JÜRGEN MOLTMANN: CHIAMATI ALLA SPERANZA
dal sito:
http://www.atma-o-jibon.org/italiano8/moltmann_esperienzedidio2.htm
JÜRGEN MOLTMANN
CHIAMATI ALLA SPERANZA
1. IL COMANDO DELLA SPERANZA
Gli uomini vengono chiamati ad una speranza duratura. La vera speranza non si fonda sul fluttuare dei nostri sentimenti e nemmeno sul successo della nostra vita. La vera speranza, cioè quella permanente e fondante, ha la sua base nell’appello e comando di Dio. Noi siamo chiamati alla speranza! Essa è un comando, un comando di resistere contro la morte. È un appello, l’appello alla vita di Dio.
La speranza permanente non ce la portiamo dietro dalla nascita, né l’acquisiamo dall’esperienza, e quindi dovremo apprenderla. Noi impariamo a sperare quando seguiamo l’appello. Impariamo a sperare nelle esperienze del nostro vivere. Impariamo a conoscere la sua verità quando veniamo costretti ad affermarci contro la disperazione. Impariamo la sua forza quando vediamo che essa ci sostiene in vita in mezzo alla morte.
Ma si dà una vocazione alla speranza? Si può essere comandati a sperare? La speranza è un obbligo?
Ciò suonerà strano per tutti coloro che considerano la speranza come un’ affezione del cuore od un’esuberanza giovanile. Ed anche per quelli che hanno riposto la speranza nell’esperienza o nelle previsioni di una storia. Ciò che personalmente io ho imparato dall’esperienza, fatta con la speranza, è che la speranza è più di un sentimento, più di un’esperienza. La speranza è anche più di una previsione. La speranza è un comando. E seguirlo significa vivere, sopravvivere, perseverare, mantenersi in vita finché la morte non sia inghiottita nella vittoria. Obbedire a tale comando significa: non essere mai rassegnati, né concedere mai rabbiosamente spazio alla distruzione.
Crisostomo, un Padre della chiesa, diceva: «Ciò che ci porta alla sventura non sono tanto i nostri peccati quanto la disperazione». Oggi diremmo: la frustrazione. Il comando della speranza è invece la forza, la forza di tutti i comandamenti che ci mantengono in vita e ci portano alla libertà. Questo imperativo suona: «lo vivo ed anche voi dovete vivere», «chi persevererà fino alla fine sarà salvo».
E che cosa esige da noi, oggi, il comando della speranza? Che cos’è che ci dà la forza della speranza?
Parlerò innanzitutto della nostra perdita di speranza e indicherò i luoghi nei quali la speranza viene affossata, indicherò per nome le situazioni nelle quali la speranza si stravolge in ansia per il futuro. Parlerò poi della fede che rende possibile la conversione e della prassi di una speranza da ricuperare. Infine mostrerò in che modo) attraverso il futuro di Gesù Cristo, la nostra speranza venga ridonata, ricuperata e rigenerata.
2. NELLA CONTRADDIZIONE APERTI ALLA SPERANZA
«Chiamati alla speranza» è una locuzione biblica. Sta ad esprimere la vita della comunità di speranza del Nuovo Testamento. Chi crede sa di essere rigenerato ad una speranza vitale. Per mezzo della risurrezione di Cristo dai morti gli è stato dischiuso un futuro incomparabile, perché non destinato a scomparire. Il regno della libertà e della pace di Dio, per il rinnovamento del cielo e della terra, si pone come una realtà indistruttibile e certa. Chi crede è disposto a render conto a ciascuno «della speranza che è in noi»: sia di fronte ai giudici che condannano alla prigionia, come di fronte alle masse prigioniere. Dalla speranza di Cristo vien generato il nuovo popolo di Dio, costituito di giudei e pagani, servi e padroni, uomini e donne, umanità e creazione. In effetti la Bibbia dell’Antico e Nuovo Testamento è il libro delle promesse di Dio e speranze degli uomini.
