Archive pour juin, 2010

Galates 2,16….21 (seconda lettura di domenica 13 giugno, in francese)

dal sito:

http://www.bible-service.net/site/375.html

Galates 2,16….21

Paul, dans des versets d’une grande densité, s’emporte contre des chrétiens d’origine juive qui reviennent à des pratiques de l’ancienne Loi. Il rappelle donc avec vigueur la grande nouveauté apportée par le christianisme : les efforts des hommes pour parvenir à la perfection ne peuvent les justifier aux yeux de Dieu, seul peut les rendre justes le Christ, don de la grâce par excellence du Père, qui s’est donné pour nos péchés sur une croix. Tout homme, d’où qu’il vienne, a accès à cette justice par la foi au Christ qui vivra désormais en lui. De la croix à la Résurrection.

DOMENICA 13 GIUGNO 2010 – XI DEL TEMPO ORDINARIO

DOMENICA 13 GIUGNO 2010 - XI DEL TEMPO ORDINARIO dans Lettera ai Galati 20%20ANONYME%20MAGDALEN

Annointment_Bethany_Onction – Chinese school Magdalen

http://www.artbible.net/3JC/-Joh-12,01_Annointment_Bethany_Onction/index5.html

DOMENICA 13 GIUGNO 2010 – XI DEL TEMPO ORDINARIO

Sant’Antonio da Padova

MESSA DEL GIORNO LINK:

http://www.maranatha.it/Festiv2/ordinC/C11page.htm

MESSA DEL GIORNO:

Seconda Lettura   Gal 2, 16. 19-21
Non vivo più io, ma Cristo vive in me.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Gàlati
Fratelli, sapendo che l’uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno.
In realtà mediante la Legge io sono morto alla Legge, affinché io viva per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me.
Dunque non rendo vana la grazia di Dio; infatti, se la giustificazione viene dalla Legge, Cristo è morto invano.

UFFICIO DELLE LETTURE
Seconda Lettura
Dal trattato «Sul Padre nostro» di san Cipriano, vescovo e martire
(Nn. 4-6; CSEL 3, 268-270)

