Archive pour juillet, 2010

SAN GIACOMO IL MAGGIORE – FESTA IL 25 LUGLIO

dal sito:

http://www.confraternitadisangiacomo.it/new/san_giacomo.htm

SAN GIACOMO IL MAGGIORE – FESTA IL 25 LUGLIO

Giacomo fa parte della ristretta cerchia degli apostoli  preferiti da Gesù: in occasione della resurrezione della figlia di Giàiro il Signore « non permise a nessuno di seguirlo fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo » (Mc 5,37). Solo a quei tre apostoli è concesso di assistere alla Trasfigurazione. E ancora. Arrivato al Getsemani, ai piedi del Monte degli Ulivi, Gesù chiede ai discepoli di sedersi mentre lui prega: « Prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e cominciò a sentire paura e angoscia. Gesù disse loro: « La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate »" (Mc 14,33). Giacomo, insomma, viene scelto come testimone diretto di eventi fondamentali della vita del suo Maestro.  Il « figlio del tuono » è curioso, qualche volta persino impudente. Come quando assieme al fratello, camminando verso Gerico, chiede a Gesù: « Maestro, noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo ». E poi: « Concedici di sedere nella tua Gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra » (Mc 10,37). Per onor di cronaca, secondo Matteo, è invece la madre a chiederlo per loro. Lo incalzano anche sul Monte degli Ulivi: assieme a Pietro e Andrea, prendono in disparte Gesù e gli chiedono quando avverrà la fine del tempo che ha appena annunciato. Anche forse per il suo temperamento Giacomo è il primo degli apostoli a cadere sotto il martirio. A volere la sua morte è Erode Agrippa I, chiamato « re » di Giudea per distinguerlo dallo zio, il tetrarca Erode Antipa. Appena giunto in Palestina, Erode Agrippa I si propone di soffocare i gruppi della comunità ebraica che annunciavano la morte del Figlio di Dio e cerca di mettere in galera e uccidere i loro capi. Erode Agrippa fa uccidere Giacomo nel 42/44. “In quel tempo il re Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa e fece uccidere di spada Giacomo fratello di Giovanni” (At 12,1-2 ).
I primi dati biografici sull’Apostolo Giacomo, detto anche il Maggiore, per distinguerlo dall’apostolo omonimo, provengono fondamentalmente dai Vangeli. Giacomo, di professione pescatore, come tanti se ne incontravano in Galilea, è figlio di Zebedeo, originario di Bétsaida, sulle rive del lago di Tiberiade, e di Maria Salome, una delle donne che diede sepoltura al Salvatore, nonché fratello di Giovanni l’Evangelista, discepolo prediletto da Gesù.
È sempre messo tra i primi tre apostoli. Pronto e impetuoso di carattere come il fratello, con lui viene soprannominato “Boanerghes” (figli del tuono) da Gesù ma è fra i prediletti di lui insieme col fratello, con Pietro e Andrea. Fu presente ai principali miracoli del Signore, alla Trasfigurazione di Gesù sul Tabor e al Getsémani alla vigilia della Passione. La profezia di Gesù, secondo cui avrebbe bevuto con lui il calice del sacrificio e del martirio, si realizzò in pieno, quando Giacomo fu il primo tra gli apostoli a subire il martirio per il suo Signore: morì, infatti, decapitato sotto Erode Agrippa, a Gerusalemme, nei giorni della Pasqua del 42 (Atti 12,2). Secondo il Breviarium Romanum di Urbano VIII (1631), la salma dell’apostolo venne traslata in Spagna il 25 luglio dello stesso anno e nascosta in Galizia. Ma la vicenda dei resti mortali dell’ Apostolo è a dir poco leggendaria e circondata da un alone di mistero.
Giacomo Rimase in Spagna e tornò a Gerusalemme al tempo stabilito, dove subì il martirio. I suoi discepoli Teodosio e Anastasio, ne disseppellirono la salma e giunti al mare scorsero un’imbarcazione che li condusse fino al porto romano di Iria Flavia, in Galizia. Lì giunti deposero le spoglie del Santo su di una pietra che si fuse formando un sarcofago intorno al suo corpo. Questo fu posto nella città ove regnava la regina Lupa, in una cappella dove trovarono sepoltura anche i due discepoli Teodosio e Anastasio.
È venerato soprattutto in Spagna a Compostella, dove è sepolto e dove sorge la celebre basilica a lui dedicata meta del celebre pellegrinaggio.
Secondo il Breviarium Apostolorum (VII sec.) gli Apostoli andarono per il mondo per predicarvi il Vangelo: Giacomo andò in Spagna, ma la sua predicazione ebbe scarso effetto. Quando ormai pensava di tornare a Gerusalemme, gli apparve su di un pilasto la Vergine, che lo esortò a riprendere questa missione e a edificarle una Chiesa (questa sarebbe l’origine della basilica di Santa Maria del Pilar di Saragozza, che ospita ancora il famoso Pilar rivestito d’argento).
Il luogo era venerato dai cristiani di quelle terre e sembra che nel VI secolo fosse diffuso nella penisola iberica un culto molto sentito per S.Giacomo. Seguirono gli anni delle invasioni e dell’oblio, e sull’ubicazione del sepolcro non rimase che una tenue tradizione orale. Il luogo della sepoltura resterà sconosciuto per tutto il tempo che gli invasori, prima i Visigoti, poi gli Arabi, irromperanno in Spagna. La riscoperta avvenne tra l’ 812 e l’814: l’eremita e pastore Pelayo comincia a vedere notte dopo notte, sul monte Libradon, che una luce o una stella, comparivano sul tumulo di quello che era stato un antico cimitero romano (da ciò sembra che derivi il nome di compostela, campus stellae).
L’eremita avvertì il vescovo di Ira Flavia, Teodomiro, di questo suggestivo evento. Rinvenuto un sacello marmoreo con tre scheletri, Teodomiro, vi riconobbe le reliqui di San Giacomo e dei suoi due Discepoli. Fu in quel periodo sotto l’incalzare della minaccia saracena, che il Santo, nella popolare iconografia del Santiago matamoros, armato di spada a far strage di Mori in sella a un cavallo bianco, divenne il punto di riferimento della Reconquista cattolica, iniziata nell’VIII secolo dai piccoli regni cristiani (Galizia, Asturie, Navarra) sfuggiti alla dominazione araba. Poco conta se Giacomo venne o non venne in Spagna; se le spoglie ritrovate nel IX secolo fossero o non fossero le sue. Quel che conta è che questi episodi fanno da corollario, rendono ragione delle costruzione di una identità; l’identità storicamente incontrovertibile della nostra matrice culturale che si è venuta formando, grazie alla fede di milioni di pellegrini, sulle strade di Aragona, di Navarra, e di Galizia.
San Giacomo stesso fu rappresentato come un pellegrino, col bordone in mano, la zucca dell’acqua e la conchiglia per bere. Proprio la conchiglia fu il distintivo dei pellegrini diretti a San Giacomo di Compostella mentre i « romei » diretti a Roma avevano per distintivo la Veronica, cioè il volto di Gesù. La palma, infine, era il distintivo di coloro che, ancor più coraggiosamente, si recavano a Gerusalemme, dove San Giacomo aveva subito il martirio, ma dove sembrava quasi dimenticato, da quando la sua fama era volata tanto alta sull’Europa, approdando a Compostella, in Galizia.
A seguito di un sogno avuto da Carlo II il Casto re delle Asturie, (questo dice la leggenda) durante la riconquista delle medesime iniziò, a diffondersi l’iconografia del « Santiago Matamoros » che, con le vesti di un guerriero e quasi sempre in sella ad un cavallo, viene raffigurato nell’atto di uccidere i mori infedeli, da qui l’appellativo di « Matamoros » (ammazzamori n.d.r).

