IL RITRATTO DELL’UOMO IN GN 2,4B-25
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IL RITRATTO DELL’UOMO IN GN 2,4B-25
Michelangelo Priotto
Con il capitolo secondo (la nuova unità inizia al v. 4b) il redattore biblico, abbandonato lo stile solenne e liturgico della precedente narrazione sacerdotale (1,1-2,4a), introduce il lettore in un nuovo racconto, un grande affresco dai colori vivaci e pittoreschi, nel quale descrive con rara bellezza la figura centrale del creato: l’uomo. È lui infatti il protagonista ed è attorno a lui e su di lui che si disegna il progetto divino della creazione. Il precedente racconto della creazione colloca certamente l’uomo al culmine dell’opera divina, ma il vertice della narrazione è costituito senza dubbio dal sabato, meta e ideale di tutta la creazione; l’accento è profondamente teocentrico!
Il racconto di Gn 2 invece pone al centro l’uomo; è lui che entra in scena per primo ed è con lui che tutto il creato riceve senso. Prima di lui non c’era ancora l’elemento fecondatore e datore di vita: l’acqua; è a partire da lui che le creature ricevono il nome e sono umanizzate.
L’uomo tratto dalla terra
Il racconto ci offre anzitutto una descrizione particolarmente attenta dell’essere umano[1]:
Allora il Signore Dio plasmò l’uomo, polvere dal suolo,
e soffiò nelle sue narici un alito di vita,
e l’uomo divenne un essere vivente (Gn 2,7).
Il versetto è articolato su tre proposizioni in ordine ascendente. Nella prima si evidenzia la dimensione terrestre dell’uomo; nella seconda si descrive plasticamente il dono da parte di Dio di uno spirito di vita; infine la conclusione dell’azione creatrice di Dio: l’uomo è diventato un essere vivente. Con un forte antropomorfismo si evidenzia il fatto che l’uomo riceve da Dio la sua consistenza e la sua vitalità.
La materia da cui l’uomo è tratto è interamente terrena; nelle sue vene non scorre il sangue di un dio immolato e neppure è formato dalle lacrime della divinità solare. L’autore biblico determina con precisione la materia da cui l’uomo viene formato: si tratta anzitutto della «polvere» (‘apar), ulteriormente specificata come «polvere dal suolo»[2]. È significativo che la prima dimensione dell’uomo sia costituita dalla comune appartenenza alla terra; il termine «polvere» infatti è intimamente connesso col sostantivo «terra», di cui esprime lo stato di porosità, di mollezza.
Si comprende allora perché l’uomo sia chiamato ‘adam; è tratto infatti dalla ‘adamah, cioè dalla terra rossastra della steppa. La specificazione ulteriore di polvere sottolinea ancora di più l’aspetto fragile ed effimero dell’uomo. La conferma viene dalla parola finale che Dio rivolge all’uomo dopo l’esperienza del peccato:
Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra (‘adamah), perché da essa sei stato tratto: polvere (‘apar) tu sei e in polvere tornerai (Gn 3,19).
Da subito dunque l’uomo esce dalle mani di Dio come essere fragile e debole, definito dall’orizzonte della finitezza e della caducità, come viene ripetutamente confermato dalla tradizione biblica:
Le tue mani mi hanno plasmato… Ricordati che come l’argilla mi hai plasmato e in polvere mi farai tornare (Gb 10,8-9).
Come l’argilla nelle mani del vasaio, che la forma a suo piacimento, così gli uomini nelle mani di colui che li ha creati (Sir 33,13)
Perché egli sa di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere (Sal 103,14).
Tuttavia questa parentela con la terra non è negativa, non significa frutto del peccato, perché l’uomo è creato da Dio. Essa è segno dell’infinita libertà di Dio e della dipendenza dell’uomo da lui, come ci ricorda Paolo:
Oserà forse dire il vaso plasmato a colui che lo plasmò: «Perché mi hai fatto così?». Forse il vasaio non è padrone dell’argilla, per fare con la medesima pasta un vaso per uso nobile e uno per uso volgare? (Rm 9,20-21).
Un’interessante spiegazione midrashica[3] connette la terrestrità dell’uomo con l’altare che Dio ordinò a Mosè di costruire con la terra: «L’uomo fu creato dal luogo della sua espiazione, come sta scritto: “Mi farai un altare di terra” (Es 20,24). Disse il Santo, benedetto egli sia: “Ecco, io lo creo dal luogo della sua espiazione, così forse sussisterà”» (Gen. Rabbah XIV,8). In questo commento rabbinico si evidenzia come sia l’uomo il luogo dell’offerta a Dio, l’uomo creato dalla terra, vero altare gradito a Dio, preannuncio di una creazione inscindibilmente connessa con il suo perdono.