Chiamati alla speranza: questo motto del Sinodo evangelico del ’79 non esprime, invece, il sentimento del cristianesimo borghese e della religione amministrata nella Repubblica Federale di Germania. Al contrario, il nostro modo di sentire è piuttosto quello dell’angoscia, di un atteggiamento d’attesa indeterminato, cupo, che s’aspetta sempre il peggio, quello di una mestizia che non riconosce qualcosa di positivo né a se stessi né ad altri. Nel ’78 sono state condotte due complesse analisi sulla Germania, una negli USA, l’altra in Inghilterra. Entrambe hanno rilevato un tratto tipico dei tedeschi, che non è più quello della smania del lavoro né quello più accreditato del miracolo economico e neppure quello della straordinaria stabilità del marco, ma quello dell’angoscia dei tedeschi. Indubbiamente questa dipende anche dall’esecrabile ondata di terrore che si è riversata sulla Repubblica Federale, spesso con la reazione isterica da parte dell’opinione pubblica. Ma l’angoscia dei tedeschi non ha origine soltanto dal terrore. Le sue radici sono più profonde. Spiega perché tanti individui vedano il futuro soltanto come una minaccia del loro presente e non più come possibilità per il nuovo. Spiega perché tanti giovani non abbiano soltanto paura della morte ma già della vita stessa. E spiega ancora perché alcuni non capiscano più il mondo e cerchino i grandi colpevoli. Quest’angoscia generalizzata ci rende ricattabili e quindi pure aggressivi, rabbiosi. Ciò che di meglio parecchi s’attendono dal futuro e che vien loro promesso nei discorsi di Capodanno è la continuazione del presente che già possiedono, è la sicurezza dei ritmi di crescita anno per anno. Non vogliamo condannarli ma concretamente ci chiediamo quando abbiamo distrutto il nostro futuro, dove abbiamo seppellito la nostra speranza. Mi sia consentito di elencare in tutta franchezza tre cose per mezzo delle quali ritengo abbiamo distrutto il nostro futuro e tramutato la nostra speranza in angoscia:
a. Sulla terra esiste soltanto un popolo della speranza. È il popolo di Dio dell’antica e della nuova alleanza. Avendo gli ebrei e cristiani una comune speranza nel Messia, in ‘Colui che viene’, si trovano pure insieme sulla strada che conduce al regno ed al futuro di Dio, per cui vengono insieme perseguitati e insieme dovranno soffrire. Quando Israele è condotto al macello, se la causa è giusta è la chiesa stessa che lo accompagna. Però quando ciò si verificò nell’olocausto del Terzo Reich le chiese di Germania non erano presenti. Stipulavano concordati, lottavano per la propria sopravvivenza e cercavano di salvare se stesse. Certo, alcuni camminarono a fianco degli ebrei e con loro condivisero fedelmente l’unica speranza. Ed è vero anche che alcuni individui aprirono le porte ai perseguitati, furono loro stessi perseguitati e di fronte al pubblico odio conservarono l’amore. Questi sono i rappresentanti della speranza fino ai giorni nostri. Ma le chiese nel loro complesso furono troppo chiese di stato e s’affidarono troppo all’autorità per cercare ancora in Israele la propria speranza. Là, ad Auschwitz e Maidanek e negli altri lager di morte, con il loro silenzio e loro avversione per gli ebrei, i cristiani hanno tradito il proprio futuro ed affossato la propria speranza. Dove venne annientato il popolo ebraico della speranza, qui venne annientata anche la speranza cristiana. E penso che dobbiamo vederlo in tutta chiarezza: dal silenzio sull’annientamento della speranza ebraica è nato in noi lo stravolgimento della nostra speranza in angoscia, una angoscia di colpa. La chiave per la rinascita della nostra speranza sta ad Auschwitz!
b. Nelle società del benessere si diffonde ovunque lo scoraggiamento di massa. C’è un nesso tra angoscia e benessere? Di per sé no, ma concretamente molto stretto quando si tratta di un benessere ingiusto, conseguito a spese di altri uomini e popoli. E noi nella Repubbica Federale viviamo a spese delle popolazioni povere? I portavoce di quelle popolazioni lo affermano:
la vostra speranza – essi dicono – è la nostra disperazione! Gli esponenti dell’economia tedesca e della nostra politica lo negano. Ma ce lo attesta la nostra angoscia di fronte al futuro: non si può essere felici e non aver speranza. Ed è ciò che si verifica quando si vive in un’isola del benessere, in mezzo ad un mare sempre più vasto di povertà. Ci si può difendere da questo mare di gente affamata rifiutandosi di aprire gli occhi, aumentando le restrizioni doganali per le importazioni, elevando il prezzo delle esportazioni e attingendo il ricavato per versarlo come elemosina sotto forma di aiuti destinati allo sviluppo (che non raggiungono comunque nemmeno lo 0,7 % del prodotto sociale lordo). Ma allora non avremo nemmeno più un futuro nel quale poter sperare. Se le nazioni ricche garantiscono i loro patrimoni di fronte alle rivendicazioni delle nazioni povere, annullano anche il loro proprio futuro ed affossano la propria speranza. Sintomatici a tale proposito sono la crescente perplessità, la diffusa tristezza, anzi il cinismo. La chiave per la rigenerazione della nostra speranza sta colà ove l’abbiamo sepolta: nei popoli sfruttati ed oppressi e nella loro liberazione!
