Si comprende allora perché l’uomo sia chiamato ‘adam; è tratto infatti dalla ‘adamah, cioè dalla terra rossastra della steppa. La specificazione ulteriore di polvere sottolinea ancora di più l’aspetto fragile ed effimero dell’uomo. La conferma viene dalla parola finale che Dio rivolge all’uomo dopo l’esperienza del peccato:

Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra (‘adamah), perché da essa sei stato tratto: polvere (‘apar) tu sei e in polvere tornerai (Gn 3,19).

Da subito dunque l’uomo esce dalle mani di Dio come essere fragile e debole, definito dall’orizzonte della finitezza e della caducità, come viene ripetutamente confermato dalla tradizione biblica:

Le tue mani mi hanno plasmato… Ricordati che come l’argilla mi hai plasmato e in polvere mi farai tornare (Gb 10,8-9).
Come l’argilla nelle mani del vasaio, che la forma a suo piacimento, così gli uomini nelle mani di colui che li ha creati (Sir 33,13)
Perché egli sa di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere (Sal 103,14).

Tuttavia questa parentela con la terra non è negativa, non significa frutto del peccato, perché l’uomo è creato da Dio. Essa è segno dell’infinita libertà di Dio e della dipendenza dell’uomo da lui, come ci ricorda Paolo:

Oserà forse dire il vaso plasmato a colui che lo plasmò: «Perché mi hai fatto così?». Forse il vasaio non è padrone dell’argilla, per fare con la medesima pasta un vaso per uso nobile e uno per uso volgare? (Rm 9,20-21).

Un’interessante spiegazione midrashica[3] connette la terrestrità dell’uomo con l’altare che Dio ordinò a Mosè di costruire con la terra: «L’uomo fu creato dal luogo della sua espiazione, come sta scritto: “Mi farai un altare di terra” (Es 20,24). Disse il Santo, benedetto egli sia: “Ecco, io lo creo dal luogo della sua espiazione, così forse sussisterà”» (Gen. Rabbah XIV,8). In questo commento rabbinico si evidenzia come sia l’uomo il luogo dell’offerta a Dio, l’uomo creato dalla terra, vero altare gradito a Dio, preannuncio di una creazione inscindibilmente connessa con il suo perdono.

Il soffio di vita

L’uomo è dunque frutto della terra, ma non ne è il figlio, perché la sua creazione è opera di Dio. Questa nuova dimensione lo differenzia radicalmente dagli animali: anch’essi provengono dalla terra (cf. Gn 2,19), ma c’è nell’uomo un soffio di vita che viene da Dio! Per l’uomo biblico la vita si manifesta essenzialmente nel respiro (neshamà); infatti è proprio il respiro che lo caratterizza come essere vivente (cf. Gb 27,3: «…finché ci sarà in me un soffio-neshama di vita e l’alito di Dio nelle mie narici»).
Ora questo respiro mostra l’uomo in connessione inscindibile con Dio; è lui infatti che fa scendere sulla creatura fatta di terra un soffio, uno spirito di vita. Se la tradizione patristica ha spesso e volentieri interpretato questo soffio di vita come l’anima razionale e spirituale dell’uomo[4], il gesto di Dio significa il conferimento della vita alla materia da lui plasmata. Ma non si tratta soltanto di una vivificazione della materia, cosa che avviene anche per gli animali, bensì di un dono particolare con cui Dio partecipa all’uomo il suo spirito, la sua vita.
L’uomo diventa così un «essere (nefesh) vivente». Nefesh è un termine biblico molto usato e ricco di significati[5]: nel nostro passo, a conclusione dell’opera creativa di Dio, nefesh definisce espressamente l’uomo. Di per sé l’espressione «essere vivente» definisce pure gli animali (cf. Gn 2,19), ma nel nostro testo è il contesto a conferire all’espressione il suo significato peculiare. L’uomo è un essere vivente non semplicemente perché formato dalla polvere del suolo, ma perché Dio soffia nelle sue narici l’alito di vita; è soltanto questo dono del Creatore a fare dell’uomo una nefesh vivente, cioè una persona viva.
La tradizione biblica è unanime nell’affermare che l’uomo non esiste in virtù di una propria consistenza, ma solo in virtù di un dono di Dio gratuito e sempre da rinnovarsi; infatti se egli ritira questo dono, l’uomo torna alla polvere:
Lo spirito di Dio mi ha creato e il soffio dell’Onnipotente mi dà vita (Gb 33,4).
 Se egli (Dio) richiamasse il suo spirito a sé e a sé ritraesse il suo soffio, ogni carne morirebbe all’istan-te e l’uomo          ritornerebbe in polvere (Gb 34,14-15)
Se nascondi il tuo volto, vengono meno, togli loro il respiro, muoiono e ritornano nella polvere. Mandi il tuo spirito, sono creati e rinnovi la faccia della terra (Sal 104,29-30).
Concludendo, questi tratti antropomorfici e apparentemente ingenui rivelano in realtà una profonda e ricca concezione dell’essere umano, soprattutto se paragonata con la cultura circostante. Viene sottolineata anzitutto la dimensione terrestre dell’uomo, contro ogni tentazione spiritualistica: egli non è un angelo né deve aspirare a esserlo, neppure dopo morte[6]! L’insistenza letteraria con cui l’autore richiama questo dato traspare dal vocabolario dei vv. 4b-7, dove «terra» e i termini affini (suolo, campestre, polvere) ricorrono dieci volte! Senza l’uomo la terra è come in attesa; essa attende la sua pienezza e la può ricevere soltanto dalla presenza dell’uomo.
Se questo dato primordiale della parentela dell’uomo con la terra ne rimarca la fragilità e il limite, un’altra e decisiva dimensione ne esalta la grandezza: la parentela con Dio! Infatti lo spirito che dà vita all’uomo fatto di terra è lo spirito che viene da Dio, per cui l’uomo è partecipe della stessa vita divina. Con ciò si dice la vocazione dell’uomo, che, sebbene ritorni con la morte alla polvere originaria, è chiamato a una piena comunione con Dio. È questo un dato che percorrerà tutto il cammino della rivelazione; per adesso si tratta di un’intuizio-ne, che il decorso della narrazione biblica spiegherà in tutta la sua bellezza e profondità.

