Archive pour juillet, 2010

Omelia per il 3 luglio 2010

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/13089.html

Omelia (03-07-2008) 
a cura dei Carmelitani
Commento Giovanni 20,24-29

1) Preghiera

Esulti la tua Chiesa, o Dio, nostro Padre,
nella festa dell’apostolo Tommaso;
per la sua intercessione si accresca la nostra fede,
perché credendo abbiamo vita nel nome del Cristo,
che fu da lui riconosciuto suo Signore e suo Dio.
Egli vive e regna con te…

2) Lettura del Vangelo

Dal Vangelo secondo Giovanni 20,24-29
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Didimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora gli altri discepoli: « Abbiamo visto il Signore! ». Ma egli disse loro: « Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò ».
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: « Pace a voi! » Poi disse a Tommaso: « Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente! »
Rispose Tommaso: « Mio Signore e mio Dio! ». Gesù gli disse: « Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno! »

3) Riflessione

• Oggi è la festa di San Tommaso e il vangelo ci parla dell’incontro di Gesù risorto con l’apostolo che voleva vedere per credere. Per questo molti lo chiamano Tommaso, l’incredulo. In realtà il messaggio di questo vangelo è ben diverso. E’ molto più profondo ed attuale.
• Giovanni 20,24-25: Il dubbio di Tommaso. Tommaso, uno dei dodici, non era presente quando Gesù apparve ai discepoli la settimana prima. Non credette alla testimonianza degli altri che dicevano: « Abbiamo visto il Signore ». Lui pone condizioni: « Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò ». Tommaso è esigente. Per credere vuol vedere! Non vuole un miracolo per poter credere. No! Vuole vedere i segni nelle mani, nei piedi e nel costato! Non crede in Gesù glorioso, separato dal Gesù umano che soffrì in croce. Quando Giovanni scrive, alla fine del primo secolo, c’erano persone che non accettavano la venuta del Figlio di Dio nella carne (2 Gv 7; 1 Gv 4,2-3). Erano gli gnostici che disprezzavano la materia ed il corpo. Giovanni presenta questa preoccupazione di Tommaso per criticare gli gnostici: « vedere per credere ». Il dubbio di Tommaso lascia anche emergere la difficoltà di credere alla risurrezione!
• Giovanni 20,26-27: Non essere più incredulo, ma credente. Il testo dice « sei giorni dopo ». Ciò significa che Tommaso fu capace di sostenere la sua opinione durante una settimana intera contro la testimonianza degli altri apostoli. Caparbio! Grazie a Dio, per noi! Così, sei giorni dopo, nel corso della riunione della comunità, loro ebbero di nuovo un’esperienza profonda della presenza del risorto in mezzo a loro. Le porte chiuse non poterono impedire la presenza di Gesù in mezzo a coloro che credono in Lui. Anche oggi è così. Quando siamo riuniti, anche quando siamo riuniti con le porte chiuse, Gesù è in mezzo a noi. E fino ad oggi, la prima parola di Gesù è e sarà sempre: « La Pace sia con voi! » Ciò che impressiona è la bontà di Gesù. Non critica, né giudica l’incredulità di Tommaso, ma accetta la sfida e dice: « Tommaso, metti il dito nelle mie mani! ». Gesù conferma la convinzione di Tommaso e delle comunità, cioè, il risorto glorioso è il crocifisso torturato! Il Gesù che sta in comunità, non è un Gesù glorioso che non ha nulla in comune con la nostra vita. E’ lo stesso Gesù che visse su questa terra e nel suo corpo ha i segni della sua passione. I segni della passione si trovano oggi nelle pene della gente, nella fame, nei segni di tortura, di ingiustizia. E Gesù si rende presente in mezzo a noi nelle persone che reagiscono, che lottano per la vita e non si lasciano abbattere. Tommaso crede in questo Cristo, ed anche noi!
• Giovanni 20,28-29: Beati quelli che pur non avendo visto crederanno Con lui diciamo: « Signore mio e Dio mio! » Questo dono di Tommaso è l’atteggiamento ideale della fede. E Gesù completa con un messaggio finale: « Hai creduto perché mi hai visto. Beati coloro che senza aver visto, crederanno! » Con questa frase, Gesù dichiara beati tutti noi che ci troviamo nella stessa condizione: senza aver visto, crediamo che il Gesù che è in mezzo a noi, è lo stesso che morì crocifisso!
Il mandato: « Come il Padre mi ha mandato, anche io vi mando! » Da questo Gesù, crocifisso e risorto, riceviamo la missione, la stessa che lui ha ricevuto dal Padre (Gv 20,21). Qui, nella seconda apparizione, Gesù ripete: « La pace sia con voi! » Questa ripetizione mette l’accento sull’importanza della Pace. Costruire la pace fa parte della missione. Pace, significa molto di più che assenza di guerra. Significa costruire una convivenza umana armoniosa in cui le persone possano essere loro stesse, avendo tutte il necessario per vivere, vivendo insieme felici ed in pace. Fu questa la missione di Gesù ed anche la nostra missione. Gesù soffiò e disse: « Ricevete lo Spirito Santo » (Gv 20,22). E con l’aiuto dello Spirito Santo saremo capaci di svolgere la missione che lui ci ha affidato. Poi Gesù comunica il potere di perdonare i peccati: « Coloro a cui perdonerete i peccati saranno perdonati ed a coloro che li riterrete, saranno ritenuti! ». Il punto centrale della missione di pace è la riconciliazione, nel tentativo di superare le barriere che ci separano. Questo potere di riconciliare e di perdonare è dato alla comunità (Gv 20,23; Mt 18,18). Nel vangelo di Matteo, è dato anche a Pietro (Mt 16,19). Qui si percepisce che una comunità senza perdono e senza riconciliazione non è una comunità cristiana. In una parola, la nostra missione è quella di ‘formare comunità’ secondo l’esempio della comunità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

4) Per un confronto personale

• Nella società di oggi le divergenze e le tensioni di razza, di classe, di religione, di genere e di cultura sono enormi e crescono ogni giorno. Come svolgere oggi la missione di riconciliazione?
• Nella tua comunità e nella tua famiglia c’è qualche granello di senape, segno di una società riconciliata?