c. Infine, le speranze che le nostre società hanno investito nell’edificazione del loro potere industriale hanno da tempo ormai cozzato contro i limiti dello sviluppo. La degradazione dell’ambiente, la distruzione della natura ed i rischi mortali delle centrali atomiche stanno ad indicarci la fine di un cammino. Certo, la nostra fede nei ritmi di crescita è rimasta ancora intatta, tanto che siamo ancora disposti a sacrificarci per essa. Ma è anche vero che lentamente, e sicuramente, una simile superstizione si tramuterà in pena. Alle ‘crisi’ economiche rispondono le crisi spirituali sempre più diffuse, dato che molti avvertono come stiamo costruendo dei palazzi ma scavando la fossa per la creazione e per noi stessi. Su questa via non realizziamo la speranza ma l’affossiamo. Non otteniamo alcun futuro contro la natura nella quale viviamo. E se la natura verrà irrimediabilmente distrutta, con essa conoscerà la fine pure il nostro futuro. La chiave per la rigenerazione della nostra speranza sta colà ove noi minacciamo di annientare il futuro della creazione!
Finché il nostro futuro porterà altri uomini alla disperazione,
finché il nostro benessere significherà povertà per altri,
finché la nostra ‘crescita’ distruggerà la natura,
chi quotidianamente ci accompagnerà non sarà la speranza ma l’angoscia.
3. FEDE CHE RENDE POSSIBILE LA CONVERSIONE
«La fede che apre al futuro» è innanzi tutto una fede che rende possibile la conversione. E la conversione è la prassi della speranza vitale. Chi non ha speranza, chi non vede avanti a sé un futuro, non può convertirsi. Prima, invece che di conversione, si parlava di penitenza. Ma nella nostra lingua questo termine ha un sapore di punizione: chi fa penitenza si punisce finché non ha rimediato agli errori del passato. Per la Bibbia, invece, penitenza è conversione, e conversione è conversione al futuro: conversione al Dio vivente e quindi avversione dalla morte e da tutte le potenze che distruggono la vita. La speranza nel futuro è possibile soltanto quando si riconosce onestamente il passato e lo si accetta senza autogiustificarsi. Senza dubbio ogni av-versione, anche quella dalle vie che portano alla morte, è dolorosa, perché significa congedarsi da abitudini ormai inveterate, diventateci familiari. Ma la gioia per il futuro della vita è incomparabilmente maggiore. Conversione è gioia di Dio e degli uomini, come ci attesta il vangelo di Luca (cap. 15,10). Con il moto della conversione la speranza ritorna alla nostra vita. Soltanto attraverso la conversione noi siamo nuovamente certi del futuro.
La conversione afferra la nostra vita intera. Non le basta un cambiamento del modo di sentire ma esige una nuova prassi di vita. Né sono sufficienti le buone intenzioni. Tutto ciò che viene inserito nel movimento della conversione diventa ricolmo di speranza. Tutto ciò che le rimane al di fuori resta morto e privo di senso. Per questo esiste anche una conversione politica ed economica al futuro. Chi nel movimento della conversione vuol fermarsi a mezza strada e la comprende in modo puramente interiore, religioso o spirituale, blocca il suo futuro e distrugge la sua speranza. E lo devono capire anche le istituzioni teologiche ed ecclesiastiche: le ideologie borghesi e le religioni amministrate non aprono al futuro né rendono possibile la conversione. Esse vivono di paure e diffondono soltanto fallaci sentimenti di sicurezza.
Dove diventa oggi attuale quella fede che rende possibile la conversione?
