dal sito:
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La Chiesa, una costruzione ben ordinata (Ef. 2, 21)
2003-03-05- I Predica della Quaresma 2003
1. Una Lettera pericolosa?
Nell’ultima parte della Novo Millennio Ineunte, il Papa invita a guardare la Chiesa come “mistero di comunione” che ha nella carità il suo “cuore”. In questo spirito, vorremmo rileggere alcuni brani della Lettera agli Efesini, lo scritto ecclesiologico per eccellenza di tutto il Nuovo Testamento.
Nella Lettera agli Efesini si parla di riconciliazione universale, di inimicizie distrutte, di muri di divisione abbattuti, ma noi siamo costretti a leggerla in un momento in cui intorno a noi non si odono che “rumori di guerra” e l’inimicizia sembra trionfare a livello planetario, tra gli stessi alleati di un tempo. Ma questa è una ragione in più per tornare a riascoltare queste parole. “Cristo è la nostra pace”, si legge nella Lettera agli Efesini. “Egli è venuto ad annunciare pace: pace ai vicini e pace ai lontani” (cf. Ef 2, 14. 17): sono parole che abbiamo sentito risuonare fino all’ultimo, in questi giorni, sulla bocca del vicario di Cristo.
Dedichiamoci dunque all’ascolto della parola di Dio, dal momento che è “in virtù della perseveranza e della consolazione che ci vengono dalle Scritture” che noi possiamo “tenere viva la nostra speranza” (Rom 15, 4).
Oggi si tende a escludere che la Lettera agli Efesini sia stata scritta di suo pugno da S. Paolo. Essa sarebbe nata in epoca leggermente posteriore all’Apostolo da uno che ne ha raccolto e sviluppato il pensiero. Ma questo ci interessa relativamente. A noi basta sapere che essa fa parte del canone delle Scritture ispirate, per essere sicuri che attraverso di essa è Dio che ci parla con tutta la sua autorità divina.
Come si presenta la Chiesa in Efesini? La novità più rilevante è senz’altro la seguente: fino ad ora la parola “Chiesa” era impiegata, almeno in S. Paolo, esclusivamente per indicare la Chiesa locale (Gerusalemme, Corinto, Filippi ecc.); ora viene impiegata per indicare la Chiesa universale. Universale non solo nello spazio, ma anche nel tempo, in quanto ha la sua origine in Dio prima dei secoli, è celeste e terrestre insieme.
Qualcuno ha veduto in ciò il pericolo di un eccessivo entusiasmo ecclesiologico e di trionfalismo. “Dal punto di vista teologico –ha scritto uno dei più recenti e noti commentatori- l’immagine della Chiesa si avvicina in modo preoccupante a quella di una comunità gloriosa, che risiede più in cielo che sulla terra, legata la suo Signore trionfante; essa è, invece, troppo poco vista sotto la croce, nella sequela del Signore che soffre ed espia: e ciò costituisce un pericolo, per la coscienza ecclesiale suscitata da questo teologo, che noi abbiamo sotto gli occhi in modo più chiaro di quanto non accadesse in secoli precedenti”.
Se questa però è una colpa, io direi che oggi è per noi “una felice colpa”, una colpa provvidenziale. Siamo così inclini a non vedere, della Chiesa, che il lato oscuro che forse una visione più positiva della Chiesa è proprio il correttivo che ci occorre in questo momento. Della nota definizione della Chiesa come “casta meretrix”, si è tanto insistito sul sostantivo “meretrix” da farci venire la nostalgia di sentire qualcosa anche sull’aggettivo “casta”.
Vedremo, del resto, che i pericoli segnalati sono più immaginari che reali. Lungi dall’indulgere ad atteggiamenti quietistici di auto-esaltazione, la lettera è una continua esortazione al cambiamento, al rinnovamento interiore. Il mistero non è evocato se non per farne norma di vita. La croce non è assente perché è in essa, secondo la nostra Lettera, che è stata distrutta l’inimicizia e si è operata la grande riconciliazione (cf. Ef 2, 16).
