Archive pour juillet, 2010

province romane: la Galatia

dal sito:

http://www.instoria.it/home/province_romane_galatia.htm

province romane:

LA GALATIA

di Antonio Montesanti

La regione che occupa il centro quasi in maniera precisa della Penisola Anatolica, anticamente portava il nome di Frigia Orientale (Frigia Majus) e aveva come capitale Gordio.

La storia della regione della Galazia, col nome con il quale la conosciamo, inizia alla fine del IV sec. a.C., quando le migrazioni dei popoli celtici mitteleuropei portano gli stessi a spingersi verso il Sud del Continente.

Un primo contatto, con testimonianza diretta della loro presenza a sud del Danubio, ci viene fornito durante le campagne di Alessandro Magno nell’area Traco-illirica nel 335 a.C., quando, sotto giuramento le popolazioni migratorie celtiche giunte nell’area balcanica, si alleano con i Macedoni contro gli Illiri. In realtà si trattava solo di avvisaglie di migrazioni più sostenute che si stavano appropinquando fino a raggiungere il loro culmine in epoca ellenistica. Non potendo penetrare in Italia, per la forte presenza della nascente Roma, i Galli si riversarono dapprima nei Balcani e quindi in Grecia, in un periodo in cui la nazione ellenica era estremamente soggetta ad una persistente disomogeneità ed instabilità politica.

Intorno alla metà del III sec. a.C., le prime a capitolare furono le stesse popolazioni dei Traci, al confine settentrionale con la Grecia, nell’odierna Bulgaria. A Tylys, (odierna Tulowo, Bulgaria), i Celti dopo aver pesantemente sconfitto le tribù dell’area balcano-danubiana, s’insediarono fino a costituire un proprio regno che crollerà definitivamente solo nel 212 a.C., per la rivolta degli stessi Traci dopo cinquant’anni di sottomissione al potere celtico.

Tuttavia alla stessa ondata bisogna attribuire l’urto solo in parte assorbito da Greci e Macedoni. Un “Nuovo Brenno” (dopo quello del sacco di Roma del 390 a.C.) scendeva nella penisola ellenica e, dopo una serie di scontri, a cadere sul campo era l’epigono di Macedonia, Tolemeo Cerauno, soccombendo in battaglia contro di loro nel 281 a.C. Dopo quella sconfitta, i Celti si riversarono in massa sulla Grecia continentale: diversi santuari vennero depredati tra cui fece scalpore quello di Delfi il cui immane bottino venne poi ritrovato a Tolosa dai Romani nel 106 a.C.

Dalla Grecia furono comunque “deviati”, ad opera di Antigono Gonata, verso oriente il che consentiva alle due ondate, quella ellenica e quella tracia, con a capo Leonnorio e Lutario, di portarsi in Asia Minore nel 278 a.C. su richiesta di Nicomede I di Bitinia, che decideva di ricorrere a loro per porre fine alla disputa col fratello per la successione dinastica. Le tribù dei Trocmi, dei Tolistobogii e dei Volci Tectosagi, si spostarono per essere affrontati in seguito da Antioco I. nella c.d. battaglia degli elefanti: affatto intimoriti, sconfiggevano il sovrano seleucide, in un epico scontro in cui i Galli vedevano per la prima volta gli elefanti. Il loro dominio sulla Galazia veniva così definitivamente e ufficialmente riconosciuto dalle città ellenistiche dell’Asia Minore: i Tectosageti si stabilirono nei pressi di Ancyra (l’odierna Ankara), i Tolistobogii presso Pessinus (att. Bellihisar), luogo sacro a Cibele e i Trocmi presso Tavio.

Da questo momento si stanziavano definitivamente nella regione centrale che prenderà da loro il nome combattendo in qualità di mercenari durante le varie lotte tra i diversi sovrani ellenistici. Quando il Regno di Pergamo si distaccò definitivamente dall’immenso impero Seleucide di Siria, i Celti, ormai Galati, obbligarono i giovani regnanti della piccola provincia d’Asia a sottostare al loro potere delle armi tramite tributo. Questo fino al 235 a.C., quando Attalo I si rifiutò di pagare il fio annuale, riunendo tutte le altre città ellenistiche dell’Asia Minore soggette a tributo, contro i Celti. La guerra che ne scaturì vide vincitore il giovane regno pergameno in seguito al quale, il vincitore, fondatore ufficiale della dinastia attalide, dedicò ad Atena Nikephoria il così detto « Grande donario », un gruppo scultoreo in bronzo le cui copie in marmo di età romana sono conservate nei Musei Capitolini e a Palazzo Altemps a Roma.

Da questo momento i due regni vivranno in una pace basata su reciproco rispetto, con una certa predominanza del regno pergameno, comunque sempre in una forma di pace forzata e di reciproca “sfiducia”. Questa si rifletterà nella guerra che Roma condurrà contro Antioco III di Siria, l’ultimo tra i Seleucidi a tentare la riconquista dell’Asia Minore, in cui i Galati risultano alleati del Seleucide e con lui sconfitti presso Magnesia al Sipilo nel 189 a.C. da Gaio Manlio Vulsone.

Con i predominio definitivo di Pergamo, appoggiato da Roma, da questo momento i Galati entrano ufficialmente nell’orbita di Roma, in qualità di alleati, definitivamente dopo l’occupazione della Galazia ad opera dei sovrani del Ponto, durante le Guerre Mitridatiche. Nel 64 a.C. la Galazia divenne uno stato associato alla Res Publica, mantenendo la propria indipendenza e la suddivisione interna in tre tribù (ciascuna delle quali con a capo un tetrarca). Al tempo di Cesare, uno dei tre tetrarchi, Deiotaro, prese il sopravvento sugli altri due e venne riconosciuto dai Romani quale “re” della Galazia. Nel 48 a.C. Deiotaro combattè al fianco di Pompeo contro Cesare, il quale, una volta sconfitto il triunviro, tolse loro dei territori ed utilizzò nella guerra contro Farnace re del Ponto gli stessi Galati, che per vendicarsi ordirono una congiura contro il condottiero romano.

