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Il Mandylion di Edessa, (interessante il testo sul sito)

Il Mandylion di Edessa, (interessante il testo sul sito) dans immagini sacre sindone

http://www.santuarioloreto.it/nuovomessaggio/dic2008/dic2008_06.htm

Publié dans:immagini sacre |on 6 juillet, 2010 |Pas de commentaires »

il bellissimo salmo 27, il commento è un po’ lungo…

Sourire, dal sito:

http://www.laportabergamo.it/Documentazione/Doc_iniziative/Lisa%20Cremaschi,%20Salmo%2027.pdf

SALMO 27

1 Di Davide.
Il Signore è mia luce e mia salvezza,
di chi avrò timore?
Il Signore è rifugio della mia vita,
di chi avrò paura?
2 Quando si avvicinarono
contro di me i malfattori,
per divorare la mia carne,
i miei avversari e nemici,
essi inciamparono e caddero.
3 Se contro di me si accampa un esercito,
il mio cuore non teme.
Se contro di me si solleva una battaglia,
anche in questo io sono fiducioso.
4 Una sola cosa ho chiesto al Signore,
questa io cerco:
abitare nella casa del Signore
per tutti i giorni della mia vita,
per contemplare la bellezza del Signore
e vegliare nel suo tempio.
5 Sì, egli mi nasconderà nella sua capanna,
nel giorno della sventura;
mi proteggerà nel nascondiglio della sua tenda,
sopra una roccia mi solleverà.
6 E ora si rialzi la mia testa sui miei nemici che mi circondano.
E offrirò nella sua tenda sacrifici di esultanza,
canterò e suonerò in onore del Signore.
7 Ascolta, o Signore, la mia voce!
Io grido: “Sii propizio con me e rispondimi!”
8 Di te ha detto il mio cuore: Cerca il suo volto!
Il tuo volto, JHWH, io cerco.
9 Non nascondermi il tuo volto,
non respingere con ira il tuo servo.
Sei tu il mio aiuto, non lasciarmi,
non abbandonarmi, o Dio della mia salvezza
10 Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato
ma il Signore mi ha accolto.
11 Mostrami, Signore, la tua via,
guidami su un sentiero piano,
a causa di coloro che mi spiano.
12 Non consegnarmi alla gola dei miei avversari;
poiché si alzano contro di me falsi testimoni,
accusatori violenti.
13 Oh, se non credessi di vedere i beni del Signore
nella terra dei viventi!
14 Spera nel Signore,
sii forte. Si rinfranchi il tuo cuore.
Spera nel Signore!

IL TUO VOLTO, SIGNORE, IO CERCO

La ricerca di Dio nel salmo 27

Origene, profondo conoscitore delle Scritture, esegeta insuperabile e grande figura spirituale, in uno dei tanti passi in cui tenta di abbozzare un metodo d’approccio al testo biblico, consiglia di scrivere tre volte sulle tavole del cuore i testi della Scrittura su cui vogliamo sostare per dissetarci lungo il nostro cammino e rifare le forze del nostro cuore. Scrive, commentando il passo di Pr 22,20: « Nei Proverbi di Salomone si dice a proposito dei precetti divini: trascrivili tre volte nella tua volontà e intelligenza, affinché tu possa rispondere parole di verità a coloro che ti interrogano. Bisogna scrivere tre volte nella propria anima i pensieri delle Scritture: a livello più semplice sarete edificati dalla carne delle Scritture, cioè dal senso letterale; poi dall’anima delle Scritture e infine gioirete del senso spirituale » (Principi 4,2,4). Tre volte, dunque, occorre leggere il testo. Una prima volta per cogliere il senso letterale o storico; il testo va letto e compreso, studiato, inserito nel suo contesto storico. È il lavoro del filologo e dell’esegeta, lavoro indispensabile, preliminare, ma insufficiente per una lectio divina. Lo si leggerà una seconda volta per cogliere il senso mistico relativo al Cristo e alla chiesa. I padri della chiesa, unanimi, dicono che nella Scrittura contempliamo il volto di Cristo (Gregorio Magno), che tutta la Scrittura canta Cristo (Agostino); essa è definita « corpo del Verbo ». E come è profezia di Cristo, lo è anche del suo corpo della chiesa. Nel testo biblico, in questo caso nel salmo, si parla della vita di Cristo e della nostra vita. Ma se ci fermassimo qui saremmo forse dei buoni teologi, ma non ancora degli oranti. Dopo aver letto la Scrittura come parola umana, cercando di comprenderne il senso letterale, dopo aver cercato in essa il volto di Cristo e della chiesa, la rileggo una terza volta come parola che mi concerne direttamente, che parla a me e di me, che debbo fare mia nel pregare e nell’agire. Potremmo esprimere lo stesso concetto con i padri latini. Dice Ilario di Poitiers: « Il problema principale per comprendere i salmi è poter discernere in nome di chi vengono proferite queste parole e a chi sono rivolte » (Commento al salmo 1). E chi sia l’orante dei salmi secondo la tradizione patristica è molto chiaro. Da Tertulliano in poi tutti concordemente aprono il commento a quasi tutti i salmi con l’espressione: Vox Christi ad Patrem. Ma oltre ad essere voce di Cristo, i salmi sono anche voce del corpo di Cristo, della chiesa. Scrive Agostino che i salmi sono cantati da una quaedam persona « il cui capo è in alto mentre le membra sono in basso; dobbiamo ormai sentire nota e familiare come fosse nostra la sua voce in ogni salmo, sia che canti o che gema, si allieti nella speranza oppure sospiri » (Sul sal 42,1). É il Christus totus, il Cristo totale che prega i salmi. Ma i salmi sono anche vox mea cum Christo. Cristo assume i nostri sentimenti e li trasfigura; noi entriamo nella preghiera e ne usciamo modificati perché i nostri sentimenti vengono trasfigurati da Cristo. I salmi dunque come triplice vox: Vox Christi, vox Ecclesiae, Vox mea cum Christo. Noi seguiamo anzitutto il consiglio di Origene e scriviamo tre volte sulle tavole del cuore il nostro salmo, attenti a cogliere in esso le diverse voci.

