dal sito:
http://www.sanbiagio.org/lectio/libri_storici/tobia_1_lectio.htm
BENEVOLENZA E BONTÀ
Lettera agli Efesini 4,20-32; 5,1.8-10
Quando il giovane ricco si rivolge a Gesù, gli dice: Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna? Egli risponde: « Perché mi dici buono. Nessuno è buono, se non uno solo: Dio » (Lc 18,18-19). Veramente il « buono » per antonomasia è il nostro Creatore e Padre. La nostra bene-volenza e bontà non sono che una partecipazione alla bontà di Dio, se però siamo docili allo Spirito, cercando in tutto di comportarci come Gesù « il quale – dicono gli Atti degli Apostoli – passò beneficando e risanando tutti » (10,37-38). In questa pericope, tratta dalla lettera agli Efesini, Paolo ci dà indicazioni preziose circa il « fruttificare » benevolenza e bontà nella nostra vita.
Paolo ha scongiurato i suoi destinatari di non vivere alla maniera dei pagani. E va subito sottolineato che il loro modo d’essere: « accecati nella mente, estranei alla vita di Dio sia ‘per l’ignoranza’ (delle cose di Dio) che ‘per la durezza del cuore’ non riguarda solo i pagani contemporanei dei cristiani d’un tempo, ma forse è ancora più tipico dei pagani di oggi. Quello che Paolo dice del comportamento dei pagani d’ogni tempo fa come da sfondo: uno sfondo tenebroso che dà però risalto al comportamento dei cristiani pure d’ogni tempo. Chiamati a « comprendere la volontà di Dio » « ricolmi dello Spirito », Paolo li esorta dicendo: « Intrattenetevi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio, Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo (5,18-20). Subito dopo (5,21-33 e 6,1-8), Paolo viene precisando quelle che devono essere le nuove relazioni dei cristiani all’insegna di quell’amore reciproco che soprattutto si esprime in benevolenza e bontà.
4,20-21 Non così voi avete imparato a conoscere Cristo, se proprio gli avete dato ascolto e in lui siete stati istruiti secondo la verità che è in Gesù
Ecco: Paolo, dopo aver denunciato la tenebra del comportamento dei pagani, esprime con forza la bellezza luminosa del vivere da cristiani. L’espressione originale è più forte: « voi non così avete imparato Cristo ». « Imparare Cristo » non significa quindi solo imitare la condotta di Gesù, il suo modo di pensare e di agire, ma – a monte! – significa conoscere, penetrare il suo mistero d’un amore che è infinito dono di sé nella morte e risurrezione: la vera salvezza per ciascuno di noi. « Imparare Cristo » è avere gli occhi del cuore illuminati dalla sua presenza-amante, dal suo fascino che immette di continuo nella storia energie salvifiche, colmando il suo corpo mistico (=la Chiesa) della pienezza della vita divina che è grazia e bontà. Si tratta dunque di « dare ascolto » a Lui (a tutto il suo messaggio) e lasciarsi ammaestrare da tutta la verità della sua persona divina che però si è fatta « carne »: in una vita pienamente umana, come la nostra.
v. 22 Per questa verità che è in Gesù dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dentro le passioni ingannatrici
Paolo allude all’antico rito del Battesimo, dove chi stava per diventare cristiano « deponeva » la sua veste simbolo di una vita all’insegna di passioni devastanti e menzognere. Subito veniva immerso nell’acqua e poi si rivestiva, ma di una veste candida.
vv. 23-24 Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera.
Perché dice « spirito della vostra mente »? Secondo la migliore esegesi si tratta della nostra facoltà intellettiva chiamata qui « spirito » in quanto aperta all’influsso dello Spirito Santo. Si tratta dunque del pensare con criteri di fede, pensare da cristiani opposto alla « vanità del pensare ». Interessante! Il rinnovamento, il diventare « uomo nuovo » investe anzitutto l’ambito del pensare: la mente. È di lì infatti che procede il vivere in quella giustizia-progetto di Dio per l’uomo appunto nuovo. Tale progetto non è illusione ma « santità vera ». Da notare: la TOB traduce: « santità che viene dalla Verità ». C’è dunque una grande pregnanza di significato in questo termine « verità » collegato alla persona di Gesù.
v. 25 Perciò bando alla menzogna: dite la verità al vostro prossimo, perché siamo membra gli uni degli altri.