Fu lo stesso Cicerone a difendere il re Celta nell’invettiva Pro Deiotaro, salvandolo dall’esecuzione; tuttavia nella battaglia di Filippi del 42 a.C. il principe galata si schierò ovviamente con i cesaricidi, questo provocò, nonostante un chiaro pentimento, dopo la morte di Cassio, e passaggio dalla parte di Augusto, la clienterizzazione del suo regno, fino a quando la sua dinastia si estinse. Con la morte del re Aminta, nel 25 a.C., la Galazia divenne definitivamente provincia romana, retta da un governatore e dal un legato di rango pretorio. Tuttavia il settore religioso venne lasciato indipendente: Pilamene, erede dell’ultimo re galata, ricostruì un tempio presso Ancyra dedicandolo ad Augusto in segno di lealtà all’impero. Nei secoli successivi, del resto, la Galazia si dimostrerà una delle province più fedeli a Roma.

La provincia romana di Galazia, a cui vennero incorporati territori a sud dell’Asia Minore: Pisidia, Isauria e parti della Licaonia e della Frigia, si trovava nella parte centrale dell’Anatolia e confinava a nord con la provincia di Bythinia et Ponto, ad est con la provincia di Cappadocia, a sud con la Lycia et Pamphilia e ad ovest con la provincia d’Asia. La capitale, destinata a divenire capitale dell’odierno stato turco era l’antica Ancyra (Ankara). Nel tempo tuttavia la situazione mutò diverse volte: pochi anni dopo la creazione, in epoca giulio-claudia, le vennero aggiunte la Paflagonia, parte del Ponto (Galaticus e Ptolemaiucus) e l’Armenia Minor. Vespasiano la riunì nella provincia della Cappadocia affidandola ad un legato consolare. Traiano ricostituì la Cappadocia e fece dei due subregni pontici uno stato autonomo; Adriano ne distaccò l’Isauria e parte della Licaonia, annettendole alla Cilicia.

I Galati formalmente dipendenti da Roma ma al loro interno “liberi”, vedevano il loro territorio suddiviso in nelle tre tribù ognuna delle quali era divisa in “cantoni”, ciascuna delle quali governata da un « tetrarca », con poteri assoluto. Fino all’avvento di Roma, gli originari abitanti della Frigia orientale, mantennero il controllo delle loro città e delle loro terre, ma erano tenuti a pagare dei tributi ai galli, che formavano così una sorta di aristocrazia militare separata dagli autoctoni in fattorie fortificate.

La loro religione era basata su una sorta di politeismo celto-romano, finché la loro terra fu visitata, durante il suo terzo viaggio, da Paolo di Tarso, accompagnato da Sila e Timoteo, dove fu ricevuto con entusiasmo. Girolamo (347-420 d.C.) riferisce che, al suo tempo, i Galati parlavano ancora il gallico, la loro antica lingua affine a quella dei Galli di Treviri, oggi in Germania.

Con la riforma di Diocleziano, la parte meridionale e quella settentrionale vennero distaccate divenendo parte rispettivamente delle provincie di Paphlagonia e quella di Lycaonia sotto la Diocesis Pontica, la Pisidia fece parte della Diocesi Asiatica e l’Isauria, con la costa cilicia della Diocesis Orientalis. In 398 d.C., circa un secolo dopo, sotto Onorio la neo ricostituita provincia fu divisa nuovamente in due provincie, la Galatia Prima and Galatia Secunda or Salutaris. La Galatia Prima costituiva la parte nordorientale della vecchia provincia, laddove rimaneva Ancyra come capitale e governata da un consularis, mentre la Salutaris comprendeva la parte rimanente ed includeva la Phrygia ed governata da un praeses che risiedeva a Pessinus.

La Bontà del Celibato (1Cor)

dal sito:

http://www.cprf.co.uk/languages/italian_goodnesssingleness.htm

da: COVENANT PROTESTANT REFORMED CHURCH

La Bontà del Celibato (1Cor)
(Da: CR News, Maggio e Giugno 2005, Volume X, n. 13-14)

Rev. Angus Stewart

(1)
I Corinzi 7 è il capitolo prominente in tutta la Parola di Dio a riguardo del matrimonio e del celibato Cristiano. Esso tratta quasi ogni variazione di questi due stati. In esso è data istruzione ispirata ai Cristiani che sono sposati ad un non credente, a quelli che sono stati abbandonati dal loro sposo/a e che sono separati dal loro sposo/a, come anche ai vergini e le vedove Cristiane.

I Corinzi 7 provvede un salutare correttivo alla stoltezza che passa per sapienza nel mondo e presso molti che si professano Cristiani. Qui non c’è spazio per mero emozionalismo e insano romanticismo. I Corinzi 7 non ha spazio per la nozione mondana che la bellezza fisica è la caratteristica numero uno in un compagno, che il sesso è il principio e la fine del matrimonio, e che quest’ultimo riguarda esclusivamente l’autorealizzazione e il sentirsi bene. Si ascoltino i seguenti esempi di realismo biblico: « è meglio sposarsi che ardere » (in concupiscenza; 9), « la forma di questo mondo passa via » (31), e le persone sposate « avranno tribolazioni nella carne » (28). Il matrimonio e il celibato richiedono seria meditazione e biblica sobrietà. Molti, tristemente, finiscono col sposarsi stoltamente o sono trascinati dalla loro concupiscenza nella fornicazione.

Alcuni parlano della vita Cristiana da single come libertà. Altri la chiamano malvagia ed amara, una gravosa prova ed una pesante croce. La Parola di Dio la chiama « buona: » « E’ buono per un uomo non toccare donna » (1). « Toccare » qui fa riferimento al toccare intimo, sessuale. E così, infatti, quando Dio trattenne Abimelech dal dormire con Sarah, è detto che egli non la « toccò » (Genesi 20:6). Similmente, in Proverbi 6:29 toccare una donna è sinonimo di andare in lei.