SENSO LETTERALE

Non mi fermerò a lungo su questo primo livello di lettura. Rimando ai vari commentiesegetici ai salmi e mi limito in questa sede a offrire soltanto alcuni punti di riferimento per la comprensione del salmo. Il salmo presenta due tavole simmetriche; un « ringraziamento trionfale » e una « supplica ansiosa » hanno detto gli esegeti. Per molto tempo si sono voluti individuare in questo salmo due preghiere distinte, che sarebbero state unite successivamente; si è anche ipotizzato che con la prima parte (vv. 1-6) l’orante si rivolga a Dio con una preghiera libera, personale, e nella seconda, invece, si unisca alla preghiera comunitaria che canta una supplica prefissata appartenente al repertorio liturgico del tempio. La ricerca odierna ha ripreso l’affermazione tradizionale dell’unità di questo salmo; si possono aver dubbi soltanto sul v. finale, il 14: « Spera nel Signore, sii forte. Si rinfranchi il tuo cuore. Spera nel Signore! » che potrebbe essere un auto-appello interiore alla speranza, sul genere di quello che troviamo nel sal 42-43 « Perché ti rattristi, anima mia? Spera in Dio! », ma potrebbe anche costituire un frammento liturgico di una formula di incoraggiamento rivolta dal sacerdote all’orante. Il ritmo 3+2 accenti proprio delle suppliche ricorre in quasi tutto il salmo, le immagini in perfetta corrispondenza tra le due parti fanno propendere per l’unitarietà del salmo. È molto difficile da una preghiera così profonda e vera trarre elementi che permettano di datarla e di contestualizzarla. L’orante probabilmente è un semplice fedele, anche se taluni esegeti lo identificano con un re o con un sommo sacerdote. Come epoca di datazione qualcuno suggerisce quella dei Maccabei o una data ancora più tarda, altri ipotizzano l’epoca anteriore all’esilio. Come il salmo 23, è un salmo di fiducia in Dio, fiducia anche nell’oscura valle della morte secondo il Sal 23, 4 e fiducia anche di fronte all’imperversare dei nemici nel nostro salmo (v. 2-3.12). JHWH è definito luce, rifugio – baluardo, salvezza di fronte all’armata accampata di fronte a chi prega. L’autore ricorre alle immagini belliche e ad esse accosta quella della belva che sbrana, dilania. Troviamo un’espressione analoga in Gb 19,22: « Perché vi accanite contro di me, come Dio, e non siete mai sazi della mia carne? ». Sembra che tale espressione derivi dalle violenze sessuali a cui si abbandonavano i soldati vincitori nei confronti delle donne della città vinta. Altre volte la stessa immagine è adoperata per indicare la calunnia e le false accuse. In questa situazione di difficoltà, l’orante confessa il suo desiderio, un triplice desiderio: abitare con Dio (come in sal 23,6: « Ritornerò alla dimora del Signore per giorni senza fine »), contemplare la bellezza di JHWH e vegliare nel suo tempio. Quest’ultimo verbo, in ebraico baqar, può avere molteplici significati. Può indicare la cura del tempio, oppure può significare « ammirare » e riprenderebbe il tema della contemplazione. Ma l’ebraico boqer significa « mattino » e sembra allora che questo verbo possa alludere alla veglia nel tempio. Il canto prosegue con l’evocazione del tempo del deserto in cui JHWH offriva un riparo nella sukkah, nella capanna, nel Santo dei Santi. Egli è la roccia, allusioneall’altura rocciosa di Sion su cui si ergeva il tempio. Dopo aver trionfato sui nemici, l’orante offre un sacrificio di terû ‘ah, cioè eleva il grido di guerra e di vittoria – e con ciò vengono riprese le immagini militari – e poi la todah, cioè l’inno di lode. Nella seconda parte l’orante, che si definisce « servo », invoca JHWH, afferma di cercare il suo volto, espressione che è sinonimo di « accedere al tempio », e supplica il Signore di non nascondere il suo volto, cioè di non adirarsi contro di lui. Memore della promessa di Dio espressa dal profeta Isaia: « Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai » (Is 49,15), il credente è certo che il Signore non l’abbandona. Come Mosè chiede di poter conoscere le vie di Dio (cf. Es 33,13), poi di nuovo supplica l’aiuto contro gli avversari, falsi testimoni. Il tema della speranza, che ha attraversato tutto il salmo, si esplicita nell’invocazione finale, formulata attraverso un’espressione retorica: « Ah, se non fossi sicuro di contemplare la bontà di JHWH! » . Il salmo si conclude con l’auto-appello a riporre la propria fiducia nel Signore.

SENSO MISTICO

Dopo questa rapida lettura del salmo volta semplicemente a cogliere la lettera del testo, lorileggiamo una seconda volta per cogliere il senso mistico, per comprendere cioè in che modo questo salmo ci parla di Cristo e del suo corpo, la chiesa. Mi fermerò su alcuni temi. 1. La luce v. 1: « Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò timore? Il Signore è rifugio della mia vita, di chi avrò paura? ». Il tema della luce percorre tutta la Bibbia dalla Genesi all’Apocalisse. Il primo atto del Creatore è un’opera di separazione della luce dalle tenebre e, al termine della Bibbia, nell’Apocalisse, ci viene detto che alla fine di tutta la storia, la nuova creazione avrà Dio stesso quale luce: « La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello ». La luce è un riflesso della gloria di Dio, è la veste con cui Dio si ricopre secondo sal 104,2, accompagna tutte le teofanie dell’Antico Testamento. La Legge, la Torah, è luce, lampada che illumina i passi del credente (sal 119,105). Le tenebre, piaga per gli egiziani (Es 10,21) sono uno dei segni che annunciano il giorno di JHWH che per i peccatori sarà tenebra e non luce (cf. Am 5,18; Is 8,21). Tuttavia questo giorno sarà luminoso per i poveri, per il piccolo resto umiliato e afflitto: « Allora il popolo che camminava nelle tenebre vedrà una grande luce » (Is 9,1). Dio stesso sarà la luce della città santa e il suo servo diverrà luce per tutte le genti (cf. Is 42,6; 49,6). In Gesù di Nazaret si rende manifesta la luce annunciata dai profeti. « Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce » (Is 9,1); la profezia di Isaia si realizza secondo il vangelo di Matteo. Luca parla di lui come del sole nascente che illumina quanti si trovano nelle tenebre (Lc 1,78), ma soprattutto Gesù è colui che dona la luce, che ridà la vista ai ciechi, è la lampada che illumina tutta la casa (cf. Lc 11,3). Il quarto vangelo, in particolare, ricorre a questa immagine della luce. Già nel prologo afferma: « Egli era la vita e la luce degli uomini e le tenebre non l’hanno sopraffatta ». « Io sono la luce del mondo » afferma Gesù (Gv 8,12) e invita a seguirlo, a camminare finché c’è la luce (Gv 12,35), a non preferire le tenebre alla luce (cf. Gv 3,19). « Dio è luce » dichiara 1Gv 1,5; Gesù, il Figlio, è luce; il discepolo di Gesù, il credente in lui, a sua volta, è luce nel Signore (Ef 5,8). E Paolo esorta « dunque comportatevi come figli della luce; il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità ». Essere figli della luce significa lasciare agire in noi il Cristo risorto, vincitore di ogni tenebra. « Guardate a lui e sarete pieni di luce senza ombra né paura sul volto » (Sal 34,6). Il tema è vastissimo. Come Gesù, Parola rivolta verso il Padre (Gv 1,1), riflette la gloria, lo splendore della luce di Dio, così il credente che rimane rivolto verso Gesù, come Giovanni l’amato nell’ultima cena, riflette la luce di Cristo. Nell’abbandono alle mani del Padre Cristo ha trovato riparo, rifugio, baluardo contro i nemici, contro l’ultimo nemico, la morte. « Nelle tue mani affido il mio respiro » (Lc 23,46). Al v. 5 ritroviamo la fiducia in Dio come riparo da ogni male: « Sì, egli mi nasconderà nella sua capanna, nel giorno della sventura; mi proteggerà nel nascondiglio della sua tenda, sopra una roccia mi solleverà ». L’allusione alla roccia evoca nei commenti patristici il passo di Mt 7,24-27: « Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica è simile a un uomo saggio che ha costruito la casa sulla roccia. Cadde la poggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia ». Roccia è la parola di Cristo, roccia è il Cristo stesso (1Cor 10,4), pietra angolare sulla quale viene edificata la comunità dei credenti in lui. « Mi proteggerà nel nascondiglio della sua tenda » viene commentato con Col 3,3: « La vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio ». Ma vorrei ritornare ancora un momento sul tema della luce per ricordare un episodio della vita di Pacomio, il fondatore della vita monastica nella sua forma cenobitica. La Vita boairica racconta che Pacomio, gravemente malato e vicino alla morte, in un momento di seria preoccupazione per le sue comunità che si erano arricchite e non restavano fedeli all’evangelo fece un sogno. « Egli guardò e vide la Gheenna oscura e tenebrosa e, in mezzo ad essa, una colonna. Da ogni parte si sentivano voci che esclamavano: ‘Ecco qui la luce, dalla nostra parte’. Gli uomini che vi si trovavano camminavano a tastoni, perché l’oscurità era molto grande e spaventosa e, quando sentivano: ‘Ecco qui la luce, dalla nostra parte’, correvano, cercando la luce e desiderando vederla. Mentre correvano, udivano dietro di loro un’altra voce: ‘Ecco la luce, è qui’; subito tornavano indietro a cercare la luce, seguendo l’ultima voce che avevano udito. Nella visione Pacomio vide alcuni che, nell’oscurità, giravano come intorno a una colonna, credendo di andare avanti e di avvicinarsi alla luce, e non si accorgevano di girare a vuoto. Guardò ancora e vide nella Gheenna tutta l’assemblea della comunità procedere un fratello dietro l’altro, tenendosi stretti l’uno all’altro per paura di perdersi a causa della profonda oscurità. Quelli che stavano davanti avevano, per rischiararsi, la piccola luce di una lampada; soltanto quattro fratelli vedevano questa luce, mentre tutti gli altri non vedevano nulla. Nostro padre Pacomio osservava il loro modo di procedere; chi smetteva di stare attaccato a colui che lo precedeva, si perdeva nell’oscurità, insieme con quelli che lo seguivano. Ne vide uno, di nome Paniski, autorevole tra i fratelli, che rinunciava a camminare dietro a colui che lo precedeva e gli mostrava il cammino. Allora l’uomo di Dio Pacomio, nella sua visione, li chiamava ciascuno per nome, prima che lasciassero la presa, dicendo: ‘Tienti attaccato a chi ti precede, per non perderti’. La piccola luce camminava davanti ai fratelli finché giunsero ad uno spiraglio da cui proveniva una grande luce. Essi salirono da quella parte. L’apertura era munita di una botola per impedire alla luce di scendere e a quelli che si trovavano nell’oscurità di salire. Dopo questa visione, il nostro padre Pacomio fu istruito sul significato da colui che gliela aveva mostrata » (Vita boairica 103). L’immagine della Gehenna rinvia al mondo, alla chiesa del IV secolo, una chiesa sconvolta dalla crisi ariana, in cui divergenze teologiche si mescolano a lotte di potere; ciascuno pretende di possedere la verità e combatte chi non la pensa come lui. In mezzo a questa situazione di tenebra c’è una piccola luce, l’evangelo, che non illumina tutta la caverna, non spiega tutto, non rischiara tutto, illumina soltanto un piccolo sentiero, la via stretta che conduce verso la luce piena. « La luce è piccola, perché nel santo vangelo, a proposito del regno dei cieli, sta scritto: ‘È simile a un granello di senape, che è piccolo’ (Mt 13,31-32) ». Occorre restare attaccati gli uni agli altri dietro alla luce del vangelo. Pacomio non ha fatto altro che indicare ai fratelli quella piccola luce che ha cambiato la sua vita e ha guidato il suo cammino.