La fede che rende possibile la conversione si rende attuale
a. nella conversione dei cristiani agli ebrei e della chiesa ad Israele. «Vivere da ebreo dopo Auschwitz è un comando della speranza», scriveva il filosofo ebraico Emil Fackenheim. Dopo Auschwitz essere tedeschi e vivere da cristiani è prima di tutto un ordine a ricordare, contro ogni desiderio di dimenticare. Soltanto se siamo risoluti a non dimenticare mai ritroveremo pure la nostra speranza e ci sarà un futuro anche dopo Auschwitz. Chi reprime questo passato o si scoraggia di fronte al peso che esso gli impone, dà a Hitler una vittoria postuma. La disponibilità ad essere sempre veri senza condizioni, deve accompagnarsi alla rinuncia alla propria giustificazione. E questo non vale soltanto per i singoli ma soprattutto per le istituzioni, ad esempio le chiese. Nella misura in cui accettiamo dolorosamente il nostro passato, disporremo anche della speranza che ci libera ad un nuovo futuro. Ed allora ci sentiremo pure felici nel constatare che i cristiani e gli ebrei, come giustamente Martin Buber osservava, hanno due cose in comune: un libro ed una speranza. La comunione degli ebrei e cristiani in questa speranza oggi implica pure la partecipazione alla storia ed anche alla storia del paese e stato d’Israele.
La fede che rende possibile la conversione si rende attuale
b. nella comunione conviviale con le genti povere ed oppresse e nella condivisione dei loro pesi. L’azione ‘Pane per il Mondo’ e gli aiuti allo sviluppo sono necessari, ché altrimenti molti uomini morirebbero di fame. Ma nel periodo storico che stiamo attraversando ciò che ha una priorità assoluta è l’edificazione di un ordine economico mondiale fondato sulla giustizia. Il problema non è ciò che noi possiamo dar loro ma quando cesseremo di prendere da loro. Le popolazioni povere non sono il nostro ‘problema’, ma siamo noi, popoli ricchi e industrializzati, il loro problema. E questo loro problema viene qui, da noi e attraverso noi, risolto od acutizzato. I più anziani si ricorderanno della ‘ripartizione di pesi’ del ’45. Benché tale ripartizione fosse imperfetta, l’idea era giusta: ripartire diversi pesi non è un problema di aiuto ma di giustizia. Noi dobbiamo sopportare insieme la sofferenza della fame, della mortalità infantile e della disoccupazione che regnano nel mondo. E questo non è un problema che si potrebbe risolvere aumentando le elargizioni. A queste miserie di massa si potrà rispondere soltanto con un nuovo tipo di comunione. L’ecumene e la solidarietà hanno inizio con una ripartizione della sofferenza. Una ricchezza ingiustamente acquisita rende i poveri ancor più poveri e i ricchi soli e tristi. Ripartendo i diversi pesi anche noi guadagniamo qualcosa: la fiducia degli altri popoli e la comunione con gli altri uomini. Tale comunione non ha forse più valore dei ritmi di crescita del nostro benessere?
La speranza esiste soltanto attorno al desco comune. Secondo un vecchio detto giudaico sulla speranza, il Messia verrà quando tutti gli ospiti avranno preso posto a mensa. E per i cristiani il Messia Gesù non è forse venuto perché tutti gli ospiti si sedessero attorno ad una tavola? E noi perché lo impediamo?
La fede che rende possibile la conversione diventa attuale
c. nella comunione con r ambiente naturale. Dallo sfruttamento – delle ricchezze del sottosuolo – al potere: è stata questa la via fin qui seguìta dall’umanità nel suo cammino verso la libertà. Modo di procedere comprensibile in un tempo in cui l’uomo si trovava esposto alle forze oscure della natura. Con lo sfruttamento, da schiavo egli si rese padrone della natura. Ma questa via è ormai giunta alla meta. Essa non ci conduce ad una maggior libertà ma si capovolge in una nuova dipendenza, perché in ultima analisi è l’uomo stesso che in quanto fattore di insicurezza deve venir superato per rendere possibile l’accesso all’era atomica. I rischi derivanti dall’impiego della forza nucleare e il controllo elettronico della popolazione sono i primi sintomi della distruzione della salute e dignità degli uomini. Dobbiamo cambiar rotta prima che gli uomini stessi, presi dal panico, non giungano all’autodistruzione collettiva. La nostra speranza sta in un nuovo patto con la natura. L’antica concezione della natura era fondata sullo sfruttamento rapace di un ‘bene senza padrone’. Come dice il profeta, si trattava di un patto con la morte, la morte della natura. Il nuovo patto sarà un patto di cooperazione, di simbiosi e di riconoscimento del diritto vitale dell’ambiente della natura. Solo questo patto ci condurrà alla vita. Solo esso c’infonderà nuovamente la speranza nel futuro. Soltanto questa via ci porterà alla libertà, se vera libertà non significa potere ma amicizia.
