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Ebrei 11,1-19
La fede dei padri
La lettera agli Ebrei contiene, dopo l’esordio (1,1-4), una prima parte in cui si descrive il ruolo di Cristo nel piano di Dio (1,5 – 2,18). Nella seconda parte si presenta Gesù come sommo sacerdote (3,1 – 5,10). La salvezza da lui portata è delineata nella parte centrale della lettera (5,11 – 10,39). Successivamente (11,1 – 12,13), l’autore affronta il tema della risposta che la comunità deve dare a questa salvezza. Questa risposta, già preannunziata in 10,38-39, consiste essenzialmente nella fede perseverante, mediante la quale si ha accesso ai beni che il sacrificio di Cristo ha acquistati. Al significato di questa fede l’autore dedica tutto il lungo capitolo 11, soffermandosi non su concetti astratti, ma su una serie di personaggi biblici presentati come modelli da seguire. Egli apre la sua esposizione con una definizione della fede (vv. 1-3), passando poi subito a elencare i suoi personaggi che caratterizza con tratti veloci: i patriarchi dell’umanità pre-abramitica (vv. 4-7), Abramo e i padri del popolo ebraico (vv. 8-22), Mosè e Giosuè (vv. 23-31), e infine tutta una serie di personaggi di cui indica solo alcuni nomi, descrivendo però con enfasi la loro testimonianza (vv. 32-38); l’esposizione termina con una breve conclusione (vv. 39-40). La liturgia si limita a riportare i due versetti iniziali e poi l’esempio di Abramo (vv. 8-19).
Significato della fede (vv. 1-3)
L’autore introduce il suo discorso affermando che la «fede» (pistis) è «fondamento» (hypostasis, garanzia) delle cose che si sperano e «prova» (elenchos, certezza) di quelle che non si vedono (v. 1). In questa formulazione, che si ispira al parallelismo biblico, la fede è presentata come la certezza di ottenere un giorno quelle realtà che, proprio perché non si vedono, sono oggetto di speranza. In altre parole l’autore intende affermare che il credente è colui che non si ferma alle realtà visibili e materiali, ma si orienta con piena fiducia verso beni futuri (trascendenti), non ancora visibili ma attestati dalla parola di Dio (cfr. 11,11) e quindi sicuramente disponibili. Naturalmente si tratta di realtà talmente importanti da giustificare, per ottenerle, la rinunzia a quanto si sperimenta con i sensi. La fede non consiste dunque nell’assenso intellettuale a una determinata verità, ma nel proiettarsi in modo dinamico verso beni che non si possiedono ancora in modo pieno, ma per i quale vale la pena di lottare, soffrire e morire.
Dopo aver dato la sua definizione della fede, l’autore soggiunge che per mezzo di essa gli antichi ricevettero una buona testimonianza (v. 2). Con queste parole egli lascia intendere che non farà un discorso astratto sulla natura della fede, ma presenterà esempi concreti dai quali i lettori saranno guidati nel loro cammino di fede. Infine, quasi per giustificare la possibilità stessa di porre la propria fiducia in cose non visibili, egli si rifà nel v. 3 (tralasciato dalla liturgia) alla creazione, sottolineando che le cose che ora si vedono provengono, in forza della parola di Dio, precisamente da cose non visibili. La fede, proprio in quanto mette in rapporto con le cose invisibili, permette all’uomo di inserirsi armonicamente nel creato.
I patriarchi pre-abramitici (vv. 4-7)
La carrellata dei testimoni della fede inizia con questo brano (tralasciato dalla liturgia) in cui sono ricordati alcuni personaggi, Abele, Enoc e Noè, esistiti prima che il popolo ebraico apparisse alla ribalta della storia. Il primo ad essere nominato è Abele, il cui il sacrificio, proprio in forza della sua fede, è stato gradito a Dio più di quello di Caino (v. 4). Alla fede viene ascritto anche il fatto che egli continui a parlare dopo la morte (cfr. Gn 4,10). Di Enoc si ricorda invece che è stato «portato via» da Dio in modo da non sperimentare la morte (Gn 5,22-24): ciò è visto come segno e conseguenza del gradimento divino (v. 5). Per ambedue è determinante il fatto di aver superato la morte proprio in forza della fede.
L’esperienza di Enoc offre all’autore l’occasione per affermare che senza fede non si può essere graditi a Dio: infatti chi si accosta a lui deve credere che «egli esiste e ricompensa coloro che lo cercano» (v. 6). Anche qui non si tratta di affermazioni dottrinali, ma della certezza di un ordine che non si vede ma che regola tutto l’andamento del mondo. Infine viene citato Noè, del quale si dice che, istruito da Dio, proprio mediante la fede ha saputo prevedere le cose invisibili; per questo ha deciso di costruire l’arca con la quale tutta la sua famiglia è stata salvata, mentre il resto dell’umanità, proprio per la sua mancanza di fede, è andato distrutto. La fede di Noè viene vista qui, sulla linea del pensiero paolino, come l’origine e la causa della sua giustizia (v. 7).
Abramo e i padri del popolo ebraico (vv. 8-22)
Dopo i tre personaggi della storia primordiale, l’autore si sofferma su Abramo (vv. 8-19), la cui vicenda spirituale è distribuita in tre sequenze: la partenza (vv. 8-10), l’attesa (vv. 11-12) e la prova (vv. 17-19). Al centro (vv. 13-16) si trova una riflessione che tende a spiegare in che senso Abramo e implicitamente gli altri patriarchi, a cui si accennerà subito dopo, sono i modelli della fede.