STORIA DI COMPOSTELA

Di fatto non esistono documenti che fissino con sicurezza la data del suo arrivo nella penisola iberica, ma d’altra parte la tradizione che avallava la sua presenza sul territorio fu talmente radicata e accettata nel Medio Evo che sarebbe quanto meno azzardato negarle valenza storica.
Se non esistono documenti storici che provino la presenza di San Giacomo in Spagna, esistono invece tre elementi fondamentali a riprova di questa tradizione: il soggiorno di Santiago in terra spagnola nel suo viaggio di evangelizzazione dalla Palestina attraverso il Mediterraneo e il suo successivo ritorno a Gerusalemme, dove fu martirizzato per ordine di Erode Agrippa nell’anno 42 dopo Cristo. La traslazione dei suoi resti in Spagna, avvenuta per via mare, ad opera dei suoi discepoli che approdarono in Galizia, esattamente a “Finisterrae”, allora considerato il punto estremo dell’Europa conosciuta. Il rinvenimento di questi resti nei pressi di Iria Fluvia, località sede episcopale (oggi si chiama Padròn), ad opera del vescovo Teodomiro, all’inizio del IX secolo dopo Cristo, ossia fra gli anni 812-814.
A partire dal rinvenimento, la prova storica e la documentazione su Santiago sono una realtà dimostrata, come narra la “Historia Compostelana”, un documento dell’epoca che testimonia appunto come fu rinvenuto il corpo del Santo. 

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Omelia per il 26 luglio 2010

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/15718.html

Omelia (27-07-2009) 
a cura dei Carmelitani

1) Preghiera

O Dio, nostra forza e nostra speranza,
senza di te nulla esiste di valido e di santo;
effondi su di noi la tua misericordia
perché, da te sorretti e guidati,
usiamo saggiamente dei beni terreni
nella continua ricerca dei beni eterni.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…

2) Lettura del Vangelo

Dal Vangelo secondo Matteo 13,31-35
In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola: « Il regno dei cieli si può paragonare a un granellino di senapa, che un uomo prende e semina nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande degli altri legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano fra i suoi rami ».
Un’altra parabola disse loro: « Il regno dei cieli si può paragonare al lievito, che una donna ha preso e impastato con tre misure di farina perché tutta si fermenti ».
Tutte queste cose Gesù disse alla folla in parabole e non parlava ad essa se non in parabole, perché si adempisse ciò che era stato detto dal profeta: « Aprirò la mia bocca in parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo ».