La casa di Dio e dell’uomo

Quanto detto sopra circa la partecipazione dell’uomo allo spirito vitale di Dio, viene poi descritto plasticamente nei versetti seguenti con la narrazione del giardino di Eden (Gn 2,8-15). È evidente il significato simbolico del giardino di Eden, nel contesto di una profonda riflessione sapienziale. L’autore biblico cerca di illustrare plasticamente il significato della partecipazione dell’uomo allo spirito di Dio e della conseguente comunione con lui: l’uomo vive questa comunione entrando nel giardino di Eden, la casa di Dio appunto. Non vi entra per diritto o con le sue forze, ma unicamente in grazia di un dono gratuito; Dio infatti lo prende dalla terra dove era stato creato e lo colloca nel giardino.
Questo è quanto ha sperimentato Israele, passando dal deserto alla terra. Inoltre, soprattutto alla luce dell’esilio, il successivo approfondimento del significato della terra promessa, allargherà l’orizzonte al piano escatologico: il giardino di Eden diventa allora, specialmente nella predicazione profetica (cf., ad esempio, Is 51,3; Ez 36,35), il simbolo del regno di Dio e a partire dalla tradizione dei LXX fino al Nuovo Testamento il simbolo stesso del paradiso[7].
Gn 2,15 specifica ulteriormente il gesto di Dio che colloca l’uomo nel giardino di Eden: il verbo «prese» (laqach) sottolinea ancora una volta come l’entrata dell’uomo nel giardino non sia avvenuta per via naturale, ma solo per l’iniziativa gratuita di Dio. Conferma questa interpretazione l’uso del medesimo verbo per descrivere l’assunzione di Enoc nel mistero di Dio al termine della sua vita terrena (cf. Gn 5,24), così come quella di Elia (cf. 2Re 2,10) e quella del salmista (cf. Sal 49,16).
Lo scopo è il lavoro e la custodia del giardino: un’esistenza umana senza lavoro non sarebbe pienamente umana. Emerge qui da parte dell’autore una forte demitizzazione del lavoro e un’evidente polemica nei confronti del mondo circonvicino; l’uomo infatti non rapisce nessun fuoco agli dèi né egli è stato formato per sostituire il loro lavoro o per essere loro schiavo nei servizi più umili, ma per umanizzare il creato, conservandolo con responsabilità, ma anche facendolo progredire. Il lavoro dunque non è una condanna, ma una dignità; sarà solo il peccato a renderlo alienante e oppressivo.

La sfida della relazione

Volgendo di nuovo lo sguardo all’uomo, l’autore biblico pone in bocca a Dio un’espressione chiave dell’intera narrazione:

Non è bene (tob) che l’uomo (ha’adam) sia solo:
gli voglio fare un aiuto che gli sia simile (Gn 2,18).