La preghiera prorompa da un cuore umile

Per coloro che pregano, le parole e la preghiera siano fatte in modo da racchiudere in sé silenzio e timore. Pensiamo di trovarci al cospetto di Dio. Occorre essere graditi agli occhi divini sia con la posizione del corpo, sia con il tono della voce. Infatti come è da monelli fare fracasso con schiamazzi, così al contrario è confacente a chi è ben educato pregare con riserbo e raccoglimento. Del resto, il Signore ci ha comandato e insegnato a pregare in segreto, in luoghi appartati e lontani, nelle stesse abitazioni. E’ infatti proprio della fede sapere che Dio è presente ovunque, che ascolta e vede tutti, e che con la pienezza della sua maestà penetra anche nei luoghi nascosti e segreti, come sta scritto: Io sono il Dio che sta vicino, e non il Dio che è lontano. Se l’uomo si sarà nascosto in luoghi segreti, forse per questo io non lo vedrò? Forse che io non riempio il cielo e la terra? (cfr. Ger 23, 23-24). Ed ancora: In ogni luogo gli occhi del Signore osservano attentamente i buoni e i cattivi (cfr. Pro 15, 3).
E allorché ci raduniamo con i fratelli e celebriamo con il sacerdote di Dio i divini misteri dobbiamo rammentarci del rispetto e della buona educazione: non sventolare da ogni parte le nostre preghiere con voci disordinate, né pronunziare con rumorosa loquacità una supplica che deve essere affidata a Dio in umile e devoto contegno. Dio non è uno che ascolta la voce, ma il cuore. Non è necessario gridare per richiamare l’attenzione di Dio, perché egli vede i nostri pensieri. Lo dimostra molto bene quando dice: «Perché mai pensate cose malvage nel vostro cuore?» (Mt 9, 4). E un altro luogo dice: «E tutte le chiese sapranno che io sono colui che scruta gli affetti e i pensieri» (Ap 2, 23).
Per questo nel primo libro dei Re, Anna, che conteneva in sé la figura della Chiesa, custodisce e conserva quelle cose che chiedeva a Dio, non domandandole a gran voce, ma sommessamente e con discrezione, anzi, nel segreto stesso del cuore. Parlava con preghiera nascosta, ma con fede manifesta. Parlava non con la voce ma con il cuore, poiché sapeva che così Dio ascolta. Ottenne efficacemente ciò che chiese, perché domandò con fiducia. Lo afferma chiaramente la divina Scrittura: Pregava in cuor suo e muoveva soltanto le sue labbra, ma la voce non si udiva, e l’ascoltò il Signore (cfr. 1 Sam 1, 13). Allo stesso modo leggiamo nei salmi: Parlate nei vostri cuori, e pentitevi sul vostro giaciglio (cfr. Sal 4, 5). Per mezzo dello stesso Geremia lo Spirito Santo consiglia e insegna dicendo: «Tu, o Signore, devi essere adorato nella coscienza» (cfr. Bar 6, 5).
Pertanto, fratelli dilettissimi, chi prega non ignori in quale modo il pubblicano abbia pregato assieme al fariseo nel tempio. Non teneva gli occhi alzati al cielo con impudenza, non sollevava smodatamente le mani, ma picchiandosi il petto condannando i peccati racchiusi nel suo intimo, implorava l’aiuto della divina misericordia. E mentre il fariseo si compiaceva di se stesso, fu piuttosto il pubblicano che meritò di essere giustificato, perché pregava nel modo giusto, perché non aveva riposto la speranza di salvezza nella fiducia della sua innocenza, dal momento che nessuno è innocente. Pregava dopo aver confessato umilmente i suoi peccati. E così colui che perdona agli umili ascoltò la sua preghiera. 

Omelia per il 12 giugno 2010

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/15448.html

Omelia (20-06-2009) 
a cura dei Carmelitani

1) Preghiera

O Dio, che hai preparato
una degna dimora dello Spirito Santo
nel cuore della beata Vergine Maria,
per sua intercessione concedi anche a noi, tuoi fedeli,
di essere tempio vivo della tua gloria.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…

2) Lettura

Dal Vangelo secondo Luca 2,41-51
I genitori di Gesù si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono di nuovo secondo l’usanza; ma trascorsi i giorni della festa, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero.
Credendolo nella carovana, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme.
Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte.
Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: “Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo”. Ed egli rispose: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. Ma essi non compresero le sue parole.
Partì dunque con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso. Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore.

