dal sito:
http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/206q04a1.html
DA: L’OSSERVATORE ROMANO (7-8 settembre 2009)
Lasciò un giardino fiorito per andare a fare un «mestieraccio»
di Inos Biffi
L’8 settembre 1929 – esattamente ottant’anni fa – nella festa della Natività di Maria, patrona del Duomo, faceva il suo ingresso a Milano come arcivescovo, l’abate di San Paolo fuori le Mura, Ildefonso Schuster.
La sua figura non era sconosciuta alla Chiesa ambrosiana che, dal 1926 al 1928, lo aveva visto operare, in una missione non facile, come visitatore apostolico dei seminari, quando anche si trattò di progettare e di iniziare la costruzione del nuovo seminario, fuori dalla città, sulla collina boscosa di Venegono Inferiore. Fu una scelta sapiente, per la preparazione nel silenzio e nello studio di quei preti ambrosiani che, una volta scesi nelle popolose parrocchie e nei polverosi oratori, sarebbero stati educatori illuminati e zelanti pastori d’anime. Ecco perché una sua alienazione aprirebbe una ferita profonda nella memoria e nell’identità della Chiesa ambrosiana.
Specialmente il clero era stato impressionato da quel monaco raccolto, rapido, dal profilo gentile. Ne aveva, in particolare, apprezzato la cultura liturgica – egli era il celebre autore dei diversi volumi del Liber Sacramentorum: un commento al messale romano che ancora oggi si può rimeditare e gustare – tanto il monaco di San Paolo aveva saputo cogliere e illustrare l’anima della preghiera cristiana e lo spirito delle sue vetuste formule, che egli conosceva e spiegava ai seminaristi in modo eccellente. Certo, lo stile, distinto e rispettoso, era accompagnato da una lucida e ferma determinazione, che, d’altronde, rifletteva la risolutezza perentoria di Chi lo aveva mandato e del quale, non senza una prudente mediazione, traduceva le decisioni, ossia di Pio XI, che, dopo essere stato per qualche mese sulla cattedra di sant’Ambrogio, continuava tranquillamente ancora a governarla.
L’invio di Schuster alla sede di Milano era ovviamente dovuto a lui, che lo aveva nominato a quella Chiesa il 26 giugno del 1929, gli aveva imposto il cappello cardinalizio il 18 luglio e lo aveva ordinato vescovo il 21 luglio.
È difficile conoscere per quali ragioni Pio XI, che non si incantava facilmente ed era un lucido conoscitore di uomini, abbia inviato come arcivescovo sulla cattedra di sant’Ambrogio l’abate di San Paolo, che non appariva e, di fatto, non era un uomo di governo. A Roma presiedeva un gruppo di monaci, a Milano avrebbe trovato molte centinaia di presbiteri; la sua diocesi nel Lazio si riduceva a qualche piccola parrocchia, quella ambrosiana era sconfinata. Alla sua nomina, mordacemente, il cardinale vicario Pompili aveva osservato: « Ma come potrà reggere l’arcidiocesi lombarda, quando non riesce a governare il pollaio di San Paolo? ». Di fatto non pochi anche a Milano rimasero perplessi.
Sarebbe interessante – e ora è possibile con l’accesso agli archivi vaticani del tempo – conoscere le valutazioni di Pio XI sulle varie iniziative pubbliche o « politiche » di Schuster. Forse non tutte le scelte dell’arcivescovo di Milano, che mostrava autonomia di giudizio e tempestività di decisioni, facilitate dal suo temperamento impulsivo e ostinato, erano condivise dal Papa, col quale era in frequente contatto. D’altronde, non mancavano vescovi intelligenti, suoi suffraganei, come quello di Bergamo, Adriano Bernareggi, o di Cremona, Giovanni Cazzani, o autorevoli sacerdoti milanesi e laici riflessivi, che, di là dalla buona fede del cardinale, giudicavano non totalmente prudenti certi suoi gesti. Ma qui viene in mente quanto affermava Newman di Cirillo d’Alessandria: « Cirillo, lo so, è un santo »; questo però non vuol dire, aggiungeva, che lo sia stato in ogni momento della sua vita o che ogni suo gesto sia stato obiettivamente impeccabile.
Questo non va dimenticato, se non si vuol ridurre a puro e sterile panegirico la biografia di Schuster, com’è stato fatto e, si fa, abitualmente. Nell’ampio e fluido elogio funebre, tenuto il 2 settembre 1954 nel Duomo di Milano, il « Porporato Pontefice dei Veneti » – così Schuster aveva definito il patriarca Roncalli – delineava con ammirevole finezza il profilo spirituale e pastorale del cardinale, monaco e pastore, appartenente alla « fortissima razza dei cenobiti » e al novero dei « grandi Vescovi della Chiesa »: « Un prodigio coram angelis et hominibus ». E affermava: « Egli con intenzione retta, con cuore generoso, in vista del pubblico bene, pose talvolta la sua fiducia in chi cessò poi di meritarla: ma non cessò per questo di essere oggetto della sua carità. Attentare su questo punto alla perfetta buona fede del cardinale Schuster, alla sua lealtà nobile e grande, alla purezza della sua pietà misericordiosa, è azione inqualificabile che la voce della coscienza riprova, e che la storia a sua volta saprà smentire ».