L’imposizione del nome agli animali significa simbolicamente l’affermazione di un’autorità, di un potere, di una responsabilità. Nella mentalità semitica, sappiamo, il nome esprime il senso profondo di una realtà; dunque l’uomo, imponendo il nome agli animali, comincia a ordinare il creato, a conoscere questo mondo apparentemente a lui simile, ma anche e soprattutto a capirne l’intima diversità. Se l’uomo al termine dell’avventura conoscitiva del mondo animale non trova «un aiuto che gli sia simile» (Gn 2,20), significa che l’animalità che è in lui non lo costituisce pienamente uomo! Sarà una tentazione ricorrente nella sua storia quella di auto-comprendersi soltanto come animale, ma l’accondiscendenza a questa prospettiva costituirà per lui anche e soprattutto un degrado e una sconfitta. Soltanto il dono della donna, cioè di un essere che possa stare davanti a lui, potrà realizzare una comunione personale che trascenda radicalmente l’accoppia-mento animale[8].
Seguendo il cammino finora percorso, possiamo notare che l’autore biblico descrive l’uomo soprattutto come un essere di relazione. Si tratta di una dimensione molteplice, descritta in forma ascendente: dapprima viene messa in risalto la relazione profonda che l’uomo ha con la terra, relazione indelebile, anche dopo morte. La seconda relazione che il racconto biblico ci descrive, fondamentale per la comprensione dell’essere umano, è la relazione con Dio: soffiando nell’uomo un alito di vita, Dio lo rende partecipe del suo spirito, della sua vita. La comunione con Dio è iscritta nello stesso atto costitutivo dell’uomo! Essa viene poi specificata dall’in-troduzione dell’uomo nel giardino e nel dono della legge, per evidenziare che il rapporto con Dio deve basarsi sull’esercizio di una libertà concepita come dono e responsabilità.
Il rapporto con gli animali apre all’uomo il dominio del creato e l’accesso alla scienza; tuttavia questa dimensione dell’animalità, pur nel riconoscimento della sua importanza, non realizza ancora nell’uomo l’ideale per cui Dio l’ha creato; questo sarà possibile soltanto nell’incontro con la donna. È questa la relazione fondamentale dell’uomo, la relazione che dà senso alle altre relazioni.

«E i due saranno una sola carne»

Il racconto della creazione dell’uomo si conclude con un ultimo passaggio fondamentale:

Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne (Gn 2,24).

Il senso ovvio dei due verbi «abbandonare» e «unirsi» indica il movimento dell’uomo adulto che si distacca dalla sua famiglia per formarne una nuova. La costruzione «unirsi a…» (in ebraico: dabaq be) sottolinea una relazione interpersonale, molto profonda, che va oltre il semplice rapporto sessuale[9]. Dunque l’unità uomo-donna è più forte del legame tra genitori e figli; è questa relazione fondamentale con la donna che permette all’uomo la realizzazione piena del suo essere. La relazione con Dio non viene sminuita, perché è Dio stesso che conduce la donna all’uomo, realizzando così il suo progetto di «uomo comunitario».
Accogliendosi reciprocamente l’uomo e la donna diventano «una sola carne». Il termine ebraico che traduce «carne» è basar. Esso pone in evidenza anzitutto, ma non esclusivamente, la materialità o la corporeità dell’uomo; tuttavia solo molto di rado è possibile tradurre «carne» con «corpo». Nel linguaggio biblico «carne» indica per lo più l’uomo nella sua interezza, sebbene l’aspetto della corporeità vi predomini. Si tratta di un’ulteriore conferma che l’espressione di Gn 2,24 non va intesa unicamente come unione sessuale; essa indica piuttosto la totalità psicho-fisica del legame maschio-femmina verso un unico essere umano. Il termine basar dunque comprende la persona umana nella sua pienezza, sebbene parta dalla sua corporeità.
Concludendo, questa pagina della Genesi ci offre, attraverso un racconto ricco di simboli e di poesia, un’antropologia dell’uomo straordinaria e profonda, quale poteva venire soltanto da Dio. Legato alla terra, dalla quale egli proviene, l’uomo biblico appare come un essere chiamato alla comunione con Dio, con cui condivide il soffio vitale. Questa comunione con Dio si realizza nell’esercizio di una libertà che, vietandogli ogni assolutizzazione delle creature, gli indica invece il vero rapporto con esse. È nella relazione interpersonale uomo-donna che l’essere umano raggiunge il proprio ideale, in una relazione cioè che, oltrepassando l’ambito puramente sessuale, lo conduce a una comunione che è segno dello stesso amor di Dio.