2. I nemici Ai vv. 2-3.6.12 si parla di nemici che assediano il credente. Il salmo viene applicato alla passione di Cristo; sembra fare da sfondo a Mc 14,56: « Molti attestavano il falso contro di lui », e a Eb 5,7: « Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà ». Chi sono i nemici per il cristiano che prega questo salmo? È tutto ciò che tenta di distogliere il credente dal Signore, dalla sua parola. Paolo nella lettera ai cristiani di Efeso scrive che la nostra lotta non è contro « creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti » (Ef 6,12). Potremmo dire che la nostra lotta è contro il peccato, non contro il peccatore; contro la morte e ogni forma di morte che si insinua nella nostra vita. Ma bisogna imparare a discernere i nemici, altrimenti finiamo per crearci dei nemici di carne e sangue, alcune persone discriminate in base alla razza, alla religione, alla loro diversità. I padri monastici diranno che i nemici contro cui dobbiamo lottare sono i loghismói, i pensieri malvagi, le passioni che vogliono condurci su vie di morte: l’amore esclusivo di sé che porta all’arroganza, alla prepotenza, all’odio … Per riconoscerli dobbiamo imparare a interrogarci, a interrogarli. Imparare a porre domande è la prima via per opporsi al male. Consigliano i padri del deserto: « Ad ogni pensiero che ti assale chiedi: ‘Sei dei nostri o vieni dall’Avversario?’ (cf. Gs 5,13) » (Detti dei padri del deserto, collezione anonima: Nau 99). La lettera agli efesini elenca le armi della lotta: « State ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace. Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potete spegnere i dardi infuocati del Maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito cioè la Parola di Dio. Pregate inoltre incessantemente … » (Ef 6,14-18). [Evagrio Pontico, sintetizzando la tradizione dei padri del deserto, elabora il metodo antirretico: come contraddire, come opporre ai pensieri che ci assalgono dei versetti delle Scritture, cioè i pensieri di Cristo]. « Non dipende da noi che le passioni tormentino l’anima e la spingano alla lotta, ma dipende da noi che i loro pensieri si attardino in noi e che le passioni si eccitino; nel primo caso non v’è peccato, dal momento che non dipende da noi; nel secondo, se combatteremo valorosamente, ne otterremo la vittoria » (Teodoro di Edessa, Capitoli 9). Certamente a volte queste passioni malvagie si esprimono attraverso istituzioni umane, ideologie, poteri … « Di chi avrò timore? Di chi avrò paura? » queste domande sembrano riecheggiare nella lettera ai romani: « Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? … Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? … Ma in tutte queste cose siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli, né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostroSignore » (Rm 8,31-38).