Il soffio di vita
L’uomo è dunque frutto della terra, ma non ne è il figlio, perché la sua creazione è opera di Dio. Questa nuova dimensione lo differenzia radicalmente dagli animali: anch’essi provengono dalla terra (cf. Gn 2,19), ma c’è nell’uomo un soffio di vita che viene da Dio! Per l’uomo biblico la vita si manifesta essenzialmente nel respiro (neshamà); infatti è proprio il respiro che lo caratterizza come essere vivente (cf. Gb 27,3: «…finché ci sarà in me un soffio-neshama di vita e l’alito di Dio nelle mie narici»).
Ora questo respiro mostra l’uomo in connessione inscindibile con Dio; è lui infatti che fa scendere sulla creatura fatta di terra un soffio, uno spirito di vita. Se la tradizione patristica ha spesso e volentieri interpretato questo soffio di vita come l’anima razionale e spirituale dell’uomo[4], il gesto di Dio significa il conferimento della vita alla materia da lui plasmata. Ma non si tratta soltanto di una vivificazione della materia, cosa che avviene anche per gli animali, bensì di un dono particolare con cui Dio partecipa all’uomo il suo spirito, la sua vita.
L’uomo diventa così un «essere (nefesh) vivente». Nefesh è un termine biblico molto usato e ricco di significati[5]: nel nostro passo, a conclusione dell’opera creativa di Dio, nefesh definisce espressamente l’uomo. Di per sé l’espressione «essere vivente» definisce pure gli animali (cf. Gn 2,19), ma nel nostro testo è il contesto a conferire all’espressione il suo significato peculiare. L’uomo è un essere vivente non semplicemente perché formato dalla polvere del suolo, ma perché Dio soffia nelle sue narici l’alito di vita; è soltanto questo dono del Creatore a fare dell’uomo una nefesh vivente, cioè una persona viva.
La tradizione biblica è unanime nell’affermare che l’uomo non esiste in virtù di una propria consistenza, ma solo in virtù di un dono di Dio gratuito e sempre da rinnovarsi; infatti se egli ritira questo dono, l’uomo torna alla polvere:
Lo spirito di Dio mi ha creato e il soffio dell’Onnipotente mi dà vita (Gb 33,4).
Se egli (Dio) richiamasse il suo spirito a sé e a sé ritraesse il suo soffio, ogni carne morirebbe all’istan-te e l’uomo ritornerebbe in polvere (Gb 34,14-15)
Se nascondi il tuo volto, vengono meno, togli loro il respiro, muoiono e ritornano nella polvere. Mandi il tuo spirito, sono creati e rinnovi la faccia della terra (Sal 104,29-30).
Concludendo, questi tratti antropomorfici e apparentemente ingenui rivelano in realtà una profonda e ricca concezione dell’essere umano, soprattutto se paragonata con la cultura circostante. Viene sottolineata anzitutto la dimensione terrestre dell’uomo, contro ogni tentazione spiritualistica: egli non è un angelo né deve aspirare a esserlo, neppure dopo morte[6]! L’insistenza letteraria con cui l’autore richiama questo dato traspare dal vocabolario dei vv. 4b-7, dove «terra» e i termini affini (suolo, campestre, polvere) ricorrono dieci volte! Senza l’uomo la terra è come in attesa; essa attende la sua pienezza e la può ricevere soltanto dalla presenza dell’uomo.
Se questo dato primordiale della parentela dell’uomo con la terra ne rimarca la fragilità e il limite, un’altra e decisiva dimensione ne esalta la grandezza: la parentela con Dio! Infatti lo spirito che dà vita all’uomo fatto di terra è lo spirito che viene da Dio, per cui l’uomo è partecipe della stessa vita divina. Con ciò si dice la vocazione dell’uomo, che, sebbene ritorni con la morte alla polvere originaria, è chiamato a una piena comunione con Dio. È questo un dato che percorrerà tutto il cammino della rivelazione; per adesso si tratta di un’intuizio-ne, che il decorso della narrazione biblica spiegherà in tutta la sua bellezza e profondità.
La casa di Dio e dell’uomo
Quanto detto sopra circa la partecipazione dell’uomo allo spirito vitale di Dio, viene poi descritto plasticamente nei versetti seguenti con la narrazione del giardino di Eden (Gn 2,8-15). È evidente il significato simbolico del giardino di Eden, nel contesto di una profonda riflessione sapienziale. L’autore biblico cerca di illustrare plasticamente il significato della partecipazione dell’uomo allo spirito di Dio e della conseguente comunione con lui: l’uomo vive questa comunione entrando nel giardino di Eden, la casa di Dio appunto. Non vi entra per diritto o con le sue forze, ma unicamente in grazia di un dono gratuito; Dio infatti lo prende dalla terra dove era stato creato e lo colloca nel giardino.