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[1] Gli studi sull’antropologia biblica sono numerosi. Per quanto riguarda il presente articolo, si veda in particolare E. Jenni – C. Westermann (edd.), Dizionario teologico dell’Antico Testamento, voll. I-II, Marietti, Torino 1978-1982, alle voci: ‘adam – ‘adamah, ‘apar, nepesh, neshamah, basar. Cf inoltre: H.W. Wolff, Antropologia dell’Antico Testamento, Queriniana, Brescia 1975; A. Deissler, L’uomo secondo la Bibbia, Città Nuova, Roma 1989; E. Bianchi, Adamo dove sei? Commento esegetico-spirituale ai capitoli 1-11 del libro della Genesi, Qiqajon, Magnano 1994.
[2] La traduzione della CEI: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo», non rispecchia fedelmente la lettera del testo ebraico, il quale non dice che Dio plasmò l’uomo «con polvere del suolo», ma che «plasmò l’uomo, (che è) polvere dal suolo»!
[3] Testo citato da Bianchi, Adamo, dove sei?, 163.
[4] Giovanni Crisostomo, ad es., nelle sue omelie sulla Genesi così commenta: «Con il suo soffio gli ha fatto dono dell’anima incorporea» (Omelie sulla Genesi XIV).
[5] Per una trattazione esaustiva del significato biblico di nefesh cf. Wolff, Antropologia, 18-39. Compare 775 volte nell’Antico Testamento e significa: gola, collo, desiderio, anima, vita, persona, pronome personale.
[6] La corporeità è un elemento talmente costitutivo dell’uomo che l’accompagna, sebbene in una forma nuova, anche nell’eternità. Infatti quando nell’Antico Testamento si viene delineando la convinzione di fede, secondo cui Dio con la morte non pone all’uomo un limite assolutamente invalicabile, questa convinzione non è intesa come immortalità dell’anima, bensì come risurrezione dei morti (cf. Is 26,19; Dn 12,2).
[7] Nella traduzione di Gn 2,8 i LXX rendono l’ebraico gan (giardino) con parádeisos, termine di derivazione persiana (pairi-daeza = vallo di cinta, parco rinchiuso da un vallo), che significa parco, frutteto. Nella tradizione giudaica intertestamentaria designa il luogo di premio e di benessere che accoglierà i giusti dopo la morte, concezione ripresa poi dal Nuovo Testamento: «Al vincitore darò da mangiare dell’albero della vita, che sta nel paradiso di Dio» (Ap 2,7).
[8] L’approfondimento di questo aspetto verrà offerto in un articolo del prossimo fascicolo di Parole di vita, dedicato appunto all’incontro uomo-donna.
[9] Il Deuteronomio usa questa espressione per esprimere il rapporto del popolo con Dio; vedi, ad es., Dt 4,4 e 10,20, dove la stessa espressione ebraica dabaq be è stata tradotta in italiano con «mantenersi fedeli» o «restare fedeli».

Martedì 03 Agosto 2010 : XVIII Settimana del Tempo Ordinario – commento

dal sito:

http://liturgia.silvestrini.org/commento/2010-08-03.html?keepThis=true&TB_iframe=true&height=450&width=650

Martedì 03 Agosto 2010 : XVIII Settimana del Tempo Ordinario

COMMENTO

 LETTURE: Ger 30,1-2.12-15.18-22; Sal 101; Mt 14, 22-36.

Quel che rende puro o impuro…

È una autentica tentazione, tra l’altro ricorrente nella storia, quella di restare legati e vincolati alle tradizioni degli antichi senza accorgersi delle novità che sopraggiungano. Si rischia così di cadere in un precoce invecchiamento dello spirito, una specie di ottenebramento mentale e ancor peggio, in atteggiamenti di critica assurda anche della migliori novità. Ecco gli scribi che, ancora una volta, lanciano i loro miseri strali verso gli apostoli e verso il Signore. Come possono in quello stato di colpevole cecità accorgersi della novità del messaggio che Egli sta annunciando? Dovrebbero essere loro le guide sagge e illuminate, sono invece ciechi e guide di ciechi. Cristo è la novità prima ed ultima. È la rivelazione della gloria del Padre. Il testimone della sua misericordia: è venuto a fare nuove tutte le cose; Egli è il Figlio di Dio, ma solo nell’umiltà della fede lo si riconosce come tale e non sicuramente nell’arroganza e nella critica gratuita. Gesù coglie l’occasione per ricordarci che non siamo inquinati dal cibo che prendiamo o dalla mancanza di un rito di abluzione, ma dai pensieri malvagi che sgorgano da un cuore inquinato. C’è poi in questo brano un forte richiamo per tutti i credenti, ma particolarmente per coloro che hanno ricevuto o si arrògano il compito di educare, di annunciare le verità supreme e di essere testimoni credibili di quelle verità. Criticare e blaterare dai vari pulpiti è fin troppo facile, essere sempre coerenti con quanto si annuncia richiede sacrificio, molta preghiera e una particolare illuminazione dello Spirito Santo. Ci dia il Signore la grazia di rispondere sempre più fedelmente a questo compito.