In quanto stato « buono » per un Cristiano, il celibato è bellissimo, convenevole e dignitoso. Esso non è contrario all’ideale morale di Dio e non vi è niente di vergognoso a suo riguardo. Due false inferenze sono state tratte dalla bontà del celibato, in favore dell’ascetismo e del monasticismo. Primo, alcuni, come Gerolamo (ca. 345-ca.419), hanno inferito che se è buono essere single, allora il celibato è uno stato maggiormente santo del matrimonio. Secondo, è stato argomentato che se è buono non toccare una donna allora è malvagio toccare una donna, cioè, vi è qualcosa di impuro e peccaminoso a riguardo del matrimonio e del rapporto sessuale.

Tuttavia, quando la Bibbia insegna che il celibato è buono, ciò non significa che altri stati siano malvagi. Il matrimonio, come il celibato, è un buono stato. Il matrimonio è un’istituzione di Dio ed una figura dell’unione pattale di Cristo e la Sua chiesa. « Il matrimonio è onorevole in tutti, ed il letto incontaminato » (Ebrei 13:4). Essere genitori anche è un buono stato. Si canti Salmo 127 e 128 dove i figli sono visti come una benedizione ed un’eredità dal Signore. Dunque l’essere single, sposati, e genitori sono tutti buoni stati per il Cristiano. Nel prossimo articolo considereremo in che modo il celibato è buono.
(2)
Il celibato, insegna la Scrittura, è « buono » (I Corinzi 7:1). Primo, esso è « buono » in quanto è una buona istituzione di Dio. Noi parliamo correttamente del matrimonio come un’ordinanza creazionale (Genesi 2:24), ma il celibato anche fu istituito alla creazione perché vi fu un (breve) lasso di tempo in cui Adamo fu single. Per affermare ciò che è ovvio, tutti sono nati celibi e così tutti, incluse le persone sposate, una volta erano celibi. Il celibato che Dio vuole per tutto il Suo popolo (per un tempo) è « buono. » Secondo, non ogni Cristiano è obbligato a sposarsi. E’ « meglio sposarsi che ardere » in concupiscenza (I Corinzi 7:9) ma ad alcuni è dato il « dono » della continenza e ad altri il « dono » del matrimonio (7). Terzo, la bontà della vita da celibe si evince non solo dal fatto che gli angeli sono single ma anche dal fatto che lo era l’apostolo Paolo (8) e perfino Cristo Stesso. Tutte le persone non sposate devono glorificare Dio nel loro stato da single. Quarto, tutti saranno single in paradiso. Il matrimonio terrestre è temporaneo (29, 31). Nei nuovi cieli e nella nuova terra vi sarà soltanto un matrimonio, quello di Cristo e della Sua Chiesa per sempre. Quinto, le persone single evitano le preoccupazioni del matrimonio (26, 28, 32). Sesto, i Cristiani single ordinariamente hanno una più grande libertà di servire il Signore (32-35). In breve, essere single è buono in quanto un divino « dono » (7), benedizione (40) e chiamata (17) che è preferibile al matrimonio in certe circostanze (40), anche se il matrimonio è preferibile in altre (9).

Tutto questo ha importanti implicazioni per le persone sposate nella loro attitudine nei confronti dei Cristiani single. I credenti non sposati (o vedovi) non sono Cristiani inferiori o cittadini di seconda classe nel regno dei cieli. La sorella maggiore nubile non è giusto una zitella. Ella è parte del corpo di Cristo, una parte necessaria del Suo corpo. Similmente, l’uomo single non deve essere pensato automaticamente essere curioso o strano. Nessuno dovrebbe offendere uno dei piccoli di Cristo (Matteo 18:6).

Il Cristiano single deve credere sulla base della Parola di Dio che il suo stato da single è « buono. » Dio ha dei propositi per il credente single, perché « tutte le cose [incluso il celibato] cooperano al bene di coloro che amano Dio » (Romani 8:28). Inoltre, è nella via del credere la bontà della vita da single che il Cristiano single fa esperienza della bontà del celibato. Si potrebbe obiettare: « Cosa c’è di buono nel cucinare da solo, e mangiare da solo, e fare il bucato da solo? » Tuttavia, il celibato può essere ed è buono perfino quando comporta delle prove e dei combattimenti. Il celibato può essere ed è buono perfino se tu (lecitamente) desideri e cerchi di essere sposato ed avere dei figli. Perché la Bibbia dichiara il celibato « buono » e noi dobbiamo credere questo e non mormorare sulla provvidenza di Dio nei nostri confronti. Dunque il Cristiano single deve evitare l’autocommiserazione e la disperazione ed imparare ad essere contento in qualsiasi stato Dio lo ponga, una chiamata difficile per tutti noi in ogni nostra circostanza (Filippesi 4:11).

IL FRUTTO DELLO SPIRITO E’ L’AMORE (Paolo presenta l’amore come…)

dal sito:

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Meditazioni/2002-2003/Il_frutto_dello_Spirito_%E8_l’_amore.html

