dal sito:
http://www.indes.info/lectiodivina/2003-04_Atti_degli_Apostoli/Tutto_nel_racconto_e_teologico.html
Tutto nel racconto è teologico (Atti)
di P. Pino Stancari s.j.
(lectio divina 2003-2004)
Un mese fa abbiamo completato la lettura degli Atti degli apostoli. Abbiamo messo due anni per passare in rassegna integralmente il testo predendo in considerazione quelle sezioni del grande racconto che sono spesso trattate con superficialità da parte di coloro che ritengono il racconto privo di valenze teologiche. Ci siamo accostati al testo tenendo conto in modo più articolato e penetrante del valore propriamente teologico che compete al racconto in tutti i suoi sviluppi, in tutti i suoi aspetti, in tutte le sue componenti. Tutto nella narrazione dell’evangelista Luca è teologico, tutto diviene segnale prezioso che ci aiuta a contemplare il mistero della vita cristiana, il mistero di quella novità che oramai è presente nella storia degli uomini per cui noi siamo coinvolti in una relazione di vita che ci apre alla comunione con il Signore risorto, intronizzato nella gloria: siamo introdotti nella comunione con il Dio vivente, dal momento che la storia umana è stata visitata una volta per tutte.
Questa novità ci prende, ci afferra, ci risucchia, ci trascina in modo tale che ci troviamo, con tutto il nostro vissuto umano, quel che ci riguarda personalmente e nelle grandi articolazioni della nostra vicenda umana, popoli e culture, inseriti in quella novità di cui Dio è stato il protagonista una volta per tutte. E’ quella visita che si è compiuta mediante l’incarnazione del figlio e l’effusione dello Spirito Santo. Tutto nel racconto è teologico.
Vorrei adesso richiamare qualche indicazione solo per mettere in evidenza alcune figure di riferimento che ci aiutino a ricapitolare il percorso compiuto e forse anche ad arricchirne i significati. Poi rapidamente, passando attraverso le indicazione che adesso vi fornirò, vorrei giungere alla lettura di un salmo. E quindi concludere.
Gli Atti degli Apostoli ci mostrano in primo piano due personaggi: Pietro e Paolo; potrebbero anche essere denominati gli atti di Pietro e di Paolo. I due personaggi, ciascuno con la sua identità, con la sua particolare dotazione carismatica, insieme in comunione, indissolubili, così come la chiesa è solita ricordarli: i santi Pietro e Paolo il 29 giugno. Questa festa sta dinanzi a noi come una scadenza che caratterizza il percorso che la chiesa affronta nel corso di queste settimane.
La prima parte degli Atti è caratterizzata dalla presenza di Pietro, la seconda parte dalla presenza di Paolo, c’è poi una presenza intermedia nella quale i due personaggi sono presenti contemporaneamente anche se poi non si incrociano nel loro itinerario. Fatto sta che ci sono due note caratteristiche che vorrei richiamare molto sollecitamente.
Pietro
Il carisma prettamente petrino nel racconto degli Atti è caratterizzato come capacità di aprire le porte. Innanzi a Pietro le porte si aprono: la porta del tempio si apre dinanzi a Pietro che nel nome di Gesù entra e introduce nel luogo sacro quello storpio dalla nascita che stava a mendicare sulla soglia, fuori di quello spazio. In ogni gesto compiuto da Pietro nel senso che adesso richiamavo, ossia là dove Pietro apre una porta, è in atto la evangelizzazione: nel nome di Gesù le porte del tempio a Gerusalemme si aprono. E’ l’evangelo indirizzato a Israele, popolo della prima alleanza, a cui Pietro e gli altri discepoli appartengono, primo destinatario delle promesse. Cap. 10, Pietro per la prima volta entra nella casa di un pagano, l’evangelo raggiunge coloro che non appartengono al popolo d’Israele; avviene a Cesarea per la prima volta ed è un’occasione che determina un impulso del tutto imprevedibile per quanto riguarda il coinvolgimento di coloro che non appartengono al popolo d’Israele. I pagani sono rappresentati da quel personaggio ancora così sparuto e così modesto, quel certo centurione di nome Cornelio, di stanza a Cesarea marittima, tutti i pagani sono già, in prospettiva, raggiunti dall’evangelo per il fatto che Pietro aprì la porta di quella casa, entrò e vi prese dimora.
Nel cap. 12 Pietro entra con una certa fatica, dopo aver lungamente bussato, in quella casa in cui è radunata l’ecclesia che sta celebrando la Pasqua. Pietro apre la porta in nome di Gesù che è morto ed è risorto per ogni povero uomo, per ogni povero cristo di questo mondo, per ogni creatura umana che muore nella discendenza di Abramo, che è spazzata via dagli eventi di una storia spietata. Nel nome di Gesù redentore di ogni creatura umana che è inserita nella discendenza di Abramo, Pietro entra per evangelizzare la chiesa che è già segnata dalla novità dell’incontro con il Signore vivente, sta celebrando la Pasqua sempre bisognosa di essere ulteriormente, più puntualmente, e più radicalmente evangelizzata. Pietro apre le porte: è il ministero petrino. Tre episodi che rimangono inconfondibili, una coerenza davvero mirabile nella sequenza delle immagini che dipinge per noi l’evangelista Luca, iconografo, oltre che narratore. E’ il primo volto della vita cristiana, è il volto di Pietro, colui che apre le porte, dinanzi a lui le porte si aprono. E’ l’evangelo che procede nel suo cammino, impulso vivo, energia travolgente per la quale non ci sono confini, non ci sono limiti. E’ l’evangelo che è scaturito dalla novità di cui Dio stesso è stato protagonista: la visita, per cui la storia umana è storia di salvezza, dove il Figlio è disceso, risalito, morto e risorto, dove oramai il Figlio è intronizzato nella gloria con potenza di Spirito Santo. L’evangelo irrompe e ecco un primo volto di questa evangelizzazione che si sviluppa nella storia degli uomini: è il volto di Pietro in quanto esprime il carisma di aprire le porte. L’immagine è eloquentissima per se stessa senza bisogno di ulteriori commenti.