2. Non più stranieri, né ospiti
E veniamo al tema di questa prima meditazione. Esso è Efesini 2, 19-22, che, attenendoci al metodo della lectio divina, vogliamo anzitutto ascoltare nel testo originale:
“Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù. In lui ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito”.
Qui la Chiesa ci è presentata con l’immagine-guida dell’edificio e della costruzione. Non un edificio qualsiasi, ma l’edificio sacro per eccellenza, il tempio, la dimora di Dio. È significativo che la parola “chiesa” abbia sempre abbracciato insieme i due significati: quello di edificio materiale e quello di realtà spirituale, di popolo di Dio.
La Lettera agli Efesini non è la sola a parlare della Chiesa con l’immagine della costruzione. Paolo definisce i credenti “il campo di Dio e l’edificio di Dio” (1 Cor 3, 9) e la Prima lettera di Pietro li chiama “pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale” (1 Pt 2, 5). La frase finale del nostro testo “dimora di Dio per mezzo dello Spirito” richiama l’idea paolina del “tempio dello Spirito Santo” che è ogni credente (1 Cor 3,16).
Nell’inno di benedizione con cui inizia la Lettera vengono indicati i tre architetti che hanno disegnato e, a suo tempo, realizzato il progetto: il Padre che ha concepito il disegno prima della creazione del mondo, Gesù Cristo che lo ha realizzato nella pienezza del tempo e lo Spirito Santo che vi ha posto “il suggello”. Cristo è “la pietra angolare” che sta alla base dell’edificio, o, secondo un’altra interpretazione, “la chiave di volta” che lo corona. Gli apostoli e i profeti ne sono il fondamento, non però per se stessi, ma in quanto attraverso di essi si attinge il fondamento unico che è Cristo (cf. 1 Cor 3,11).
C’è stato un tempo in cui, sulla scia degli autorevoli studi di H. Schlier, si leggeva la Lettera agli Efesini in chiave antignostica, come una risposta cristiana alla esigenza di dare un fondamento celeste alle realtà terrene. Nel nostro testo abbiamo già una prima smentita a questa tesi, oggi del resto abbandonata da tutti. Il termine “costruzione” ha qui sia il senso passivo di edificio costruito, che quello attivo di costruzione dell’edificio. La Chiesa dunque si fa nel tempo; non è una realtà preesistente che ha la sua vera vita solo in cielo. La sua preesistenza celeste è solo intenzionale (nella mente di Dio), mentre la sua esistenza terrena e quella futura, escatologica, è reale.
(Il guaio è quando si applica a Cristo -come avveniva in certe cosiddette “nuove cristologie” degli anni Settanta- ciò che Efesini dice della Chiesa e si interpreta la preesistenza stessa di Cristo come semplice previsione. Il Figlio non esisterebbe, prima dell’Incarnazione, se non in previsione, nella mente di Dio. La Trinità stessa, non solo la Chiesa, in questo caso, si realizza progressivamente nel tempo).
3. Ricostruiamo il muro abbattuto?
La Scrittura, diceva S. Gregorio Magno “crescit cum legentibus”, cresce con coloro che la leggono ; da sempre nuove risposte a misura che le si pongono nuove domande. E così avviene anche con la Lettera agli Efesini. Il capitolo secondo, tema della presente meditazione, ha qualcosa di molto attuale da dirci.
Ai margini del dialogo tra Ebrei e cristiani si stanno facendo strada delle idee che, accolte acriticamente, sarebbero una diretta smentita dell’insegnamento della nostra Lettera. La Lettera agli Efesini dice che Cristo “ha fatto dei due un popolo solo”, che “ha abbattuto il muro di separazione” che c’era tra loro, “riconciliando tutti e due con Dio in un solo corpo” (Ef 2, 14 ss). Egli ha abbattuto il muro di divisione perché non vi fosse che un solo edificio, ma ora, con le migliori intenzioni, si vorrebbe ricostruire quel muro per avere due edifici, separati e indipendenti l’uno dall’altro.