3) Riflessione

• Stiamo meditando il Discorso delle Parabole, il cui obiettivo è quello di rivelare, per mezzo di paragoni, il mistero del Regno di Dio presente nella vita della gente. Il vangelo di oggi ci presenta due brevi parabole, il granello di senape e il lievito. In esse Gesù racconta due storie tratte dalla vita di ogni giorno, che serviranno di termine di paragone per aiutare la gente a scoprire il mistero del Regno. Nel meditare queste due storie non bisogna cercare di scoprire ciò che ogni elemento delle storie ci vuole dire sul Regno. Si deve guardare prima la storia in sé, come un tutto e cercare di scoprire qual è il punto centrale attorno a cui la storia fu costruita, poiché questo punto centrale servirà da termine di paragone per rivelare il Regno di Dio. Vediamo qual è il punto centrale delle due parabole.
• Matteo 13,31-32: La parabola del granellino di senape. Gesù dice: « Il Regno dei cieli è simile ad un granellino di senape » e, poi racconta subito la storia: un granellino ben piccolo viene gettato nel campo; essendo molto piccolo, cresce, diventa più grande delle altre piante ed attira gli uccelli che in essa si costruiscono il nido. Gesù non spiega la storia. Vale qui ciò che ha detto in un’altra occasione: « Chi ha orecchi per udire, intenda! » Ossia: « E’ questo. Avete sentito, ed ora cercate di capire! » Tocca a noi scoprire ciò che la storia ci rivela sul Regno di Dio presente nella nostra vita. Così per mezzo di questa storia del granellino di senape, Gesù ci spinge ad avere fantasia, perché ognuno di noi capisce qualcosa della semina. Gesù spera che le persone, noi tutti, cominciamo a condividere ciò che ognuno di noi ha scoperto. Condivido ora tre punti che ho scoperto sul Regno, partendo da questa parabola:
(a) Gesù dice: « Il Regno dei Cieli è simile ad un granellino di senape ». Il Regno non è qualcosa di astratto, non è un’idea. E’ una presenza in mezzo a noi (Lc 17,21). Come è questa presenza? E’ come il granellino di senape: presenza ben piccola, umile, che quasi non si vede. Si tratta di Gesù stesso, un povero falegname, che va per la Galilea, parlando del Regno alla gente dei villaggi. Il Regno di Dio non segue i criteri dei grandi del mondo. Ha un altro modo di pensare e di procedere.
(b) La parabola evoca una profezia di Ezechiele, in cui si dice che Dio prenderà un piccolo ramoscello di cedro e lo pianterà sulle montagne di Israele. Questo piccolo ramoscello di centro « metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà. Sapranno tutti gli alberi della foresta che io sono il Signore, che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso; faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco. Io, il Signore, ho parlato e lo farò». (Ez 17,22-23).
(c) Il granellino di senape, pur essendo piccolo, cresce e suscita speranza. Come il granellino di senape, così anche il Regno ha una forza interiore e cresce. Come cresce? Cresce attraverso la predicazione di Gesù e dei discepoli e delle discepole nei villaggi della Galilea. Cresce, fino ad oggi, mediante la testimonianza delle comunità e diventa una buona notizia di Dio che irradia luce ed attira le persone. La persona che arriva vicino alla comunità, si sente accolta, in casa, e costruisce in essa il suo nido, la sua dimora. Infine, la parabola lascia in aria una domanda: chi sono i passeri? La domanda otterrà una risposta più in là, nel vangelo. Il testo suggerisce che si tratta dei pagani che potranno entrare nel Regno (Mt15,21-28).
• Matteo 13,33: La parabola del lievito. La storia della seconda parabola è questa: una donna prende un pochino di lievito e lo mescola con tre porzioni di farina, fino a che il tutto fermenti. Di nuovo, Gesù non spiega, dice solamente: « Il Regno dei Cieli è come un lievito… ». Come nella prima parabola, tocca a noi scoprirne il significato che ha oggi per noi. Ecco alcuni punti da me scoperti, che mi hanno fatto pensare: (a) Ciò che cresce non è il lievito, ma la pasta. (b) Si tratta di una cosa ben di casa, del lavoro di una donna di casa. (c) Il lievito si mescola con la massa pura della farina, e contiene qualcosa di putrido. (d) L’obiettivo è far fermentare tutta la pasta, non solo una parte. (e) Il lievito non ha valore in se stesso, ma serve per far crescere la pasta.
• Matteo 13,34-35: Perché Gesù parla in parabole. Qui, alla fine del Discorso delle Parabole, Matteo chiarisce il motivo che spingeva Gesù ad insegnare alla gente sotto forma di parabole. Lui dice che era affinché si compisse la profezia che diceva: « Aprirò la bocca per usare parabole; proclamerò cose nascoste fin dalla creazione del mondo ». In realtà, il testo citato non è di un profeta, bensì è un salmo (Sal 78,2). Per i primi cristiani tutto l’Antico Testamento era una grande profezia che annunciava velatamente la venuta del Messia ed il compimento delle promesse di Dio. In Marco 4,34-36, il motivo che spingeva Gesù ad insegnare alla gente per mezzo di parabole era quello di adattare il messaggio alla capacità della gente. Con questi esempi tratti dalla vita della gente, Gesù aiutava le persone a scoprire le cose di Dio nella vita di ogni giorno. La vita diventava trasparente. Faceva percepire che lo straordinario di Dio si nasconde nelle cose ordinarie e comuni della vita di ogni giorno. La gente capiva le cose della vita. Nelle parabole riceveva la chiave per aprirla ed incontrare in essa i segni di Dio. Alla fine del Discorso delle Parabole, in Matteo 13,52, come vedremo dopo, ci sarà spiegato un altro motivo che spinge Gesù ad insegnare con parabole.

4) Per un confronto personale

• Qual è il punto di queste due parabole che più ti è piaciuto o che più ti ha colpito? Perché?
• Qual è il seme che, senza che tu te ne rendessi conto, è cresciuto in te e nella tua comunità?

5) Preghiera finale

O mia forza, a te voglio cantare,
poiché tu sei, o Dio, la mia difesa,
mio Dio, tu sei la mia misericordia. (Sal 58) 

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 25 juillet, 2010 |Pas de commentaires »

San Giovanni Crisostomo: La parabola del lievito

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100726

Lunedì della XVII settimana delle ferie del Tempo Ordinario : Mt 13,31-35
Meditazione del giorno
San Giovanni Crisostomo (circa 345-407), vescovo d’Antiochia poi di Costantinopoli, dottore della Chiesa
Omelia sul Vangelo di San Matteo, 46, 2-3

La parabola del lievito

        Il Signore presenta, in seguito, l’immagine del lievito : come questo lievito comunica la sua forza alla massa di farina, così trasformerete, anche voi, il mondo intero… Non mi obiettate : cosa potremo fare, noi che siamo soltanto dodici, gettati in mezzo a una folla così grande ? Ciò che farà risaltare lo splendore della vostra potenza, è proprio il fatto che affrontiate la moltitudine senza indietreggiare… È solo Cristo che dà al lievito la sua potenza : ha impastato con la moltitudine, quelli che avevano fede in lui, perché ci comunicassimo gli uni agli altri le nostre conoscenze. Non lo si rimproveri per il numero ridotto dei suoi discepoli, perché grande è la potenza del messaggio ; e quando la massa è fermentata, diviene essa stessa, a sua volta, lievito per il resto…

        Ma, se dodici uomini hanno fatto lievitare la terra intera, quanto siamo cattivi noi che, nonostante il nostro numero considerabile, non riusciamo a convertire quelli che ci circondano, quando un tale numero dovrebbe bastare per essere lievito per migliaia di mondi ! – Questi dodici però, direte, erano Apostoli ! – E allora ? Non erano forse nelle stesse condizioni di noi. Non abitavano in città ? Non condividevano la nostra sorte ? Non esercitavano mestieri ? Erano forse angeli scesi dal cielo ? Dite che hanno fatto miracoli ? Però non è per questo motivo che li ammiriamo. Fino a quando parleremo dei loro miracoli per nascondere la nostra pigrizia ?…– Allora da dove viene la grandezza degli Apostoli ? – Dal loro disprezzo delle ricchezze, dal loro disdegno della gloria… È il loro modo di vivere che dà il vero splendore e fa scendere la grazia dello Spirito.