Paolo
Un altro volto, è il volto di Paolo. Dal cap. 9 quando Paolo compare in scena. In realtà Paolo è già stato citato precedentemente con accenni che rimangono indimenticabili e perché tali conservati nella nostra memoria; adesso non è il caso di andarli a ripescare. Dal cap. 9 Paolo è in scena. La figura di Paolo: a Damasco Paolo è giunto al termine del viaggio burrascoso nel corso del quale ha ascoltato la voce, è caduto a terra, è diventato cieco, si è reso conto di essere alle prese con il mistero del Dio Vivente, Paolo, teologo, impegnato sul fronte di una coraggiosa attività pastorale, in rapporto al mistero del Dio vivente, ha esercitato con furore, con rabbia, con entusiasmo, con generosità la funzione dell’oppositore, del persecutore, dell’avversario. Paolo si è reso conto di essere in contraddizione con il mistero di Dio, sbaragliato nel corso di quel viaggio. Da quel momento in poi, a più riprese, fino alla fine del racconto degli Atti, la figura di Paolo è caratterizzata dalla esperienza di chi deve affrontare strade nuove, impervie, imprevedibili dopo che gli si sono chiuse delle porte dietro le spalle. La situazione in qualche modo è ribaltato rispetto a quella di Pietro: dinanzi a Pietro le porte si aprono, dietro a Paolo le porte si chiudono. Così a Damasco fin dall’inizio, così dopo poco a Gerusalemme, così più avanti ancora nel corso di quelli che sono i suoi viaggi missionari, a Filippi, a Tessalonica, a Berea, ad Atene. Luca racconta i fatti e sempre segnala situazioni che, descritte con termini più o meno equivalenti, contribuiscono a illustrare quella certa scena che noi possiamo senz’altro sintetizzare come vi suggerivo. Dietro al nostro Paolo porte che si chiudono e dinanzi a lui strade sconosciute, località ancora mai visitate, una oscurità ancora mai visitata, eventi che sfuggono ad ogni programmazione; dietro al nostro Paolo le porte si chiudono. Ancora succederà così a Corinto, sarà poi la volta di Efeso, e ancora una situazione del genere si verifica quando Paolo finalmente sale a Gerusalemme al termine di quel viaggio su cui abbiamo meditato lungamente.
Paolo è costretto a lasciare Gerusalemme in modo del tutto contraddittorio rispetto ai suoi progetti, e ancora una volta porte che si chiudono con implicazioni su cui adesso non è il caso di riflettere, per cui non è possibile discutere, non è possibile obiettare. Paolo è rigorosamente, forzatamente, costretto a obbedire ad una evidenza che si impone di per sé: dietro di lui le porte si chiudono e dinanzi a lui la novità che, in questo ultimo caso coincide con la permanenza di un prigioniero incatenato in un carcere. Strade nuove, località sconosciute, orizzonti sempre più remoti. Ma in questo caso si tratta di un orizzonte non programmato, si tratta di una meta che Paolo non ha potuto scrutare a distanza per mirare verso un obiettivo preciso. In ogni caso, dietro alle sue spalle le porte si chiudono e Paolo viene ributtato: sulla scena del mondo, geografia che si spalanca in modo sempre più sconfinato, ma anche ributtato nella storia degli uomini in modo tale da trovarsi incatenato nella cella di un carcere, che poi diventerà la stiva di una nave, l’abisso marino nel quale sprofonda come naufrago fino a quando si ritroverà intrappolato a Roma e in quella condizione carceraria, nella quale Luca lo lascia al termine del libro, dove Paolo accoglie tutti. Così leggevamo la volta scorsa. I dati oggettivi riguardanti la figura di Paolo sono quelli di un carcerato in attesa di un processo, a Roma.