3. La ricerca di Dio Ma il tema centrale del salmo è quello della ricerca di Dio. Lo troviamo nella prima parte al v. 4: « Una sola cosa ho chiesto al Signore, questa io cerco: abitare nella casa del Signore per tutti i giorni della mia vita, per contemplare la bellezza del Signore e vegliare nel suo tempio », e nella seconda parte nei vv. 8-9: « Di te ha detto il mio cuore: Cerca il suo volto! Il tuo volto, JHWH, io cerco. Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo. Sei tu il mio aiuto, non lasciarmi, non abbandonarmi, o Dio della mia salvezza ». L’orante anela a vedere il volto di Dio; è il grande desiderio del credente in tutto l’Antico Testamento. Vedere Dio « gli occhi negli occhi » (Is 52,8), « Mostrami la tua gloria » invoca Mosè (Es 33,18), e Giobbe al cuore della sua sofferenza, leva la sua protesta: « Non è un uomo come me, che io possa rispondergli: ‘Presentiamoci alla pari in giudizio’. Non c’è fra di noi un arbitro che ponga la mano su noi due » (Gb 9,32-33). Mosè vede Dio di spalle, Elia sente solo la sua voce. Non si può vedere Dio e restare in vita (Es 33,20). Ma si può nutrire il desiderio, alimentarlo cercandolo nel suo tempio, nella liturgia, nella parola ascoltata e pregata. Ma il Dio « che nessuno ha mai visto né può vedere » (1Tm 6,16; 1Gv 4,12) si è reso visibile in Gesù Cristo. « Noi abbiamo visto la sua gloria » (Gv 1,14), canta Giovanni e pone sulla bocca di Gesù queste parole: « Chi ha visto me ha visto il Padre » (Gv 14,9). Gesù nella sua vita terrena ha abitato la casa del Padre, nutrendosi della sua volontà, è stato nel Padre. A noi ha promesso: « Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo » (Mt 28,29). Dove allora possiamo cercare il volto di Dio? Nella sua Parola. Pensiamo al sal 119, il salmo più lungo di tutto il salterio, che canta la ricerca di Dio. Ma è molto bello che questo salmo si concluda al v. 176 dicendo: « Io sono la pecora smarrita. Cerca tu il tuo servo, allora osserverò la tua parola ». Da soli non riusciamo a cercare; siamo stati cercati, siamo stati trovati … Ireneo nel suo scritto Contro le eresie parla a più riprese delle mani di Dio, che sono il suo Verbo, Gesù Cristo, e lo Spirito santo; le mani di Dio ci hanno plasmato, sono all’opera anche nella redenzione dell’uomo; sono le mani di Dio che liberano i tre giovinetti dalla fornace, che trasportano Enoch ed Elia nei cieli, che nel corso della storia intervengono per sostenere, soccorrere, incoraggiare. Queste mani si sono « abituate » a custodire e condurre la loro creatura. Conclude Ireneo: « Adamo non è mai sfuggito alle Mani di Dio »; Dio veglia sempre su di lui « affinché Adamo diventi secondo l’immagine e somiglianza di Dio » (Contro le eresie V,1,3). Come diventare fedeli discepoli del Signore? Restando sotto le Mani di Dio! « Non sei tu che fai Dio è Dio che fa te. Se dunque sei l’opera di Dio, aspetta la mano del tuo Artefice, che fa tutte le cose al tempo opportuno … Presentagli il tuo cuore morbido e malleabile e conserva la forma che ti ha dato l’Artista, avendo in te l’acqua che viene da lui per non rifiutare, indurendoti, l’impronta delle sue dita … Se gli affiderai ciò che è tuo, cioè la fede in lui e la sottomissione, riceverai la sua arte e sarai l’opera perfetta di Dio » (Ibid. IV,39,2). Ireneo ha una visione ottimista della storia di salvezza. Adamo ha peccato perché era come un bambino che non sapeva quello che faceva. Dio è un artista che vuole fare di Adamo, dell’essere umano, un’opera d’arte, ma Adamo si sottrae alla mani di Dio, vuole seguire le proprie vie. Convertirsi è cercare le mani di Dio, ritornare sotto le mani di Dio, mani che oggi noi troviamo nella liturgia, nell’ascolto della Parola, nella preghiera. E queste mani di Dio ci correggono, limano ciò che è di troppo, consolidano ciò che è fragile, confortano, guidano, raddrizzano fino a fare di noi un’opera d’arte, un capolavoro …Dentro di noi. Pensiamo al figlio che è andato lontano dalla casa del Padre, è uscito dallo spazio del suo amore, non ha saputo abitare nella casa del Signore (del resto al pari del primogenito che pure fisicamente sembra esserci restato). « Rientrato in se stesso »: in se reversus. Al profondo di stesso, al di sotto della tenebra, del male con cui ha alimentato la sua vita, riscopre l’immagine deposta in lui fin da principio, quell’immagine che è un appello a incamminarsi verso la pienezza della somiglianza con Cristo, unica immagine perfetta del Padre. L’immagine c’è in ogni uomo, dice la teologia patristica, e resta nonostante il peccato, l’ignoranza, la stupidità con cui la copriamo. Occorre, come la donna della parabola, riordinare la casa, il nostro cuore, fino a recuperare la moneta con l’immagine. Allora ci sarà gioia e si farà festa con gli altri; allora si potrà iniziare il cammino verso la somiglianza, che richiede il nostro lavoro, la nostra collaborazione con Dio. Il cristiano dovrebbe con la sua ricerca di Dio ridestare l’immagine di Dio presente in ogni uomo, in ogni donna. Ma non solo l’essere umano è immagine di Dio; anche ciò che egli crea con le arti, la cultura proprio perché è umano porta in sé un riflesso dell’immagine divina. L’aveva ben capito Giustino (II secolo) che riconosceva la presenza di semi del Verbo, di lógoi spermatikói, anche nella cultura pagana. Quanto più si è radicati nella Parola di Dio, quanto più si è uniti a Cristo, tanto più si va lontano, si diventa capaci di contemplare la bellezza del Signore (v. 4) anche al di fuori della chiesa. Nel fratello. Maria di Magdala cerca il Signore; ha trovato il sepolcro vuoto, ma non si arrende, persevera nella sua ricerca tra le lacrime. Lo incontra e quando le chiede: « Donna, perché piangi? Chi cerchi? », crede che sia il custode del giardino (Gv 20,15). I due discepoli di Emmaus lo incontrano in un viandante che sa spiegare gli eventi alla luce della parola di Dio e che spezza per loro il pane (Lc 24,13-35). Matteo 25 ci racconta che alla fine dei tempi saranno benedetti quelli che hanno servito Gesù nell’affamato, nell’assetato, nello straniero, nel malato e nel carcerato senza neppure rendersene conto. Lo scopriranno alla fine; vedranno l’esito della loro ricerca di senso. Nella tenebra. Noi siamo esseri di desiderio e desideriamo tante cose. Il desiderio di Dio si frantuma in mille piccoli desideri, la ricerca di Dio naufraga spesso davanti ad altri dèi che si impongono con più evidenza ma che finiscono per dominarci. « Di te ha detto il mio cuore: Cerca il suo volto! Il tuo volto, JHWH, io cerco » (v. 8). Dobbiamo dialogare con il nostro cuore, ripeterci che vogliamo cercare il volto del Signore, non lasciarci vincere dalla negligenza e dall’oblio. « Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo » (v. 9). L’orante supplica che Dio non gli nasconda il suo volto, non giri la faccia da un’altra parte in preda all’ira. Siamo chiaramente davanti a un’immagine antropomorfica con la quale si vuole esprimere tutta la paura della tenebra, la paura che la luce venga meno e non vediamo più la via da seguire. L’umano desiderio non si appaga mai su questa terra; è costantemente rilanciato, desidera sempre altro. Non solo, la conoscenza dell’amato non è mai piena. L’altro è sempre per noi un mistero; lo conosciamo in parte, ma non ne cogliamo mai la verità profonda. Anche la persona più vicina, più amata, è portatrice di un mistero che mi sfugge. Noi stessi siamo per noi un mistero; non ci conosciamo pienamente, apprendiamo gradualmente e con fatica ad abitare con noi stessi, ma non giungiamo mai alla conoscenza piena delle profondità del nostro essere. Dell’Altro per eccellenza, Dio, riconosciamo « solamente le orme », dice Gregorio, e dei « barlumi »(Commento al Cantico dei

cantici, p. 57). « Profumo effuso è il tuo nome » (Ct 1,3). « Sono nera, ma bella », dice la sposa (Ct 1,5). « Mi ha fatto bella con il suo amore », commenta Gregorio. Ciò che noi cerchiamo trasforma la nostra esistenza, l’amore rende belli, l’amore trasfigura, l’amore fa rassomigliare l’amante all’amato. Quante coppie che hanno perseverato nell’amore vicendevole giungono ad assomigliarsi nei tratti del volto, nella gestualità del corpo. « A uno specchio assomiglia, veramente, l’essere umano, il quale si trasforma a seconda delle immagini volute dalla sua libera scelta » (Om. 4, p. 105). L’essere umano ha la facoltà di scegliere verso chi volgersi, a chi assomigliare. Chi si volge all’amore di Dio è « lavorato » da