5) Preghiera finale

Lodate il Signore, popoli tutti,
voi tutte, nazioni, dategli gloria.
Forte è il suo amore per noi
e la fedeltà del Signore dura in eterno. (Sal 116)

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 2 juillet, 2010 |Pas de commentaires »

Basilio di Seleucia: Sii credente, e sii mio apostolo

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100703

San Tommaso, apostolo, festa : Jn 20,24-29
Meditazione del giorno
Basilio di Seleucia ( ?-circa 468), vescovo
Omelie per la Risurrezione, 1-4

Sii credente, e sii mio apostolo

        «Metti il dito nel posto dei chiodi». Mi cercavi quando io non c’ero, ora approfitta della mia presenza. Io conosco il tuo desiderio nonostante il tuo silenzio. Prima che tu me lo dica, io so quel che pensi. Ti ho sentito parlare e, pur invisibile, ero vicino a te, vicino ai tuoi dubbi; senza farmi vedere, ti ho fatto aspettare, per scrutare meglio la tua impazienza. «Metti il dito nel posto dei chiodi; e non essere più incredulo ma credente».

        Allora Tommaso lo tocca, e s’infrange tutta la sua diffidenza;  pieno di una fede sincera e di tutto l’amore dovuto al suo Dio, grida: «Mio Signore e mio Dio!» E il Signore gli dice: «Perché mi hai veduto, hai creduto; beati quelli che pur non avendo visto crederanno». Tommaso, porta la novella della mia risurrezione a coloro che non mi hanno visto. Porta tutta la terra a credere non a quello che vede, bensì alla tua parola. Percorri i popoli e le città lontane. Insegna loro a portare la croce sulle spalle invece delle armi. Non fare null’altro che annunciare me: crederanno e mi adoreranno. Non esigeranno altra prova. Di’ loro che sono chiamati per grazia, e tu, contempla la loro fede: Beati, in verità, coloro che pur non avendo visto hanno creduto!

        Tale è l’esercito che arruola il Signore; tali sono i figli del fonte battesimale, le opere della grazia, la messe dello Spirito. Hanno seguito Cristo, pur senza averlo visto, l’hanno cercato e hanno creduto. L’hanno riconosciuto con gli occhi della fede, non con quelli del corpo. Non hanno messo il dito nel posto dei chiodi, ma si sono attaccati alla sua croce e hanno abbracciato le sue sofferenze. Non hanno visto il costato del Signore ma, per la grazia, si sono uniti alle sue membra e hanno fatto propria questa parola del Signore: «Beati coloro che pur non avendo visto hanno creduto!»

Omelia per il giorno 2 luglio 2010

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/10198.html

Omelia (06-07-2007) 
mons. Vincenzo Paglia

Gesù camminando vede Matteo, uno degli esat­tori incaricato di raccogliere le tasse che vanno a impinguare le casse del tetrarca o del governatore della regione. E’ l’autore del Vangelo che ci sta accompagnando in questo anno liturgico. Come esattore, appartiene alla odiata classe dei pubblicani, ritenuti imbroglioni e sfruttatori della gente e della legge. Per di più sono considerati impuri, perché maneggiano denari e compiono loschi affari pecuniari. Insomma, è gente da evitare. Accomunati agli scomunicati, ai ladri e agli strozzini, non sono neppure da sa­lutare. Gesù, invece, si avvicina e si mette a parlare con lui. Al termine gli rivolge persino un invito: « Seguimi ». Un pubblicano è chiamato a far parte dei discepoli. Altro che non avvicinarsi e non dar nep­pure la mano! Matteo, a differenza di tanti uomini che si ritenevano religiosi e puri, subito si alza dal suo banco e si mette a seguire Gesù. Da peccatore che era diviene un esempio di come si segue il Si­gnore. Anzi, ancor di più, con il Vangelo che porta il suo nome è divenuto guida di tanti. Anche noi seguiamo questo antico pubblicano e peccatore che ci conduce verso la conoscenza e l’amore del Signore Gesù. Matteo invita subito Gesù ad un banchetto. Vi accorrono anche i suoi amici. E’ uno strano banchetto; composto, appunto, da pubblicani e peccatori. Ma Gesù non si vergogna di stare con loro. Alcuni farisei, scandalizzati da questa scena, dicono ai discepoli: « Perché il vostro maestro mangia cori i pubblicani e i peccatori? » Gesù sente l’obiezione e interviene direttamente nella polemica con un proverbio inconfutabile per la sua chiarezza: « Non hanno bisogno del medico i sani, ma i malati ». Gesù non vuol dire che i farisei sono sani e gli altri malati. Per lui, infatti, non c’è mai sulla terra un divisione manichea tra gente buona e gente cattiva, tra giusti e peccatori. Gesù vuol solo spiegare qual è la sua missione: egli è venuto per aiu­tare e per guarire, per liberare e per salvare. Non è sceso dal cielo per comminare condanne e punizioni. Per questo, ri­volgendosi direttamente ai farisei, aggiunge: « Andate e imparate che cosa vuoi dire: Misericordia cerco non sacrificio ». E invita tutti a essere come lui: « Imparate da me che sono mite e umile di cuore » (Ma 11 ,29). E, avvicinandosi ancora di più a ognuno di noi, aggiunge: « Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori ». Per questo non è difficile sentire il Signore accanto a sé. 

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San Beda il Venerabile : A tavola con Gesù

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100702

Venerdì della XIII settimana delle ferie del Tempo Ordinario : Mt 9,9-13
Meditazione del giorno
San Beda il Venerabile (circa 673-735), monaco, dottore della Chiesa
Omelie sui vangeli, I, 21 ; CCL 122, 149-151

A tavola con Gesù

        « Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i suoi discepoli ». Se desideriamo penetrare più a fondo nel significato di ciò che è accaduto, capiremo che Matteo non si limitò ad offrire al Signore un banchetto per il suo corpo nella propria abitazione materiale ma, con la fede e l’amore, gli preparò un convito molto più gradito nell’intimo del suo cuore. Lo afferma colui che dice : « Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me » (Ap 3, 20).