4. LA CONVERSIONE CHE TROVA IL FUTURO
Chi prova angoscia per il futuro non può convertirsi, anche se lo vuole. Chi crede in una fine catastrofica del mondo non si convertirà, perché non avrebbe senso. Chi davanti a sé non vede alcun futuro continua ad andare avanti come sempre, finché cadrà all’indietro, nella buca che lui stesso si è scavato. Per convertirsi bisognerà avere la forza di una speranza che trasforma la vita e vince il modo. Ma noi scopriamo la forza di una simile speranza soltanto quando troviamo e riconosciamo chiaramente il fondamento della speranza stessa. Qui non intendo riferirmi a delle argomentazioni che – pesate e ripesate – ci conformerebbero la speranza. Intendo invece la sorgente vitale da cui questa forza promana. E la sorgente vitale della speranza sta in un futuro dal quale ci vengono continuamente un nuovo tempo, una nuova possibilità ed una nuova libertà. È il futuro che troviamo in Gesù Cristo.
È lui il nostro futuro. È lui la nostra speranza. Nella conversione che la fede ci rende possibile noi troviamo lui, il nostro futuro e la nostra speranza. Che cosa significa? Vorrei precisarlo illustrando tre punti di orientazione:
a. Rigenerati ad una speranza vitale per mezzo della risurrezione di Cristo dai morti.
La risurrezione di Cristo e la nostra rinascita sono strettamente congiunte (1 Pt 1,3). Non si dà l’una senza l’altra. L’inizio della nuova vita di speranza in noi è la risposta che diamo a questa grande svolta di tutte le cose che va sotto il nome di ‘risurrezione di Cristo dai morti’. Al tempo stesso la sua risurrezione dai morti mira alla nostra rinascita dall’angoscia alla speranza e tramite essa alla rigenerazione di tutte le cose.
Chi ha capito la Pasqua ha trovato una speranza permanente. Ed è vero. Chi avendo accettato la Pasqua è ripieno di questa speranza permanente, non trova indifferenti le speranze a corta scadenza che si profilano nella vita di ogni giorno. Al contrario, le nostre speranze quotidiane attingono da quella speranza permanente e questa opera su di esse come un fuoco purificatore: brucia i germi della presunzione e il marciume della rassegnazione. Le indirizza e le eleva.
Questo però non significa prendere la risurrezione di Cristo alla lettera e concepirla in modo corporeo? Non si dovrebbero addurre delle prove storiche? Mi sia consentito dire in tutta brevità che per me le prove storiche, per ciò che nella storia è comprovabile, sono estremamente utili. Provare qualcosa significa sempre inquadrarlo come nuovo nel sistema di ciò che già si conosce. Ma la nostra storia è dominata dalla colpa, dalla sofferenza e dalla morte. La risurrezione di Cristo dai morti pone in questione proprio questa storia e questo sistema di colpa, sofferenza e morte. Per questo essa non è comprovabile in questo sistema. Il nostro mondo, si diceva in passato, non può sopportare la giustizia di Dio. Per tale motivo la giustizia futura di Dio trasformerà il mondo dalle fondamenta e farà nuova ogni cosa. Se trovassimo delle prove storiche, se disponessimo di testimonianze autenticate in forma notarile, se riuscissimo a produrre delle argomentazioni di tipo archeologico che ci assicurassero l’esistenza di un sepolcro vuoto, forse che sorgerebbe la fede? Verremmo forse rigenerati ad una speranza vita:le? È molto più probabile che ci limiteremmo a dire: ‘Ah, ecco! » a registrare un fatto che non conoscevamo, per poi continuare a vivere come prima.
Ben diversamente andranno le cose se non continueremo a vedere la risurrezione di Cristo nella prospettiva della storia ma la storia nella prospettiva della risurrezione. Allora ci accorgeremo che la costrizione esercitata dal male è stata piegata, che la vita è più forte della morte. Ora il corso ormai noto delle cose ci riesce incomprensibile, ci fa soffrire, ci fa sperare nella sua definitiva conversione. Credere non significa prendere conoscenza di un fatto che chiamiamo risurrezione, credere significa fare esperienza di quel potere creatore di Dio che realizza ciò che è impossibile. Credere significa risollevarsi dall’indolenza e tristezza e prendere parte al processo della risurrezione. La risurrezione di Cristo è il mezzo di cui Dio si serve per donarci la vita nuova. La rigenerazione alla speranza è il modo in cui noi conosciamo Cristo.