quest’amore che poco per volta fa riemergere in lui l’immagine e la somiglianza deposte nell’in – principio (cf. Gen 1,26) e poi offuscate e ottenebrate dalla stolta attrazione per il male. L’avventura della ricerca di Dio, della ricerca dell’amore è grandiosa, ma fragile. Conosce momenti di crisi, di tiepidezza, di pigra sonnolenza. La ricerca dell’amato a tratti fallisce, manca il bersaglio. « Allora io possedevo l’amore per colui che desideravo, ma l’oggetto del mio amore svanì sfuggendo alla presa dei miei ragionamenti » (Om. 6, p. 157). La sposa cerca lo sposo nella notte, ma il letto è vuoto. L’amore non toglie la solitudine. Va patito l’amore; occorre sentire la nostalgia, la mancanza, la lontananza e continuare a cercare. Così Dio ha cercato l’uomo. La domanda: « Adamo, dove sei? » risuona in ogni pagina della Scrittura, in ogni istante della storia. « Io lo cercavo nel mio letto, durante le notti, sì da conoscere quale ne fosse la sostanza, donde provenisse, dove terminasse e in quale condizione possedesse la sua esistenza. Ma non lo trovai: lo chiamavo per nome, per quanto mi era possibile trovare un nome per colui che non è nominabile » (Ibid.). Conoscere il nome di un altro, per la Bibbia, significa aver poter su di lui. L’amore non è prepotenza. Nel Cantico lo sposo supplica: « Aprimi, sorella mia, mia amica, mia colomba, perfetta mia;perché il mio capo è bagnato di rugiada, i miei riccioli di gocce notturne » (Ct 5,2). L’interpretazione spirituale proposta da Gregorio è la seguente: « Il grande Mosè cominciò a godere della visione di Dio nella luce: dopo di essa Dio gli parlò attraverso la nube. Quindi Mosè, divenuto ancor più sublime e più perfetto, vide Dio nella tenebra » (ed. Città Nuova, p. 252). Ci aspetteremmo il cammino inverso: dalla tenebra alla luce, e invece la ricerca dell’Amato parte dalla luce, da ciò che è visibile, passa per la nube e giunge alla tenebra, nel mistero di Dio. « Mosè entrò nella caligine ove si trovava Dio » (Es 20,21). Non tutto è chiaro e manifesto; se la sposa accoglie in casa sua lo sposo potrà raccogliere la rugiada che stilla dalla testa dello sposo e le gocce della notte che stillano dai suoi riccioli. Non è possibile, dice Gregorio, che chi è penetrato nelle realtà invisibili « incontri la pioggia o il torrente della conoscenza », ma è dono grande nella calda notte del deserto gustare la frescura della rugiada. Nella corsa dietro allo Sposo non bisogna mai fermarsi, ma lasciarsi attirare a lui. Se passa oltre, non ci si deve scoraggiare; egli non vuole abbandonare la sposa, ma destare ancor più il suo desiderio. In questo gioco d’amore può giungere l’ora della disperazione; sembra che a nulla valga l’impegno nella ricerca, che ogni sforzo sia destinato al fallimento. L’altro resta sempre altro, ci sfugge. La sposa « dispera di raggiungere colui che essa desidera, e pensa che il suo desiderio del bello rimarrà inappagato »(Ibid., p. 286), ma se persevera, viene guarita dalla disperazione e impara che la gioia risiede nel suo stesso insaziabile desiderio. In questa ricerca ci sostengono i fratelli nella fede. Agostino commentando il salmo 41/42 in cui ricorre questo stesso tema della ricerca di Dio, commentando il v. « Come un cervo anela alle fonti delle acque » scrive: « C’è qualcos’altro da notare nel cervo. Dicono che i cervi … quando camminano nella loro mandria, oppure quando nuotando si dirigono verso altre regioni, appoggiano la testa gli uni sugli altri, in modo che uno precede e lo segue un altro che appoggia il capo su di lui, e il terzo lo appoggia sul secondo e così via fino alla fine del branco. Il primo che porta il peso del capo di quello che lo segue, quando è stanco va in coda, in modo che il secondo diventa il primo e lui appoggiando la testa sull’ultimo possa riposarsi della sua stanchezza; in questo modo, portando alternativamente il peso, portano a termine il viaggio senza allontanarsi gli uni dagli altri. Non parla forse di cervi di questo genere l’Apostolo, quando dice: Portate gli uni i pesi degli altri (Gal 6,2) » (Esposizione sul sal 41,5)

4. La speranza « Oh, se non credessi di vedere i beni del Signore nella terra dei viventi! Spera nel Signore, sii forte. Si rinfranchi il tuo cuore. Spera nel Signore! » (vv. 13-14). L‘uomo è un essere di desiderio, anela a una pienezza di vita, tuttavia è continuamente frustrato nelle sue speranze dall’esperienza del limite, della finitezza, della morte. Di certo la speranza non è facile ottimismo. Il credente è un uomo lucido, che discerne il potere del male, della sofferenza, della morte. Potremmo dire che già la percezione di una mancanza, la coscienza di un’insoddisfazione profonda non è piccola cosa. Vi è già qui un appello, una sete,un desiderio – forse concitato, non troppo consapevole, disordinato – di « altro » che può divenire « Altro ». Diceva Agostino: « Il mio cuore non ha pace finché non riposa in te » (Confessioni I,1). Potremmo dire che la speranza fa sì che l’uomo non si rassegni mai a questo mondo, all’ingiustizia che vi regna, al dolore, alla morte, a continui a cercare la giustizia, la pace, l’amore, in una parola, Dio. La speranza fa sì che il credente si riconosca pellegrino e straniero in questo mondo, un mondo che ci sta stretto, che sospira liberazione, perché c’è la sofferenza, le catastrofi naturali, la malvagità dell’uomo e che attenda la terra dei viventi, i cieli nuovi e la terra nuova. Con la sua venuta Cristo ha già posto sulla terra dei segni del regno; il Dio che verrà e che i cristiani attendono è già venuto e ha già redento il mondo e la storia. La vita cristiana è costantemente in tensione tra due realtà: il già e il non-ancora. Già siamo stati liberati dal potere delle tenebre e trasferiti nel regno (cf. Col 1,13-14), già abbiamo ricevuto lo Spirito caparra della nostra eredità (Ef 1,13-14), già siamo figli di Dio (1Gv 3,1), già il Padre ha dato al Figlio ogni potere in cielo e in terra (Mt 28,18), gli ha assoggettato ogni cosa, nulla ha lasciato che non gli fosse sottomesso (Eb 2,8). Cristo ha vinto la morte, ma gli uomini continuano a morire. Cristo ha vinto ogni forma di male, eppure noi continuiamo a sperimentare il dolore, la sofferenza, la malattia, il peccato. La speranza, radicata nella fede, colma la distanza tra il già e il non-ancora e alimenta la carità, l’amore gratuito per ogni uomo riconosciuto fratello in Cristo. La speranza che orienta alfuturo, al Cristo che viene, relativizza le mete raggiunte dall’uomo; il credente non si lascia trarre in inganno da utopie terrene, né ha la pretesa di volere « tutto subito »; si impegna responsabilmente e concretamente in questo mondo, senza fallaci evasioni e senza perdersi in un orizzonte puramente terreno, ama la terra che Dio ha creato, ama ogni creatura e per tutti spera, e attende i cieli nuovi e la terra nuova che Dio ha promesso (cf. Ap 21-22). Il fondamento della speranza non sta in noi, sta nel Signore e nelle sue promesse. La speranza dunque si alimenta della memoria di ciò che il Signore ha fatto e che la Scrittura ci narra. E la speranza non porta a una distanza dalla realtà, allo spiritualismo, a un disinteresse per le realtà di questo mondo, perché solo la realtà futura avrebbe peso. No! levare lo sguardo verso il Signore, lui che la lettera ai colossesi chiama « speranza della gloria » (Col 1,27), conduce a ritornare alle cose della terra con sguardo purificato, a leggerle alla luce del Signore, a continuare a cercare in esse il volto del Signore. Sulla comunità dei credenti in Gesù, chiamati « a una sola speranza » (Ef 4,4), l’apostolo Paolo invoca il dono di comprendere con gli occhi del cuore « a quale speranza sono stati chiamati e quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità tra i santi » (Ef 1,18). Non solo a parole, ma con l’intera sua vita, specchio della speranza che lo abita, il credente è chiamato a dare speranza a chi non vede un domani, a sperare per tutti, a rendere ragione della speranza che è in lui (cf. 1Pt 3,15).