         Gli apriamo la porte per accoglierlo, quando, udita la sua voce, diamo volentieri il nostro assenso ai suoi segreti o palesi inviti e ci applichiamo con impegno nel compito da lui affidatoci. Entra quindi per cenare con noi e noi con lui, perché con la grazia del suo amore, viene ad abitare nei cuori degli eletti, per ristorarli con la luce della sua presenza. Essi così sono in grado di avanzare sempre più nei desideri del cielo. A sua volta, riceve anche lui ristoro mediante il loro amore per le cose celesti, come se gli offrissero vivande gustosissime.

oggi: Sant’Aronne – fratello di Mosé

oggi: Sant'Aronne - fratello di Mosé dans immagini sacre

http://www.santiebeati.it/

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La Chiesa, una costruzione ben ordinata (Ef. 2, 21)

dal sito:

http://www.cantalamessa.org/it/predicheView.php?id=15

La Chiesa, una costruzione ben ordinata (Ef. 2, 21) 
 
2003-03-05- I Predica della Quaresma 2003

1. Una Lettera pericolosa?

Nell’ultima parte della Novo Millennio Ineunte, il Papa invita a guardare la Chiesa come “mistero di comunione” che ha nella carità il suo “cuore”. In questo spirito, vorremmo rileggere alcuni brani della Lettera agli Efesini, lo scritto ecclesiologico per eccellenza di tutto il Nuovo Testamento.
Nella Lettera agli Efesini si parla di riconciliazione universale, di inimicizie distrutte, di muri di divisione abbattuti, ma noi siamo costretti a leggerla in un momento in cui intorno a noi non si odono che “rumori di guerra” e l’inimicizia sembra trionfare a livello planetario, tra gli stessi alleati di un tempo. Ma questa è una ragione in più per tornare a riascoltare queste parole. “Cristo è la nostra pace”, si legge nella Lettera agli Efesini. “Egli è venuto ad annunciare pace: pace ai vicini e pace ai lontani” (cf. Ef 2, 14. 17): sono parole che abbiamo sentito risuonare fino all’ultimo, in questi giorni, sulla bocca del vicario di Cristo.
Dedichiamoci dunque all’ascolto della parola di Dio, dal momento che è “in virtù della perseveranza e della consolazione che ci vengono dalle Scritture” che noi possiamo “tenere viva la nostra speranza” (Rom 15, 4).
Oggi si tende a escludere che la Lettera agli Efesini sia stata scritta di suo pugno da S. Paolo. Essa sarebbe nata in epoca leggermente posteriore all’Apostolo da uno che ne ha raccolto e sviluppato il pensiero. Ma questo ci interessa relativamente. A noi basta sapere che essa fa parte del canone delle Scritture ispirate, per essere sicuri che attraverso di essa è Dio che ci parla con tutta la sua autorità divina.
Come si presenta la Chiesa in Efesini? La novità più rilevante è senz’altro la seguente: fino ad ora la parola “Chiesa” era impiegata, almeno in S. Paolo, esclusivamente per indicare la Chiesa locale (Gerusalemme, Corinto, Filippi ecc.); ora viene impiegata per indicare la Chiesa universale. Universale non solo nello spazio, ma anche nel tempo, in quanto ha la sua origine in Dio prima dei secoli, è celeste e terrestre insieme.
Qualcuno ha veduto in ciò il pericolo di un eccessivo entusiasmo ecclesiologico e di trionfalismo. “Dal punto di vista teologico –ha scritto uno dei più recenti e noti commentatori- l’immagine della Chiesa si avvicina in modo preoccupante a quella di una comunità gloriosa, che risiede più in cielo che sulla terra, legata la suo Signore trionfante; essa è, invece, troppo poco vista sotto la croce, nella sequela del Signore che soffre ed espia: e ciò costituisce un pericolo, per la coscienza ecclesiale suscitata da questo teologo, che noi abbiamo sotto gli occhi in modo più chiaro di quanto non accadesse in secoli precedenti”.
Se questa però è una colpa, io direi che oggi è per noi “una felice colpa”, una colpa provvidenziale. Siamo così inclini a non vedere, della Chiesa, che il lato oscuro che forse una visione più positiva della Chiesa è proprio il correttivo che ci occorre in questo momento. Della nota definizione della Chiesa come “casta meretrix”, si è tanto insistito sul sostantivo “meretrix” da farci venire la nostalgia di sentire qualcosa anche sull’aggettivo “casta”.
Vedremo, del resto, che i pericoli segnalati sono più immaginari che reali. Lungi dall’indulgere ad atteggiamenti quietistici di auto-esaltazione, la lettera è una continua esortazione al cambiamento, al rinnovamento interiore. Il mistero non è evocato se non per farne norma di vita. La croce non è assente perché è in essa, secondo la nostra Lettera, che è stata distrutta l’inimicizia e si è operata la grande riconciliazione (cf. Ef 2, 16).