3) Riflessione

• La dinamica del racconto. All’inizio c’è un richiamo alla «legge del Signore», a cui obbediscono Maria e Giuseppe compiendo il loro pellegrinaggio annuale alla città santa. Questo particolare indica al lettore che Gesù è cresciuto nella pietà giudaica e nell’osservanza della legge. Un angoscioso incidente – Gesù dodicenne si perde – offre l’occasione al narratore di presentarci una scena illuminante sul mistero della persona di Gesù. I suoi genitori dopo averlo cercato per tre giorno lo trovano nei cortili del tempio, in mezzo agli scribi, i maestri della legge: ascoltando i loro discorsi e ponendo delle domande. In questo contesto al lettore viene mostrato un primo segno della sapienza straordinaria di Gesù e che un giorno affascinerà le folle: «rimanevano stupiti per la sua intelligenza e le sue risposte» (v.47). Alle osservazione della madre Gesù risponde con espressioni che rivelano la sua coscienza di sé e la chiara visione che egli ha della missione che lo attende. L’evangelista poi riferisce del ritorno a Nazaret, luogo della crescita di Gesù (vv.39-40) e con quest’ultimo motivo (vv.51-52) Luca conclude il racconto che era iniziato con un atto di obbedienza di Gesù alla Legge e, ora, termina con un atto di sottomissione ai suoi genitori.
• Dio come il Padre suo (v.51). La prima idea che viene sottolineata in questa «fuga» di Gesù è che una famiglia senza Dio non ha fondamento. Innanzitutto Gesù dichiarando che Dio è il Padre suo evidenzia che il posto più connaturale alla sua relazione di Figlio lo porta a essere presso di Lui, nel Tempio, luogo per eccellenza della presenza di Dio.
Tale particolare ci spinge a fermare la nostra attenzione sul tempio e sulla centralità di tale luogo per la vita religiosa della comunità israelitica: in questo spazio sacro Gesù vi entra a dodici anni. La scelta del tempio come luogo per la manifestazione della sapienza sovrumana di Gesù è una caratteristica di Luca che altrove presenta il tempio come il luogo in cui ha inizio il vangelo (Lc 1,8-9) e il vegliardo Simeone riconosce nel bambino presentato dai genitori la salvezza attesa da Israele (2,29-32). Ma nel racconto del pellegrinaggio di Gesù dodicenne al tempio Luca intende affermare che da quel giorno si è passati dalla realtà del tempio, come dimora di Dio, alla sua presenza vivente nella persona di Gesù. È un appello alla comunità ebraica, centrata sul tempio a riconoscere che tutta la vita liturgica, cultuale dipende dal Padre e che il vero tempio consiste nell’obbedienza a Gesù. Questa prima parola di Gesù proietta una luce nuova sul mistero della sua identità di «figlio-servo» e fornisce al lettore una chiave di lettura per comprendere il resto del vangelo.
La risposta ai genitori che l’hanno cercato e l’hanno trovato il terzo giorno presenta il modo con cui Gesù agirà nei confronti degli uomini: il suo atteggiamento è incondizionatamente filiale. Gesù agirà con una sottomissione assoluta nei confronti del Padre. Tale aspetto introduce il lettore nel cuore stesso del mistero dell’identità di Gesù e che sfugge ad ogni tentativo di indagine esaustiva da parte dei suoi genitori: «ed essi non compresero» (v.50).
• La sapienza sovrumana di Gesù. Questa insistenza sulla sapienza di Gesù non passa inosservata all’attenzione del lettore. Già in 2,40 si diceva che Gesù «cresceva e si fortificava, pieno di sapienza», ora nel v.52 si dice che «Gesù cresceva in sapienza». Di che sapienza si tratta? Della sapienza del Figlio, il quale è stato concepito per opera dello Spirito Santo e che rivela il Padre suo. Gesù è la Parola del Padre suo. La sua predicazione non sarà una dottrina astratta, né un’attualizzazione della parola dei profeti, ma è la sapienza del Figlio che vive in intimità col Padre. Una conferma ci viene dall’ultima parola di Gesù sulla croce: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (23,46). E da risorto, prima di ascendere al Padre, promette ai suoi discepoli lo Spirito come «la promessa del Padre» (Lc 24,49). La sapienza di Gesù, il suo insegnamento, la sua parola si radicano nella sua intimità col Padre, nella sua fedeltà totale in Lui. Ogni comunità ecclesiale quando è riunita dal Padre porta in sé questo mistero della relazione sapienziale, intima di Cristo Gesù col Padre suo.

4) Per un confronto personale

• I genitori di Gesù non sempre riuscivano a capire il comportamento del loro figlio e il suo modo di esprimersi, tuttavia gli dettero fiducia. Anche tu sai offrire fiducia agli altri, ai tuoi figli, ai tuoi collaboratori?
• Consideri la tua famiglia una scuola di umanità, la più ricca e la più completa?