Paolo aveva parlato della « verità che è in Cristo Gesù », e di « santità vera », ora, dando indicazioni concrete di vita e di relazioni, mette al primo posto sincerità e lealtà: quell’essere « veri » nel proprio modo di pensare e d’agire, che è la premessa in dispensabile a un agire retto che « fruttifichi » amore e bontà all’interno non solo di una qualsiasi società ma di quella che è il Corpo Mistico di Gesù: la Chiesa, di cui ogni cristiano è membro.
vv. 26-27 Nell’ira, non peccate; non tramonti il sole sulla vostra ira e non date occasione al diavolo
C’è un adirarsi che non è peccato: quello scattare improvviso e momentaneo nel contrasto di opinioni e di sentimenti. L’importante è che l’ira non perduri. Perché se non è prontamente superata (prima che « tramonti il sole ») dà adito al diavolo (il « divisore » per eccellenza) che si vale di questa passione per incrinare e rompere il rapporto coniugale, filiale, fraterno ecc.
v. 28 Chi è avvezzo a rubare non rubi più, anzi si dia da fare lavorando onestamente con le proprie mani per farne parte a chi si trova in necessità
Può stupire che anche tra i primi cristiani ci fossero ladri. È però opportuno riflettere come ci siano molti modi di rubare. Anche la trascuratezza, la pigrizia nel proprio lavoro come nel gestire le realtà pubbliche è furto. L’apostolo poi ci spinge ben più in alto. Non solo invita a rendersi responsabili nella diligenza e nell’onestà del proprio lavoro ma chiede che si faccia parte del proprio guadagno a chi si trova in necessità. E non è questo uno stile di vita impregnato di benevolenza e bontà?
v. 29 Dalla vostra bocca non esca nessuna parola cattiva, ma piuttosto quelle buone che servono alla necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano
Abbiamo visto com’è importante e prioritario l’ambito di un pensare totalmente aperto alla verità. Qui ci è indicato l’ambito che subito ad esso si collega: quello del parlare. Si tratta di capire che il nostro parlare non solo non deve essere infestato da parole cattive, ma neppure può essere un parlare « neutro ». Dal nostro parlare deve fluire bontà: qualcosa che edifica, che fa del bene, che guarisce il cuore di chi ascolta.
vv.29-31 Non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio col quale foste segnati per il gran giorno della redenzione. Scompaia da voi ogni amarezza, sdegno, ira, clamore e maldicenza insieme a ogni forma di malignità
Da un punto di vista strettamente teologico come si può parlare di « rattristare » lo Spirito Santo di Dio? Egli è l’AMORE e dunque la GIOIA sostanziale all’interno della Trinità. Ma qui Paolo parla col suo cuore di uomo al nostro cuore. Dare gioia e non dispiacere a una Persona che ci ama e a cui dobbiamo moltissimo qualifica il nostro essere uomini. Del resto quel che Paolo qui ci chiede di far scomparire è ciò che distrugge la pace e la gioia del nostro vivere: quella pace e gioia che (l’abbiamo visto) sono in noi il frutto dello Spirito.
v. 32 Siate anzi benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi perdonandovi a vicenda come Cristo ha perdonato a voi in Cristo.
Denunciata e messa al bando ogni cattiveria come non compatibile col modo di vivere del cristiano, ecco l’esaltazione luminosa di quella benevolenza-bontà che anzitutto esplode dall’atteggiamento tipico del cristiano: l’essere misericordiosi. È Gesù stesso che lo ha chiesto con un imperativo che ci spalanca agli orizzonti di Dio. « Siate misericordiosi com’è misericordioso il vostro Padre » (Lc 6,36). « Amate i vostri nemici, se davvero volete essere figli del Padre vostro che è nei cieli » (Mt 5,44 ss)
5,1 Fatevi dunque imitatori di Dio quali figli carissimi e camminate nella carità nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore.