Mi spiego. La Chiesa ufficiale ha riconosciuto in vari documenti il valore permanente dell’Antica alleanza e il suo carattere salvifico per coloro che, in buona coscienza, vivono secondo essa. Alcuni interpretano questo come se la Chiesa con ciò volesse dire che gli ebrei possono fare a meno di Cristo; che la missione cristiana è diretta ai gentili, non agli ebrei, facendo leva sul fatto che, nel mandato missionario, Gesù ordina agli apostoli di andare “a tutte le nazioni” (Mt 28,19), cioè ai popoli pagani. Quello che Paolo dice di Pietro e di sé stesso, all’interno della Chiesa, viene così esteso ai rapporti tra Israele e la Chiesa: uno è per i circoncisi, l’altra per i non-circoncisi (cf. Gal 2, 7-8).
Questo escluderebbe nei cristiani non solo un diretto impegno missionario nei confronti degli ebrei, cioè il proselitismo, ma perfino il desiderio e la speranza che essi arrivino a conoscere il Cristo. “Molti ebrei –ho letto in un’autorevole rivista cattolica- potrebbero dirci: è vero che la Chiesa ha abbandonato ogni tentativo formale di convertire gli ebrei, ma non vi sono cattolici che desiderano ancora in cuor loro la loro conversione? E questo desiderio, non realizzato, non potrebbe un giorno provocare quello che tante volte ha provocato in passato?”
A ciò l’autore rispondeva che questo potrebbe essere vero di qualche cattolico isolato, ma non della Chiesa in generale. La Chiesa avrebbe rinunciato, secondo lui, perfino a pregare per la conversione degli ebrei, perché, se è vero che il Venerdì santo la liturgia prega che gli ebrei “giungano alla pienezza della redenzione”, per pienezza della redenzione non si intenderebbe qui la redenzione di Cristo, ma quella finale, escatologica .
Se fosse così io mi dichiarerei subito uno di quei cattolici isolati, perché io desidero che i fratelli ebrei, che amo, giungano un giorno a riconoscere colui che Simeone definiva insieme “luce delle genti e gloria di Israele” (cf. Lc 2, 32). Vi giungano, non costretti e neppure forse sollecitati da noi, ma autonomamente, per scoperta propria, dall’interno della loro fede, senza perdere nulla della loro identità di “Israele secondo la carne”. Rinunciare perfino a “desiderare” questo significherebbe, per me, non amare né Cristo né gli ebrei.
È assurdo e contrario a tutto il Nuovo Testamento pensare che la missione di Cristo sia per i pagani e non anche per i giudei, quando tutta la predicazione di Cristo e il suo appello alla conversione è rivolto proprio a degli ebrei, e lui stesso dice di non essere venuto se non per le pecore perdute d’Israele (cf. Mt 15,24).
L’equivoco nasce da una falsa interpretazione del significato di conversione. Sulle labbra di Gesù –sicuramente, in ogni caso, nel passo programmatico di Mc 1,15 – , “convertitevi”, non significa passare dall’idolatria al culto del vero Dio, neppure significa rinnegare qualcosa; significa semplicemente “credere al Vangelo”; non significa tornare indietro, ma fare un passo avanti ed entrare nel regno che è venuto. “Il vangelo, scrive lo stesso Apostolo dei gentili, è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco” (Rom 1,16).
Forse dobbiamo stare attenti, questo sì, a non mettere sullo stesso piano l’accettazione di Gesù di Nazareth e l’accettazione di ciò che è nato e si sviluppato da lui nei secoli, in pratica il cristianesimo. È vero che non si possono separare Cristo e la Chiesa, ma neppure si possono confondere. Non è infatti per la parola della Chiesa che si accetta Gesù, ma per la parola di Gesù che si accetta la Chiesa. C’è una gradualità e una pedagogia da rispettare, specie quando si tratta del popolo ebraico che ha tanto sofferto in passato dai cristiani e dalla Chiesa.
Nei confronti degli Ebrei l’unico atteggiamento possibile è prendere alla lettera ciò che dice Pietro: “Rendere ragione della speranza che è in noi” (cf. 1 Pt 3, 15); cioè, non prendere noi iniziative di evangelizzazione, ma, all’occorrenza e se richiesti, testimoniare la speranza che Cristo è per noi. Pietro diceva: “con dolcezza e rispetto”, noi aggiungiamo: “e in spirito di sincero pentimento per il passato”.