2. Non più stranieri, né ospiti

E veniamo al tema di questa prima meditazione. Esso è Efesini 2, 19-22, che, attenendoci al metodo della lectio divina, vogliamo anzitutto ascoltare nel testo originale:
“Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù. In lui ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito”.
Qui la Chiesa ci è presentata con l’immagine-guida dell’edificio e della costruzione. Non un edificio qualsiasi, ma l’edificio sacro per eccellenza, il tempio, la dimora di Dio. È significativo che la parola “chiesa” abbia sempre abbracciato insieme i due significati: quello di edificio materiale e quello di realtà spirituale, di popolo di Dio.
La Lettera agli Efesini non è la sola a parlare della Chiesa con l’immagine della costruzione. Paolo definisce i credenti “il campo di Dio e l’edificio di Dio” (1 Cor 3, 9) e la Prima lettera di Pietro li chiama “pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale” (1 Pt 2, 5). La frase finale del nostro testo “dimora di Dio per mezzo dello Spirito” richiama l’idea paolina del “tempio dello Spirito Santo” che è ogni credente (1 Cor 3,16).
Nell’inno di benedizione con cui inizia la Lettera vengono indicati i tre architetti che hanno disegnato e, a suo tempo, realizzato il progetto: il Padre che ha concepito il disegno prima della creazione del mondo, Gesù Cristo che lo ha realizzato nella pienezza del tempo e lo Spirito Santo che vi ha posto “il suggello”. Cristo è “la pietra angolare” che sta alla base dell’edificio, o, secondo un’altra interpretazione, “la chiave di volta” che lo corona. Gli apostoli e i profeti ne sono il fondamento, non però per se stessi, ma in quanto attraverso di essi si attinge il fondamento unico che è Cristo (cf. 1 Cor 3,11).
C’è stato un tempo in cui, sulla scia degli autorevoli studi di H. Schlier, si leggeva la Lettera agli Efesini in chiave antignostica, come una risposta cristiana alla esigenza di dare un fondamento celeste alle realtà terrene. Nel nostro testo abbiamo già una prima smentita a questa tesi, oggi del resto abbandonata da tutti. Il termine “costruzione” ha qui sia il senso passivo di edificio costruito, che quello attivo di costruzione dell’edificio. La Chiesa dunque si fa nel tempo; non è una realtà preesistente che ha la sua vera vita solo in cielo. La sua preesistenza celeste è solo intenzionale (nella mente di Dio), mentre la sua esistenza terrena e quella futura, escatologica, è reale.
(Il guaio è quando si applica a Cristo -come avveniva in certe cosiddette “nuove cristologie” degli anni Settanta- ciò che Efesini dice della Chiesa e si interpreta la preesistenza stessa di Cristo come semplice previsione. Il Figlio non esisterebbe, prima dell’Incarnazione, se non in previsione, nella mente di Dio. La Trinità stessa, non solo la Chiesa, in questo caso, si realizza progressivamente nel tempo).

3. Ricostruiamo il muro abbattuto?

La Scrittura, diceva S. Gregorio Magno “crescit cum legentibus”, cresce con coloro che la leggono ; da sempre nuove risposte a misura che le si pongono nuove domande. E così avviene anche con la Lettera agli Efesini. Il capitolo secondo, tema della presente meditazione, ha qualcosa di molto attuale da dirci.
Ai margini del dialogo tra Ebrei e cristiani si stanno facendo strada delle idee che, accolte acriticamente, sarebbero una diretta smentita dell’insegnamento della nostra Lettera. La Lettera agli Efesini dice che Cristo “ha fatto dei due un popolo solo”, che “ha abbattuto il muro di separazione” che c’era tra loro, “riconciliando tutti e due con Dio in un solo corpo” (Ef 2, 14 ss). Egli ha abbattuto il muro di divisione perché non vi fosse che un solo edificio, ma ora, con le migliori intenzioni, si vorrebbe ricostruire quel muro per avere due edifici, separati e indipendenti l’uno dall’altro.
Mi spiego. La Chiesa ufficiale ha riconosciuto in vari documenti il valore permanente dell’Antica alleanza e il suo carattere salvifico per coloro che, in buona coscienza, vivono secondo essa. Alcuni interpretano questo come se la Chiesa con ciò volesse dire che gli ebrei possono fare a meno di Cristo; che la missione cristiana è diretta ai gentili, non agli ebrei, facendo leva sul fatto che, nel mandato missionario, Gesù ordina agli apostoli di andare “a tutte le nazioni” (Mt 28,19), cioè ai popoli pagani. Quello che Paolo dice di Pietro e di sé stesso, all’interno della Chiesa, viene così esteso ai rapporti tra Israele e la Chiesa: uno è per i circoncisi, l’altra per i non-circoncisi (cf. Gal 2, 7-8).
Questo escluderebbe nei cristiani non solo un diretto impegno missionario nei confronti degli ebrei, cioè il proselitismo, ma perfino il desiderio e la speranza che essi arrivino a conoscere il Cristo. “Molti ebrei –ho letto in un’autorevole rivista cattolica- potrebbero dirci: è vero che la Chiesa ha abbandonato ogni tentativo formale di convertire gli ebrei, ma non vi sono cattolici che desiderano ancora in cuor loro la loro conversione? E questo desiderio, non realizzato, non potrebbe un giorno provocare quello che tante volte ha provocato in passato?”