La meta è molto alta: imitare Dio! Però la posta in gioco è la carità vista attraverso quell’evidenziatore che ci aiuta ad essere concreti nel nostro modo di essere benevoli e buoni. Ciò significa: non riesco ad amare se non imparo a sacrificarmi, a mettere K.O. il mio ego. Imitare Dio vuol dire dunque passare come Gesù dalla porta stretta della croce, ma sprigionando un « soave odore » di bontà, che allieta e cielo e terra.
v. 8 Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce
Il passaggio dall’essere stati tenebra ad essere « luce nel Signore » dice che è avvenuta una « nuova creazione »; è nato l’uomo nuovo in Cristo che è la luce del mondo (cf Gv 1,5; 8,12). Ecco perché anche dei cristiani è detto: « Voi siete la luce del mondo » (Mt 5,14). Quanto all’espressione « figli della luce » è importante ricordare che è una tipica espressione semitica per esprimere un’intima appartenenza. Già nella sua prima lettera, Paolo aveva scritto ai Tessalonicesi: « Voi tutti siete figli della luce e figli del giorno » (1 Tess 5,5). Certo, provenire dalla luce, essere noi stessi luce scandisce una grande dignità; però quanto c’impegna!
v. 9 Poiché il frutto della luce consiste in ogni sorta di bontà, giustizia e verità. Cercate ciò che è gradito al Signore.
Eccoci, come in Gal 5,22, al termine tanto significativo: « frutto ». La tenebra ha opere (cf Gal 5,21) non frutti. E le sue sono opere infruttuose, anzi devastanti. Un esegeta dice: « Quelle opere che vivono di tenebra generano e diffondono solo tenebra e quindi il nulla nullificante » (H. Slhier). Il « frutto » della luce è un fruttificare che viene dallo Spirito Santo su quell’albero vivo che è Cristo e il suo Vangelo. È un fruttificare ogni sorta di verità: ciò che risponde alla realtà del progetto di Dio, e proprio per questo diventa ogni sorta di giustizia (=santità), la quale si manifesta in bontà e benevolenza. Norma e misura di questo fruttificare che cos’è in concreto da parte nostra? L’esaminare, scegliere e decidersi per quello che è gradito a Dio, indipendentemente da quello che può piacere a noi stessi o agli altri.
La nostra lectio ci ha portato a cogliere il processo di questo fruttificare bontà: un processo estremamente vitale. Anzitutto perché viene dalla vita dello Spirito in noi a cui ci affidiamo, lasciandoci guidare da Lui. Per questa bontà e benignità nel cristiano autentico si manifesta come una sorgiva di tutto ciò che procura e sostiene il bene dell’altro e nostro. Proprio perché è luminosità di bene noi lo vogliamo con spontaneità, volentieri, senza bisogno di essere precettati. La persona buona è l’opposto di quella che pecca di « buonismo », paurosa di scomodarsi e di scomodare, più passiva e negligente che attiva e creativa. La persona buona non si lascia prendere nell’onda del permissivismo. È forte nel volere il bene, che non è mai equivoco, compromesso, un patteggiare con le tenebre. La persona buona vuole il bene, in quella gioia che nasce dal non cedere agli ostacoli che si oppongono al suo attuare bontà e benignità. La persona buona, infatti, davvero è « figlia della luce », perché se « il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità » (Ef 5,9), lei sperimenta che la luce della gioia interiore è interamente frutto del suo essere unita al Signore e del suo donarsi per lui e con lui. Come riportano gli Atti degli Apostoli, Gesù ha detto: « C’è più gioia nel dare che nel ricevere » (Atti 28,35). Risulta così ben chiaro il salto di qualità tra altruismo e bontà. La bontà « frutto dello Spirito » edifica, viene costruendo anzitutto la mia persona. È la forza dell’amore con cui Dio mi ama. Perché mi percepisco avvolto e penetrato dalla bontà di Dio, m’impegno a essere buono con gli altri.
- Ho ben capito (cioè ho capito esistenzialmente) che la bontà è anzitutto fare agli altri quello che vorremmo fosse fatto a noi? (cf Mt 7,12). O sono di quelli che hanno bei pensieri sulla bontà, ma all’atto pratico vanno dietro ai propri comodi, esigendo che gli altri siano buoni?
- Sono uno/a che esce dalla confusione dilagante e non si lascia intrappolare nel buonismo, nel permissivismo ma persegue una bontà generosa, invocata dallo Spirito?
- Mi lascio affascinare da questo ideale: voglio vincere il male col bene, con la bontà? Non mi limito dunque a essere buono con quelli che mi dimostrano affetto e stima, ma anche con chi mi è avverso?
Nel silenzio rileggo lentamente questo ricco brano della Sacra Scrittura. Invoco lo Spirito Santo. È a Lui che chiedo di aprirmi a quelle parole che sento più decisive perché il cuore si converta e, da egoista e indurito, diventi veramente un cuore buono, che accoglie quella parola di Gesù: « Così come io vi ho amato, anche voi amatevi » (Gv 13,34).