Il cammino di fede di Abramo inizia con la «partenza» (vv. 8-10) o l’uscita dal suo passato sicuro per andare verso un futuro che non conosce, ma che gli è promesso come «eredità», cioè come un bene da trasmettere alla sua discendenza. All’origine di questa partenza c’è la chiamata di Dio alla quale Abramo aderisce prontamente. Questa prima fase, in cui predomina la tensione tra quello che è posseduto a quello che non lo è ancora, tra quello che si vede e quello che non si vede, è caratterizzata dalla promessa divina. Abramo, e con lui Isacco e Giacobbe, sono disposti ad abitare da stranieri in una tenda nel paese che un giorno sarà loro, perché sono certi che possederanno una «città» dalle solide fondamenta, progettata e costruita da Dio.
La seconda fase si svolge attorno al tema della «discendenza» (vv. 11-12), oggetto della seconda promessa fatta da Dio ad Abramo. Anche qui è sottolineato il contrasto tra la sterilità di Sara e la potenza di generare: esso è superato grazie alla «fede», che spinge a far affidamento sulla potenza e fedeltà di Dio. È per la fede che da uno solo, ormai segnato dalla morte, ha avuto origine una moltitudine di discendenti.
Il commento teologico che interrompe il discorso su Abramo (vv. 13-16) riguarda non solo lui ma anche gli altri patriarchi. Tutti vissero sulla terra da «stranieri viandanti» e morirono senza avere conseguito la realizzazione delle promesse: ciò significa che erano alla ricerca di un futuro diverso da quello della terra e della semplice discendenza fisica. Questo futuro è una «patria migliore» di quella da cui venivano, la Mesopotamia, e coincide con quella città di cui Dio è architetto e costruttore. Garanzia di questo futuro migliore è la relazione vitale che Dio stabilisce con i padri quando si proclama il «Dio di Abramo, di Isacco e Giacobbe» (cfr. Es 3,6.15).
Il terzo momento, quello della prova (vv. 17-19), manifesta al massimo la forza della fede. Chiedendo il sacrificio di Isacco Dio stesso sembra voler distruggere ogni garanzia di attuazione delle promesse. La crisi viene superata da Abramo, il quale si fida della «potenza» di Dio, sapendo che è capace anche di risuscitare i morti: perciò riottene il figlio come un «simbolo» (en parabolêi), cioè come caparra della pienezza futura. L’accenno alla risurrezione apre la via a una rilettura cristiana della vicenda di Abramo, il quale diventa così il modello di una fede che si basa ormai sulla risurrezione di Cristo e punta verso la risurrezione finale dei morti.
La sezione dedicata alla fede di Abramo è completata dai ritratti di Isacco Giacobbe e Giuseppe (vv. 20-23), a cui fanno seguito quelli di Mosè e di Giosuè (vv. 24-31) e di altri personaggi significativi del periodo dei giudici e dei re (vv. 32-35a). In seguito (vv. 35b-38) si passano in rassegna le situazioni tragiche in cui uomini santi hanno vissuto la loro fede, in attesa della risurrezione. Gli ultimi due versi rappresentano la conclusione non solo dell’ultima parte, ma di tutto il capitolo. In essi l’autore riprende la frase iniziale del v. 2 riguardante gli uomini del passato, sottolineando che essi ricevettero «una buona testimonianza» in base alla loro fede. Poi delinea la loro condizione con un’espressione generale: essi non ottennero la realizzazione della promessa (v. 39). E giustifica questo ritardo spiegando che il pieno compimento del progetto divino si ha solo ora nella fase ultima e definitiva, inaugurata da Cristo, che porta a compimento la nostra fede (v. 40).
Linee interpretative
La suggestiva panoramica di storia biblica contenuta in questo capitolo mette in luce gli aspetti più caratteristici della fede. Per l’autore essa consiste nel guardare verso un futuro ancora avvolto nel mistero, accettando come unica garanzia la parola di Dio che ne annunzia la prossima realizzazione. La fede assume così una forte dimensione storica che fa di essa uno stile di vita basato sulla fedeltà radicale a Dio nelle situazioni concrete. In altre parole si tratta di un’apertura al futuro di Dio, che rende provvisorie e precarie le realizzazioni concrete della storia.
L’esperienza di Abramo mostra chiaramente che la fede, vissuta come apertura a un futuro che Dio promette, consiste in un rapporto personale con lui, in forza del quale è possibile superare la caducità e la miseria di una vita segnata inesorabilmente dalla morte. È così che Abramo. proprio per aver accettato per fede la morte del figlio, ottiene una specie di risurrezione anticipata, che troverà compimento nella risurrezione di Cristo e di coloro che crederanno in lui. La fede dei patriarchi è quindo solo una prefigurazione della fede di cui godono i credenti in Cristo.
Infine le vicende di Abramo e dei patriarchi mettono in luce la struttura comunitaria della fede, la quale per sua natura implica la solidarietà con una catena storica di uomini credenti che costituiscono insieme un «popolo» rivolto alla città o patria che Dio ha progettato e sta costruendo non solo per loro ma anche per tutta l’umanità. È l’esistenza stessa di un popolo solidale che anticipa nell’oggi quelle realtà che non si vedono, ma che costituiscono lo scopo a cui orientare la propria vita. Senza fede non esiste la comunità, ma è anche vero che senza la comunità la fede è priva di fondamento.