A ciò l’autore rispondeva che questo potrebbe essere vero di qualche cattolico isolato, ma non della Chiesa in generale. La Chiesa avrebbe rinunciato, secondo lui, perfino a pregare per la conversione degli ebrei, perché, se è vero che il Venerdì santo la liturgia prega che gli ebrei “giungano alla pienezza della redenzione”, per pienezza della redenzione non si intenderebbe qui la redenzione di Cristo, ma quella finale, escatologica .
Se fosse così io mi dichiarerei subito uno di quei cattolici isolati, perché io desidero che i fratelli ebrei, che amo, giungano un giorno a riconoscere colui che Simeone definiva insieme “luce delle genti e gloria di Israele” (cf. Lc 2, 32). Vi giungano, non costretti e neppure forse sollecitati da noi, ma autonomamente, per scoperta propria, dall’interno della loro fede, senza perdere nulla della loro identità di “Israele secondo la carne”. Rinunciare perfino a “desiderare” questo significherebbe, per me, non amare né Cristo né gli ebrei.
È assurdo e contrario a tutto il Nuovo Testamento pensare che la missione di Cristo sia per i pagani e non anche per i giudei, quando tutta la predicazione di Cristo e il suo appello alla conversione è rivolto proprio a degli ebrei, e lui stesso dice di non essere venuto se non per le pecore perdute d’Israele (cf. Mt 15,24).
L’equivoco nasce da una falsa interpretazione del significato di conversione. Sulle labbra di Gesù –sicuramente, in ogni caso, nel passo programmatico di Mc 1,15 – , “convertitevi”, non significa passare dall’idolatria al culto del vero Dio, neppure significa rinnegare qualcosa; significa semplicemente “credere al Vangelo”; non significa tornare indietro, ma fare un passo avanti ed entrare nel regno che è venuto. “Il vangelo, scrive lo stesso Apostolo dei gentili, è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco” (Rom 1,16).
Forse dobbiamo stare attenti, questo sì, a non mettere sullo stesso piano l’accettazione di Gesù di Nazareth e l’accettazione di ciò che è nato e si sviluppato da lui nei secoli, in pratica il cristianesimo. È vero che non si possono separare Cristo e la Chiesa, ma neppure si possono confondere. Non è infatti per la parola della Chiesa che si accetta Gesù, ma per la parola di Gesù che si accetta la Chiesa. C’è una gradualità e una pedagogia da rispettare, specie quando si tratta del popolo ebraico che ha tanto sofferto in passato dai cristiani e dalla Chiesa.
Nei confronti degli Ebrei l’unico atteggiamento possibile è prendere alla lettera ciò che dice Pietro: “Rendere ragione della speranza che è in noi” (cf. 1 Pt 3, 15); cioè, non prendere noi iniziative di evangelizzazione, ma, all’occorrenza e se richiesti, testimoniare la speranza che Cristo è per noi. Pietro diceva: “con dolcezza e rispetto”, noi aggiungiamo: “e in spirito di sincero pentimento per il passato”.
Mi ha commosso il grido di una ebrea convertita, di fronte al pericolo di vedere il vangelo sottratto, anche di diritto, a quelli della sua razza. “Sono cresciuta, a Brooklyn, scrive, in una famiglia ebrea conservatrice. Ho sperimentato su me stessa una buona dose di antisemitismo, spesso proprio da cattolici. Non è difficile per me capire la riluttanza –o meglio l’avversione- che molti ebrei hanno nei confronti del vangelo. Ma, nella sua infinita misericordia, Dio è venuto incontro a ogni membro della mia famiglia ristretta, inclusi i genitori, e ci ha condotti alla comunione con quelli stessi il cui antisemitismo ci aveva provocato tanta sofferenza. Il mistero più grande per me non è l’incredulità d’Israele, ma che, in queste circostanze, io sia giunta alla fede… E tuttavia negare che Cristo solo ci salva, che l’alleanza antica era, come dice Paolo, un pedagogo che doveva condurci a Cristo (Gal 3, 24), che egli è l’unico mediatore tra l’uomo e Dio (1 Tm 2,5), non significa solo privare di Cristo gli Ebrei, ma privare di lui tutto il mondo. Perché se egli non è il Messia d’Israele, allora non è il Messia di nessuno”.
L’ultima affermazione mi ha colpito per la sua verità: se Cristo non è il Messia d’Israele, non lo di nessuno! Questo infatti è ciò che egli ha detto di essere. La Lettera agli Efesini sembra scritta in anticipo per rispondere al problema, che oggi ci assilla, del giusto rapporto con Israele. Tra tutti gli scritti del Nuovo Testamento essa è probabilmente quella che si esprime più positivamente e con più rispetto nei riguardi degli Ebrei. Il suo messaggio centrale è che “i Gentili sono chiamati in Cristo Gesù a partecipare alla stessa eredità d’Israele” (Ef 3,6), non a costituire un’alternativa a Israele.