Mi ha commosso il grido di una ebrea convertita, di fronte al pericolo di vedere il vangelo sottratto, anche di diritto, a quelli della sua razza. “Sono cresciuta, a Brooklyn, scrive, in una famiglia ebrea conservatrice. Ho sperimentato su me stessa una buona dose di antisemitismo, spesso proprio da cattolici. Non è difficile per me capire la riluttanza –o meglio l’avversione- che molti ebrei hanno nei confronti del vangelo. Ma, nella sua infinita misericordia, Dio è venuto incontro a ogni membro della mia famiglia ristretta, inclusi i genitori, e ci ha condotti alla comunione con quelli stessi il cui antisemitismo ci aveva provocato tanta sofferenza. Il mistero più grande per me non è l’incredulità d’Israele, ma che, in queste circostanze, io sia giunta alla fede… E tuttavia negare che Cristo solo ci salva, che l’alleanza antica era, come dice Paolo, un pedagogo che doveva condurci a Cristo (Gal 3, 24), che egli è l’unico mediatore tra l’uomo e Dio (1 Tm 2,5), non significa solo privare di Cristo gli Ebrei, ma privare di lui tutto il mondo. Perché se egli non è il Messia d’Israele, allora non è il Messia di nessuno”.
L’ultima affermazione mi ha colpito per la sua verità: se Cristo non è il Messia d’Israele, non lo di nessuno! Questo infatti è ciò che egli ha detto di essere. La Lettera agli Efesini sembra scritta in anticipo per rispondere al problema, che oggi ci assilla, del giusto rapporto con Israele. Tra tutti gli scritti del Nuovo Testamento essa è probabilmente quella che si esprime più positivamente e con più rispetto nei riguardi degli Ebrei. Il suo messaggio centrale è che “i Gentili sono chiamati in Cristo Gesù a partecipare alla stessa eredità d’Israele” (Ef 3,6), non a costituire un’alternativa a Israele.
4. Ciascuno stia attento a come costruisce
Non potevo tralasciare di accennare a questo problema, ma è chiaro che la nostra preoccupazione principale, trattandosi di una meditazione quaresimale, non è di carattere teologico, quanto spirituale e ascetico. Dicevo che, lungi dallo spingerci ad atteggiamenti di autocompiacenza e di falso entusiasmo, la Lettera agli Efesini è un continuo richiamo al cambiamento e alla conversione, e questo vale anche del brano che stiamo commentando.
Cosa si richiede da chi vuole partecipare alla costruzione dell’edificio che è la Chiesa e vuole essere lui stesso “pietra viva” dell’edificio? S. Paolo, nella Prima lettera ai Corinzi aveva usato la metafora della Chiesa-edificio proprio per rispondere a questa domanda. Il suo discorso ci interessa da vicino in quanto applicato da lui proprio a coloro che, come gran parte dei presenti, sono chiamati a “presiedere” ai lavori di costruzione della casa di Dio, cioè ai capi, ai pastori, non esclusi i predicatori (nel contesto si parla di Paolo, di Cefa, ma anche di Apollo!). Ascoltiamolo:
“Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete il campo di Dio, l’edificio di Dio. Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come un sapiente architetto io ho posto il fondamento; un altro poi vi costruisce sopra. Ma ciascuno stia attento come costruisce. Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno” (1 Cor 3, 9-15).
Anche oggi le truffe edilizie sono frequenti. Si mette più sabbia che cemento nell’impasto e tanti edifici dopo un po’ di anni cominciano a sfaldarsi…
Ciò che decide della bontà della nostra opera non è tanto ciò che uno fa, quanto l’intenzione con cui lo fa. Quello che l’anima è per il corpo e la radice per l’albero, l’intenzione lo è rispetto alle nostre azioni. Dobbiamo imparare a usare anche noi, come ogni buon muratore, il filo a piombo. Esso serve a controllare se un muro è veramente diritto o se vi sono sporgenze e storture. La Scrittura ci fornisce diversi di questi “fili a piombo”, o regole, con cui possiamo misurare e rettificare le nostre intenzioni.