Mentre trascorreva gli ultimi suoi giorni a Venegono, il pensiero di Schuster riandava agli anni passati a Milano, e – come aveva scritto nell’epigrafe per il suo venticinquesimo di episcopato – ringraziava Dio di averlo tradotto « incolume attraverso le dittature, i bombardamenti e gli incendi di Milano »; di averlo fatto passare per « il fuoco e la tempesta »; e di averlo condotto, sostenuto dalla « devota fedeltà del gregge al tribolato pastore », sulla via della salvezza.
Un giorno – ricorda Giovanni Colombo nei Novissima verba, che sono le sue pagine più belle – « nel vano della finestra [il cardinale] guardava in faccia al tramonto. Un tramonto di fine agosto così malinconico che pareva d’autunno inoltrato. Il cielo era tutto di un monotono grigiore cinereo: poco più su della collina morenica che costeggia a destra l’Olona, il sole morente traspariva con una chiazza sanguigna, come fa una ferita a fior di benda ». Era di recente avvenuta la canonizzazione di Pio X, che Schuster personalmente non si attendeva. A commento l’arcivescovo dichiarava: « Non tutti gli atti del suo governo si dimostrarono in seguito pienamente opportuni e fecondi »; ma, « altra cosa è l’incidenza più o meno felice sul piano storico di un governo ecclesiastico, altra cosa è la santità che lo anima ». « Certo pensava anche a sé – osserva Colombo – e rispondeva a interrogativi intimi. Ma su un punto la testimonianza della sua coscienza non aveva perplessità: d’aver cercato solo e sempre in ogni pensiero e in ogni atto il Signore ». Ed è esattamente questa insonne ricerca di Dio, in un totale distacco da ogni bene terreno, che ha unificato e resa splendida ed esemplare la vita di Schuster.
Egli era uscito dal suo monastero – monasterium meum!, come amava dire evocando san Gregorio Magno – per pura obbedienza all’imperiosa volontà di Pio XI. « Quando l’onore di Dio, il servizio della Chiesa ed il bene delle anime lo esigono o lo consigliano – avrebbe scritto in Un pensiero quotidiano al giorno sulla Regola di S. Benedetto – non ci deve trattenere l’amore del « loco natio » né alcuna altra nostalgia ».
La partenza dal cenobio aveva però causato in lui una profonda sofferenza. Chiudendo la sua prima lettera pastorale, confessava di lasciare « con cuore trafitto la mia vetusta abbazia di san Paolo e il giardino fiorito della sua piccola diocesi »; mentre chi lo accompagnava nella sua discesa da Montecassino per avviarsi a Milano ricorda che, dopo aver abbracciato e benedetto i suoi confratelli, « salito in auto, scoppiò in un pianto dirotto che non poté trattenere per qualche momento ». Anche a Milano, sino alla fine dei suoi giorni, il monastero continuò ad affascinarlo con struggente nostalgia.
Ma, se « il respiro della sua vita – come ancora diceva Roncalli nell’orazione funebre – fu la preghiera in esercizio quotidiano di pietà religiosa », questo non solo non lo distraeva dalla dedizione insonne e laboriosissima alla vita attiva qual è richiesta a un pastore d’anime di milioni di fedeli, ma ne costituiva lo stimolo e la risorsa. Amava dire: « Fare l’arcivescovo di Milano è un mestieraccio ».
D’altra parte, sempre nella sua prima lettera pastorale aveva scritto di sentirsi inviato « per dirla con una frase dell’Apostolo: « per immolarmi sul sacrificio vostro e sulla liturgia (divino servizio) della vostra Fede »": vi rimase fedele dal primo momento fino all’ultimo dei suoi anni trascorsi come pastore della Chiesa ambrosiana. I decenni di vita contemplativa, la sua passione per il raccoglimento della cella e soprattutto per l’azione liturgica e per l’opus Dei col suo primato, non lo ritrassero mai da questa « immolazione », anche se imprimevano qualche linea di frettolosità e di impazienza non sempre gradita.
Avvertirono il suo « sacrificio » anzitutto i sacerdoti che, pure, non mancarono di sperimentare, all’inizio del suo episcopato, una severità eccessiva, che poteva in qualche caso diventare sommaria e sbrigativa: una severità che, dopo la tragedia della guerra e la costatazione dello zelo del presbiterio ambrosiano, finì con lo sciogliersi in una paternità sempre più indulgente e dolce.