4. Ciascuno stia attento a come costruisce

Non potevo tralasciare di accennare a questo problema, ma è chiaro che la nostra preoccupazione principale, trattandosi di una meditazione quaresimale, non è di carattere teologico, quanto spirituale e ascetico. Dicevo che, lungi dallo spingerci ad atteggiamenti di autocompiacenza e di falso entusiasmo, la Lettera agli Efesini è un continuo richiamo al cambiamento e alla conversione, e questo vale anche del brano che stiamo commentando.
Cosa si richiede da chi vuole partecipare alla costruzione dell’edificio che è la Chiesa e vuole essere lui stesso “pietra viva” dell’edificio? S. Paolo, nella Prima lettera ai Corinzi aveva usato la metafora della Chiesa-edificio proprio per rispondere a questa domanda. Il suo discorso ci interessa da vicino in quanto applicato da lui proprio a coloro che, come gran parte dei presenti, sono chiamati a “presiedere” ai lavori di costruzione della casa di Dio, cioè ai capi, ai pastori, non esclusi i predicatori (nel contesto si parla di Paolo, di Cefa, ma anche di Apollo!). Ascoltiamolo:
“Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete il campo di Dio, l’edificio di Dio. Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come un sapiente architetto io ho posto il fondamento; un altro poi vi costruisce sopra. Ma ciascuno stia attento come costruisce. Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno” (1 Cor 3, 9-15).
Anche oggi le truffe edilizie sono frequenti. Si mette più sabbia che cemento nell’impasto e tanti edifici dopo un po’ di anni cominciano a sfaldarsi…
Ciò che decide della bontà della nostra opera non è tanto ciò che uno fa, quanto l’intenzione con cui lo fa. Quello che l’anima è per il corpo e la radice per l’albero, l’intenzione lo è rispetto alle nostre azioni. Dobbiamo imparare a usare anche noi, come ogni buon muratore, il filo a piombo. Esso serve a controllare se un muro è veramente diritto o se vi sono sporgenze e storture. La Scrittura ci fornisce diversi di questi “fili a piombo”, o regole, con cui possiamo misurare e rettificare le nostre intenzioni.
Uno è, per esempio, quello che l’Apostolo raccomanda ai Colossesi: “Qualunque cosa facciate, fatela di cuore come per il Signore e non per gli uomini” (Col 3, 23), un altro quello che raccomanda ai Corinzi: “Sia dunque che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio” (1 Cor 10,31), un altro ancora quello che scrive ai Galati: “È forse il favore degli uomini che intendo guadagnarmi, o non piuttosto quello di Dio?” (Gal 1,10).
Dobbiamo, raccomandano i maestri di spirito, imitare i cacciatori quando prendono la mira. Per concentrare la vista, essi chiudono l’occhio sinistro e tengono aperto solo il destro. Noi dobbiamo chiudere l’occhio che guarda gli uomini, e tenere ben aperto quello che guarda Dio.
Sulla scia della Lettera agli Efesini, già nel II secolo, il Pastore di Erma parla della Chiesa come di una torre altissima costruita sulle acque, con pietre più o meno levigate . Questo richiama chiaramente il tema della Chiesa come Antibabele, già presente nel racconto della Pentecoste.
Un tempo si pensava che il peccato dei costruttori della torre di Babele fosse di volere sfidare Dio. Ma oggi sappiamo che non è così. Quello che essi volevano costruire era uno di quei templi a terrazze sovrapposte, chiamati zikkurat, di cui restano tuttora rovine in Mesopotamia. Erano dunque uomini pii e religiosi. Dov’è allora il loro peccato? È nell’intenzione con cui costruiscono la torre. Essi si dicono l’un l’altro: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra” (Gen 11, 4). Essi vogliono costruire un tempio alla divinità, ma non per la gloria della divinità, ma per farsi un nome…
Anche gli apostoli, a Pentecoste, iniziano la costruzione di una torre la cui cima tocca il cielo, la Chiesa. Ma non per farsi un nome, ma per fare un nome a Dio. È scritto che tutti li comprendevano perché essi “proclamavano le grandi opere di Dio” (Atti 2, 11). Non erano più preoccupati di stabilire chi di loro fosse il più grande. Si sono decentrati da se stessi e ricentrati su Cristo.
Dio non ci chiede l’impossibile, cioè di non sentire il desiderio di autoaffermazione, di riuscire nella vita, di non essere neppure sfiorati dalla tentazione della carriera. Queste cose sono insite nella nostra natura, specie dopo il peccato. Ciò che conta è quello che io accolgo nella mia volontà, quello che scelgo e riscelgo continuamente con la mia libertà.
È come navigare con il vento di traverso: non si può lasciare un istante il timone incustodito senza che la barca prenda subito una direzione diversa da quella voluta. La Quaresima non è solo tempo di privazioni, ma anche di correzioni di rotta, di rettificazione delle intenzioni. È questo forse l’esercizio più salutare che in essa possiamo fare.
Una piccola confessione pubblica da parte del predicatore non è forse fuori luogo a questo riguardo. Questa predica sulla rettitudine di intenzione non si concretizzava, era come bloccata, tutto fermo, fino all’altro giorno. Finché una vocina non ha posto dentro di me la domanda più ovvia: “E tu, con che intenzione fai la predica sulla purezza di intenzioni?”. Quel giorno (era martedì scorso), nella Messa c’era un brano evangelico che sembrava essere lì per aiutare il predicatore (e non solo lui) a fare il suo esame di coscienza:
“Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini…” (Mt 23, 2-7).
È bastato permettere alla parola di Dio di fare il suo lavoro, di convincere di peccato, il tutto seguito da una buona confessione, che la predica, buona o cattiva che sia, si è subito concretizzata nella mia mente e ho potuto scriverla.
La Lettera agli Efesini ci offre una formula breve ma teologicamente assai densa per orientare o rettificare la nostra intenzione: “A Lui la gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni, nei secoli dei secoli. Amen” (Ef 3, 21).   

Publié dans:Lettera agli Efesini |on 1 juillet, 2010 |Pas de commentaires »

Osservanza delle norme liturgiche e ars celebrandi

dal sito:

http://www.zenit.org/article-23036?l=italian

Osservanza delle norme liturgiche e ars celebrandi

Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi

di don Mauro Gagliardi

ROMA, mercoledì, 30 giugno 2010 (ZENIT.org).- Durante l’Anno Sacerdotale, da poco concluso, la rubrica Spirito della Liturgia ha sviluppato il tema de «Il sacerdote nella Celebrazione eucaristica», scelto a motivo della concomitanza, nel 2009-2010, di diversi anniversari: il 150° della morte del Santo Curato d’Ars (1859), il 40° di promulgazione del Messale di Paolo VI (1969) e il 440° del Messale di San Pio V (1570), che nell’edizione approvata dal beato Giovanni XXIII (1962) rappresenta la forma straordinaria del Rito Romano[1]. Di qui l’opportunità di mettere in luce la peculiare dignità del sacerdozio ordinato, approfondendo la teologia e la spiritualità della S. Messa, particolarmente nella prospettiva del ministro che la celebra.
In quest’ultimo articolo, col quale intendiamo anche congedarci dai nostri lettori prima della pausa estiva, vogliamo riflettere con la consueta brevità sul tema dell’ars celebrandi.