Dunque due volti e in comunione. Il volto di Pietro che evangelizza in quanto è intraprendente nel gesto di aprire le porte, il volto di Paolo che evangelizza in quanto manifesta la pazienza di chi sottostà alla necessità di affrontare l’imprevisto dal momento che le porte si sono chiuse. I due personaggi che lì per lì ci appaiono così diversi, sono in realtà rigorosamente coinvolti in un disegno che li accomuna, l’evangelista Luca poi, con tante sfumature, con tanti accenni, con tante allusioni ci conduce a contemplare come le due figure si rincorrono tra di loro e la loro diversità diventa poi comunione sempre più profonda. Le pagine centrali, stando al racconto degli Atti segnano la scomparsa di Pietro dalla scena, non è più visibile, ha oramai come suo spazio di movimento ogni altro luogo della terra, cap. 12, v. 17: Pietro uscì e si incamminò verso un l’altro luogo, senza ulteriori precisazioni. Ricompare per un momento nel cap. 15. Pietro apre le porte in base ad una premura sempre più precisa, sempre meglio mirata, sempre più consapevole, la premura dell’evangelizzatore che si assume una responsabilità diretta e coraggiosa: Israele, i pagani, la stessa chiesa. Questa sua responsabilità così dinamica e intraprendente ad un certo momento fa di lui un viandante che sprofonda nelle vicende della storia umana. Poco importa adesso a noi stabilire quali siano le vicende biografiche di Pietro, seguire gli eventi relativi a questo personaggio nel racconto degli Atti, puntare lo sguardo verso il volto di Pietro che in forza di quella responsabilità che lo ha impegnato ad aprire tutte le porte, adesso ha dinanzi a sé una porta così definitiva, una porta così impegnativa che coincide con l’orizzonte del mondo: ogni altro luogo, l’orizzonte nel tempo e nello spazio. In questo senso Pietro nel momento della sua estrema maturità ci parla di Paolo, che proprio per carisma è abituato a trovarsi dinanzi a una realtà senza confini, una realtà inafferrabile, una realtà indecifrabile, una realtà sconosciuta, una realtà sempre originale. Il carisma di Pietro ci porta ad una avventura paolina. Pietro parte per incamminarsi verso un altro luogo.
Nello stesso tempo Paolo passo passo, da quando compare sulla scena del racconto e poi nei momenti successivi, emerge, diventa il vero protagonista del racconto, fino all’ultima pagina che leggevamo un mese fa, cap. 28. Paolo, impegnato in quella esperienza così avventurosa, dovuto al suo carisma come lo abbiamo potuto interpretare, la necessità di destreggiarsi là dove le porte oramai si sono chiuse è buttato fuori: da Damasco, da Gerusalemme, da Filippi, da Tessalonica, ecc. ecc. e così di seguito. L’orizzonte si allarga sempre di più. L’orizzonte dilaga in modo sempre più sconfinato per Paolo ed ecco che il nostro personaggio si trova incatenato nella cella di un carcere. E lì rimane. E’ una situazione che lo oggettiva, lo ridimensiona, lo circoscrive, lo costringe: è evidente che è così. Paolo, per il suo carisma in quanto è impegnato nella evangelizzazione, è proteso verso l’irraggiungibile, nel momento supremo della sua testimonianza è inchiodato nel contesto di una vicenda che oggettivamente lo stringe come una catena, lo rinserra come uno spazio soffocante di un carcere. Pietro insegue Paolo e Paolo insegue Pietro. Pietro, nella sua maturità, a forza di aprire le porte, si trova davanti a quella porta che è grande come ogni altro luogo. Paolo, a forza di essere buttato fuori, mentre tutte le porte si chiudono, nella sua maturità si trova dinanzi alla soglia di un ambiente penosamente circoscritto: il carcere. E in quel carcere Paolo accoglie tutti.
Allora bisogna fare un passo avanti: atti di Pietro e atti di Paolo, Pietro e Paolo, ma Pietro con Paolo e Paolo con Pietro, Pietro per Paolo e Paolo per Pietro, il circuito di una vicenda che, per come si configura nel corso della storia umana, già manifesta la fecondità di una sacramentale novità d’amore. Una sacramentale novità di amore presente nella storia umana, non nel senso di un messaggio annunciato da qualcuno o di una dottrina elaborata da qualche teologo, ma nel senso di questo vissuto così misteriosamente complementare per cui c’è Pietro e c’è Paolo, ma non un po’ Pietro e un po’ Paolo, ma c’è Pietro che insegue Paolo e Paolo che realizza la vocazione di Pietro.
Siamo dinanzi a delle icone da contemplare e la iconografia non è la raffigurazione di un’immagine fissa, è raffigurazione di una immagine teologica che è dotata di un suo intrinseco dinamismo, epifanico, rivelativo, là dove ci affacciamo su quel mistero che ci precede e sempre ci viene incontro e ancora ci attende.