Giovanni Paolo II : « Se voi che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste ? »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100725

XVII Domenica delle ferie del Tempo Ordinario – Anno C : Lc 11,1-13
Meditazione del giorno
Giovanni Paolo II
Dives in misericordia, cap. 8,15

« Se voi che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste ? »

        Quanto più la coscienza umana, soccombendo alla secolarizzazione, perde il senso del significato stesso della parola «misericordia», quanto più, allontanandosi da Dio, si distanzia dal mistero della misericordia, tanto più la Chiesa ha il diritto e il dovere di far appello al Dio della misericordia «con forti grida» (Mt 15, 23). Queste «forti grida» debbono essere proprie della Chiesa dei nostri tempi…

        L’uomo contemporaneo si interroga spesso, con profonda ansia, circa la soluzione delle terribili tensioni che si sono accumulate sul mondo e si intrecciano in mezzo agli uomini. E se talvolta non ha il coraggio di pronunciare la parola «misericordia», oppure nella sua coscienza, priva di contenuto religioso, non ne trova l’equivalente, tanto più bisogna che la Chiesa pronunci questa parola, non soltanto in nome proprio, ma anche in nome di tutti gli uomini contemporanei. Bisogna che la pronunci in un’ardente preghiera, in un grido che implori la misericordia secondo le necessità dell’uomo nel mondo contemporaneo.

        Questo grido sia denso di tutta quella verità sulla misericordia che ha trovato cosi ricca espressione nella Sacra Scrittura e nella tradizione, come anche nell’autentica vita di fede di tante generazioni del Popolo di Dio. Con tale grido ci richiamiamo, come gli scrittori sacri, al Dio che non può disprezzare nulla di ciò che ha creato, al Dio che è fedele a se stesso, alla sua paternità e al suo amore.

DIO PADRE NOSTRO (Mt.6,9-13) lectio

dal sito:

http://www.sanbiagio.org/lectio/vangelo_matteo/dio_padre_nostro_lectio.htm

DIO PADRE NOSTRO

Mt.6,9-13

Approfondire il « Padre Nostro » può sembrare scontato. E’ una preghiera cui siamo abituati fin da bambini. Ed è proprio dall’ « abitudine » che ci deve trar fuori la nostra Lectio Divina, per poter scoprire le inesplorate profondità della preghiera che Gesù stesso ci ha insegnato. Allora e solo allora arriveremo a cogliere la densità del termine « Padre » a cui corrisponde il mistero di Dio come Padre di noi che, in Gesù, siamo suoi figli. Sarà importante confrontare Lc 11, 1-4 e cogliere le differenti modalità della stesura dentro però un’identica sostanza. La formula di Matteo è più solenne e rivela uno stile più liturgico.

Il brano è collocato in quel « discorso della montagna » che è un po’ la « magna-Charta » di tutto l’insegnamento di Gesù. In questo capitolo 6 è puntualizzata soprattutto la necessità di non orientare la propria vita all’ « apparire », ma all’ « essere ». Quell’entrare nella camera (=il cuore) e « chiudere la porta » (= del cuore), quel sapere che il Padre vede nel « segreto » (del cuore), quel credere che non lo spreco di molte parole, ma l’apertura a credere che il Padre sa di che cosa abbiamo bisogno ancor prima che chiediamo: tutto questo è richiamo forte a un cammino di fede-essenzialità che ha radici all’interno del nostro cuore, non fuori. Non a caso poi, immediatamente dopo aver consegnato il Padre Nostro, Gesù scandisce l’inderogabilità del perdono; il Padre perdonerà a noi, solo se noi perdoniamo (cf al riguardo in Mt. 18, 21-35 l’importantissima parabola del servo a cui molto è perdonato, ma che diventa strozzino verso il debitore). E’ dunque evidente che una condizione di fondo per pregare è il sapersi perdonati da Dio e voler perdonare ai fratelli.

Cogliamo nettamente una introduzione invocatoria e sette domande divise in due nuclei di tre con la quarta al centro. Le prime tre domande riguardano direttamente Dio, la quarta il pane, le altre tre il perdono e la vittoria sul male. Sono 7 le domande. E non a caso! Il 7 dice, biblicamente, perfezione.

v. 9 Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli
L’appellativo « padre » si può trovare in tutte le religioni, ma è il contesto che conta! Nel Vangelo (anche a differenza del Primo Testamento) la parola Padre si coglie come la chiave interpretativa per avvicinarsi al mistero di Dio. Dio è Onnipotente. Certo! Ma la sua onnipotenza è tale per salvarmi, per volermi bene. E’ dominatore. Certo! Ma il suo è il dominio dell’amore in cui come Padre si dona. E’ giudice. Certo! Ma esercita la sua giustizia di Padre che mi sollecita a scelte che mi permettano di essere salvato. Capire questo è di fondamentale importanza. Nostro cioè « Padre di noi che siamo chiamati a riconoscere il mistero di Dio nel volto dei fratelli ». « Che sei nei cieli » sottolinea non la lontananza ma la trascendenza. Questo Dio che è Padre (ma anche Madre, Sposo, Amore senza limiti) è presente in tutto. Non posso però dire che « tutto è Dio ». E la sua è « Presenza-Mistero »; Dio non è catturabile, non è da banalizzare. Nel suo commento San Francesco esclama: « Santissimo Padre nostro: creatore, redentore, consolatore e salvatore nostro ».

v. 9b-10 Sia santificato il tuo nome
Dio è la santità per eccellenza, infinita. Che dunque significa questa petizione? Lo capiamo contemplando Gesù. Il nome è biblicamente « presenza » Gesù ha santificato (=glorificato) il Nome del Padre fino alla Croce e il Nome (=Presenza del Padre) ha santificato Lui (=glorificato) fino alla Resurrezione. Santificare il nome di Dio Padre per noi significa accettare la croce di Gesù nelle nostre giornate e credere che la Presenza di questo Padre-Amore opera continuamente risurrezione in noi, come in Gesù, se gli diamo fiducia. Da questo punto di vista capisco come tutto nel mio quotidiano può essere « santificato »: il dolore e la gioia, il lavoro manuale e intellettuale, la padronanza serena dell’intelligenza incorporata nel computer, in internet, ecc. Proprio tutto. Quel che importa è che io viva intero il mistero di Cristo dentro la mia realtà, sotto lo sguardo del Padre e per la sua gloria.