SENSO SPIRITUALE

Abbiamo cercato il senso letterale e il senso mistico, riferito cioè al mistero di Cristo e della

chiesa, e qui mi fermo. Il senso spirituale è dialogo a tu per tu con Dio, dialogo d’amore tra la sposa e lo Sposo, tra l’Amante e l’amato e in questo dialogo nessun estraneo ha il diritto di intervenire. Non si entra nella stanza nuziale. Ci si ferma sulla soglia.

 

Omelia per il 6 luglio 2010

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/13120.html

Omelia (07-07-2009) 
a cura dei Carmelitani

Commento Matteo 9,32-38

1) Preghiera

O Dio, che nell’umiliazione del tuo Figlio
hai risollevato l’umanità dalla sua caduta,
donaci una rinnovata gioia pasquale,
perché, liberi dall’oppressione della colpa,
partecipiamo alla felicità eterna.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…

2) Lettura del Vangelo

Dal Vangelo secondo Matteo 9,32-38
In quel tempo, presentarono a Gesù un muto indemoniato. Scacciato il demonio, quel muto cominciò a parlare e la folla presa da stupore diceva: « Non si è mai vista una cosa simile in Israele! ». Ma i farisei dicevano: « Egli scaccia i demoni per opera del principe dei demoni ».
Gesù percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando il vangelo del regno e curando ogni malattia e infermità. Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore. Allora disse ai suoi discepoli: « La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe! »

3) Riflessione

• Il vangelo di oggi ci presenta due fatti: (a) la guarigione di un indemoniato muto (Mt 9,32-34) e (b) un riassunto delle attività di Gesù (Mt 9,35-38). Questi due episodi terminano la parte narrativa dei capitoli 8 e 9 del vangelo di Matteo in cui l’evangelista cerca di indicare come Gesù metteva in pratica gli insegnamenti dati nel Discorso della Montagna (Mt 5 a 7). Nel capitolo 10, la cui meditazione inizia nel vangelo di domani, vediamo il secondo grande discorso di Gesù: Il Discorso della Missione (Mt 10,1-42).
• Matteo 9,32-33a: La guarigione di un muto. In un unico versetto Matteo descrive l’arrivo di un indemoniato dinanzi a Gesù, l’espulsione del demonio, l’atteggiamento di Gesù, qui e nei quattro vangeli, e l’attenzione e l’affetto di Gesù per le persone malate. Le malattie erano molte, la previdenza sociale, inesistente. Le malattie non erano solo deficienze corporali: sordità, cecità, paralisi, lebbra e tanti altri mali. In fondo, queste malattie non erano che una manifestazione di un male assai più profondo e vasto che minava la salute della gente, e cioè l’abbandono totale e lo stato deprimente ed inumano in cui era obbligata a vivere. Le attività e le guarigioni di Gesù si indirizzavano non solo contro i mali corporali, ma anche e soprattutto contro questo male maggiore dell’abbandono materiale e spirituale, in cui la gente era costretta a trascorrere i pochi anni della sua vita. Poi, oltre allo sfruttamento economico che rubava la metà dello stipendio familiare, la religione ufficiale dell’epoca, in vece di aiutare la gente ad incontrare in Dio una forza per resistere ed avere speranza, insegnava che le malattie erano un castigo di Dio per il peccato. Aumentava in loro il sentimento di esclusione e di condanna. Gesù faceva il contrario. L’accoglienza piena di tenerezza e la guarigione dei malati fanno parte dello sforzo di ritessere la relazione umana tra le persone e di ristabilire la convivenza comunitaria e fraterna nei villaggi della Galilea, la sua terra.
• Matteo 9,33b-34: La duplice interpretazione della guarigione del muto. Dinanzi alla guarigione dell’indemoniato muto, la reazione della gente è di ammirazione e di gratitudine: « Non si è mai vista una cosa simile in Israele! »La reazione dei farisei è di sfiducia e di malizia: « Egli scaccia i demoni per opera del principe dei demoni! » Non potendo negare i fatti che causano l’ammirazione della gente, l’unico modo che i farisei trovano di neutralizzare l’influenza di Gesù dinanzi alla gente è quello di attribuire l’espulsione al potere del maligno. Marco presenta un esteso argomento di Gesù per dimostrare la mancanza di coerenza e la malizia dell’interpretazione dei farisei (Mc 3,22-27). Matteo non presenta nessuna risposta di Gesù all’interpretazione dei farisei, perché quando la malizia è evidente, la verità brilla da sola.
• Matteo 9,35: Instancabile, Gesù percorre i villaggi. E’ bella la descrizione dell’attività instancabile di Gesù, in cui spunta la doppia preoccupazione a cui abbiamo fatto allusione: l’accoglienza piena di tenerezza e la guarigione dei malati: « Gesù percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando il vangelo del regno e curando ogni malattia e infermità ». Nei capitoli precedenti, Matteo aveva già fatto allusione varie volte a questa attività ambulante di Gesù nei villaggi e città di Galilea (Mt 4,23-24; 8,16).
• Matteo 9,36: La compassione di Gesù. « Vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore ». Coloro che dovevano essere pastori non erano pastori, non curavano il gregge. Gesù cerca di essere il pastore (Gv 10,11-14). Matteo vede in questo la realizzazione della profezia del Servo di Yavé che « ha preso le nostre infermità, si è addossato le nostre malattie » (Mt 8,17 e Is 53,4). Come lo fu per Gesù, la grande preoccupazione del Servo era « trovare una parola di conforto per coloro che erano scoraggiati » (Is 50,4). La stessa compassione verso la folla abbandonata, Gesù la mostra in occasione della moltiplicazione dei pani: sono come pecore senza pastore (Mt 15,32). Il vangelo di Matteo ha una costante preoccupazione nel rivelare ai giudei convertiti delle comunità di Galilea e di Siria che Gesù è il messia annunciato dai profeti. Per questo, frequentemente, lui mostra che nelle attività di Gesù si realizzano le profezie (cf. Mt 1,23; 2,5.15.17.23; 3,3; 4,14-16; etc.).
• Matteo 9,37-38: La messe è molta, gli operai sono pochi. Gesù trasmette ai discepoli la preoccupazione e la compassione che lo abitano: « La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe! ».

4) Per un confronto personale

• Compassione per le folle stanche ed affamate. Nella storia dell’umanità, non c’è stata mai tanta gente stanca ed affamata come oggi. La TV divulga i fatti, ma non offre risposte. Noi cristiani, riusciamo ad avere la stessa compassione di Gesù e irradiarla agli altri?
• La bontà di Gesù verso i poveri disturbava i farisei. Loro ricorrono alla malizia per neutralizzare l’incomodità causata da Gesù. Ci sono molti atteggiamenti buoni nelle persone che mi disturbano? Come le interpreto: con grata ammirazione come le folle o con malizia come i farisei?