Uno è, per esempio, quello che l’Apostolo raccomanda ai Colossesi: “Qualunque cosa facciate, fatela di cuore come per il Signore e non per gli uomini” (Col 3, 23), un altro quello che raccomanda ai Corinzi: “Sia dunque che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio” (1 Cor 10,31), un altro ancora quello che scrive ai Galati: “È forse il favore degli uomini che intendo guadagnarmi, o non piuttosto quello di Dio?” (Gal 1,10).
Dobbiamo, raccomandano i maestri di spirito, imitare i cacciatori quando prendono la mira. Per concentrare la vista, essi chiudono l’occhio sinistro e tengono aperto solo il destro. Noi dobbiamo chiudere l’occhio che guarda gli uomini, e tenere ben aperto quello che guarda Dio.
Sulla scia della Lettera agli Efesini, già nel II secolo, il Pastore di Erma parla della Chiesa come di una torre altissima costruita sulle acque, con pietre più o meno levigate . Questo richiama chiaramente il tema della Chiesa come Antibabele, già presente nel racconto della Pentecoste.
Un tempo si pensava che il peccato dei costruttori della torre di Babele fosse di volere sfidare Dio. Ma oggi sappiamo che non è così. Quello che essi volevano costruire era uno di quei templi a terrazze sovrapposte, chiamati zikkurat, di cui restano tuttora rovine in Mesopotamia. Erano dunque uomini pii e religiosi. Dov’è allora il loro peccato? È nell’intenzione con cui costruiscono la torre. Essi si dicono l’un l’altro: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra” (Gen 11, 4). Essi vogliono costruire un tempio alla divinità, ma non per la gloria della divinità, ma per farsi un nome…
Anche gli apostoli, a Pentecoste, iniziano la costruzione di una torre la cui cima tocca il cielo, la Chiesa. Ma non per farsi un nome, ma per fare un nome a Dio. È scritto che tutti li comprendevano perché essi “proclamavano le grandi opere di Dio” (Atti 2, 11). Non erano più preoccupati di stabilire chi di loro fosse il più grande. Si sono decentrati da se stessi e ricentrati su Cristo.
Dio non ci chiede l’impossibile, cioè di non sentire il desiderio di autoaffermazione, di riuscire nella vita, di non essere neppure sfiorati dalla tentazione della carriera. Queste cose sono insite nella nostra natura, specie dopo il peccato. Ciò che conta è quello che io accolgo nella mia volontà, quello che scelgo e riscelgo continuamente con la mia libertà.
È come navigare con il vento di traverso: non si può lasciare un istante il timone incustodito senza che la barca prenda subito una direzione diversa da quella voluta. La Quaresima non è solo tempo di privazioni, ma anche di correzioni di rotta, di rettificazione delle intenzioni. È questo forse l’esercizio più salutare che in essa possiamo fare.
Una piccola confessione pubblica da parte del predicatore non è forse fuori luogo a questo riguardo. Questa predica sulla rettitudine di intenzione non si concretizzava, era come bloccata, tutto fermo, fino all’altro giorno. Finché una vocina non ha posto dentro di me la domanda più ovvia: “E tu, con che intenzione fai la predica sulla purezza di intenzioni?”. Quel giorno (era martedì scorso), nella Messa c’era un brano evangelico che sembrava essere lì per aiutare il predicatore (e non solo lui) a fare il suo esame di coscienza:
“Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini…” (Mt 23, 2-7).
È bastato permettere alla parola di Dio di fare il suo lavoro, di convincere di peccato, il tutto seguito da una buona confessione, che la predica, buona o cattiva che sia, si è subito concretizzata nella mia mente e ho potuto scriverla.
La Lettera agli Efesini ci offre una formula breve ma teologicamente assai densa per orientare o rettificare la nostra intenzione: “A Lui la gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni, nei secoli dei secoli. Amen” (Ef 3, 21).