Origene : « Passiamo all’altra riva » (Lc 8,22)

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100803

Martedì della XVIII settimana delle ferie del Tempo Ordinario : Mt 14,22-36
Meditazione del giorno
Origene (circa 185-253), sacerdote e teologo
Commento al vangelo di Matteo, 11, cap. 5-6 ; PG 13, 913 ; SC 162

« Passiamo all’altra riva » (Lc 8,22)

« Gesù ordinò ai suoi discepoli di salire sulla barca e di precerderlo sull’altra sponda, mentre egli avrebbe congedato la folla ». La folla non era in grado di partire verso l’altra sponda, visto che essa non era Ebrea, nel senso spirituale della parola che si traduce : « La gente dell’altra riva ». Questa invece era il compito dei discepoli di Gesù : partire per l’alta riva, superare quello che è visibile e corporeo, queste realtà temporanee, e giungere per primi a quelle cose invisibili ed eterne…

I discepoli, tuttavia, non hanno potuto precedere Gesù sull’altra sponda… Egli voleva forse insegnare loro con l’esempio che senza di lui non era possibile giungervi… Cos’è questa barca nella quale Gesù ordina ai suoi discepoli di salire ? Non sarà forse la lotta contro le tentazioni e le circostanze difficili ?… Lui, il Salvatore, ordina dunque ai discepoli di salire sulla barca delle prove per giungere all’altra riva, superando le circostanze difficili mediante la sua vittoria su di esse…

Poi è salito sul monte, solo, a pregare. In favore di chi prega ? Probabilmente, in primo luogo per la folla, affinché, congedata dopo aver mangiato i pani benedetti, non faccia nulla di contrario all’invio di Gesù. Per i dicepoli in seguito, … affinché sul mare, non soffrano a causa delle onde, né per il vento contrario. Ho voglia di dire che proprio grazie alla preghiera che Gesù rivolge a suo Padre, i discepoli non patirono danni sul mare.

Se quando siamo soggetti al pericolo delle tentazioni, ci ricordassimo che il Signore ci ha obbligati a imbarcarci, perché vuole che lo precediamo sull’altra riva ! Chi non ha sopportato la prova dei flutti e del vento contrario, è impossibile che giunga all’altra riva. Perciò quando ci vediamo accerchiati da numerose difficoltà, e stanchi ci troviamo immersi in esse, pensiamo che la nostra barca sta in mezzo al mare, sbattuta dai flutti, che vorrebbero vederci « naufragare nella fede » (1 Tm 1,19)… Siamo certi che all’arrivo della quarta ora, quando « la notte è avanzata e il giorno è vicino » (Rm 13,12), si accosterà a noi il Figlio di Dio camminando sul mare per rendercelo tranquillo.

La Madonna col Bambino “ferita”. Lecce come Bisanzio: la devozione alla Vergine Maria

La Madonna col Bambino “ferita”. Lecce come Bisanzio: la devozione alla Vergine Maria dans immagini sacre 3747063478_30339d52a8

http://culturasalentina.wordpress.com/2009/05/27/la-madonna-col-bambino-ferita-lecce-come-bisanzio-la-devozione-alla-vergine-maria/

Publié dans:immagini sacre |on 2 août, 2010 |Pas de commentaires »

Salmo 46, Dio è con noi

dal sito:

http://www.padrelinopedron.it/data/edicola/Padre%20Lino%20Pedron%20-%20Salmi/SALMO%20046.doc

SALMO 46

46 (45) Dio è con noi

1 Al maestro del coro. Dei figli di Core. Su «Le vergini…». Canto.
2 Dio è per noi rifugio e forza,
aiuto sempre vicino nelle angosce.
3 Perciò non temiamo se trema la terra,
se crollano i monti nel fondo del mare.
4 Fremano, si gonfino le sue acque,
tremino i monti per i suoi flutti.
5 Un fiume e i suoi ruscelli rallegrano la città di Dio,
la santa dimora dell’Altissimo.
6 Dio sta in essa: non potrà vacillare;
la soccorrerà Dio, prima del mattino.
7 Fremettero le genti, i regni si scossero;
egli tuonò, si sgretolò la terra.
8 Il Signore degli eserciti è con noi,
nostro rifugio è il Dio di Giacobbe.
9 Venite, vedete le opere del Signore,
egli ha fatto portenti sulla terra.
10 Farà cessare le guerre sino ai confini della terra,
romperà gli archi e spezzerà le lance,
brucerà con il fuoco gli scudi.
11 Fermatevi e sappiate che io sono Dio,
eccelso tra le genti, eccelso sulla terra.
12 Il Signore degli eserciti è con noi,
nostro rifugio è il Dio di Giacobbe.