C’è una terza figura su cui vorrei ritornare: il discepolo primo martire a Gerusalemme che si chiama Stefano di cui si parla nei capp. 6-8. E’ una figura che fa da cerniera nello sviluppo complessivo del racconto, nella articolazione di quel misterioso circuito di comunione per cui Pietro e Paolo sono i volti di un unico evangelo. Compare all’interno di quelle vicende nelle quali, ancora, e in modo inconfondibile, la figura di spicco è quella di Pietro, il primo evangelizzatore; con lui naturalmente c’è Giovanni, ci sono gli altri, attorno a lui man mano la prima comunità a Gerusalemme, ma è la figura di Pietro che erge dominante nel racconto. Così fino al cap. 12 con un richiamo ancora nel cap. 15. Nel cuore di quella vicenda che ci ha consentito di riconoscere Pietro come il primo e fondamentale protagonista della evangelizzazione, compare Stefano; non sarebbe possibile a Pietro svolgere la sua opera di evangelizzazione se la vicenda non fosse segnata e proprio così determinata dalla comparsa di Stefano e da quella testimonianza che per la prima volta conduce un discepolo del Signore a versare il sangue, e questo non tanto per la generosità del personaggio che dimostra di essere in grado di affrontare la sofferenza suprema, l’ingiustizia più straziante, la violenza più feroce, ma perché dimostra di essere oramai in grado di rivolgersi a coloro che lo aggrediscono con parole di benedizione, con un gesto di misericordia, con un atto di amore. Questo è il motivo determinante, costitutivo di quella novità che oramai si è attuata nella storia degli uomini e nella storia dell’evangelizzazione, una maturità che coincide con la disponibilità, la prontezza ad amare coloro da cui si viene aggrediti. E’ la maturità della vita cristiana, dell’evangelizzazione in atto da qualche tempo: siamo giunti a una testimonianza che rimane inconfondibile e che costituisce oramai un punto di riferimento insostituibile. Stefano ha annunciato l’evangelo a coloro che lo aggredivano, nell’atto di subire quell’aggressione, non passivamente, ma in atteggiamento di annuncio, vivo e intraprendente che proclama come l’amore eterno di Dio sia vincitore sulla violenza subita. Vincente è l’amore di Dio, vincente è la misericordia di Dio, vincente è la benedizione del Dio vivente. Anche l’aggressione che Stefano subisce fa parte di un disegno che è governato dalla inesauribile verità d’amore per cui attraverso quegli eventi si manifesta una fecondità crescente. Stefano è il primo martire, non semplicemente in senso cronologico, ma nel senso che ogni altro martirio che si inserisca nella storia dell’evangelizzazione, che è la storia della vita cristiana, che è la storia della chiesa, trova in lui il proprio riferimento esemplare: il martirio di chi oramai è in grado di evangelizzare coloro da cui subisce una condanna, un’aggressione fino alla morte. L’amore di Dio è vincente nel senso che anche l’aggressione subita fino alla morte fa parte di un disegno di misericordia che coinvolge e travolge tutto e tutti: il martirio.
E’ proprio il caso di Stefano, con quello che gli fa di contorno, che determina nella prima parte degli Atti quel passaggio per cui la prima evangelizzazione cresce oltre i confini di Gerusalemme, per necessità di cose, perché i discepoli vengono allontanati da Gerusalemme, necessità intrinseca all’evento che ha avuto luogo. La persecuzione subita da Stefano e dagli altri suoi contemporanei si trasforma in questa diffusione, in questo irraggiamento, in questa crescita, nel senso che l’evangelo dilaga e la prima comunità dei discepoli è giunta a quel livello di maturità che le consente di procedere oltre i confini rappresentati dalle mura di Gerusalemme. Adesso siamo sulle strade del mondo, Samaria, Gaza, Cesarea, non a caso interverrà Pietro entrando per la prima volta nella casa di un pagano, anche lui fuori di Gerusalemme. Pietro, grande protagonista di questa evangelizzazione che cresce senza misura oramai, Pietro che è mosso da quel dinamismo d’amore ha trovato in Stefano il suo testimone primigenio, esemplare. Non c’è Pietro e quella evangelizzazione che cresce di porta in porta, varcando tutte le soglie, se non passando attraverso Stefano. Anche Paolo con tutto il suo cammino e con quella particolare fisionomia che il suo volto manifesta per quella sua particolare dotazione carismatica, mentre è alle prese con le porte che gli si chiudono dietro le spalle, anche Paolo con la sua vocazione di cristiano e nel suo originario impulso al servizio dell’evangelo, Paolo è in comunione con Stefano. Per Saulo, ancora così si chiamava mentre Stefano subiva l’aggressione e veniva lapidato, arriverà il momento quando desidera venire a capo della sua vicenda, rendersi conto di quello che gli succede, cosa vuol dire per lui essere cristiano e discepolo del Signore, cosa vuol dire per lui essere impegnato nel servizio dell’evangelo, man mano che gli eventi prendono quella piega, sappiamo: porte che si chiudono e Paolo buttato, buttato e risalito a Gerusalemme alla ricerca di una spiegazione: Paolo ricorda Stefano (cap. 22). E Paolo si rende conto che tutto per lui ha avuto inizio là dove Stefano si rivolgeva a coloro che lo aggredivano.
Anche Paolo è stato evangelizzato: il martirio di Stefano è la radice dell’evangelizzazione che Paolo ha ricevuto, ha accolto, che poi è divenuta in lui energia così travolgente; l’abbiamo poi accompagnato nel corso dei suoi viaggi, con tante vicissitudini, con momenti di rattrappimento, potremmo dire, di nascondimento e poi di improvvisi sussulti e via di questo passo. Paolo sa bene di essere radicalmente segnato nella sua esperienza di cristiano e di uomo dedito alla evangelizzazione dall’esperienza di un debito: io sono radicalmente debitore. E questo debito che sta all’inizio di tutto, a fondamento di tutto, Paolo lo ha sperimentato come quell’urgenza che trascina il cammino della sua vita lungo quelle strade misteriose, impervie, sconosciute, di cui già sappiamo, verso un appuntamento.