Se vediamo la storia nella prospettiva della risurrezione di Cristo, dobbiamo riprendere la parola della rigenerazione, un termine da tempo dimenticato nel protestantesimo delle chiese territoriali, dove come è noto ci si trova già bell’e nati. Nel Nuovo Testamento si usa di rado il termine ‘rinascita’, il cui contenuto però è presente ogni qualvolta si accenna al battesimo. Mt 19,28 parla innanzi tutto della rinascita – palingenesi – dell’intero cosmo quando il Figlio dell’Uomo verrà con il regno della sua gloria. La speranza di rinascita assume quindi delle proporzioni mondiali e cosmiche. Per la prima volta nella lettera di Tito (3,5) si parla della rinascita dei credenti secondo la misericordia di Dio per mezzo di Cristo nello Spirito Santo. Fin d’ora e già qui essi diventano eredi della vita eterna secondo la speranza. Secondo Matteo, poi, l’aspettativa universale della rinascita del cosmo viene già sperimentata dai credenti nella loro stessa vita. Nella rigenerazione dell’uomo singolo viene anticipata addirittura la rinascita della creazione intera. È questo il motivo permanente del fatto che anche la nuova vita dei credenti risulta caratterizzata da una speranza invitante, inclusiva ed aperta all’intera creazione. La nuova vita della speranza non assume i connotati dell’esclusione, quasi che uno potesse salvare solo se stesso e i suoi simili lasciando che il resto del mondo vada in perdizione. Chi è rinato alla speranza vede il futuro per il mondo intero e non soltanto per se stesso. Per questo egli non potrà rinunciare a nessun uomo ed a nessun settore della nostra vita.
«Se io dovessi rinunciare alla speranza anche per un sol uomo ed un solo brano della creazione, per me Cristo non sarebbe risorto» (Chr. Blumhardt).
Questa rinascita congiunge quindi la nostra vita di uomini, cosi misera ed insignificante, con il futuro di Dio per la creazione intera. Essa dà alla nostra vita, cosi caduca, un senso permanente. Il nostro vivere diventa segno della speranza per il futuro del mondo intero. Noi stessi diventiamo cosi una speranza, la speranza di Dio in questo mondo. E chi lo capisce non è più martoriato dal problema del senso. Ora è ricolmo di gioia e tutto impegnato nel comunicare e diffondere questa sua speranza.
b. Vivere nella libertà del Cristo risorto
La fede cristiana è essenzialmente fede di risurrezione. La fede di risurrezione è la rinascita alla speranza. A Taizé la vita vissuta in questa fede la si chiamava una ‘festa senza fine’. «lI Cristo risuscitato rende la vita una festa continua, una festa che non ha fine» (Atanasio).
Per il Natale del ’78 un mio amico argentino mi scriveva ponendomi la domanda: «Si può celebrare la vita in mezzo alla morte?». E aggiungeva: «Per noi, che viviamo nel continente latino-americano, non si tratta di un interrogativo vuoto. Qui la morte non s’incontra nella sfera di un potere sovversivo e delle contromisure repressive che esigono ogni giorno delle vittime. È più subdola e crudele, perché si manifesta nella forma della disoccupazione crescente, della diminuzione dei salari reali per i più poveri e in una mortalità infantile in continua crescita». Si può davvero, in un simile mondo, celebrare la vittoria di Cristo e vivere festosamente la vita? Per tanti uomini questa vittoria sembra essere inghiottita nella morte, dove chi trionfa è l’inferno.
La fede della résurrezione non prescinde affatto dalla morte per indirizzarsi esclusivamente all’eternità. Né si limita a piangere in questa valle di lacrime. Nella risurrezione del Figlio dell’Uomo, percosso e crocifisso, essa vede la grande protesta di Dio contro la morte e contro tutti quelli che favoriscono la morte e minacciano la vita. Nell’avvenimento del sacrificio e risurrezione di Cristo essa scopre infatti la passione infinita di Dio per la vita, la salvezza e libertà della sua creazione. E partecipa di questa passione. S’inserisce anch’essa in questa protesta elevandosi sull’apatia della miseria e soprattutto sul cinismo de’l benessere, per combattere contro la morte in mezzo alla vita. La morte, infatti, è il potere malvagio che si trova già nella vita stessa e non soltanto alla sua fine: qui la morte economica degli affamati, là morte politica degli oppressi; qui la morte sociale degli handicappati, là la morte fragorosa delle bombe o quella silenziosa delle anime indurite. La prova della risurrezione ce la offre il coraggio di sollevarci contro la morte. E non è un gioco di parole! Nella protesta contro le diverse morti che si verificano nella vita noi indichiamo la speranza in quella vita che trionfa sulla morte. Solo nella passione per la vita e dedizione per tutto ciò che la rende libera dimostriamo la nostra piena fiducia in quel Dio che risuscita i morti.