v. 10a Venga il tuo regno.
Un’antichissima variante in Lc. Diceva: « Venga il tuo Spirito Santo ». In effetti il Padre vuol darci lo Spirito Santo (cfr. Lc 11, )Proprio perché penetrati dalla sua grazia che libera e illimpidisce la vita, noi rifiutiamo il compromesso. Chiediamo in sostanza il Regno di Dio come giustizia, gioia e pace nello Spirito Santo. Già si affermi in noi e nel mondo. Allora, fuori dalle brame del possesso egoistico e dall’avidità di un piacere narcisistico, fuori dall’ingordigia carnale e dall’orgoglio spirituale, il nostro vivere Cristo diventa verità, bellezza, l’emergere del mio e dell’altrui « SE » in cammino verso la comunione. Non c’è più « esteriorità separante », ma la terra intera diventa « sacramento » e fiducia rappacificante e unitiva.

v. 10b Sia fatta la tua volontà come in cielo come in terra
Per volontà di Dio si intende tutto il « progetto » di Dio. Qui chiediamo che il progetto-grazia di Dio (che è salvezza) si realizzi attraverso le nostre scelte di vita. « Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli , ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli (Mt 7, 21-23) Ancora una volta Gesù, proprio nell’nsegnarci chi è il Padre e come rivolgerci a Lui, c’insegna a saldare la fede e la preghiera alla vita. Fuori da questa modalità la fede diventa spiritualismo e la preghiera illusione. Non per nulla Lui, nostro modello, ha detto di sé: « Mio cibo è fare la volontà del Padre mio » (Gv.4, ) Come in cielo così in terra. Significa che il progetto di Dio è per tutti e per tutto: cielo, terra, universo. Viene in mente il canto nei cieli di Betlemme: « Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà » La gloria di Dio nei cieli, quando è cercata anche dalla buona volontà umana, produce quello che è desiderabile in terra: la pace del cuore, delle relazioni, della vita.

v. 11 Dacci oggi il nostro pane quotidiano 
Collocata al centro della preghiera, questa petizione ci dice che è fondamentale avere il pane, ogni giorno: è un bisogno materiale ma, se non è soddisfatto, il resto o è devozionalismo o non è realizzabile. Abbiamo però anche fame del Pane « sovrasostanziale » che è la Parola di Dio e l’EUCARISTIA. Bisogna dunque che ci sfamiamo del pane materiale, ma questo bisogno non deve ingigantire al punto da soffocare o sopprimere la fame più profonda, di ordine spirituale. Attenzione poi a quell’aggettivo « nostro »! Non solo il padre è di tutti noi che siamo fratelli, ma anche il « pane » è una realtà di tutti. Non sono cristiano se non vivo la necessità di « spezzare » il pane (non mio, ma « nostro ») con chi non ne ha. Gesù ci insegna la negatività dell’accumulo: « Non potete servire a due padroni: o odierà l’uno e disprezzerà l’altro (…) Non potete servire Dio e mammona (Mt 6,24)

v. 12 E rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori
Se la domanda del pane è al centro, per le ragioni espresse, bisogna però coglierne lo stretto rapporto con questa petizione che è chiaramente la più importante. Avessimo infatti anche tutto il pane del mondo ma non ci sentissimo perdonati, riconciliati, la vita sarebbe un inferno. Qui la verità della domanda esige la verità della convinzione di fondo: siamo veramente peccatori e non è il caso di scivolare in « pura » retorica o vuoto di parole. L’immagine del debito riguarda due realtà: 1) ti ho fatto torto; 2) Non ti ho dato ciò che ti dovevo. Chi infatti può sentirsi « giusto » di fronte a Dio? Eppure Dio è DIO-PADRE NOSTRO perché mi perdona. La parabola del servo a cui è molto perdonato e che non vuol perdonare (Mt 18, 21-35) ci aiuta a « scavare » il senso di queste domande. Scrive O. Clement: « Non è perché io rimetto i debiti ai miei debitori che Dio rimette i miei. Io non condiziono il perdono di Dio. E’ invece perché Dio mi predona, mi riconduce a Sé, libero nella sua grazia, è perché sono invaso dalla gratitudine che estraggo gli altri dalle sabbie mobili del mio egocentrismo e permetto anche a loro di esistere nella libertà della grazia ». (Il Padre nostro – E:Q:igajon. Bose 1988 p. 111)

v. 13 E non ci indurre in tentazione
Dio non ci provoca al male, non gioca a vederci cadere, « Dio non tenta nessuno » (Gc 1,13) Però non vuole risparmiare la tentazione perché è la prova necessaria alla nostra Fede che è una realtà viva e dinamica. La tentazione dunque in se stessa non è un male. Chiediamo però al Padre di ogni bene di opporre alla tentazione la forza della Parola di Dio come fece Gesù, quando fu tentato nel deserto. Gli chiediamo pure di non perdere mai la certezza che il Padre ci sostiene, ci aiuta e ci salva, anche se sembra non intervenire. « Ha salvato gli altri non può salvare se stesso. E’ il re d’Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo » (Mt 27,42) Così fu tentato Gesù. Potremo noi non essere tentati?

v. 13b Ma liberaci dal male – Sostanzialmente significa dal « maligno »
« Il male non è solo assenza di essere: è piuttosto intelligenza perversa che, a forza di cose assurde, vuol farci dubitare di Dio e della sua bontà » (O.Clement, o.c., 116) Il male dunque non è solo « privazione di bene » come dicevano i Padri, ma è il Maligno. Al maligno interessa sostanzialmente una cosa: farci perdere la speranza, farci colpevolizzare Dio dei nostri guai (cf Gn 3), edulcorare, diluire e vanificare la fede nel Dio Padre di Gesù: Dio di amore e di perdono, Dio che si è rivelato a noi, « amandoci talmente da darci il Figlio Gesù (cf Gv3)

la seconda lettura di domenica 25 luglio 2010 – la lettera ai Colossesi (2,6-159

stralcio, il commento è un po’ più ampio del testo scelto per la domenica 25 luglio, dal sito:

http://proposta.dehoniani.it/txt/colossesi.html

LA LETTERA AI COLOSSESI
(Pedron Lino)

Cristo Gesù Signore
 
(2,6-15)

Camminate dunque nel Signore Gesù Cristo, come l’avete ricevuto, 7ben radicati e fondati in lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato, abbondando nell’azione di grazie. 8Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo.