5) Preghiera finale

Cantate al Signore canti di gioia,
meditate tutti i suoi prodigi.
Gloriatevi del suo santo nome:
gioisca il cuore di chi cerca il Signore. (Sal 104) 

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Giovanni Paolo II : « Pregate il padrone della messe, che mandi operai »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100706

Martedì della XIV settimana delle ferie del Tempo Ordinario : Mt 9,32-38
Meditazione del giorno
Giovanni Paolo II
Messaggio per la 38a Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, 6 maggio 2001

« Pregate il padrone della messe, che mandi operai »

Padre santo, fonte perenne dell’esistenza e dell’amore,
che nell’uomo vivente mostri lo splendore della tua gloria,
e metti nel suo cuore il seme della tua chiamata,
fa che nessuno, per nostra negligenza, ignori questo dono o lo perda,
ma tutti, con piena generosità, possano camminare
verso la realizzazione del tuo Amore.

Signore Gesù, che nel tuo pellegrinare per le strade della Palestina,
hai scelto e chiamato gli apostoli e hai affidato loro il compito
di predicare il Vangelo, pascere i fedeli, celebrare il culto divino,
fa’ che anche oggi non manchino alla tua Chiesa
numerosi e santi Sacerdoti, che portino a tutti
i frutti della tua morte e della tua risurrezione.

Spirito Santo, che santifichi la Chiesa
con la costante effusione dei tuoi doni,
immetti nel cuore dei chiamati alla vita consacrata
un’intima e forte passione per il Regno,
affinché con un sì generoso e incondizionato,
pongano la loro esistenza al servizio del Vangelo.

Vergine Santissima, che senza esitare
hai offerto te stessa all’Onnipotente
per l’attuazione del suo disegno di salvezza,
infondi fiducia nel cuore dei giovani
perché vi siano sempre pastori zelanti,
che guidino il popolo cristiano sulla via della vita,
e anime consacrate che sappiano testimoniare
nella castità, nella povertà e nell’obbedienza,
la presenza liberatrice del tuo Figlio risorto.
Amen.

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http://crossintoyourlife.com/cross_into_your_prayer

Publié dans:immagini sacre |on 5 juillet, 2010 |Pas de commentaires »

Un tesoro nascosto nel campo (di Luigi Padovese)

dal sito:

http://www.romena.it/Giornalino/2008-4/pagina12.htm

Un tesoro nascosto nel campo (di Luigi Padovese)

“Abitare la vita” significa innanzitutto “abitare se stessi”. Mi pongo di fronte a questa affermazione con un duplice sentimento. Emozione forte rispetto alla possibilità che mi viene offerta e contemporaneamente sgomento rispetto a un compito che, a prima vista, appare difficile, quasi impossibile. In quest’ottica mi viene subito in mente il lungo cammino professionale fatto, come psicologo. Le tante occasioni di formazione, di analisi, di studio, di lavoro che mi hanno aiutato a sviluppare una maggior consapevolezza. Penso però che ciò che più mi ha sostenuto, nel timido tentativo di “abitare me stesso”, siano stati, come si dice a Romena, gli incontri. Incontri con persone, con luoghi e Comunità; con Romena e con la Comunità delle Piagge di Firenze. E poi ancora incontri con personaggi di cui ho letto e riletto i libri, cercando di fare mio il loro pensiero.
Infine, in quanto più importante e trasformativo per me e per il mio modo di essere, il re-incontro con la migliore compagna di viaggio che potessi trovare, mia moglie Daria e i miei figli, Roberta e Tommaso. Qui però vorrei chiedere aiuto a due grandi compagni di lettura e di meditazione. Padre Giovanni Vannucci che per poco non ho conosciuto di persona, quando mi sono trasferito a Panzano in Chianti e Roberto Assagioli, fondatore della psicosintesi.
Tutti e due hanno detto e scritto cose molto simili circa l’importanza di “abitare se stessi”. Certo, da due prospettive diverse: spirituale e psicologica. Assagioli, dal punto di vista della psicosintesi ci dice che “ognuno di noi è una folla”. Ci illudiamo cioè di essere un’entità monolitica e immutabile, mentre invece è vero il contrario. Siamo un miscuglio di elementi contrastanti e mutevoli. Prosegue Assagioli: “Non siamo unificati. Ne abbiamo spesso l’illusione perché non abbiamo vari corpi, varie membra,… ma nel nostro interno avviene metaforicamente proprio così; varie personalità e sub personalità si azzuffano tra loro continuamente: impulsi, desideri, principi, aspirazioni, ideali sono in continuo tumulto”. Basta pensare a come possiamo essere diversi nelle varie situazioni. Non siamo certo gli stessi con i genitori o con gli amici, in un funerale piuttosto che ad un matrimonio.
Ecco che allora diventa necessario conoscere questi diversi modi di essere, sviluppare più consapevolezza e padronanza, saperli valorizzare e meglio armonizzare nell’insieme della nostra persona. In altre parole, come ci ricordava Lidia Maggi in un recente incontro a Romena, il nostro fine non è essere “perfetti” ma “interi”, conoscendo e dando spazio armonico a tutte quelle caratteristiche personali che ci identificano e che ci appartengono.
Padre Vannucci, commentando la parabola del regno dei cieli e del tesoro nascosto nel campo, parla anche lui di sub-personalità, naturalmente a modo suo, da una prospettiva spirituale. E dice: “Il campo siamo noi e il tesoro è nascosto dentro di noi; e vi sembrerà strano, ma dobbiamo vendere tutto per comprare noi stessi”. Proseguendo la domanda a ciascuno di noi quanti “Padroni” abbiamo? E, soprattutto, se siamo consapevoli di averli. In effetti ne abbiamo tanti: l’ambizioso, il prepotente, il sensuale, ecc., padroni e passioni che ci dominano e ci controllano, allontanandoci dalla nostra vera essenza ed autenticità. Vannucci ci invita dunque “…a scendere nel nostro campo per ricominciare a rilevare tutti i proprietari che se ne sono impossessati…una volta conquistato il nostro campo, noi troveremo il tesoro e questo tesoro darà alla nostra vita più serenità, più forza, più pace, più armonia”.
La Psicosintesi direbbe più o meno la stessa cosa. Prendiamo un po’ le distanze (si chiama disidentificazione) da questi atteggiamenti profondi che ci fanno da padroni, spesso senza che noi ce ne rendiamo conto. Impariamo a riconoscerli e a governarli. Riusciremo così a liberarci da questa illusione
che condiziona la nostra vita e a ritornare al nostro vero sé, tornando “a casa” e proseguendo il cammino della nostra evoluzione.

Osiamo dire: “Padre Nostro” (inizio dell’Omelia da Paolo)

dal sito:

http://zenit.org/article-22993?l=italian

Osiamo dire: “Padre Nostro”

ROMA, sabato, 26 giugno 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo dell’omelia sul Vangelo di Mt 6,7-15, pronunciata il 17 giugno scorso da mons. Francesco Lambiasi, Vescovo di Rimini, nel corso della celebrazione eucaristica in occasione del Convegno Nazionale dei Direttori degli Uffici Catechistici Diocesani svoltosi a Bologna.