IL FRUTTO DELLO SPIRITO E’ L’AMORE
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Paolo presenta l’amore come frutto dello Spirito, cioè come il risultato dell’agire dello Spirito Santo in noi. Nella Lettera ai Galati, dopo aver elencato alcuni atteggiamenti tipici che emanano dall’amore, conclude dicendo: “contro queste cose non c’è legge”. Il motivo è chiaro: l’amore, e tutto ciò che emana dall’amore1, è al di sopra di ogni legge. L’amore supera la legge, non è soggetto a nessuna legge. Dice infatti Gesù che dall’amore di Dio e del prossimo dipende tutta la legge (Mt 22,40). E Paolo, riecheggiando la parola di Gesù, afferma: “Tutta la legge trova la sua pienezza in una sola parola: «Amerai il prossimo tuo come te stesso»” (Gal 5,14). È grande l’importanza di queste affermazioni. Esse costituiscono un criterio che mette sotto giudizio ogni legge formulata dall’uomo. Ogni legge è valida, è giusta, è vera solo se emana da un sincero amore per ogni uomo; non lo è quando crea o tende a sostenere tradizioni in cui tanti si sentono emarginati.
Per capire meglio tutto ciò, è necessario valutare un po’ il senso della parola “amore”. Oggi c’è un’inflazione galoppante di questa parola e tante, troppe volte, è un puro sinonimo di “erotismo”, che non proviene certamente dallo Spirito, ma dalle opere della carne che si manifestano nell’impurità, nel libertinaggio, nelle orge (Gal 5,19s), nell’esaltazione dell’IO. Ci troviamo in un campo totalmente profano, che la Bibbia ben conosce, tanto che ha imposto delle chiare scelte ai primi traduttori, cioè a coloro che ci hanno dato la cosiddetta Bibbia dei Settanta. La domanda che si ponevano era: “Come inculturare la fede biblica nel mondo greco?”. Si misero all’opera e lo fecero con grande saggezza. Si distanziarono in modo chiaro da una cultura in cui l’Eros era il massimo dell’estasi e della comunione con il divino e scelsero da essa il verbo, se così possiamo dire, più banale per poi colmarlo dell’altissimo significato religioso che ha nella Bibbia. Il verbo scelto è agapân da cui proviene la parola agápê. Il verbo allora significava semplicemente essere contento, accogliere, salutare, vedere di buon occhio e, a volte, preferire. I primi traduttori se ne servirono per indicare quell’amore che si irradia da Dio, l’amore del potente che solleva l’umile e lo innalza al di sopra degli altri, l’amore diffusivo, attivo che vuole il bene dell’altro, non centrato sull’IO, ma sul TU, perché Dio ci vuole sempre come dei TU di fronte a lui.
Esaminiamo in sintesi il senso dell’amore, nell’Antico Testamento prima e nel Nuovo poi, e scopriremo come la Rivelazione è colma di amore.

Antico Testamento

Il verbo ebraico che viene tradotto con “amare” e la parola “amore” esprimono tutto ciò che ancora oggi si dice con questi due termini. Con essi l’Antico Testamento indica l’amore fondamentale che spinge a “far dono di sé alla persona amata”. Non c’è amore se non c’è un TU. L’amore è una forza spirituale inspiegabile, connaturata alla persona. In esso possiamo distinguere un carattere profano o immanente e uno religioso e teologico, anche se sono le espressioni amorose del primo tipo (rapporti fra i sessi, fra i genitori e i figli, fra gli amici) che ci permettono di risalire a quelle del secondo tipo e di misurarne la portata nel campo religioso e teologico.
In questo secondo campo, l’idea di “amore” esprime nel popolo d’Israele le relazioni con il Dio dell’Alleanza ed è chiaro che l’amore di Dio precede l’amore dell’uomo o del suo popolo. Dio ha amato i padri (cioè Abramo, Isacco e Giacobbe), ha scelto la loro posterità, l’ha fatta uscire dall’Egitto e con essa ha stabilito la sua Alleanza (Dt 4,37; 5,3). Il libro del Deuteronomio (c. 5) elenca le norme dell’Alleanza, le Dieci Parole o Comandamenti, ma si ha l’impressione che l’autore senta che le relazioni con Dio non si possono stabilire come Legge, sono relazioni di amore, perché la risposta umana all’amore può solo fondarsi sull’amore che supera ogni legge. E allora insegna ad agire come si suole agire per amore e dice: “Amerai il Signore, Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le tue forze” (Dt 6,4). Il “tutto”, ripetuto con forza tre volte, fa capire che l’autore ci esorta a impegnare la totalità dell’energia che è in noi per far sorgere dal sentimento di amore una convinzione che regoli tutto il nostro modo di vivere. In pratica ci dice che per vivere in pienezza il nostro rapporto con Dio dobbiamo impiegare tutta la nostra personalità (cuore e anima). Ed è solo da questo rapporto di amore con Dio, che nasce il rapporto di amore con i propri simili: “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18), un comandamento che viene dato per “imitare Dio”, per essere “santi come Dio è santo” (Lv 19,2). La deduzione è evidente: se amo Dio, debbo, in sintonia con Dio, amare il prossimo.
Nel capitolo 19 del libro del Levitico la parola “prossimo” indica l’essere umano che più mi è vicino spiritualmente e materialmente; certamente i parenti, i connazionali, ma anche l’ospite (Lv 19,34), e persino il nemico (Es 23,4). Il testo più espressivo è quello di Prv 25,21: “Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete dagli da bere”.
Sono pochi accenni ma sufficienti per affermare che ci sono tutte le premesse per passare alla definitiva rivelazione in Cristo Gesù.