Una comunità che è consapevole di essere legata al Vangelo apostolico è in grado di distinguere la retta tradizione dalla dottrina falsa. Perciò, prima di mettere in guardia contro la falsa filosofia, Paolo esorta nuovamente i colossesi alla perseveranza nella dottrina ricevuta e nella fede incrollabile (2,6-7). Ma poi viene esposta alla comunità l’alternativa che esige da essa una chiara e univoca decisione: o l’inganno della filosofia secondo gli elementi cosmici che sono le forze demoniache che vogliono esercitare il loro potere coercitivo sugli uomini (2,10.15) o Cristo. Con un richiamo all’inno (1,15-20) Cristo è annunciato come Signore al di sopra di tutte le dominazioni e le potestà (2,9-10). La comunità di Colossi è da lungo tempo congiunta a Cristo e perciò la decisione è già avvenuta: la loro appartenenza a Cristo è fondata nel battesimo (2,11-12). Col v.13 si cambia soggetto. Ora si parla dell’azione di Dio che fa partecipi i battezzati alla vittoria di Cristo (2,13-15).

v. 6. La comunità deve attenersi fermamente al Vangelo, così come l’ha ricevuto. Il contenuto di ciò che è stato comunicato alla comunità nella tradizione apostolica è qui espresso con le parole « Gesù Cristo il Signore ». Gesù Cristo è il Signore significa che egli non è un signore tra altri signori, ma il Signore (1Cor 8,5-6).

v. 7. La condotta della comunità viene precisata in quattro participi: radicati in lui, costruiti su di lui, rafforzati nella fede, abbondanti in rendimento di grazie. Solido fondamento è solo Gesù Cristo, il Signore. Chi è radicato in lui non crollerà. La comunità troverà saldezza nella retta fede in cui è stata istruita. Con ciò è fortemente sottolineata l’importanza dell’istruzione religiosa. Solo la fede che corrisponde all’insegnamento apostolico dona quella saldezza che può sfidare tutti gli attacchi (1,28).

v. 8. È necessario che la comunità stia attenta a non lasciarsi accalappiare da coloro che vogliono sostituire il Vangelo di Cristo con la filosofia umana. Con il termine « filosofia », in questa lettera, si intende la conoscenza del fondamento dell’essenza divina del mondo, ottenuta per mezzo di una rivelazione arcana. Ad essi Paolo obietta che la loro cosiddetta filosofia è vuota e senza contenuto, in realtà non è altro che « vuoto inganno ». La comunità è chiamata a scegliere tra la tradizione apostolica e la tradizione filosofica. Il contenuto delle due tradizioni è sintetizzato nell’espressione: « secondo gli elementi del mondo » e « secondo Cristo ».

Stoichèia tou kosmou (= elementi del cosmo), nella lettera ai colossesi, sono entità personali, forze demoniache che vogliono esercitare il loro potere coercitivo sugli uomini (2,10.15). A questa dottrina, secondo cui gli « elementi del cosmo » determinano la vita degli uomini, e quindi bisogna riconoscere la loro pretesa potenza (2,16-23), viene contrapposta la chiara antitesi: solo Cristo è il Signore su tutto e quindi l’unico Signore sulla vita e sul comportamento della comunità. La comunità perciò non deve lasciarsi indurre a riconoscere altre autorità accanto a lui.

v. 9. L’invito a seguire Cristo senza tentennamenti è ora motivato con la ripresa dell’espressione « in lui » che nei versetti seguenti viene ripetuta come motivo dominante: in lui dimora corporalmente la pienezza della divinità (v.9); in lui siete ricolmi (v.10); in lui siete stati circoncisi (v.11); con lui siete stati sepolti, in lui siete anche tutti risuscitati (v. 12); Dio vi ha reso viventi con lui (v.13); egli ha condotto schiavi in lui, in corteo trionfale, i principati e le potestà (v.15).

All’inizio di questo ragionamento viene stabilito: « Poiché in lui dimora corporalmente tutta la pienezza della divinità ». Alle domande che ogni uomo si pone: Dove trovo la pienezza e come poter essere pervaso di forza divina, la lettera risponde con un’affermazione polemica: tutta la pienezza della divinità dimora in Cristo. Perciò può divenirne pieno solo colui che appartiene a questo Signore, che è in lui, con il quale è morto e risuscitato a nuova vita. Somatikòs (= corporalmente) precisa la realtà dell’inabitazione divina. « Somatikòs designa dunque qui la corporeità, in cui Dio incontra l’uomo nel mondo in cui vive. Designa quindi propriamente la piena umanità di Gesù, non invece una umanità che sia semplice involucro della divinità » (E. Schweizer). Poiché in Cristo tutta la pienezza della divinità dimora corporalmente, egli è « il capo di ogni principato e potestà » (v. 10), il capo del corpo che è la chiesa » (1,18). Dunque chi è trasferito nel suo regno, è liberato dalle potenze che dominano il mondo e vogliono piegare l’uomo al loro giogo di schiavitù.

v. 10. Segue perciò un’immediata conclusione: « È solo in lui che voi avrete parte della pienezza ». I cristiani sono ricolmi dei doni divini solo vivendo in Cristo.

v. 11. Si prosegue dicendo: « Voi siete uniti con Cristo, da tempo, mediante il battesimo ». Il battesimo è qui chiamato « circoncisione non fatta da mano d’uomo », la circoncisione di Cristo. L’attributo « non fatta da mano di uomo », col quale si qualifica la circoncisione compiuta sui battezzati, avverte che quel che avviene nel battesimo è opera di Dio. « Deporre l’uomo carnale » non significa in alcun modo disprezzare la vita terrena, ma vivere nell’obbedienza al Signore: « Spogliatevi dell’uomo vecchio con le sue opere, e rivestitevi dell’uomo nuovo, che viene rinnovato per la conoscenza, ad immagine di colui che l’ha creato, dove non c’è più né greco né giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o scita, schiavo o libero; ma tutto e in tutti è Cristo » (3,9-10). Questa retta circoncisione, che si distingue radicalmente sia dalle pratiche dei « filosofi » sia dal rito giudaico, è la « circoncisione di Cristo ». Per l’uso traslato del termine « circoncisione » bisogna confrontare le espressioni profetiche sulla circoncisione del cuore (Ger 4,4; 6,10; 9,25).