5) Preghiera finale

Dirigimi sul sentiero dei tuoi comandi,
perché in esso è la mia gioia.
Piega il mio cuore verso i tuoi insegnamenti
e non verso la sete del guadagno. (Sal 118)

Beata Elisabetta della Trinità: « Maria serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore » (Lc 2,19)

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100612

Cuore Immacolato della Beata vergine Maria, memoria : Lc 2,41-51
Meditazione del giorno
Beata Elisabetta della Trinità (1880-1906), carmelitana
Ultimo ritiro, 15° giorno

« Maria  serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore » (Lc 2,19)

        «La Vergine serbava tutte queste cose nel suo cuore». Tutta la sua storia si può riassumere in queste poche parole! Nel suo cuore, infatti, lei ha sempre vissuto, e in una tale profondità che lo sguardo umano non può seguirla. Quando leggo nel Vangelo che «Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda» (Lc 1,39) per compiere la sua opera di carità presso Elisabetta sua parente, la vedo passare bella, calma, maestosa, raccolta nel suo cuore con il Verbo di Dio. La sua preghiera fu sempre questa : «Eccomi…» Chi? «La serva del Signore» (Lc 1,38), la più piccola delle sue creature: sua Madre! Fu proprio vera nella sua umiltà, poiché fu sempre immemore, ignara, liberata da se stessa. Pertanto essa poteva cantare: «Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente; d’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata» (Lc 1,49.48).

        Questa Regina delle vergini è anche Regina dei martiri. Tuttavia fu ancora il suo cuore ad essere stato trafitto dalla spada (Lc 2,35), poiché per lei tutto succede nell’intimo… Oh! Quanto è bella da contemplare nel suo lungo martirio, così serena, avvolta in una sorta di maestà che respira insieme la fortezza e la dolcezza! Infatti aveva imparato dal Verbo stesso come devono soffrire coloro che il Padre ha scelto come vittime, coloro che egli ha voluto associare alla grande opera della redenzione, coloro che egli ha «conosciuti e predestinati ad essere conformi al suo Cristo», crocifisso per amore. Lei sta in piedi sotto la croce nella fortezza e nel coraggio.

Il sangue dei martiri: In pasto alle belve. Martiri per salvare il popolo.

dal sito:

http://www.peacelink.it/mosaico/a/18791.html

Il sangue dei martiri

In pasto alle belve. Martiri per salvare il popolo.

Rileggiamo il magistero della Chiesa cattolica.

Mons. Alvaro Ramazzini (Presidente della Conferenza episcopale del Guatemala)
Come tutti voi sapete, il termine martire, come testimone della fede, è nato in un ambito cristiano, indicando sin dalle origini i fedeli cristiani che davanti ai tribunali pagani testimoniavano la fede in contrapposizione a quelli che la abiuravano. Questi che abiuravano la fede sono chiamati nella lingua latina lapsi, cioè caduti. E c’è stata una grandissima controversia teologica, nei primi secoli del Cristianesimo, sul fatto se questi lapsi dovevano o no essere reinseriti di nuovo nella comunità cristiana. Quindi per tutti noi è molto chiaro che martire significa testimone.
Le conseguenze di tali testimonianze della fede cristiana rese pubblicamente erano le torture, le sofferenze fisiche, fino alla morte. Infatti il contesto storico nel quale si sviluppa l’esperienza del martirio è il contesto delle persecuzioni, perché era vietato diventare cristiano e la professione della fede cristiana era considerata un delitto. E bisogna qui ricordare l’editto di Nerone, il quale proibiva di professare pubblicamente la fede: tutti coloro, uomini e donne, che si confessavano cristiani pubblicamente, erano puniti con la morte. Quindi testimonianza pubblica della fede fino alla morte determinano alle origini il concetto di martire.