Nuovo Testamento

Nella prima Lettera di Giovanni si legge: “Noi amiamo perché Dio ci ha amati per primo” (4,19); e subito si aggiunge: “Se uno dicesse: «Io amo Dio», e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede… Chi ama Dio, ami anche suo fratello” (4,20s). È quanto ci ha già insegnato il libro del Levitico (c. 19): l’amore, dono di Dio, è diffusivo ed è imitazione di Dio. La novità è che ora noi possiamo imitare Dio, perché c’è in noi la capacità di vivere questo amore del fratello, del prossimo. Dio infatti “ha effuso il suo amore nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5).
Una deduzione è qui inevitabile: l’amore che sentiamo per Dio è un “dono di Dio” che può essere vissuto solo con la forza dello Spirito Santo che è in noi. Solo così possiamo amare come Dio ci ama; e possiamo ripercorrere quella via che Paolo chiama: la via migliore, la via dell’amore (1 Cor 13); e possiamo anche parlare dell’amore come “frutto dello Spirito”.
È bella la parola “frutto”! Suona come un invito a gustare, ad assaporare, a sperimentare l’amore che Dio ha per noi e che ci è donato in Cristo per mezzo dello Spirito. Chi davvero lo vive sperimenta in sé un’onda di gioia divina, che lo porta ad aprirsi, in sintonia con Dio, agli altri, a sentirsi capace di comunicare al prossimo il bene che lo riempie, procurandogli godimento e gioia. L’amore, dono di Dio, non annulla l’amore umano insito nella natura; lo sublima impedendogli di essere centrato sull’IO e rendendolo dono totale alla persona amata fino al sacrificio. L’amore umano è vero solo se è rivolto a un TU. E se è impossibile vivere da soli il vero amore umano, tanto più impossibile è vivere da soli l’amore di Dio che ci viene donato dallo Spirito: bisogna donarlo! L’amore esige sempre l’altro cioè il prossimo.
Ne abbiamo già parlato, citando il Levitico; ora però dobbiamo ascoltare Gesù, rivelazione piena dell’amore del Padre, perché porta alla perfezione l’insegnamento antico. Quando un maestro della Legge gli chiese: “Chi è il mio prossimo?”, Gesù, raccontando la “Parabola del Buon Samaritano”, non gli risponde con la classifica che abbiamo riportato sopra (parenti, genitori-figli, l’ospite, il nemico), ma capovolge la domanda e sovverte l’antica gerarchia imperniata sull’Io. Gesù istituisce una nuova gerarchia al centro della quale c’è il Tu. È qualcosa di estremamente concreto che si realizza intorno all’uomo che soffre. Colui che si trova per caso più vicino a colui che soffre ha verso di lui i doveri del “prossimo”: deve diventare lui “prossimo” dell’altro; non deve chiedersi: “Chi è il mio prossimo?”, ma chiedersi: “Come faccio a diventare prossimo di chi è nel bisogno?”. La risposta è semplice: Avvicinandomi aiutandolo, anche se si tratta di un “nemico”.
Nemico è chi si sente separato da me, anche se vicino; nemico è colui che non mi ama, che mi perseguita. Ebbene, Gesù, superando anche qui la logica antica: “Fu detto agli antichi, ma io vi dico…”, vive egli stesso questo suo insegnamento, rendendosi ospite, “prossimo”, di coloro che gli tendono un tranello; e lo fa mettendosi a tavola con loro, cercando di dialogare con loro e pregando per loro (Lc 5,29-3l; 14,1-6; 23,34). Gesù fa dell’amore per i nemici l’atteggiamento che i membri del nuovo popolo eletto devono tenere verso i figli di questo mondo. Essi devono amare senza pensare di essere ricambiati, prestare anche quando sanno che non vi sarà restituzione, dare senza riserve e senza limiti. Essi devono accollarsi l’ostilità del mondo senza opporre resistenza e con spirito di sacrificio (Lc 6,28). Siamo nel campo dell’assoluta gratuità. L’amore che Gesù ci insegna è infatti donazione totale di sé all’altro senza cercare gratificazioni. Questo è amare come Dio ci ama. È Dio che ha annullato la distanza tra noi e lui e nel Figlio lo ha fatto in modo perfetto. La perfezione di questo amore sta nell’annullare ogni distanza nel farsi prossimo, nel diventare prossimo.
Ci sono tanti modi per farlo. Basta ascoltare Gesù quando dice: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare avevo sete e mi avete dato da bere…”. Ci sono tanti modi per vivere l’amore. L’amore infatti ha tanti nomi: dove c’è fame l’amore è pane; dove c’è solitudine, l’amore è compagnia, dove c’è emarginazione, l’amore è comunione. L’amore ha tanti nomi, ma è l’altro, la situazione dell’altro, che mi dice quale nome deve avere il mio amore.
Gesù cerca il bene di tutti. In Gesù l’amore è, come dice Paolo, pazienza, benignità, benevolenza, sopportazione… Chi fissa lo sguardo su Gesù, si accorge che l’amore dell’altro è rivelazione del vero volto di Dio. Paolo contemplando Gesù in croce dice: “Perché mi amava ha dato la sua vita per me”. La vita di Gesù è dono totale di sé agli altri sino al supremo sacrificio. Gesù insegnandoci con l’esempio ad amare ci vuole guarire dentro, vuole guarire il nostro cuore perché sia sempre in sintonia con il suo e con quello del Padre. Tale è il significato delle sue parole: “Amatevi come io vi ho amato”. Solo così si può rivelare il vero volto di Dio e solo così, vivendo di speranza e di fede, si può vivere un amore che è eternità.
Sì, un amore che è eternità. Perché nel mondo futuro la fede sarà assorbita dalla visione, la speranza dal possesso del bene sperato e solo l’amore rimarrà per sempre, perché l’amore è Dio.

Preghiamo

O Padre che ci hai amati nel Figlio tuo e che in lui ci hai insegnato a vivere quell’amore che viene da te, continua a effonderlo nel nostro cuore e donaci sempre la forza del tuo Spirito, solo così riusciremo ad amare in te ogni persona. È grande la fiducia che hai in noi, o Padre. Tu ci doni ideali immensi che assorbono la totalità delle nostre forze. Questo a volte ci spaventa. Ma poi ascoltando il Figlio tuo comprendiamo che si tratta di compiere un cammino. Il Figlio tuo ci fa coraggio quando ci dice: “Sforzatevi!”. Egli esige solo che ci sforziamo ogni giorno nell’imitarlo, amando gli altri come egli ci ha amati e nel rivelare, vivendo nell’amore, il tuo vero volto, o Padre. Che la gioia dell’amore che ci ha insegnato sia sempre in noi. Amen!