* * *

Pregare si deve: lo dicono tutte le grandi religioni. Ma pregare si può? No, risponde in prima battuta Paolo di Tarso, dal momento che neanche sappiamo cosa sia conveniente domandare. No, sembra pure la prima risposta di Giovanni evangelista, perché, se Dio nessuno lo ha mai visto, come si fa a parlare con uno che non si è visto e non si vede mai? A meno che… a meno che il Figlio unigenito, che è nel grembo del Padre, lui ce lo abbia rivelato. A meno che lui, il modello e il maestro della grammatica e della sintassi della preghiera, ci abbia insegnato a comunicare con Dio. Ed è questa la bella notizia che ci acquieta nell’intimo e finalmente ci appaga: pregare si può, perché Gesù in persona si fa carico non solo di educarci alla preghiera, ma si premura anche di abilitarci a pregare, facendoci dono del suo Santo Spirito.
1. La lezione magistrale di Gesù sulla preghiera – contenuta nel discorso della montagna – risulta innanzitutto di una energica pars destruens. Pregare non consiste nell’informare Dio dei nostri bisogni. Per due volte Gesù martella il messaggio decisivo: “Il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno” (Mt 6,8.32). Pregare non consiste neanche nel goffo tentativo di piegare Dio alle nostre voglie malsane e di convincerlo ad essere buono, poiché Dio non è un “padre-padrone”, ma è padre-padre, ostinatamente e irriducibilmente padre. La sconfinata, tenerissima bontà del Padre non è l’illusoria proiezione dei bisogni e desideri dei suoi figli, ma è la rocciosa, obiettiva, ininventabile premessa della loro preghiera.
In effetti Gesù era molto preoccupato della preghiera dei discepoli. Voleva che pregassero, che pregassero molto e con insistenza, e che la loro preghiera fosse autentica: limpida, audace e umile, docile e tenace. L’evangelista Luca ci informa che un giorno un discepolo aveva visto Gesù appartato a pregare, e ne dovette rimanere incantato, se non ebbe il coraggio di disturbarlo, ma alla fine non ce la fece più a trattenersi in gola quel desiderio insopprimibile: “Signore, insegnaci a pregare”. E il Maestro acconsente: “Quando pregate, dite: “Padre!” (Lc 11,1). Cominciate con il dargli del tu e ad attribuirgli questo nome.
Tutta l’originalità della preghiera di Gesù è contenuta in questo vocativo. I fondamenti veterotestamentari del Padrenostro sono svariati e molteplici. Anche per i singoli versetti si può indicare caso per caso tutta una catena di corrispondenze nella sterminata letteratura devozionale giudaica. In rapporto particolarmente stretto col Padrenostro sta la preghiera del Qaddish e delle Diciotto benedizioni. Ma ciò che dà l’imprinting unico, originale, esclusivo alla preghiera di Gesù è la sua persona. Gesù è il Figlio unico del Padre, è il suo “amato”, e sa di esserlo. La sua preghiera non è che il fiume carsico che affiora dalle falde abissali della sua coscienza. La preghiera di Gesù coincide con la sua filialità divina, e poiché, come afferma Paolo, questa filialità raggiunge il suo apice nella Pasqua – Gesù è stato “costituito figlio di Dio con potenza in virtù della risurrezione dei morti” (Rm 1,4) – nella Pasqua il Cristo, risorto per noi, è divenuto per noi preghiera, perché noi diventassimo preghiera insieme con lui. Allo stesso modo in cui, durante la veglia pasquale, molte piccole luci vengono ad accendersi all’unica “luce di Cristo”, i fedeli accendono il proprio cuore a Cristo che, nella Pasqua, è divenuto in tutto il suo essere “preghiera”. 
2. Tutto il Padrenostro è contenuto nella invocazione iniziale – Padre nostro che sei nei cieli – come il corpo è incluso nella cellula di base. “E’ un modo diretto, caldo, affettuoso di rivolgersi a Dio senza perifrasi e come per impulso naturale” (Schnackenburg). Per quanto la parallela redazione di Luca possa far sembrare la sua versione abbreviata del Padrenostro come un’antica statua mutila, quella semplicissima parola iniziale – “Padre” – nella sua lapidaria, solenne nudità contiene tutto: tutta la preghiera, tutte le preghiere, la preghiera di tutti.
Sostiamo ancora un momento su questo vocativo “Padre”: è veramente insolito e sorprendente. Padre non è uno dei tanti titoli e attributi di Dio, come l’Immenso, l’Eterno, l’Onnipotente, ma è “il suo nome proprio per eccellenza” (s. Cirllo Al.). Qui noi ci rivolgiamo a qualcuno “per cui l’essere padre è la più intima espressione dell’essere” (Schuermann). Ma per dire Padre, Gesù si è servito di una paroletta nella sua lingua madre, l’aramaico,   Abbà che dovrebbe essere reso con l’italiano Papà, Babbo caro, e articola il fiotto di intimità filiale, di riconoscenza stupita e di meravigliata contemplazione con cui il Figlio esprime la sua relazione con il Padre celeste. La prima parola del Padrenostro è dunque già un annuncio che ci pone al cuore dell’evento cristiano. Tutta la vita di Gesù è stata centrata sul messaggio della venuta del regno di Dio, ma, rivolgendosi a lui, Gesù lo ha sempre chiamato Padre, non re. Nelle parabole, è vero, ha fatto ricorso anche alla figura del re e del padrone, ma poi – uscito dalla metafora – il nome di Dio tornava ad essere Padre. Ma il Padre di Gesù non è come Juppiter, Zeus Pater: il Dio cristiano è Padre per donare, non per dominare. E questa paternità regge e colora tutta la costellazione dei titoli divini. Il Padre è onnipotente, certo, ma dell’onnipotenza dell’amore. E’ giusto, ma la sua giustizia ha viscere di misericordia. E’ infinitamente felice, ma la sua gioia si lascia turbare dal pianto delle sue creature.
Ma ciò che c’è di ancora più stupefacente è che con la Pasqua del Figlio, Dio Padre ha “mandato nei nostri cuori lo Spirito del Figlio, il quale grida:  Abbà, Padre! (Gal 4,6). E’ lo Spirito Santo che ci permette di osare nel chiamare Dio con la stessa inaudita confidenza che si poteva permettere Gesù. Commenta s. Cipriano:
“(Gesù) ha voluto che noi pregassimo davanti a Dio in modo da poterlo chiamare Padre, e che come Cristo è suo Figlio, così noi siamo chiamati suoi figli. Nessuno di noi infatti avrebbe osato dire questa parola nella preghiera, se non ce lo avesse concesso lui” (CCL 3A,95s).
3. L’atteggiamento filiale, che dobbiamo assumere verso il Padre, è profonda adorazione e confidenza gioiosa nello stesso tempo. Questa va testimoniata con la fraternità verso gli altri, la responsabilità e la creatività nel bene, il coraggio nelle prove. Di questa testimonianza ha bisogno soprattutto quella parte della cultura di oggi, che, rincorrendo l’autonomia della ragione e dell’agire, ha emarginato Dio; ma anziché ritrovarsi adulta, ha finito per sentirsi orfana. Dopo la generazione del ’68, in cui l’emancipazione dei giovani è stata vissuta all’insegna della lotta contro i padri, la generazione di oggi sembra quella dei giovani senza più padri. Il mito di Prometeo dell’autorealizzazione contro la divinità sembra si sia rovesciato nel mito di Narciso, condannato a ripiegarsi nell’adorazione morbosa della propria identità fino a vedersela affogare nello specchio fatale della più triste, squallida autonegazione.
La bella notizia che Dio è Abbà e che noi siamo suoi figli è liberante e rasserenante. All’origine della nostra esistenza non c’è stato il caso o la necessità, ma una decisione libera, un atto d’amore di totale, limpidissima gratuità. “In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui” (1Gv 4,9). Siamo figli: siamo stati liberamente scelti, teneramente e tenacemente amati, siamo stati misericordiosamente salvati. Nessuno si è affacciato al mondo per decisione propria. Nessuno può dire: Io sono il padre del mio io. Nessuno è condannato al miraggio disperante di potersi salvare da sé.
“Abbiamo ricevuto uno spirito da figli, per mezzo del quale gridiamo: Abbà! Padre!” (cfr Rm 8,15). Non siamo né schiavi né orfani: siamo figli immensamente, e per sempre, amati. Siamo dentro un oceano sconfinato di bene assoluto, eterno, infinito. “Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!” (1Gv 3,1). C’è una fortuna più grande?                                                             

+ Francesco Lambiasi

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