Così si va nella storia di Saulo, che diventa Paolo, a partire da quell’incontro con Stefano che li per lì lo aveva colpito, segnato, ma anche ancora addirittura rincrudito nel suo atteggiamento di avversario. Si va poi lungo tutte le tappe che abbiamo sommariamente rievocate verso l’appuntamento che Paolo sta imparando a individuare, là dove in ogni volto umano affiora la luce inconfondibile del volto glorioso del Signore Gesù, quel Signore Gesù che Paolo nei giorni della vita terrena del maestro non ha contemplato. Paolo non lo ha mai visto. E Paolo è proiettato verso l’incontro con ogni volto umano, da quando, per come ricorda, ha osservato il volto di Stefano, e lì per lì si è incattivito ancora di più. Paolo proiettato in quella corsa inesauribile per cui ogni volto umano diventa trasparenza, epifania, rivelazione, volto del Signore Gesù che ritorna, appuntamento.
Nello stesso tempo sappiamo come Paolo si trovi in carcere a Gerusalemme, a Cesarea, in viaggio in nave, a Roma in carcere. Oramai non è più questione di orizzonti in senso geografico, o in senso temporale, che pure hanno il loro significato, l’orizzonte è il volto di ogni uomo. Ogni povero uomo di questo mondo, ogni povero uomo che crepa. Ed è il Signore Gesù che ritorna nella sua gloria, mi ha dato appuntamento.
Pietro-Paolo, Paolo-Pietro e così via, il fulcro di questo circuito: Stefano. Stefano per Pietro, Stefano per Paolo. E Pietro e Paolo che in realtà sono Pietro e Paolo perché in realtà sono anche Stefano, l’uno e l’altro e ciascuno a modo suo, al modo di Pietro e al modo di Paolo sono Stefano. E Pietro è Stefano al modo di Pietro perché insegue Paolo, e così via: l’imbroglio diventa quasi indescrivibile, ma tutto da contemplare.
E allora il passaggio finale che ci conduce alla lettura di quel brevissimo salmo cui accennavo. Da Stefano in poi il racconto degli Atti si sviluppa in modo tale da descrivere che cosa avviene lungo le strade che sono percorse da Pietro, da Paolo e anche dagli altri insieme con loro, naturalmente, oltre il confine rappresentato dalle mura di Gerusalemme. Però è anche vero che da quel momento in poi il racconto degli Atti si sviluppa non soltanto come descrizione di quel che avviene una volta che Gerusalemme è stata abbandonata, ma anche una volta che a Gerusalemme si ritorna. E il ritorno procede per cicli che possiamo rapidamente rintracciare e che ci aiutano a considerare come questa crescita dell’evangelizzazione oltre le mura di Gerusalemme, fa sempre capo a Gerusalemme. Lì a Gerusalemme è la pasqua del Signore, l’effusione dello Spirito santificante; è Gerusalemme la pienezza della storia della salvezza, là dove la visita di Dio si è compiuta: Gerusalemme. Gerusalemme abbandonata? A Gerusalemme si ritorna. Cresce l’evangelizzazione lungo itinerari geografici, con scadenze temporali incontrollate stando alle pretese programmazioni dell’inizio. E poi cresce l’evangelizzazione nel senso che il segreto di ogni cuore umano diventa spazio e tempo di una novità per cui non ci sono più confini. Ogni persona,ogni singola persona umana.
Si torna a Gerusalemme, e ogni ritorno a Gerusalemme è caratterizzato come testimonianza della esperienza acquisita nel corso dell’unico grande viaggio, che poi è molteplice e variegatissimo, di un coinvolgimento sempre più ampio, sempre più penetrante, sempre più creativo. Mi spiego subito. Paolo in viaggio verso Damasco. Ritorna a Gerusalemme (9,6). E’ un uomo nuovo, convertito, che ritorna a Gerusalemme, c’è una novità. Il ritorno a Gerusalemme non è mai, nel racconto degli Atti, descritto come una semplice necessità di ordine tecnico, o di ordine devozionale. Il ritorno a Gerusalemme per l’evangelista Luca è sempre espressione di una novità acquisita, di una esperienza maturata, di un coinvolgimento che si è ampliato nel corso del grande viaggio, chiamiamolo pure nel corso della missione, che coinvolge i primi discepoli, che riguarda la prima chiesa, che riguarda Pietro, Paolo e tutti gli altri. Ricorderete alla fine del Vangelo secondo Luca, quando prima di ascendere al cielo il Signore saluta i suoi discepoli (Lc 24,46s): «Così sta scritto. Il Cristo dovrà patire e resuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicate a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme”. Che si cominci da Gerusalemme, non è semplicemente un dato di ordine storiografico, è un valore teologico. Si comincia sempre da Gerusalemme, si comincia per quanto riguarda l’evangelo, e per quanto riguarda quel lungo cammino nel quale è impegnato il popolo cristiano, ciascuno con la sua vocazione, Pietro, Paolo, Stefano, e tutti insieme e la chiesa, e di chiesa in chiesa. Si comincia da Gerusalemme.
All’inizio degli Atti il Signore che salutando i suoi discepoli prima di salire al cielo, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre.