La fede della risurrezione è umanamente vitale nella protesta contro la morte, ma vive di qualcosa d’altro: dell’esuberanza del futuro che Dio ci ha promesso. Essa mostra la propria forza nella resistenza, ma vive dello stupore immotivato che su noi esercita il futuro, cioè della gioia infinita per il nuovo cielo e la nuova terra, dove abita la giustizia, e per la beatitudine eterna. «Tanto più» dice l’apostolo Paolo quando non parla della liberazione dal peccato, legge e morte, bensì della libertà alla vita eterna. È il plusvalore della speranza, l’eccedenza della promessa su questa nostra vita. Il tuttavia del nostro opporci alla morte ed all’indolenza è soltanto il lato oscuro di questo di più della speranza che ci anima.
Se la protesta di Dio contro la morte la si sperimenta nella battaglia contro le potenze letali, in che modo e dove sperimenteremo questo plusvalore della speranza? Nella festa! La Pasqua è una festa e viene celebrata come festa della libertà. Con la Pasqua i redenti incominciano a ridere, i liberati a danzare e la fantasia intreccia i suoi giochi creativi. Fin dall’antichità i riti pasquali celebravano la vittoria della vita, dileggiando la morte, deridendo l’inferno e mettendo in ridicolo i grandi signori di questo mondo. La Pasqua è la protesta di Dio contro la morte, è la festa della libertà dalla morte. Ma non dimentichiamolo: la resistenza è la protesta di coloro che sperano e la speranza è la festa di coloro che resistono.
c. Nell’ aspettativa della parusìa di Cristo
Cristo è la nostra speranza perché è il nostro futuro. Ciò significa che noi lo aspettiamo, speriamo nel suo ritorno e preghiamo: Vieni, Signore Gesù, vieni nel mondo, vieni da noi! Come la fede della risurrezione fonda la speranza, cosi il ritorno di Cristo determina l’orizzonte di questa speranza. Senza l’aspettativa del ritorno di Cristo non si dà alcuna speranza cristiana, perché senza di essa la speranza non può attendersi un’alternativa radicale nelle condizioni di questo mondo.
Non è forse un segno dell’imborghesimento del cristianesimo il fatto che l’aspettativa della parusia si è resa inefficace, è stata rimossa e ‘chiarita’, costretta ad emigrare nelle cosiddette sètte del sottosuolo religioso della società borghese? Chi non cerca una reale conversione, o crede di non averne bisogno, può anche rinunciare al futuro alternativo che ci si apre nella figura del Cristo che ritorna. Lui non ne ha bisogno. Chi invece si ‘lascia convertire incondizionatamente, considera importante il ritorno di Cristo e il suo regno messianico. Egli ha bisogno del sostegno di questo futuro per sganciarsi dal presente ed essere in grado di opporvisi in tutta libertà. Per lui il futuro di Cristo è più importante del presente del mondo. Per questo prega dicendo: Venga il tuo regno e passi questo mondo!
Certo, a caratterizzare l’aspettativa della parusia di Cristo e del suo regno il termine ‘ritorno’ suona infelice. Suppone infatti che ora Cristo sia assente e che poi ritorni. Il che non risponde all’esperienza della sua presenza nello Spirito. Trovo dunque migliore la vecchia traduzione di Lutero e Paul Gerhardt, che parlavano del futuro di Gesù Cristo. Ciò suppone la sua presenza.