È il salmo della fede intrepida, della certezza della presenza del Dio-Emmanuele col suo popolo, della sicurezza incrollabile. S. Giovanni Crisostomo ha scritto: « Quel Dio che è grande dappertutto ed elevato dappertutto, è lo stesso Dio che è con noi. Non temete dunque, non turbatevi, perché avete con voi un Signore invincibile ».
Fin dalla sua prima battuta il salmo enuncia l’atteggiamento fondamentale con cui si deve contemplare Sion, quello della fiducia e della sicurezza. « A Gerusalemme l’ebreo si sente a casa sua geograficamente ma soprattutto storicamente, lì è all’interno della sua storia. Tuttavia, su un altro piano, Gerusalemme dovrebbe essere dovunque l’uomo aspira alla pace, dovunque il cuore s’apre alla preghiera, alla generosità, alla riconoscenza » (E. Wiesel).
La base di ogni fiducia è nella presenza di Dio in mezzo a noi. Il Cristo è la presenza di Dio che « si è fatta carne e ha posto la sua tenda in mezzo a noi » (Gv 1,14), così da « essere con noi per sempre, sino alla fine del mondo » (Mt 28,20). « Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno il suo popolo ed egli sarà il « Dio-con-loro » (Ap 21,3).
Ed è con questa presenza che noi affrontiamo le tempeste del male e della morte senza paura. « Io non ti lascerò, né ti abbandonerò! Perciò possiamo dire: Il Signore è il mio aiuto, non avrò timore » (Eb 13,5-6).
Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati! » (Rm 8,35-37).
Commento dei padri della Chiesa
v. 3 « I monti che crollano nel fondo del mare sono poca cosa, dice il vangelo (Mt 17,19) » (Ambrogio).
« Le acque del mare sono simbolo delle potenze infernali, sconvolte dalla venuta del Signore e dai suoi miracoli » (Eusebio).
« La predicazione del vangelo ha sconvolto le genti » (Atanasio).
v. 5 « La provvidenza di Dio è come un fiume le cui braccia giungono ovunque » (Crisostomo).
« La sorgente del fiume di giustizia, dell’Unigenito, è il Padre che l’ha generato » (Cirillo di Gerusalemme).
« Il fiume è il simbolo dell’acqua e del sangue sgorgati dal costato trafitto del Signore. È quello il fiume dell’Eden che si diffonde in tutta la terra, lava i peccati, irriga la città di Dio e ogni anima » (Ambrogio).
« Fiumi di acqua viva… disse questo dello Spirito santo che dovevano ricevere (Gv 7,38) » (Agostino).
« Questo fiume è la sovrabbondanza di gioia e di pace descritti dal salmista: « Un fiume e i suoi ruscelli rallegrano la città di Dio »; e ancora: « Si saziano dell’abbondanza della tua casa e li disseti al torrente delle tue delizie » (Sal 36,9). Isaia consolava così i figli di Gerusalemme: « Ecco, io rivolgo verso di lei la pace, come un fiume, e la gloria delle genti come un torrente traboccante » (66,12). Questo fiume è il Signore stesso, è lo Spirito santo. Lo Spirito santo è questo fiume di pace, questo torrente di gloria, questa onda di gioia, questo fluire della beatitudine, questa sovrabbondanza che trabocca dalla casa di Dio. È infatti l’amore stesso dello sposo e della sposa nella città gloriosa. Tutta la felicità di questa vita e di questa città, che altro potrebbero essere se non questo amore? Di questo amore vivono tutti i santi angeli e tutte le anime di tutti i santi. Ecco perché il profeta, dopo aver detto: « Vi mostrerò il fiume », aggiunge « il fiume d’acqua viva » (Ap 22,1). Come il vangelo dice che lo Spirito santo procede dal Padre (Gv 15,26), il profeta esprime la stessa verità dicendo che il fiume sgorga dal trono di Dio e dell’Agnello. E questo è quanto professiamo nella fede cattolica: lo Spirito santo procede dal Padre e dal Figlio. Questo fiume ha cominciato a fluire in noi dal momento in cui Gesù è stato glorificato; ma non vediamo ancora e non possiamo vedere in questa vita ciò che compie in noi. Nella città beata apparirà il frutto di questa venuta dello Spirito… » (Ruperto)
v. 8 « Il Signore degli eserciti è con noi: l’incarnazione » (Rufino).
v. 11 « Fermatevi e sappiate che io sono Dio. È necessario avere del tempo per conoscere il Signore » (Origene).
« Il demonio non può sopportare il tempo della contemplazione » (Eusebio).
« Non si può conoscere Dio senza rigettare le preoccupazioni terrene » (Atanasio).
« Per conoscere Dio bisogna distoglierci da ciò che non è lui » (Basilio).
« Lasciate le occupazioni terrene, preoccupatevi di conoscere Dio » (Ambrogio).
« Lasciate ogni occupazione e sappiate che io sono Dio: Maria ha scelto la parte buona (Lc 10,42) » (Bernardo).
v. 12 « Dio è sempre con noi » (Crisostomo).
« Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? (Rm 8,31) » (Basilio).
« Ecco che io sono con voi… fino alla fine del mondo (Mt 28,20): è l’Emmanuele » (Ambrogio).