Chiesa santa e uomini peccatori : La casta donna di tutti

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/text.html#3

Chiesa santa e uomini peccatori

La casta donna di tutti

di Inos Biffi

Nel Credo professiamo e definiamo la Chiesa come « una, santa, cattolica e apostolica », dotata quindi di prerogative che le appartengono essenzialmente:  non potrebbe esserci una Chiesa « non-una », « non-santa », « non-cattolica », « non-apostolica ». Se così fosse, avremmo il dissolvimento della stessa Chiesa, della quale si parla molto, ma spesso senza preoccuparsi di sapere che cosa dica di essa anzitutto la Parola di Dio.
Si sente proclamare da ogni parte:  « Finalmente si legge la Bibbia! La Scrittura è tornata a essere la fonte della teologia e della spiritualità cristiana! ». Questo è certamente un bene. Senonché avviene non raramente di constatare che ci sono testi biblici stranamente dimenticati e quasi oscurati, e tra questi proprio dei testi ecclesiologici.
Si pensi a quelli della Lettera agli Efesini, dove appare chiaramente che « la Chiesa ha la sua origine nel mistero della provvidenza e predestinazione divine », dal momento che « da sempre Dio (…la) vede davanti a sé e la vuole » (Schlier). Vediamo questi testi. In uno si afferma che Cristo « è il capo del corpo, della Chiesa » (Colossesi, 1, 18. 24). In un altro la Chiesa è, ugualmente, chiamata « il corpo di lui (Cristo), la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose » (Efesini, 1, 23).
Altrove si afferma che « Cristo è Capo della Chiesa, lui che è salvatore del corpo »; egli l’ »ha amata e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificata con il lavacro dell’acqua mediante la parola. E così egli vuole che la Chiesa compaia davanti a lui tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata » (Efesini, 5, 22, 25-26).
 A questo punto ci domandiamo:  esiste veramente, oppure è solo un’ipostasi astratta, una Chiesa che è adesso il « Corpo di Cristo », la sua « pienezza » e il « luogo » in cui si rende « gloria a Dio »? Una Chiesa « santa e purificata », per la quale Gesù ha dato se stesso e che è lo strumento della manifestazione della « multiforme sapienza di Dio » « ai Principati e alle Potenze dei cieli », così che la loro comprensione del mistero avviene contemplando la Chiesa?
Se una tale Chiesa non esistesse nella realtà, o fosse solo un abbozzo precario e una realtà futura, verrebbe smentita la Parola di Dio; anzi, lo stesso Gesù Cristo risulterebbe compromesso. Scalfire la Chiesa, equivale a « intaccare » Cristo e alla fine ridurlo a una condizione anomala e di non esistenza. Ovviamente, non perché questa gli sia conferita dalla Chiesa, ma perché egli non esiste distaccato dalla Chiesa, senza Corpo e senza Sposa. E questo significherebbe che egli non nutre e non cura nessuna Chiesa (cfr. Efesini, 5, 29), e che la sua opera, in particolare il suo sacrificio è risultato vano.
Ma, se questa Chiesa esiste realmente, non può che essere una Chiesa « santa », cioè una Chiesa che non può assolutamente e mai essere definita « peccatrice ». Il peccato, infatti, comporta il distacco da Cristo, per cui una Chiesa peccatrice sarebbe distaccata da lui, non sarebbe né suo Corpo né sua Sposa, ma semplicemente una non-Chiesa, come lo sarebbe una Chiesa non-una, non-cattolica, non-apostolica.
In realtà questa Chiesa « santa », Corpo e Sposa del Signore, c’è, adesso, ed è l’unica che può dirsi genuinamente Chiesa, formata dai giusti già in cielo e dai santi pellegrini sulla terra. Nella Chiesa nunc, come direbbe Agostino, ossia nel suo momento terreno, sono visibili senza dubbio dei membri ancora compromessi col peccato, ma questo non ci fa dire che allora la Chiesa è peccatrice.
È vero invece che, nella misura in cui siamo peccatori, non siamo compiutamente Chiesa, e abbiamo la possibilità e la speranza di diventarlo, proprio in virtù dell’esistenza della Chiesa santa. « La Chiesa – insegnava sant’Ambrogio con la sua abituale limpidità e acutezza – non è ferita in sé, ma è ferita in noi » (De virginitate, 8, 48).
Forse è il caso di ascoltare qui alcune voci autorevoli. Intendo dire non qualche teologo d’avanguardia, per esempio di quelli che amano scrivere puntigliosamente « chiesa » minuscolo (però Stato e Partito maiuscolo), ma per esempio Tommaso d’Aquino. Questi – a commento della Lettera agli Efesini, 5, 25-26 – scrive:  « Sarebbe stato sconveniente che uno sposo immacolato si prendesse una sposa macchiata. Per questo la mostra senza macchia:  quaggiù in virtù della grazia e nel futuro in virtù della gloria ».
Ma sentiamo ancora il vescovo di Milano, che tra tutti i Padri è quello che con più viva e prolungata compiacenza si è soffermato ad ammirare estasiato la Chiesa, che certo egli non riduceva a un « immaginario ».
In particolare, « la percezione della bellezza della Chiesa – osserva il cardinale Giacomo Biffi – è un dato costante della teologia ambrosiana ». Ambrogio non si stanca di riproporlo secondo gli accenti e le suggestioni che specialmente gli offre il Cantico dei Cantici, ecclesialmente interpretato:  « Cristo desiderò la bellezza della sua Chiesa e dispose di unirserla in matrimonio » (Apologia David altera, 9, 48).
Certamente, ragione della bellezza è Gesù Cristo, l’unico che riesca ad affascinarla:  « Molti tentano la Chiesa, ma nessun incantesimo di arte magica le può nuocere. Ella ha il suo incantatore:  è il Signore Gesù » (Exameron, iv, vi, 8, 33), il suo Sposo:  « Il marito è Cristo, la moglie è la Chiesa, sposa per l’amore, vergine per l’intatta purezza ».
Certamente la Chiesa non si trova sullo stesso piano di Cristo, dal momento che essa « rifulge non della propria luce, ma di quella di Cristo, e prende il suo splendore dal Sole di giustizia, così che può dire:  « Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me »" (Exameron, iv, vi, 8, 32)
Sarà il metodo ambrosiano di considerare la Chiesa:  quello di considerarla sempre con lo sguardo rivolto a Gesù Cristo, in contemplazione di lui, e quindi nel riflesso della bellezza, del « decoro », « ravvivato dal sangue di Cristo » (Expositio Psalmi cXVIii, 17, 22) e della grazia del suo Signore:  la Chiesa, che è il fiore « che annunzia il frutto, cioè il Signore Gesù Cristo » (ibidem, 5, 12.), il quale, volgendosi a lei, esclama:  « Tu sei il  mio  sigillo, creata  a  mia  immagine e somiglianza » (ibidem, 22, 34). « Il costato di Cristo è la vita della Chiesa » (Expositio evangelii secundum Lucam, ii, 86).
Ma non è sant’Ambrogio a parlare della Chiesa come casta meretrix (ibidem, iii, 23)? Certo che è lui, e lui solo, ma non per dire quello che intendono e vanno affermando alcuni « blasonati » teologi. « L’espressione casta meretrix – osserva ancora Giacomo Biffi, al quale dobbiamo finalmente l’esegesi esatta del testo di sant’Ambrogio – lungi dall’alludere a qualche cosa di peccaminoso e di riprovevole, vuole indicare – non solo nell’aggettivo ma anche nel sostantivo – la santità della Chiesa; santità che consiste tanto nell’adesione senza tentennamenti e senza incoerenze a Cristo suo sposo (casta) quanto nella volontà di raggiungere tutti per portare tutti a salvezza (meretrix) ».
Della meretrice la Chiesa imita, quindi, non il peccato, ma la disponibilità, solo che è una « casta » disponibilità, cioè una larghezza di grazia.
Ma riportiamo per intero l’audace testo ambrosiano, tutto costruito secondo l’esegesi allegorica:  « Rahab nel tipo (ossia nel simbolo e nella profezia) era prostituta, ma nel mistero (in quello che significava) è la Chiesa, vergine immacolata, senza ruga, incontaminata nel pudore, amante pubblica, meretrice casta, vedova sterile, vergine feconda:  meretrice casta, perché molti amanti la frequentano per l’attrattiva dell’affetto ma senza la sconcezza del peccato; vedova sterile, perché non è suo uso partorire quando il marito è assente; vergine feconda, perché ha partorito questa moltitudine, vendendo i frutti del suo amore e senza esperienza di libidine » (ibidem, iii, 23). D’altra parte, la Chiesa vive di Spirito Santo. E, infatti, è dopo lo Spirito Santo che nel Credo professiamo la Chiesa, mentre in una formula battesimale ricorre la domanda:  « Credi nello Spirito santo, buono e vivificante, che tutto purifica nella santa Chiesa? ».
Il grande Ireneo scriveva:  « Dove c’è la Chiesa, là c’è lo Spirito di Dio, e dove c’è lo Spirito di Dio, là c’è la Chiesa, là c’è ogni grazia. Alla Chiesa è stato affidato il Dono di Dio, così come Dio ha affidato il respiro alla carne plasmàta (il primo Adamo), affinché tutti i membri ne ricevano la vita » (Adversus haereses, 3, 24, 1).
Abbiamo sentito la voce di Ireneo, di Ambrogio, di Tommaso d’Aquino. Possiamo ascoltare anche un laico, Alessandro Manzoni, che nell’inno sacro La Pentecoste, con raro senso teologico, canta il mistero della Chiesa come nessun ecclesiologo dei suoi tempi avrebbe saputo fare. È lui a definire la Chiesa come « Madre dei Santi »:  ma una « Madre dei Santi » come può essere definita « peccatrice »?
In ogni caso, come non convenire con il cardinale Biffi che « dir male della Chiesa non è mai stato ritenuto nell’ascesi un atto particolarmente meritorio »?