Dopo quel che è avvenuto a Gerusalemme, dopo che Stefano ha subito il martirio, le strade si orientano verso mete sempre più remote, ma il racconto è costruito in modo tale da invitarci a considerare come tutto fa capo a Gerusalemme, non per una curiosità archeologica, ma perché l’evangelo cresce. E l’evangelo cresce non in modo avventizio, occasionale, opzionale, nella logica di uno spontaneismo ad oltranza, cresce nella obbedienza a quella novità unica e definitiva che si è manifestata nella storia umana, siamo stati visitati. Ricordate quello che dicono gli angeli quando il Signore ascende al cielo: come l’avete visto salire, così lo vedrete tornare. Lo stiamo vedendo mentre sale o lo stiamo vedendo mentre ritorna? E’ la stessa visione? E’ la stessa visione: vederlo salire e vederlo tornare a Gerusalemme. E per vederlo tornare a Gerusalemme, il viaggio adesso si allunga, si complica, si sfaccetta, si fa sempre più intenso quanto a partecipazione, sempre più ricco di testimonianze, si fa sempre più complesso, per tornare a Gerusalemme e per vederlo nella sua gloria.
Paolo al cap. 9 torna da Damasco a Gerusalemme, un uomo nuovo, convertito, Più avanti sarà la volta di Pietro che da Cesarea (11,2) ritorna a Gerusalemme dove lo interrogano sul suo comportamento, su cosa è successo a Cesarea. Segnalo questi testi, senza andare troppo per il sottile, perché espressioni come questa, che adesso richiamavo, diventano una specie di ritornello nel racconto degli Atti. Ritorna Paolo a Gerusalemme, da Gerusalemme viene buttato fuori. Ritorna Pietro a Gerusalemme e viene interrogato perché per la prima volta un pagano è evangelizzato. Vedete che ogni ritorno porta con sé l’esperienza di una novità e di una novità grandiosa: per la prima volta nella casa di un pagano Pietro è entrato per mangiare, per dimorare.
Poi più avanti sarà la volta di Barnaba che accompagnato da Paolo ritorna a Gerusalemme, portando contributi mirati ad aiutare la comunità di Gerusalemme che è ridotta alla fame per la carestia che affligge quella popolazione in quel periodo storico. E’ un contributo di carità, non soltanto la dichiarazione da parte di Pietro che già un pagano si è convertito, che lo Spirito di Dio si è manifestato, ma adesso anche il contributo della carità dei pagani che da Antiochia rifluisce a vantaggio della prima chiesa, la chiesa madre, la chiesa di Gerusalemme (11,29s). Più avanti sarà Paolo, con Barnaba e altri ancora, che da Antiochia ritorna a Gerusalemme per discutere circa la questione della circoncisione. Adesso è la novità dei pagani, non-circoncisi, che come tale rifluisce a Gerusalemme, non circoncisi, una novità sempre più pesante, sempre più grandiosa, sempre più originale che torna a Gerusalemme. Ogni ciclo comporta un affondo nella realtà della storia umana, nelle vicissitudini del mondo, nella complessità del vissuto di ogni persona, nelle culture. Poi sarà la volta dopo che Paolo è stato in Europa, quel viaggio grandioso, dove lui è sempre più schiacciato dalle situazioni e d’altra parte è l’Europa, è l’Occidente: da Corinto sale alla chiesa madre di Gerusalemme. Poi sarà la volta che Paolo ritorna da Efeso, dopo che ha rielaborato tutti i piani della sua attività pastorale e salirà a Gerusalemme e sarà arrestato: tutti i capitoli che seguono, dal 21 al 28, con quelle divagazioni di cui ci siamo resi conto. Quando Paolo arriva a Roma, fine del racconto degli Atti, noi diremmo: ecco, non torna a Gerusalemme. Attenzione perché proprio qui volevo arrivare, proprio le annotazioni su cui insistevo poco fa, stanno a dimostrare che Roma per Paolo e quindi anche per Pietro significa per quella chiesa che è impegnata nella evangelizzazione e porterà frutti sempre nuovi, in continuità con il martirio di Stefano in ogni luogo e in ogni tempo, è un affaccio su Gerusalemme. Roma è un ulteriore punto di vista che consente a Paolo di guardare verso Gerusalemme avendo assimilato, assorbito, sperimentato nell’intimo della sua ricerca di cristiano, di evangelizzatore, come l’evangelo è ecumenico, è universale, è novità introdotta da Dio nella storia umana che riguarda l’umanità intera, che raccoglie tutti i popoli. Roma è l’estremo confine, Roma non è un punto di arrivo, Roma è un affaccio. E’ un affaccio che per Paolo diventa occasione per sperimentare lui, nella sua miseria oggettiva, perché povero carcerato, come l’opera di Dio per la salvezza degli uomini dilaga in modo tale da avvolgere tutto, da contenere tutti, in modo tale da trascinare la ricchezza così imprevedibile della storia umana con tutti i contributi di ogni creatura, fino a Gerusalemme. E’ il volto del Signore glorioso che ritorna. Tutto in vista di lui, tutto in nome suo, tutto per rispondere all’appuntamento per cui egli ci ha convocati.