In pasto alle belve
Nel catechismo della Chiesa cattolica, al n. 2473, troviamo questa descrizione: “II martirio è la suprema testimonianza resa alla verità della fede. Il martire è un testimone che arriva fino alla morte. Egli rende testimonianza a Cristo, morto e risorto al quale è unito dalla carità. Rende testimonianza alla verità della fede e della dottrina cristiana, affronta la morte con un atto di fortezza”. Ed è interessante che in questi numeri del catechismo della Chiesa cattolica viene citata quella lettera molto famosa di Sant’Ignazio di Antiochia: “Lasciate che diventi pasto delle belve. Solo così mi sarà concesso di raggiungere Dio. A nulla mi gioverebbero tutto il mondo e tutti i regni di quaggiù. Per me è meglio morire per unirmi a Gesù Cristo che essere re fino ai confini della terra. Io cerco colui che morì per noi, io voglio colui che per noi risuscitò. Il parto è imminente”.
Poi il termine martire ha avuto dei cambiamenti di significato. Durante il primo periodo del Cristianesimo è successo che il termine martire è stato usato esclusivamente riferito a qualsiasi cristiano morto a causa della fede. Nella seconda era del Cristianesimo viene precisata una distinzione molto importante tra confessori della fede e martiri. I confessori della fede sono quelli che hanno sofferto a causa della testimonianza della loro fede, ma non hanno sofferto la morte. Martiri saranno tutti quanti hanno sofferto la morte. Alla fine del secolo IV si mantiene ancora questo significato. Con la fine delle persecuzioni la ricerca del martirio diminuisce ed è sostituita dalla ricerca della santità.Tuttavia la fine della persecuzioni non ha interrotto la serie dei martiri: il cosiddetto martirologio è pieno di figure di santi martiri di tutte le epoche.

Il magistero
In questo senso è importante andare a esaminare il magistero di Giovanni Paolo II sul martirio e sui martiri, anche perché non soltanto parla dei martiri del secolo XX, ma parla anche di persecuzioni religiose del nostro secolo. E il

Scaffali
Raccomandiamo soprattutto l’eccellente numero 1 del 2003 di “Concilium. Rivista internazionale di teologia”, edita dalla Queriniana di Brescia dedicato interamente a Ripensare il martirio.Contiene articoli di Sobrino, Tamez, Okure, Freyne, Gonzalez Faus, Mesters, Wilfred, Evers, Melloni (interessante il suo articolo Soffrire a causa della Chiesa), Casaldaliga (del quale abbiamo qui ripreso la “lettera aperta ai nostri martiri”).
Interessanti per i loro contenuti e ricchi di indicazioni bibliografiche sono i libri:
Mirella Susini, Il martirio cristiano esperienza di incontro con Cristo, Edb, Bologna 2003;
Id., I martiri di Tibhirine, Edb, Bologna, 2005;
Natalino Venturi (a cura di), Testimoni dello Spirito, santità e martirio nel secolo XX, Edizioni Paoline, Milano 2004. suo magistero in questo senso è abbondantissimo: basti pensare che ha beatificato e canonizzato in più di trenta cerimonie molti martiri del XX secolo. Certo, in questo momento possiamo domandarci: come mai l’arcivescovo Romero non è stato né beatificato né dichiarato santo? Mi piace molto la frase di dom Pedro Casaldaliga [vescovo emerito della prelatura di São Félix, in Brasile – N.d.R.] quando ha detto che il processo di canonizzazione dell’arcivescovo Romero dobbiamo farlo noi, nel senso di assimilare i suoi atteggiamenti e impegnarci per le sue cause. In un discorso che Giovanni Paolo II fece quando il 26 febbraio 1981 visitò a Nagasaki la Collina dei Martiri, disse: “Oggi voglio essere uno dei tanti pellegrini che vengono qui alla Collina dei Martiri in Nagasaki, nel luogo dove i cristiani, con il sacrificio della loro vita, sigillarono la loro fedeltà a Cristo. Essi hanno trionfato sulla morte con un atto insuperabile di lode al Signore”. Il Papa confermò queste parole con due citazioni del vangelo di Giovanni:“Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”. Poi sappiamo che il Vangelo dirà anche che un amore ancora più grande sarà dare la vita per quelli che mi considerano loro nemico. Quindi questo è l’amore più grande. L’arcivescovo Romero diceva che lui amava tutti, amici e nemici, e che pertanto era disposto a dare la propria vita perché amava.
“Ringrazio Dio – disse ancora il Papa a Nagasaki – per la vita di tutti coloro, ovunque essi siano, che soffrono per la loro fede in Dio, per la loro lealtà a Cristo Salvatore, per la loro fedeltà alla Chiesa. Ogni epoca passata, presente e futura produce per l’edificazione di tutti brillanti esempi della potenza che è in Gesù Cristo”. E qui c’è allora un altro elemento che credo sia importante dire: il martirio è sempre una vocazione, cioè una chiamata che Dio fa, non soltanto nel fatto di chiamare la persona, ma anche per darle la forza di non rinunciare e di non cadere nella tentazione della debolezza umana.
Il 25 agosto 1996 Giovanni Paolo II rilevò: “In duemila anni di storia ai cristiani è stata chiesta non poche volte la prova suprema del martirio. Restano vivi nella memoria soprattutto i martiri della prima era cristiana. Ma anche nei secoli successivi sono molti coloro che in diverse circostanze hanno versato il sangue per Cristo, tanto in oriente, quanto in occidente. La divisione che purtroppo è intervenuta tra le Chiese non rende meno prezioso il loro sacrificio. Ai martiri si rivolge con particolare intensità la venerazione del popolo di Dio che in essi vede rappresentata dal vivo la passione di Cristo. Il sangue dei martiri, diceva Tertulliano, è seme di nuovi cristiani. Esso è anche linfa di unità per la Chiesa, mistico corpo del Cristo. Se al termine del secondo millennio essa è diventata nuovamente Chiesa di martiri, possiamo sperare che la loro testimonianza, raccolta con cura nei nuovi martirologi, e soprattutto la loro intercessione affrettino il tempo della piena comunione tra i cristiani di tutte le confessioni e in special modo tra le venerate Chiese Ortodosse e la Sede Apostolica”.