(L’Osservatore Romano – 18 giugno 2010)

Publié dans:TEOLOGIA, teologia - eccesiologia |on 7 juillet, 2010 |Pas de commentaires »

PAOLO, L’APOSTOLO “GHERMITO”- PDF…

Questo studio presenta, ancora una volta, la « persona » di San Paolo, io non mi stanco mai di leggere questi studi che me lo fanno incontrare sempre di nuovo e sempre nuovo, nel PDF ci sono degli schemi che non posso riportare su « txt » perché non vengono bene, vi metto il link:

PAOLO, L’APOSTOLO “GHERMITO”

di Giacomo Perego ssp

http://www.apostoline.it/riflessioni/nuovo_test/paolo_ghermito.pdf

Omelia per il giorno 7 luglio 2010

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/15629.html

Commento Matteo 10,1-7

1) Preghiera

O Dio, che nell’umiliazione del tuo Figlio
hai risollevato l’umanità dalla sua caduta,
donaci una rinnovata gioia pasquale,
perché, liberi dall’oppressione della colpa,
partecipiamo alla felicità eterna.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…

2) Lettura

Dal Vangelo secondo Matteo 10,1-7
In quel tempo, chiamati a sé i dodici discepoli, Gesù diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e d’infermità.
I nomi dei dodici apostoli sono: primo, Simone, chiamato Pietro, e Andrea, suo fratello; Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello, Filippo e Bartolomeo, Tommaso e Matteo il pubblicano, Giacomo di Alfeo e Taddeo, Simone il Cananeo e Giuda l’Iscariota, che poi lo tradì.
Questi dodici Gesù li inviò dopo averli così istruiti: “Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele. 7 E strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino”.