v. 12. La circoncisione in Cristo che ogni cristiano ha sperimentato su se stesso, non è altro che l’essere battezzato nella morte e nella risurrezione di Cristo. Nel battesimo siamo morti e sepolti con Cristo, per cui la vecchia vita è cessata. In Rm 6 Paolo dimostra che, conseguentemente, per noi è diventato impossibile vivere ancora in potere del peccato. Il vecchio uomo è stato ormai crocifisso con Cristo (Rm 6,6). Come nel Kerigma l’accenno al sepolcro sottolinea la realtà della morte di Gesù Cristo (1Cor 15,4), così qui è ribadito che nel battesimo è avvenuta una morte reale: « Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme con lui nella morte » (Rm 6,4). Come in Rm 6, così anche nella lettera ai colossesi, si dice che siamo morti con Cristo nel battesimo. Ma a differenza di Rm 6, e in apparente contrasto con Rm 6,4-5, si dice che la risurrezione è effettivamente già avvenuta nel battesimo: « Voi siete risorti con lui ». Ciò che avverrà in futuro, in questa lettera, non è quindi chiamato la risurrezione dei morti, ma la manifestazione della vita, partecipata nel battesimo e ancora avvolta nel mistero: « La vostra vita è nascosta con Cristo in Dio » (3,3). L’intima appartenenza a Cristo è già realtà; essa ha già avuto il suo fondamento nel battesimo, nel quale il cristiano è stato inserito nella morte e risurrezione di Cristo.

Tuttavia la lettera ai colossesi è ben lontana nel cadere in un entusiasmo fanatico per lo slogan: « La risurrezione è già avvenuta » (2Tm 2,18). Perché risorgere con Cristo non significa altro che ricevere il perdono dei peccati (1,13-14; 2,13).

La nuova vita con Cristo è in realtà soltanto « mediante la fede nella potenza di Dio che ha risuscitato Cristo dai morti ». Se la morte-risurrezione con Cristo del battezzato sono già realizzate – « sepolti con lui » (v.12) « vi ha fatto rivivere con lui » (v.13), « se siete risorti con Cristo » (3,3) -, la pienezza della vita in Cristo è futura: « Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria » (3,4).

In sintesi: La nostra partecipazione alla risurrezione di Cristo passa attraverso tre tappe: inizia nel battesimo, compie un grande passo al momento della morte, si manifesterà pienamente solo alla fine dei tempi: « Verrà l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e ne usciranno: quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna » (Gv 5,28-29).

v. 13. Il cambiamento del soggetto ci fa capire che c’è una ripresa del discorso: Dio ha reso viventi con lui voi che eravate morti. La ribellione compiuta nella permanente disubbidienza connota la vita di coloro che sono senza Cristo. Essi vivono nella incirconcisione della loro carne, cioè sono pagani e atei.

Dove la « carne » dirige la vita, non ci può essere altro che peccati e morte. Ma ciò che era una volta, ora non ha più valore. L’incirconcisione, di cui Paolo fa ricordo agli etnico-cristiani, è stata eliminata dalla « circoncisione non fatta da mano d’uomo » (2,11). Nel battesimo è stato effettuato il passaggio dalla morte alla vita: Dio vi ha reso viventi con lui (2,12). I peccati, che, prima di Cristo e senza Cristo, facevano della vita una morte, sono perdonati senza eccezione. Dio ha annullato il debito e distrutto il documento su cui era registrato.

v. 14. Il chirografo, il documento scritto a mano che attesta i nostri debiti nei confronti di Dio, è la condizione di debitore in cui l’uomo si trova di fronte a Dio. Paolo afferma che Dio ha perdonato tutti i peccati e ha annullato il documento di obbligazione che era a nostro sfavore, così che non può più essere addotto a nostro carico. Dio non solo ha cancellato il debito, ma ha anche annullato il documento di obbligazione. La piena estinzione di questo documento debitorio è avvenuta quando Dio lo ha appeso alla croce. Poiché Cristo, che ha preso su di sé il peccato del mondo (Gv 1,29), fu appeso alla croce al nostro posto, il debito è definitivamente condonato. E in questo modo si chiarisce il precedente enunciato: grazie a Cristo, Dio ci ha perdonato tutti i peccati (v.13).

v. 15. Nella croce di Cristo, Dio non soltanto ha distrutto l’attestazione scritta della nostra colpa, ma ha anche trionfato sui principati e potestà. Dio ha mandato in rovina, nella croce di Cristo, le potestà e le dominazioni. Queste potenze sono vinte e quindi non possono nuocere a coloro che appartengono al vincitore. Nel corteo trionfale Dio conduce prigioniere queste potenze sconfitte, per rendere manifesta la grandezza della sua vittoria. Sono ormai potestà fiaccate, che non possono né aiutare l’uomo né esigere da lui culto e venerazione. Nel battesimo i cristiani sono trasferiti nel dominio del diletto Figlio di Dio. Perciò a loro non interessano più le potestà e le dominazioni; per essi vale soltanto Cristo, e nessuno e niente accanto a lui e fuori di lui.