Dare la vita per il popolo
Il senso profondo del martirio è dare la vita per cercare di conformarci al Signore Gesù che ha fatto questo, che ha dato la vita per ciascuno di noi, nemici e amici, senza nessuna differenza. Il caso dell’arcivescovo Romero è chiarissimo: era disposto a dare la sua vita per il suo popolo. Una volta alcuni sacerdoti del Salvador, che l’hanno conosciuto bene, mi hanno riferito che spesso, dopo l’omelia che teneva sempre la domenica, lui diceva: “Che cosa ho detto oggi che vi ha fatto spaventare?”. “Ah, monsignore, ha detto questo e questo”. E lui rispondeva: “Ma io non pensavo di dirlo. Credo che sia stato lo Spirito Santo che mi ha spinto a dire queste cose”. Poi aggiungeva: “Adesso ho paura di quello che ho detto, ma quando l’ho detto non ho avuto paura”. Credo che il martirio sia un segno dei valori trascendenti, di un’azione di Dio che va al di là delle capacità umane e che va anche al di là delle strategie umane. E per questo forse alle volte il martirio diventa confuso, non per il fatto stesso del martirio, ma per le circostanze. E ritengo che questo accade nel caso dell’arcivescovo Romero. Forse dovremmo chiedere, come è scritto nel libro dell’Apocalisse (cfr. 3,18), un po’ di collirio per poter vedere con molta chiarezza. E certamente di questo collirio abbiamo bisogno tutti, perché così potremmo vedere le cose come sono in realtà davanti a Dio. Chiediamo al Signore la grazia che ciascuno, nel suo proprio ambiente, sappia vivere questa conformazione al Signore Gesù Cristo. E poi il resto sia quello che Lui vuole.