Questo è quanto ha sperimentato Israele, passando dal deserto alla terra. Inoltre, soprattutto alla luce dell’esilio, il successivo approfondimento del significato della terra promessa, allargherà l’orizzonte al piano escatologico: il giardino di Eden diventa allora, specialmente nella predicazione profetica (cf., ad esempio, Is 51,3; Ez 36,35), il simbolo del regno di Dio e a partire dalla tradizione dei LXX fino al Nuovo Testamento il simbolo stesso del paradiso[7].
Gn 2,15 specifica ulteriormente il gesto di Dio che colloca l’uomo nel giardino di Eden: il verbo «prese» (laqach) sottolinea ancora una volta come l’entrata dell’uomo nel giardino non sia avvenuta per via naturale, ma solo per l’iniziativa gratuita di Dio. Conferma questa interpretazione l’uso del medesimo verbo per descrivere l’assunzione di Enoc nel mistero di Dio al termine della sua vita terrena (cf. Gn 5,24), così come quella di Elia (cf. 2Re 2,10) e quella del salmista (cf. Sal 49,16).
Lo scopo è il lavoro e la custodia del giardino: un’esistenza umana senza lavoro non sarebbe pienamente umana. Emerge qui da parte dell’autore una forte demitizzazione del lavoro e un’evidente polemica nei confronti del mondo circonvicino; l’uomo infatti non rapisce nessun fuoco agli dèi né egli è stato formato per sostituire il loro lavoro o per essere loro schiavo nei servizi più umili, ma per umanizzare il creato, conservandolo con responsabilità, ma anche facendolo progredire. Il lavoro dunque non è una condanna, ma una dignità; sarà solo il peccato a renderlo alienante e oppressivo.
La sfida della relazione
Volgendo di nuovo lo sguardo all’uomo, l’autore biblico pone in bocca a Dio un’espressione chiave dell’intera narrazione:
Non è bene (tob) che l’uomo (ha’adam) sia solo:
gli voglio fare un aiuto che gli sia simile (Gn 2,18).
L’imposizione del nome agli animali significa simbolicamente l’affermazione di un’autorità, di un potere, di una responsabilità. Nella mentalità semitica, sappiamo, il nome esprime il senso profondo di una realtà; dunque l’uomo, imponendo il nome agli animali, comincia a ordinare il creato, a conoscere questo mondo apparentemente a lui simile, ma anche e soprattutto a capirne l’intima diversità. Se l’uomo al termine dell’avventura conoscitiva del mondo animale non trova «un aiuto che gli sia simile» (Gn 2,20), significa che l’animalità che è in lui non lo costituisce pienamente uomo! Sarà una tentazione ricorrente nella sua storia quella di auto-comprendersi soltanto come animale, ma l’accondiscendenza a questa prospettiva costituirà per lui anche e soprattutto un degrado e una sconfitta. Soltanto il dono della donna, cioè di un essere che possa stare davanti a lui, potrà realizzare una comunione personale che trascenda radicalmente l’accoppia-mento animale[8].
Seguendo il cammino finora percorso, possiamo notare che l’autore biblico descrive l’uomo soprattutto come un essere di relazione. Si tratta di una dimensione molteplice, descritta in forma ascendente: dapprima viene messa in risalto la relazione profonda che l’uomo ha con la terra, relazione indelebile, anche dopo morte. La seconda relazione che il racconto biblico ci descrive, fondamentale per la comprensione dell’essere umano, è la relazione con Dio: soffiando nell’uomo un alito di vita, Dio lo rende partecipe del suo spirito, della sua vita. La comunione con Dio è iscritta nello stesso atto costitutivo dell’uomo! Essa viene poi specificata dall’in-troduzione dell’uomo nel giardino e nel dono della legge, per evidenziare che il rapporto con Dio deve basarsi sull’esercizio di una libertà concepita come dono e responsabilità.
Il rapporto con gli animali apre all’uomo il dominio del creato e l’accesso alla scienza; tuttavia questa dimensione dell’animalità, pur nel riconoscimento della sua importanza, non realizza ancora nell’uomo l’ideale per cui Dio l’ha creato; questo sarà possibile soltanto nell’incontro con la donna. È questa la relazione fondamentale dell’uomo, la relazione che dà senso alle altre relazioni.
«E i due saranno una sola carne»
Il racconto della creazione dell’uomo si conclude con un ultimo passaggio fondamentale:
Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne (Gn 2,24).
Il senso ovvio dei due verbi «abbandonare» e «unirsi» indica il movimento dell’uomo adulto che si distacca dalla sua famiglia per formarne una nuova. La costruzione «unirsi a…» (in ebraico: dabaq be) sottolinea una relazione interpersonale, molto profonda, che va oltre il semplice rapporto sessuale[9]. Dunque l’unità uomo-donna è più forte del legame tra genitori e figli; è questa relazione fondamentale con la donna che permette all’uomo la realizzazione piena del suo essere. La relazione con Dio non viene sminuita, perché è Dio stesso che conduce la donna all’uomo, realizzando così il suo progetto di «uomo comunitario».