1. La situazione nel post-Concilio

Il Concilio Vaticano II ha ordinato una riforma generale della sacra liturgia[2]. Essa è stata effettuata, dopo la chiusura del Concilio, da una commissione comunemente detta, per brevità, il Consilium[3]. È noto che la riforma liturgica è stata sin dall’inizio oggetto tanto di critiche, a volte radicali, quanto di esaltazioni, in certi casi eccessive. Non è nostra intenzione soffermarci su questo problema. Possiamo invece dire che si è generalmente d’accordo nel notare un forte aumento degli abusi in campo celebrativo dopo il Concilio.
Anche il Magistero recente ha preso atto della situazione e in molti casi ha richiamato alla stretta osservanza delle norme e delle rubriche liturgiche. D’altro canto, le leggi liturgiche stabilite per la forma ordinaria (o di Paolo VI) – quella che, eccezioni a parte, si celebra sempre e dovunque nella Chiesa di oggi – sono molto più « aperte » rispetto al passato. Esse consentono molte eccezioni e diverse applicazioni, e anche prevedono molteplici formulari per i diversi riti (la pluriformità persino aumenta nel passaggio dalla editio typica latina alle versioni nazionali). Nonostante ciò, un gran numero di sacerdoti ritiene di dover ulteriormente ampliare lo spazio lasciato alla « creatività », che si esprime soprattutto con il frequente cambiamento di parole o di intere frasi rispetto a quelle fissate nei libri liturgici, con l’inserimento di « riti » nuovi e spesso del tutto estranei alla tradizione liturgica e teologica della Chiesa e anche con l’uso di paramenti, vasi sacri e arredi che non sempre sono adeguati e, in alcuni casi più rari, rasentano persino il ridicolo. Il liturgista Cesare Giraudo ha sintetizzato la situazione con queste parole:
«Se prima [della riforma liturgica] c’erano fissità, sclerosi di forme, innaturalezza, che rendevano la liturgia di allora una « liturgia di ferro », oggi ci sono naturalezza e spontaneismo, indubbiamente sinceri, ma spesso fraintesi, malintesi, che fanno – o perlomeno rischiano di fare – della liturgia una « liturgia di caucciù », sgusciante, glissante, saponosa, che a volte si esprime in un ostentato affrancamento da ogni normativa rubricale. [...] Questa spontaneità fraintesa, che si identifica di fatto con l’improvvisazione, la faciloneria, il pressappochismo, il permissivismo, è il nuovo « criterio » che affascina innumerevoli operatori della pastorale, sacerdoti e laici.
[...] Non parliamo poi di quei sacerdoti che, talvolta e in taluni luoghi, si arrogano il diritto di utilizzare preghiere eucaristiche selvagge, o di comporne lì per lì il testo o parti di esso»[4].
Papa Giovanni Paolo II, nell’enciclica Ecclesia de Eucharistia, ha manifestato il suo malcontento per gli abusi liturgici che spesso avvengono, particolarmente nella celebrazione della S. Messa, in quanto «l’Eucaristia è un dono troppo grande, per sopportare ambiguità e diminuzioni»[5]. E ha aggiunto:
«Occorre purtroppo lamentare che, soprattutto a partire dagli anni della riforma liturgica post-conciliare, per un malinteso senso di creatività e di adattamento, non sono mancati abusi, che sono stati motivo di sofferenza per molti. Una certa reazione al « formalismo » ha portato qualcuno, specie in alcune regioni, a ritenere non obbliganti le « forme » scelte dalla grande tradizione liturgica della Chiesa e dal suo Magistero e a introdurre innovazioni non autorizzate e spesso del tutto sconvenienti.
Sento perciò il dovere di fare un caldo appello perché, nella Celebrazione eucaristica, le norme liturgiche siano osservate con grande fedeltà. Esse sono un’espressione concreta dell’autentica ecclesialità dell’Eucaristia; questo è il loro senso più profondo. La liturgia non è mai proprietà privata di qualcuno, né del celebrante, né della comunità nella quale si celebrano i misteri»[6].

2. Cause ed effetti del fenomeno

Il fenomeno della « disobbedienza liturgica » si è talmente esteso, per numero e in certi casi anche per gravità, da formare in molti una mentalità per la quale nella liturgia, fatte salve le parole della consacrazione eucaristica, si potrebbero apportare tutte le modifiche ritenute « pastoralmente » opportune dal sacerdote o dalla comunità. Questa situazione ha indotto lo stesso Giovanni Paolo II a chiedere alla Congregazione per il Culto Divino di preparare un’Istruzione disciplinare sulla Celebrazione dell’Eucaristia, pubblicata col titolo di Redemptionis Sacramentum il 25 marzo 2004. Nella citazione sopra riprodotta della Ecclesia de Eucharistia, si indicava nella reazione al formalismo una delle cause della « disobbedienza liturgica » del nostro tempo. La Redemptionis Sacramentum individua altre cause, tra cui un falso concetto di libertà[7] e l’ignoranza. Quest’ultima in particolare riguarda non solo la non conoscenza delle norme, ma anche una scarsa comprensione del valore storico e teologico di molti testi eucologici e riti: «Gli abusi trovano, infine, molto spesso fondamento nell’ignoranza, giacché per lo più si rigetta ciò di cui non si coglie il senso più profondo, né si conosce l’antichità»[8].
Innestando il tema della fedeltà alle norme in una comprensione teologica e storica, nonché nel contesto dell’ecclesiologia di comunione, l’Istruzione afferma:
«Troppo grande è il Mistero dell’Eucaristia « perché qualcuno possa permettersi di trattarlo con arbitrio personale, che non ne rispetterebbe il carattere sacro e la dimensione universale ». [...] Atti arbitrari, infatti, non giovano a un effettivo rinnovamento, ma ledono il giusto diritto dei fedeli all’azione liturgica che è espressione della vita della Chiesa secondo la sua tradizione e la sua disciplina. Inoltre, introducono elementi di deformazione e discordia nella stessa Celebrazione eucaristica che, in modo eminente e per sua natura, mira a significare e realizzare mirabilmente la comunione della vita divina e l’unità del popolo di Dio. Da essi derivano insicurezza dottrinale, perplessità e scandalo del popolo di Dio e, quasi inevitabilmente, reazioni aspre: tutti elementi che nel nostro tempo, in cui la vita cristiana risulta spesso particolarmente difficile in ragione del clima di « secolarizzazione », confondono e rattristano notevolmente molti fedeli.
Tutti i fedeli, invece, godono del diritto di avere una liturgia vera e in particolar modo una celebrazione della Santa Messa che sia così come la Chiesa ha voluto e stabilito, come prescritto nei libri liturgici e dalle altre leggi e norme. Allo stesso modo, il popolo cattolico ha il diritto che si celebri per esso in modo integro il sacrificio della Santa Messa, in piena conformità con la dottrina del Magistero della Chiesa. È, infine, diritto della comunità cattolica che per essa si compia la celebrazione della Santissima Eucaristia in modo tale che appaia come vero sacramento di unità, escludendo completamente ogni genere di difetti e gesti che possano generare divisioni e fazioni nella Chiesa»[9].
Particolarmente significativo in questo testo è il richiamo al diritto dei fedeli di avere la liturgia celebrata secondo le norme universali della Chiesa, nonché la sottolineatura del fatto che trasformazioni e modifiche della liturgia – pur se operate per motivi « pastorali » – non hanno in realtà un effetto positivo in questo campo; al contrario confondono, turbano, stancano e possono perfino far allontanare i fedeli dalla pratica religiosa.