Omelia (25-07-2010) : Signore, insegnaci a pregare

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/18937.html

Omelia (25-07-2010) 
mons. Gianfranco Poma

Signore, insegnaci a pregare

« Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna? » ha chiesto il Dottore della Legge a Gesù che da buon ebreo, gli ha risposto con un’altra domanda: « Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi? » E’ importante sottolineare i due momenti della risposta di Gesù: « che cosa sta scritto » e « come leggi ». Ciò che segue, si gioca precisamente sui due piani: « che cosa sta scritto » è un dato oggettivo ma « come leggi » impegna il soggetto, l’esperienza fondamentale del lettore che diventa l’ottica alla luce della quale ciò che è scritto assume un senso. Ed è proprio su questo che si innesta la novità dell’esperienza di Gesù che a ciò che è scritto nella Legge dà un senso radicalmente nuovo. « Amare Dio e amare il prossimo » è scritto nel Deuteronomio e nel Levitino, ma l’esperienza di Dio di Gesù dà un senso nuovo all’amore di Dio e opera una congiunzione con l’amore del prossimo impensabile al di fuori di quell’esperienza. Occorre amare Dio per amare il prossimo e occorre amare il prossimo per amare Dio: ma che cos’è l’Amore? Solo chi sperimenta l’ « UNO » che è il solo necessario può in Lui sperimentare l’amore per gli altri. Ma come è possibile fare questa esperienza? A questo punto si innesta il brano che leggiamo in questa domenica XVII del tempo ordinario, Lc.11,1-13.
Siamo sempre in cammino verso Gerusalemme, stiamo percorrendo con Lui la strada per essere suoi discepoli. Credo significativo tradurre alla lettera, anche se non molto elegantemente la frase di Luca: « Ed avvenne, nell’essere egli in un qualche luogo orante, come si fermò, un tale discepolo gli disse: Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni insegnò ai suoi discepoli ». Luca è l’evangelista che più di tutti ci mostra Gesù in preghiera: qui, nella frase introduttiva, sembra dirci che la preghiera è il modo normale di essere di Gesù, l’atmosfera in cui Lui vive, quella che dà un colore particolare alla sua esistenza, che si riflette sul suo volto. Gesù è « in un luogo »: può essere qualsiasi luogo, è la sua preghiera che lo riempie di vita. In un momento di pausa di questa sua stupenda esperienza di vita, uno dei discepoli si inserisce per chiedergli: « Signore, insegnaci a pregare ». Quanto più conosciamo Lui, entriamo in relazione con Lui, anche noi sentiamo il bisogno di chiedergli: « Signore, insegnaci a pregare », che significa: « Signore, insegnaci a respirare la tua atmosfera, a sentire, gustare la vita come la senti tu… » Essere discepoli di Gesù significa mettersi alla sua scuola di preghiera: occorre imparare a pregare e occorre imparare da Lui a pregare. La preghiera è frutto di un’esperienza che afferra tutta la vita e la trasforma: pregare per Gesù è lasciare esprimere tutta la ricchezza del mistero della sua esistenza. Lasciarsi educare alla preghiera da Gesù significa lasciarsi introdurre da Lui nel suo mistero che è essenzialmente il mistero della sua esperienza filiale.
Comincia dunque così la sua scuola di preghiera: « Quando pregate, dite: Padre ». Possiamo paragonare questa scuola ad un metodo per imparare una lingua straniera: ogni giorno facciamo un piccolo sforzo, ogni giorno ripetiamo ciò che impariamo e gradualmente ne siamo impregnati e finiamo per saper parlare la lingua. Il metodo di Gesù vuole condurci a saper parlare la lingua di Dio per saper parlare con Lui. La prima parola che egli ci insegna a dire è: « Padre ». Ripetere la parola « Padre », significa entrare nella relazione filiale che Gesù ha vissuto in ogni attimo della sua vita: Gesù è il figlio perché riceve tutto dal Padre. Potremmo dire che il Vangelo di Giovanni è tutto una splendida guida che ci introduce nell’intimità dell’esperienza filiale di Gesù, nella lettura simbolica della sua umanità, per poter gustare ogni attimo della vita come esperienza della gloria di Dio. Imparare a dire « Padre » significa entrare con Gesù in questa radicale novità dell’esperienza filiale, dentro la quale l’esistenza umana assume un significato divino.
La scuola di preghiera di Gesù continua con le prime due domande. Anche queste hanno un grande valore pedagogico insegnandoci a rivolgere la nostra vita verso Dio e a dire: « il tuo nome » e « il tuo regno ».
« Sia santificato il tuo nome ». In modo felice, la TOB (traduzione ecumenica della Bibbia) ha tradotto così: « Fatti riconoscere come Dio » che significa imparare ad aprirci perché la nostra esperienza di Dio sia l’esperienza di un Padre, non di un giudice da temere, imparare a vivere ogni attimo della nostra vita, anche quelli drammatici, per noi incomprensibili, affidandoci ad un infinito, misterioso amore paterno; significa che l’umanità si trasforma in una famiglia di fratelli.
« Venga il tuo regno » cioè « fa venire il tuo regno »: ripetuta quotidianamente, questa domanda ci trasforma gradualmente in operai del regno, ci apre perché non facciamo del nostro egoismo, dei nostri progetti, il fine della nostra vita, ma impariamo a lasciare che attraverso la nostra vita, passi la forza trasformante dell’amore del Padre.
Le altre tre domande, riguardano la nostra vita quotidiana: « dacci », « perdonaci », « non abbandonarci ». Chi ha imparato la lingua nuova con cui parlare con Dio, può rivolgersi a Lui con la fiducia coraggiosa del Figlio: possiamo usare con Lui l’imperativo, perché siamo certi che egli compie per noi tutto questo se noi ci mettiamo nella condizione di accogliere i doni che lui non ci fa mancare. »Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano »: ci invita a non preoccuparci per il futuro, accogliendo ogni giorno ciò di cui abbiamo bisogno, come un dono. Il plurale a cui Gesù ci educa, ci insegna a pensare, a vivere come fratelli ai quali il Padre provvede, ci insegna a con-dividere, ci avverte che la ricchezza sproporzionata di qualcuno è un peccato contro l’amore del Padre comune.
« Perdonaci i nostri peccati: anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore »: ancora una volta impariamo che non è separabile l’esperienza dell’amore del prossimo dall’amore di Dio. Solo un cuore aperto al perdono del prossimo è aperto al perdono di Dio.
« E non abbandonarci alla tentazione »: quando abbiamo imparato a respirare l’amore del Padre, sappiamo bene quanto grande sia la tentazione di non credere l’Amore quando vediamo tutto il male del mondo, sperimentiamo la durezza del cuore umano, ma impariamo che sono proprio questi i momenti nei quali solo il suo Amore ci sostiene.
Parlare la lingua di Dio significa parlare come figli che si rivolgono al Padre, che coraggiosamente « chiedono » a Dio chiamandolo « Padre »: Gesù ci insegna ad essere figli, a parlare come figli e a pregare come figli: ci insegna ad essere umili, fiduciosi, a dire tutto al Padre con la certezza, talvolta piena di angoscia, che egli ci ascolta.
 

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 24 juillet, 2010 |Pas de commentaires »
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