Quanto ai fedeli ambrosiani non ebbero, fin da subito, al solo vederlo, il minimo dubbio, né la più piccola esitazione: per essi quella delicata figura, sempre rapida e raccolta, dagli occhi vivi e dal sorriso lieve, era la figura di un santo.
In particolare, questa santità traspariva nella « devozione » con cui celebrava. Il cardinale Giacomo Biffi ha colto perspicacemente questo aspetto: « Non era un colosso, eppure la sua presidenza veniva percepita come qualcosa di determinante e di intenso. La gente semplice correva a contemplare quest’uomo esiguo e fragile che, nelle vesti del « liturgo », diventava un gigante. « Liturgo »: ecco la parola giusta, anche se ovviamente nessuno dei semplici la conosceva. Dunque, un liturgista insigne, ma più che altro un « liturgo » imparagonabile.
« I suoi gesti erano sempre sciolti e misurati: non c’era niente di teatrale nella sua attitudine. Eppure il suo era davvero uno spettacolo, al tempo stesso spontaneo e affascinante. Intento insieme e assorto, era agli occhi di tutti un testimone eloquente dell’invisibile. Nessuno era più sollecito di lui, che si muoveva entro i sacri misteri con la disinvoltura di chi si sente a casa. Non ci meraviglia allora che i milanesi accorressero in Duomo all’immancabile appuntamento domenicale ».
Del resto, egli, decenni prima del Vaticano ii, ebbe lucida e acuta la percezione della teologia della liturgia. Scriveva: la Sacra Liturgia è « la preghiera speciale che è per eccellenza la preghiera della Chiesa »; essa è la preghiera « che direttamente sgorga dal cuore della Chiesa orante ».
Schuster si spense quasi improvvisamente il 30 agosto 1954 proprio nel suo seminario. Vi era arrivato, « stremato, smagrito, sofferente », cogliendo tutti di sorpresa: non aveva fatto mai una vacanza, e i cinque lustri di episcopato lo avevano ormai tutto consumato. L’indomita fortezza del suo animo era sempre stata racchiusa in quel corpo esile, che più volte era comparso nei luoghi più remoti e impervi della diocesi – « come un lumicino preoccupato quasi più di nascondersi che di apparire », avrebbe detto il Patriarca Roncalli nell’epicedio; ma in quei giorni la sua figura ci appariva spossata oltre misura.
Sempre nei Novissima verba Giovanni Colombo, allora rettore maggiore dei seminari milanesi, ricorda: « L’automobile dell’Arcivescovo si fermò davanti all’atrio del Seminario verso le 18 del 14 agosto. Non pioveva più, ma una bassa nuvolaglia copriva tutto il cielo e la campagna era macera di pioggia recente ».
Non era stato facile convincerlo a lasciare il torrido episcopio di Milano per salire a quel colle, dove il riposo e l’aria salubre si sperava avrebbero rinnovato le sue energie esauste. Ma non ebbe alcun giovamento.
Si spense dopo un’agonia – che ai presenti era parsa una liturgia – e dopo aver benedetto la sua Chiesa e aver chiesto perdono di quello che aveva fatto e non fatto.
Faceva « ancora buio », come quando Maria di Magdala andò al sepolcro: era l’ora del canto del gallo, « l’araldo del giorno », come lo chiama sant’Ambrogio, quando « la stella lucifera dalla tenebra libera il cielo ». A quell’ora nel monastero di San Paolo, dove l’abate Schuster era sempre il primo ad apparire, si scioglieva « il labbro devoto » e si elevava « la santa primizia dei canti ». A quell’ora abitualmente l’arcivescovo incominciava, pregando, la sua giornata intensa. In quell’alba la sua giornata terrena era finita: sorgeva « il Giorno che illumina giorni » per una lode ormai perenne.
Quasi subito, dopo quell’annunzio, si avviò un pellegrinaggio orante e ininterrotto al colle del seminario: una fiumana di gente, come fosse avvenuto tacitamente un accordo in tutta la diocesi, saliva a venerare l’arcivescovo santo e, più che a pregare per lui, ad affidarsi alla sua intercessione.
La mattina nel trasporto a Milano avrebbe percorso, tra folle innumerevoli, la sua « via trionfale » – come l’ha denominata il cardinale Colombo, che nel secolo scorso fu a sua volta un grande arcivescovo di Milano insieme a Ferrari, a Schuster e a Montini – « addobbata di arazzi, illuminata dallo sfolgorio solare ».
È importante per una Chiesa che non si spenga e non si annebbi la memoria della sua storia, e soprattutto dei suoi pastori, specialmente quando questi si presentino con il pregio raro e splendido della santità. Ecco perché sarebbe segno di avvedutezza pastorale e di sensibilità spirituale riaccenderne le figure con impegnative e studiose memorie.