Attorno all’aspettativa del futuro di Cristo nella storia e in diversi gruppi cristiani del presente si catalizzano i motivi più diversi. Certamente l’avvento di Cristo non risponde ai sogni di vedetta degli esclusi: «Verrà il giorno della vendetta…». Né risponde ai sogni d’onnipotenza degli impotenti: «Allora saremo noi a dominare e giustiziare i nostri nemici». Infine, non avrà il significato di compensare le nostre delusioni: «In Paradiso le cose andranno meglio». Nell’aspettativa e invocazione del futuro di Cristo si compie invece quella speranza che è nata dalla sua risurrezione. Il Risorto «deve regnare» finché tutti i suoi nemici non siano posti ai suoi piedi. È su questo che l’Apostolo fonda la sua speranza nella parusia (1 Coro 15,25). Ma se Cristo è stato risuscitato per la nostra risurrezione e regna con la libertà con la quale ci ha liberati, allora dal suo futuro non dovremo attenderei niente di più e niente di meno del compimento della giustificazione e un regno della libertà che coinvolga pure la ‘creatura che geme’. Certo, con la venuta di Cristo nella gloria si attende anche il giudizio: «Egli verrà per giudicare i vivi e i morti». La salvezza, per essere completa, deve segnare pure la fine della sventura. Al regno di Dio appartiene anche il suo giudizio. Non esiste alcuna ragione per dimenticarlo, occultarlo e demitizzarlo come apocalittica arcaica. Ma esistono ancor minori ragioni per lasciarsi prendere dal panico di fronte all’ ‘ultimo giudizio’ e dipingerlo con le orrende visioni medievali dell’inferno. Anche il futuro giudizio sui vivi e sui morti è un oggetto della speranza, della brama e dell’invocazione: «Signore, vieni presto!». Infatti chi è il giudice? È lo stesso Cristo che si è sacrificato fino alla morte per i nostri peccati e che ha sopportato i nostri dolori e malattie. Come non attendere con gioia il suo giudizio?! In base a che cosa il Crocifisso giudicherà? In base alla Legge od al suo Vangelo? Secondo le nostre opere o secondo la sua sofferenza per noi? Come non accogliere con gioia questo giudice del mondo che per noi è il Crocifisso? Ed infine, a quale scopo egli giudicherà? Per punire i malvagi e ricompensare i buoni, o per imporre la sua giustizia su tutti e tutto? Giudicherà per condannare o per risollevare? La giustizia dell’ultimo giudizio sarà diversa da quella che noi ora sperimentiamo nell’avvenimento della giustificazione dei peccatori? L’attesa dell’ultimo giudizio non deve tramutarsi in una proiezione delle nostre colpe e angosce represse, né potrà diventare una proiezione della nostra palese autogiustificazione. Se si fonda sul ricordo e attuale esperienza di Cristo, essa s’indirizzerà anche verso il suo futuro: la sua giustizia trionferà! È lui, il Crocifisso che giudicherà, e giudicherà secondo il suo Vangelo. L’annuncio del giudizio venturo è un messaggio lieto e liberatorio, non una minaccia che c’incute terrore. Per questo cantiamo gli inni dell’avvento. Nel giudizio di Cristo noi possiamo sperare con la stessa letizia che accompagna la nostra speranza del suo regno. Anche se non sappiamo precisamente che cosa avverrà e che cosa noi diventeremo, una cosa è certa: Il nostro Signore viene. Sia ringraziato Dio!
5. CHIAMATI ALLA SPERANZA
In un vecchio racconto del Talmud si narra che un rabbi un giorno provò a riflettere su quali domande un giudeo sarebbe chiamato a rispondere nell’ultimo giudizio. Che cosa chiederà il Giudice del mondo? Il rabbi s’attenne innanzitutto a ciò che è più ovvio e noto: Ti sei comportato correttamente negli affari, hai cercato la sapienza, osservato i comandamenti, ecc.? Alla fine gli sorse una domanda che lo colse di sorpresa: riguardava il Messia. La domanda che il Giudice del mondo porrà suona: Hai sperato nel mio Messia? L’aspettativa messianica, infatti, rientra essenzialmente nell’esperienza giudaica della fede.
Se la fede cristiana è essenzialmente speranza, anche i cristiani dovranno tener presente che il Signore, quando verrà, chiederà loro: Avete sperato in me? Avete conservato la speranza? Siete rimasti nella speranza quando eravate tentati d’abbandonarla? Avete perseverato fino alla fine? Le sue domande sulla nostra speranza e nostro permanere in essa sono importanti, tanto importanti che la nostra salvezza eterna dipende dalla risposta: chi ha perseverato fino alla fine sarà salvo! Nella speranza permanente conserviamo anche noi stessi e non siamo costretti a scomparire. Nella speranza che permane noi ci affidiamo alla vittoria di Cristo, una vittoria che non abbandoniamo all’afflizione né al male.
Noi siamo chiamati alla speranza!
Usciamo dalle nostre angosce
e impariamo a sperare dalla Bibbia!
Andiamo oltre i nostri limiti
per scoprire il futuro nella conversione!
Non attendiamo più ad alcun confine
ma soltanto a Colui che ce li ha aperti!
Egli è risorto.
Cristo è davvero risorto.
Lui è il nostro futuro

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