3. L’ars celebrandi

Ecco i motivi per i quali il Magistero negli ultimi quattro decenni ha richiamato diverse volte i sacerdoti all’importanza dell’ars celebrandi, la quale – se non consiste solo nella perfetta esecuzione dei riti in accordo alle rubriche, ma anche e soprattutto nello spirito di fede e adorazione con cui essi si celebrano – non si può però attuare se ci si discosta dalle norme fissate per la celebrazione[10]. Così si esprime ad esempio il Santo Padre Benedetto XVI:
«Il primo modo con cui si favorisce la partecipazione del popolo di Dio al Rito sacro è la celebrazione adeguata del Rito stesso. L’ars celebrandi è la migliore condizione per l’actuosa participatio. L’ars celebrandi scaturisce dall’obbedienza fedele alle norme liturgiche nella loro completezza, poiché è proprio questo modo di celebrare ad assicurare da duemila anni la vita di fede di tutti i credenti, i quali sono chiamati a vivere la celebrazione in quanto popolo di Dio, sacerdozio regale, nazione santa (cf. 1Pt 2,4-5.9)»[11].
Richiamando questi aspetti, non si deve cadere nell’errore di dimenticare i frutti positivi prodotti dal movimento di rinnovamento liturgico. Il problema segnalato, tuttavia, sussiste ed è importante che la soluzione ad esso parta dai sacerdoti, i quali devono impegnarsi innanzitutto a conoscere in maniera approfondita i libri liturgici e anche a metterne fedelmente in pratica le prescrizioni. Solo la conoscenza delle leggi liturgiche e il desiderio di attenersi strettamente ad esse impedirà ulteriori abusi ed « innovazioni » arbitrarie che, se sul momento possono forse emozionare i presenti, in realtà finiscono presto per stancare e deludere. Fatte salve le migliori intenzioni di chi la commette, dopo quarant’anni di esperienza in merito possiamo riconoscere che la « disobbedienza liturgica » non costruisce affatto comunità cristiane migliori, ma al contrario mette in pericolo la solidità della loro fede e della loro appartenenza all’unità della Chiesa Cattolica. Non si può utilizzare il carattere più « aperto » delle nuove norme liturgiche come pretesto per snaturare il culto pubblico della Chiesa:
«Le nuove norme hanno di molto semplificato le formule, i gesti, gli atti liturgici [...]. Ma neppure in questo campo non si deve andare oltre a quello che è stabilito: difatti, così facendo, si spoglierebbe la liturgia dei segni sacri e della sua bellezza, che sono necessari, perché sia veramente attuato nella Comunità cristiana il mistero della salvezza e sia anche compreso sotto il velo delle realtà visibili, attraverso una catechesi appropriata. La riforma liturgica infatti non è sinonimo di desacralizzazione, né vuole essere motivo per quel fenomeno che chiamano la secolarizzazione del mondo. Bisogna perciò conservare ai riti dignità, serietà, sacralità»[12].
Tra le grazie che speriamo di poter ottenere dalla celebrazione dell’Anno Sacerdotale vi è pertanto anche quella di un vero rinnovamento liturgico in seno alla Chiesa, affinché la sacra liturgia sia compresa e vissuta per quello che essa è in realtà: il culto pubblico e integrale del Corpo Mistico di Cristo, Capo e membra, culto di adorazione che glorifica Dio e santifica gli uomini[13].

Note

1) Cf. M. Gagliardi, «Il sacerdote nella Celebrazione eucaristica», Zenit 11.11.2009: http://www.zenit.org/article-20283?l=italian.
2) Cf. Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, n. 21.
3) Abbreviazione di Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia.
4) C. Giraudo, «La costituzione « Sacrosanctum Concilium »: il primo grande dono del Vaticano II», in La Civiltà Cattolica (2003/IV), pp. 532; 531.
5) Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, n. 10.
6) Ibid., n. 52. Cf. anche Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, n. 28.
7) «Gli abusi non di rado si radicano in un falso concetto di libertà. Dio, però, ci concede in Cristo non quella illusoria libertà in base alla quale facciamo tutto ciò che vogliamo, ma la libertà, per mezzo della quale possiamo fare ciò che è degno e giusto»: Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Redemptionis Sacramentum, n. 7.
8) Ibid., n. 9.
9) Ibid., nn. 11-12.
10) Sacra Congregazione dei Riti, Eucharisticum Mysterium, n. 20: «Per favorire il corretto svolgimento della sacra celebrazione e la partecipazione attiva dei fedeli, i ministri non debbono limitarsi a svolgere il loro servizio con esattezza, secondo le leggi liturgiche, ma debbono comportarsi in modo da inculcare, per mezzo di esso, il senso delle cose sacre».
11) Benedetto XVI, Sacramentum Caritatis, n. 38. Si veda il n. 40 che sviluppa adeguatamente il concetto.
12) Sacra Congregazione per il Culto Divino, Liturgicae instaurationes, n. 1. Il testo continua: «L’efficacia delle azioni liturgiche non sta nella ricerca continua di novità rituali, o di ulteriori semplificazioni, ma nell’approfondimento della parola di Dio e del mistero celebrato, la cui presenza è assicurata dall’osservanza dei riti della Chiesa e non da quelli imposti dal gusto personale di un singolo sacerdote. Si tenga presente, poi, che la imposizione di rifacimenti personali dei sacri riti da parte del sacerdote offende la dignità dei fedeli, e apre la via all’individualismo e al personalismo nella celebrazione di azioni che direttamente appartengono a tutta quanta la Chiesa».
13) Cf. Pio XII, Mediator Dei, I, 1; Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, n. 7.

Publié dans:LITURGIA, LITURGIA STUDI |on 1 juillet, 2010 |Pas de commentaires »
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