Accogliendosi reciprocamente l’uomo e la donna diventano «una sola carne». Il termine ebraico che traduce «carne» è basar. Esso pone in evidenza anzitutto, ma non esclusivamente, la materialità o la corporeità dell’uomo; tuttavia solo molto di rado è possibile tradurre «carne» con «corpo». Nel linguaggio biblico «carne» indica per lo più l’uomo nella sua interezza, sebbene l’aspetto della corporeità vi predomini. Si tratta di un’ulteriore conferma che l’espressione di Gn 2,24 non va intesa unicamente come unione sessuale; essa indica piuttosto la totalità psicho-fisica del legame maschio-femmina verso un unico essere umano. Il termine basar dunque comprende la persona umana nella sua pienezza, sebbene parta dalla sua corporeità.
Concludendo, questa pagina della Genesi ci offre, attraverso un racconto ricco di simboli e di poesia, un’antropologia dell’uomo straordinaria e profonda, quale poteva venire soltanto da Dio. Legato alla terra, dalla quale egli proviene, l’uomo biblico appare come un essere chiamato alla comunione con Dio, con cui condivide il soffio vitale. Questa comunione con Dio si realizza nell’esercizio di una libertà che, vietandogli ogni assolutizzazione delle creature, gli indica invece il vero rapporto con esse. È nella relazione interpersonale uomo-donna che l’essere umano raggiunge il proprio ideale, in una relazione cioè che, oltrepassando l’ambito puramente sessuale, lo conduce a una comunione che è segno dello stesso amor di Dio.
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[1] Gli studi sull’antropologia biblica sono numerosi. Per quanto riguarda il presente articolo, si veda in particolare E. Jenni – C. Westermann (edd.), Dizionario teologico dell’Antico Testamento, voll. I-II, Marietti, Torino 1978-1982, alle voci: ‘adam – ‘adamah, ‘apar, nepesh, neshamah, basar. Cf inoltre: H.W. Wolff, Antropologia dell’Antico Testamento, Queriniana, Brescia 1975; A. Deissler, L’uomo secondo la Bibbia, Città Nuova, Roma 1989; E. Bianchi, Adamo dove sei? Commento esegetico-spirituale ai capitoli 1-11 del libro della Genesi, Qiqajon, Magnano 1994.
[2] La traduzione della CEI: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo», non rispecchia fedelmente la lettera del testo ebraico, il quale non dice che Dio plasmò l’uomo «con polvere del suolo», ma che «plasmò l’uomo, (che è) polvere dal suolo»!
[3] Testo citato da Bianchi, Adamo, dove sei?, 163.
[4] Giovanni Crisostomo, ad es., nelle sue omelie sulla Genesi così commenta: «Con il suo soffio gli ha fatto dono dell’anima incorporea» (Omelie sulla Genesi XIV).
[5] Per una trattazione esaustiva del significato biblico di nefesh cf. Wolff, Antropologia, 18-39. Compare 775 volte nell’Antico Testamento e significa: gola, collo, desiderio, anima, vita, persona, pronome personale.
[6] La corporeità è un elemento talmente costitutivo dell’uomo che l’accompagna, sebbene in una forma nuova, anche nell’eternità. Infatti quando nell’Antico Testamento si viene delineando la convinzione di fede, secondo cui Dio con la morte non pone all’uomo un limite assolutamente invalicabile, questa convinzione non è intesa come immortalità dell’anima, bensì come risurrezione dei morti (cf. Is 26,19; Dn 12,2).
[7] Nella traduzione di Gn 2,8 i LXX rendono l’ebraico gan (giardino) con parádeisos, termine di derivazione persiana (pairi-daeza = vallo di cinta, parco rinchiuso da un vallo), che significa parco, frutteto. Nella tradizione giudaica intertestamentaria designa il luogo di premio e di benessere che accoglierà i giusti dopo la morte, concezione ripresa poi dal Nuovo Testamento: «Al vincitore darò da mangiare dell’albero della vita, che sta nel paradiso di Dio» (Ap 2,7).
[8] L’approfondimento di questo aspetto verrà offerto in un articolo del prossimo fascicolo di Parole di vita, dedicato appunto all’incontro uomo-donna.
[9] Il Deuteronomio usa questa espressione per esprimere il rapporto del popolo con Dio; vedi, ad es., Dt 4,4 e 10,20, dove la stessa espressione ebraica dabaq be è stata tradotta in italiano con «mantenersi fedeli» o «restare fedeli».