Salmo 87 (86)
Prendete il salmo 87 (86) e qui poi ci fermiamo. E’ uno dei cosiddetti cantici di Sion. Salmi che ci aiutano a guardare verso Gerusalemme. E questo piccolo salmo mi sembra ci aiuta bene a comprendere tutto quello che cercavo di dirvi con accenni al racconto degli Atti, alla teologia degli Atti. Abbiamo lasciato Paolo a Roma che guarda verso Gerusalemme e quel suo sguardo è espressione della maturità missionaria della chiesa, della maturità del cuore di un cristiano che ha sperimentato il debito dell’evangelo e ancora insegue l’evangelo là dove, nella sua gratuita misericordia, la presenza del Signore lo anticipa e gli viene incontro.
Tre brevissime strofe in questo salmo 87, che rinviano molto probabilmente a un rito professionale.
Primo momento, vv. 1-3. Ci troviamo in una posizione appartata, che consente comunque di vedere Gerusalemme come da una balconata. Sono usciti da Gerusalemme mentre la processione si sta organizzando, ci si sta disponendo, ma ancora non è partita. Immaginate Paolo a Roma. E’ il grande viaggio missionario che si allarga, si allarga, si allarga sempre di più: Roma. E da quella prospettiva, affacciandosi su quella balconata, anche Paolo guarda verso Gerusalemme. Egli stesso è ritornato più volte a Gerusalemme. Il ritorno di Paolo a Gerusalemme alla fine degli Atti degli Apostoli è quel ritorno che si compie passando attraverso i secoli, i millenni, le generazioni e le generazioni di cristiani, le chiese che sono impegnate in questa lunga storia di evangelizzazione che ci riporterà all’incontro con il volto glorioso del Signore Gesù.
Guardiamo verso Gerusalemme
«Le sue fondamenta sono sui monti santi;
il Signore ama le porte di Sion più di tutte le dimore di Giacobbe.
Di te si dicono cose stupende, città di Dio».
Ecco uno sguardo ammirato, quasi rapito, dalla bellezza di Gerusalemme, una visione commossa. Bellezza che assume caratteristiche che sono tipicamente bibliche, la stabilità, la solidità, la robustezza. Per noi la bellezza deve essere snella, nel mondo biblico la bellezza è compatta, allora è veramente bello, solido.
Le sue fondamenta sono sui monti santi, la presenza santa del Signore conferisce bellezza a questa città. Possiamo osservarla come si raccoglie entro la cinta delle sue mura, il Signore ama le porte di Sion, dunque le mura. E’ un amore privilegiato. Mentre noi osserviamo Gerusalemme, ci accorgiamo che siamo, per così dire, inseriti nella traiettoria di un altro sguardo che viene dall’alto, è il Signore che guarda Gerusalemme, che ama Gerusalemme, che rende così bella Gerusalemme perché se ne è preso cura, se ne preoccupa lui, la ama più di tutte le dimore di Giacobbe.
Quel che si dice di Gerusalemme nella tradizione cristiana poi diventa messaggio che per un verso riguarda la madre del Signore, per altro verso la chiesa: di te si dicono cose stupende, città di Dio, bellissima, creatura amata. Il salmo precedente, l’86, si concludeva dicendo: dammi un segno di bellezza, e il salmo 87 risponde: ecco il segno di bellezza che è stato invocato. Noi osserviamo Gerusalemme, restiamo ammirati, e ci rendiamo conto che in realtà siamo attraversati da quello sguardo così appassionato, così caloroso, così vibrante d’amore, che è lo sguardo del Signore che si compiace della sua creatura. E’ Gerusalemme, città, sacramento in cui si ricapitolano tutti i segni della storia della salvezza, là dove si è compiuta la vista del Signore attraverso l’incarnazione del Figlio che è morto ed è risorto, dove l’evangelo si è manifestato nella sua sorgiva primigenia fecondità, da lì tutto è scaturito: Gerusalemme, città di Dio.
Nella tradizione cristiana Gerusalemme viene poi guardata come il mistero della madre del Signore e corrispondentemente il volto missionario della Chiesa nella storia umana, nel grembo verginale di Maria santissima l’evangelo si è compiuto, l’evangelo sta sprigionando la sua inesauribile fecondità di salvezza, attraverso la presenza della chiesa, in ogni luogo, in ogni tempo, attraverso la crescita di quegli itinerari, percorsi da Pietro e da Paolo con quel certo scopo di cui sappiamo.
Seconda strofa, vv. 4-5a. Adesso la processione è partita, adesso non siamo soltanto spettatori di quella scena, ma in cammino verso Gerusalemme, ci stiamo accostando e man mano che non è più possibile con un unico colpo d’occhio cogliere tutta l’estensione delle mura, guardarla per intero, si scende la valle, si risale, lo scenario è parziale, non c’è dubbio, però man mano che ci si avvicina a Gerusalemme, da Gerusalemme provengono suoni, rumori, messaggi, più si porge l’orecchio non è soltanto un rumore indistinto, un suono confuso, è una voce. Gerusalemme sta dicendo qualcosa. Che cosa? Dal di dentro di Gerusalemme, dall’intimo proviene un messaggio, c’è un mormorio, sta balbettando, biascicando qualcosa, sta dicendo dei nomi, li sta elencando. Man mano che ci si avvicina, vedete, l’udito si affina e l’ascolto si fa più netto, più inconfondibile: «Ricorderò Raab», cambia il soggetto, chi è che dice: ricorderò? E’ Gerusalemme che parla, e sta ricordando dei nomi, li sta elencando.