« Come sei bella, amata mia, come sei bella » (Cantico dei Canti, Barbaglio)

dal sito:

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=147

« Come sei bella, amata mia, come sei bella »

La bellezza dell’amore nel Cantico dei Cantici

sintesi della relazione di Giuseppe Barbaglio

Verbania Pallanza, 16 dicembre 2000
Possiamo assegnare il seguente sottotitolo all’incontro di oggi: La bellezza dell’amore nel Cantico dei Cantici. Il Cantico è un libretto poetico formato da otto brevi capitoli.

il Cantico nella tradizione biblica
Il Cantico ha avuto difficoltà ad entrare nella bibbia ebraica, incluso poi tra i Ketubiim (gli altri scritti), insieme ai Salmi, ai Proverbi, a Giobbe e ad altri scritti recenti. Ci sono stati contrasti e perplessità. C’era chi si opponeva e chi, come il grandi Rabbi Aqiba, che sosteneva che L’intero mondo non vale il giorno in cui il Cantico fu dato ad Israele.
Una volta stabilito nell’assemblea di Jamnia (90 d.C.) il carattere sacro del testo, questo venne accolto anche dal canone cristiano, che si rifaceva a quello ebraico. Anzi nel mondo ebraico il Cantico venne utilizzato come testo liturgico in occasione della pasqua ebraica.

le interpretazioni del Cantico
Sin dai tempi antichi ha avuto molto successo la lettura allegorica. I due innamorati del libretto raffigurano Dio e il popolo di Israele. Effettivamente in molti brani della bibbia, soprattutto nella letteratura profetica, il rapporto tra Dio e il suo popolo è rappresentato in termini sponsali (Osea, Ezechiele, Geremia). Ma mentre in questi testi profetici si dice esplicitamente che Dio è lo sposo e il popolo di Israele la sposa, nel Cantico, che è una raccolta di canti di amore erotico, carnale, non si dice assolutamente nulla, non si nomina mai Dio o il popolo di Israele.
La lettura allegorica ha avuto degli sviluppi in ambito cristiano, dove l’innamorato è Dio o Cristo e l’innamorata la chiesa, facendo riferimento ad alcuni testi del Nuovo Testamento. Nei mistici poi l’innamorata diventa l’anima. Dio è l’amante a cui aspira l’anima credente. Lutero stesso sosterrà un’interpretazione simbolica. E anche in tempi recenti alcuni studiosi hanno riproposto una lettura allegorica.
La lettura letterale del testo, il suo senso primo e ovvio ci mostra che il Cantico è costituito da canti di amore di due innamorati, in un insieme difficilmente articolabile. Difficile è stabilire con esattezza epoca e ambiente di composizione dei testi.
Allo stesso modo è difficile individuare il piano dell’opera, anche se ci sono delle costanti, dei motivi che ritornano, come il motivo della contemplazione della bellezza dell’amato e dell’amata, il motivo del desiderio dell’uno verso l’altro, il motivo dell’attrazione dell’amplesso, il motivo dell’abbandono, della ricerca, e del ritrovamento, in un contesto di natura primaverile.
Oltre ai due protagonisti c’è anche un coro, che però ha un ruolo minore rispetto a quello assegnatogli nelle tragedie greche.
La poesia del Cantico e ricca di immagini che sono espressione di canoni di bellezza un po’ lontani dalla nostra sensibilità odierna. Inoltre si fa uso frequente del travestimento. I protagonisti assumono di volta in volta abiti diversi: una volta l’innamorato è il re, poi un pastore, altre volte addirittura Salomone. Lo stesso vale per l’innamorata.