3) Riflessione

• Nel capitolo 10 del Vangelo di Matteo inizia il secondo grande discorso, Il Discorso della Missione. Matteo organizza il suo vangelo come una nuova edizione della Legge di Dio o come un nuovo “pentateuco” con i suoi cinque libri. Per questo, il suo vangelo presenta cinque grandi discorsi o insegnamenti di Gesù, seguiti da parti narrative, in cui descrive il modo in cui Gesù metteva in pratica ciò che aveva insegnato nei discorsi. Ecco lo schema:
Introduzione: nascita e preparazione del Messia (Mt 1 a 4)
a) Discorso della Montagna: la porta di entrata nel Regno (Mt 5 a 7)
Narrativa Mt 8 e 9
b) Discorso della Missione: come annunciare e diffondere il Regno (Mt 10)
Narrativa Mt 11 e 12
c) Discorso delle Parabole: il mistero del Regno presente nella vita (Mt 13)
Narrativa Mt 14 a 17
d) Discorso della Comunità: il nuovo modo di vivere insieme nel Regno (Mt 18)
Narrativa 19 a 23
e) Discorso dell’avvento futuro del Regno: l’utopia che sostiene la speranza (Mt 24 e 25)
Conclusione: passione, morte e risurrezione (Mt 26 a 28).
• Il vangelo di oggi ci presenta l’inizio del Discorso della Missione, in cui si mette l’accento su tre aspetti: (i) la chiamata dei discepoli (Mt 10,1); (ii) l’elenco dei nomi dei dodici apostoli che saranno i destinatari del discorso della missione (Mt 10,2-4); (iii) l’invio dei dodici (Mt 10,5-7).
• Matteo 10,1: La chiamata dei dodici discepoli. Matteo aveva già parlato della chiamata dei discepoli (Mt 4,18-22; 9,9). Qui, all’inizio del Discorso della Missione, ne presenta un riassunto: “chiamati a sé i dodici discepoli, Gesù diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e d’infermità”. Il compito o la missione del discepolo è seguire Gesù, il Maestro, formando comunità con lui e svolgendo la stessa missione di Gesù: scacciare gli spiriti immondi, guarire ogni sorta di malattie e di infermità. Nel vangelo di Marco, loro ricevono la stessa duplice missione, formulata con altre parole: Gesù costituì il gruppo dei Dodici, perché rimanessero con lui e per mandarli a predicare, e a scacciare i demoni” (Mc 3,14-15). Il primo: Stare con lui, cioè formare comunità, in cui Gesù è il centro. Il secondo: Predicare e poter scacciare i demoni, cioè annunciare la Buona Novella e combattere la forza del male che distrugge la vita della gente e aliena le persone. Luca dice che Gesù pregò tutta la notte, ed il giorno dopo chiamò i discepoli. Pregò Dio per sapere chi scegliere (Lc 6,12-13).
• Matteo 10,2-4: L’elenco dei nomi dei dodici apostoli. Gran parte di questi nomi vengono dall’Antico Testamento. Per esempio, Simeone è il nome di uno dei figli del patriarca Giacobbe (Gen 29,33). Giacomo è lo stesso che Giacobbe (Gen 25,26). Giuda è il nome dell’altro figlio di Giacobbe (Gen 35,23). Matteo aveva anche il nome di Levi (Mc 2,14), che è l’altro figlio di Giacobbe (Gen 35,23). Dei dodici apostoli sette hanno un nome che viene dal tempo dei patriarchi. Due si chiamano Simone, due Giacomo, due Giuda e uno Levi! Solamente uno ha un nome greco: Filippo. Ciò rivela il desiderio della gente di ricominciare la storia, dall’inizio! Forse è bene pensare ai nomi che oggi vengono dati ai figli quando nascono. Perché ognuno di noi è chiamato da Dio, per mezzo del suo nome.
• Matteo 10,5-7: L’invio o la missione dei dodici apostoli verso le pecore perdute di Israele. Dopo aver enumerato i nomi dei dodici, Gesù li manda con queste raccomandazioni: « Non andate fra i pagani e non vi fermate nelle città dei Samaritani. Rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa di Israele. Andate ed annunciate che il Regno di Dio è vicino”. In questa unica frase c’è una triplice insistenza nel mostrare che la preferenza della missione è per la casa di Israele: (i) Non andare tra i pagani, (ii) non entrare nelle città dei Samaritani, (iii) andare piuttosto alle pecore perdute di Israele. Qui spunta una risposta al dubbio dei primi cristiani circa l’apertura verso i pagani. Paolo, che affermava con tanta fermezza l’apertura ai pagani, è d’accordo nel dire che la Buona Novella di Gesù deve essere annunciata prima ai giudei e, poi, ai pagani (Rom 9,1 a 11,36; cf. At 1,8; 11,3; 13,46; 15,1.5.23-29). Ma poi, nello stesso vangelo di Matteo, nella conversazione di Gesù con la cananea, avverrà l’apertura verso i pagani (Mt 15,21-29).
• L’invio degli apostoli verso tutti i popoli. Dopo la risurrezione di Gesù, ci sono diversi episodi sull’invio degli apostoli non solo verso i giudei, ma verso tutti i popoli. In Matteo: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,19-20). In Marco: “Andate per tutto il mondo, proclamate la Buona Novella a tutte le creature. Coloro che credono e saranno battezzati saranno salvi; coloro che non credono saranno condannati” (Mc 15-16). In Luca: « Così è scritto: il Messia soffrirà e risusciterà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno annunciati la conversione e il perdono dei peccati a tutte le nazioni, cominciando da Gerusalemme. E voi siete testimoni di questo. » (Lc 24,46-48; At 1,8). Giovanni riassume tutto nella frase: “Come il Padre mi ha mandato, anche io mando voi!” (Gv 20,21).

4) Per un confronto personale

• Hai pensato qualche volta al significato del tuo nome? Hai chiesto ai tuoi genitori perché ti hanno dato il nome che hai? Ti piace il tuo nome?
• Gesù chiama i discepoli. La sua chiamata ha un duplice scopo: formare comunità ed andare in missione. Come vivo nella mia vita questa duplice finalità?

5) Preghiera finale

Cercate il Signore e la sua potenza,
cercate sempre il suo volto.
Ricordate le meraviglie che ha compiute,
i suoi prodigi e i giudizi della sua bocca. (Sal 104)

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 7 juillet, 2010 |Pas de commentaires »

Isacco della Stella : « Rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100707

Meditazione del giorno
Isacco della Stella (? – circa 1171), monaco cistercense


« Rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele »

        Cristo è venuto a cercare l’unica pecora che si era persa (Mt 18, 12). È per lei che il Buon Pastore è stato mandato nel tempo, lui, che da sempre è stato promesso ; per lei è nato ed è stato inviato. È unica, proveniente sia dei giudei che dalle nazioni, proveniente da tutte le nazioni, unica nel mistero, molteplice nelle persone, molteplice nel corpo, secondo la natura, unica nello Spirito secondo la grazia, insomma, una sola pecora, e una folla senza numero. Questo è il motivo per cui, Colui che è venuto a cercare l’unica pecora, è stato mandato « alle pecore perdute della casa d’Israele » (Mt 15, 24). Ora ciò che il pastore riconosce come suo « nessuno lo rapirà dalla sua mano » (Gv 10, 28). Poiché non si può costringere la potenza, ingannare la saggezza, distruggere la carità.

        Perciò egli parla con franchezza, dicendo : « Di coloro che mi hai dato, nessuno è andato perduto » (Gv 17, 12). Ed è stato mandato come verità per coloro che erano stati ingannati, come vita per coloro che erano morti, come saggezza per coloro che erano insensati, come rimedio per i malati, come riscatto per i prigionieri e come cibo per quelli che morivano di fame. In tutti loro, si può dire che è stato mandato « alle pecore perdute della casa d’Israele », affinché, non fossero perdute per sempre.

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