«Ricorderò Raab e Babilonia fra quelli che mi conoscono; ecco, Palestina, Tiro ed Etiopia: tutti là sono nati. Si dirà di Sion: L’uno e l’altro è nato in essa». Un elenco di nomi con i quali vengono identificati i popoli che sono comparsi nella storia del popolo di Dio. Sono tra l’altro i tradizionali nemici. E’ anche vero che in questo elenco di popoli sono presenti anche quelle nazioni, quelle genti, quelle stirpi umane che non hanno avuto niente a che fare con Gerusalemme, con gli abitanti di quella città, con il popolo di Dio nel corso della sua storia. Sono tutti i popoli della terra, in ogni luogo e in ogni tempo. E Gerusalemme li ricorda, sta ripetendo quei nomi, Gerusalemme porta in sé una memoria indelebile, Raab, Babilonia, Palestina, Turo, Etiopia, tutti la sono nati, cioè nel loro luogo e nel loro tempo, compresi i popoli delle civiltà precolombiane nelle Americhe, tutti là sono nati, ma si dirà di Sion: l’uno e l’altro è nato in essa.
Gerusalemme è madre di quei popoli che pure sono nati là, nella loro storia dal punto di vista temporale, nei loro luoghi, dal punto di vista dello spazio, ma tutti sono nati a Gerusalemme. E Gerusalemme li ricorda come presenza che appartengono a lei, al suo grembo, a lei in quanto madre. tra l’altro la traduzione in greco dice proprio così: madre Sion. Gerusalemme è madre, l’uno e l’altro è nato in essa. Una maternità singolare perché è una maternità non tanto generativa, come l’intendiamo noi normalmente, ma è una maternità attrattiva. E’ una maternità che non sta dietro di noi, ma sta davanti a noi. Questa madre ha un grembo che attrae, ha un grembo che rivela la sua fecondità materna, bisogna proprio esprimersi in questi termini, fecondità materna, nel momento in cui attraendo tutti i popoli li educa nella esperienza della fraternità. Mia madre mi ha messo al mondo. Qui abbiamo a che fare con una madre che genera per noi il mondo in un orizzonte di fraternità. Mia madre genera dei fratelli per me. E’ la maternità di Gerusalemme, ed è la maternità che con Pietro, con Paolo e con tutti gli altri, giunti alla fine degli Atti, noi impariamo a contemplare la maternità che mi viene educando nella sapienza, nel gusto, nella responsabilità, nella testimonianza della fraternità. Mi spiega cosa vuol dire avere dei fratelli e cosa vuol dire esser fratello. Fratello di popoli, di vicini e di lontani, di sconosciuti, fratello di nemici. Madre Sion genera per me il mondo e me lo dona spiegandomi come io sto nascendo in un grembo materno che mi genera nel momento stesso in cui genera per me, per noi e per tutti un disegno di comunione fraterna. Ricordate Paolo che arriva a Roma, la prima cosa che fa è salutare i fratelli. Paolo arriva a Roma e parla di Gerusalemme. E’ vero che poi rimane a Roma, per il momento ancora incatenato, ma questa è la nostra condizione, si, ma la prospettiva è segnata per tornare a Gerusalemme, e tornare a Gerusalemme non semplicemente per rievocare il passato, ma perché significa raggiungere finalmente la pienezza della comunione che coinvolge l’unica famiglia umana in cui i diversi sono pronti ad accogliersi vicendevolmente, ad affidarsi vicendevolmente, come fratelli. Gerusalemme è la visita di Dio, è la pasqua del Signore, è l’evangelo che noi stiamo già ammirando nella sua fecondità piena, realizzata, definitiva, stiamo ancora in cammino, stiamo ancora inchiodati in qualche carcere di questo mondo, stiamo ancora trattenuti, frenati da qualche situazione circoscritta. Siamo ancora a Roma? Ma l’evangelo già riempie la scena, è un appuntamento a cui non possiamo più mancare, l’uno e la’ltro è nato in essa.
Terza strofa, vv. 5b-7.
«L’Altissimo la tiene salda». La processione oramai è entrata a Gerusalemme, sarà entrata anche nel tempio. Il nostro orante, lui personalmente, quella comunità impegnata nel rito professionale insieme con lui, si fermano, si guardano intorno, piantano i piedi sul terreno. Ma è veramente solido questo terreno. L’Altissimo la tiene salda.
«Il Signore scriverà nel libro dei popoli», adesso qui abbiamo a che fare con la testimonianza di chi è giunto al termine di quel breve, tutto sommato, cammino professionale, si guarda attorno: io sono già nel grembo, sono dentro Gerusalemme. Per Paolo questo grembo ha le misure di un carcere, è un sacramento di comunione fraterna universale, l’evangelo già realizzato nel sacramento, affidato alla chiesa che evangelizza, alla nostra povera vita cristiana che si sta specchiando nel volto di Pietro e di Paolo per riconoscere la bellezza di Stefano
«Il Signore scriverà nel libro dei popoli: Là costui è nato». Vedete, il registro e accanto ai nomi le generalità, un nome dopo l’altro, e per ogni nome: è nato a Gerusalemme, è nato a Gerusalemme, è nato a Gerusalemme.
«E danzando canteranno: Sono in te tutte le mie sorgenti».