esaltazione della bellezza
Questi canti sono l’esaltazione della bellezza.Sono anzitutto esaltazione della bellezza dell’innamoramento, non dell’amore. Il tema centrale è l’innamoramento tra amanti, non legati ad alcuna istituzione. Non è l’amore sponsale procreante, ma l’amore di amanti. E’ l’esaltazione dell’innamoramento per se stesso, senza altri scopi. E’ la bellezza di un amore travolgente.
E’ una bellezza dei corpi, presentati e descritti quasi anatomicamente, anche nelle parti più intime.
Ma non è solo una bellezza statuaria delle forme esterne, ma è una bellezza interiore, che si esprime attraverso la voce e lo sguardo. Occhi e voce sono espressione dell’interiorità e grazie a loro tutto il corpo diventa espressione del mondo interiore dei due innamorati.
In questo quadro è esaltata la bellezza dell’amplesso tra i due, della loro unione estatica, attraverso le immagine ardite del pascere, del bere e del mangiare.
E’ una bellezza che coinvolge tutti i sensi. Quindi non solo la vista, ma anche l’ascolto della voce, l’odore dei profumi, il gusto dei frutti, il contatto dello stringere. La bellezza affascina e prende tutta la persona, anima e corpo.
Questa bellezza suscita e appaga il dei due che si cercano, che si ritrovano, che si uniscono. E il desiderio rinvia all’estasi gioiosa della mutua appartenenza: « io sono tua e tu sei mio ». Ma più che possesso reciproco, c’è mutua donazione. Non c’è nessuna violenza, nessun dominio, nessuna oppressione dell’uno sull’altro. I possessivi « tuo » e « mio » nel Cantico si coniugano nella reciprocità.
E’ poi la bellezza di un amore esclusivo. Alla fontana sigillata può abbeverarsi solo l’innamorato: Nel Cantico viene esaltato l’amore esclusivo, senza respingere evidentemente altre forme di rapporto.
La bellezza dell’innamoramento viene rappresentata sullo sfondo di una natura piena di vita. L’innamoramento è espressione della vitalità interpersonale.
Altra caratteristica, che sembra obsoleta nella nostra società dove tutto è ostentazione, esibizione e curiosità indiscreta, è la dimensione dell’intimità. E’ una bellezza rispettosa dell’intimità.
La bellezza dell’amore di questi innamorati conosce il dramma, le difficoltà, le incomprensioni. Non tutto è esaltazione e gioia, c’è anche distanza e separazione che spinge alla ricerca insonne.
Ma come possiamo inserire questa esaltazione della bellezza dell’innamoramento al di dentro di un’esperienza religiosa, di una credenza in Dio? Questi canti si collocano bene all’interno del quadro della creazione, del mondo che Dio ha creato e che ha fatto bella ogni cosa. La natura e le persone del Cantico fanno parte della creazione e quindi l’innamoramento, l’amore estasiante e anche drammatico tra i due, fa parte della creazione, è dono di Dio.
E’ vero che nella bibbia, soprattutto in alcuni libri sapienziali, si ritrova un approccio moralistico, che storce la bocca di fronte alla bellezza (vana est pulchritudo), poco in sintonia con lo sguardo incantato sulla bellezza del mondo creato da Dio proprio del Cantico.
Se la bellezza di cui si parla nel Cantico è la bellezza dell’innamoramento vuol dire allora che questa bellezza esaltante e beatificante riguarda solo una stagione della vita, che farà comunque sentire i suoi effetti su tutte le altre stagioni della vita, sui momenti più prosaici, quando l’amore è anche fatica, accettazione sofferta, reciproca sopportazione.
Nel Cantico troviamo la bellezza del piacere e del piacersi. Il piacere è un piacere scambiato, è un piacere condiviso, è un piacersi reciprocamente. In quanto piacere condiviso è un dono di Dio, e fa parte della creazione di Dio.
Nel Cantico al centro non c’è l’ammirazione per la bellezza di oggetti esteriori, sia oggetti della natura che oggetti prodotti dall’uomo. La bellezza si colloca all’interno dell’innamoramento, all’interno dell’esperienza del rapporto tra due persone. Non è il rapporto tra un oggetto, che può estasiarci, e noi, ma tra un tu che mi estasia e un io che estasia il tu.
Viviamo in una società delle cose, non delle persone e pertanto oggi è poco considerata la bellezza del rapporto, del piacersi l’un l’altro.
Nel Cantico c’è una carnalità, ma è una carnalità di persone: non una carnalità oggetto, ma una carnalità del tu e dell’io in relazione

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