Magistero di papa Giovanni Paolo II sui martiri del XX secolo

dal sito:

http://www.gris-imola.it/martiri_del_XX_secolo.php

Giovanni Paolo II e i martiri del XX secolo

Magistero di papa Giovanni Paolo II sui martiri del XX secolo (Vincente Carcel Ortì)

Va detto innanzi tutto che il magistero del santo Padre sul martirio, sui martiri e sulle persecuzioni religiose del nostro secolo è abbondantissimo e difficilmente sintetizzabile in un breve articolo. Basti pensare che Giovanni Paolo II ha celebrato finora una trentina di cerimonie di beatificazione e canonizzazione riguardanti soltanto i martiri del XX secolo. In tali occasioni, Egli rivolge la sua parola almeno i tre diversi momenti: nell’omelia della celebrazione eucaristica, prima della recita della preghiera mariana dell’Angelus e quando riceve in udienza i pellegrini convenuti a Roma per ogni beatificazione.
Bisogna poi aggiungere i numerosi interventi del Santo Padre in occasione dell’uccisione di vescovi, sacerdoti, religiosi o laici, che hanno dato la loro vita come testimonianza per la fede in diversi paesi, soprattutto in territori di missione: lettere, telegrammi, omelie, parole nelle udienze generali oppure all’Angelus.Cerchiamo perciò di riassumere il magistero del Santo Padre su questo argomento soffermandoci soltanto su alcuni punti essenziali.

La memoria dei martiri nella Tertio Millennio Adveniente
«Nel nostro secolo sono ritornati i martiri, spesso sconosciuti, quasi militi ignoti della grande causa di Dio». Queste parole del Santo Padre, nella lettera apostolicaTertio Millennio Adveniente (TMA n.37), introducono il nostro commento sul Magistero di Giovanni Paolo II relativo ai martiri del XX secolo. Essi sono uomini e donne che, secondo le parole del Santo Padre, « hanno seguito Cristo nelle varie forme della vocazione religiosa » (ibid.).
La storia ci aiuta a scoprire la crudeltà delle persecuzioni del nostro secolo, ed, in particolare, quella nazista e l’altra comunista – nei riguardi dei credenti vescovi, sacerdoti, religiosi e laici – che operò una grande semina di martiri in numerose nazioni della vecchia Europa ed in altri continenti. Il Papa rilegge tutta la storia della Chiesa alla luce del detto di Tertulliano (Apol, So 13 – CCL I,171 – ): Sanguis martyrum, semen christianorum, affermando: «La Chiesa del primo millennio nacque dal sangue dei martiri» (TMA, n.37).
Quindi non le cosiddette « concessioni » dell’imperatore Costantino garantirono lo sviluppo successivo della Chiesa, ma furono la « la seminagione dei martiri » e « il patrimonio di santità » a caratterizzare le prime generazioni cristiane. Oggi «la Chiesa è divenuta nuovamente Chiesa dei martiri »; e la stessa Chiesa sia a livello universale che locale ha il compito di non dimenticare questi testimoni noti o militi ignoti della grande causa di Dio». Uno strumento idoneo per non dimenticare la memoria dei martiri è quella di raccogliere la necessaria documentazione sulla loro testimonianza eroica e quindi di aggiornare sempre i martirologi. Ciò potrà avere anche respiro ed eloquenza ecumenica in quanto – come scrive Giovanni Paolo II «l’ecumenismo dei santi, dei martiri, è forse il più convincente. La comunio santorum parla con voce più alta dei fattori di divisione» (ivi). Concetti simili sono stati ripetuti dal Santo Padre nel Concistoro straordinario del giugno 1994 e durante la recita dell’Angelus del 26 dicembre dello stesso anno, festa di Santo Stefano protomartire.

Le vittime del nazismo
Nel messaggio, in occasione del 50° Anniversario della fine in Europa della Seconda Guerra Mondiale (8 maggio 1995), il Santo Padre ha ripetuto la frase «Mai più la guerra! Sì alla pace!», affermando che questi erano i sentimenti comunemente manifestati all’indomani di quello storico 8 maggio 1945. Secondo il Papa, i sei terribili anni del conflitto sono stati per tutti una occasione di maturazione alla scuola del dolore: anche i cristiani hanno avuto modo di riavvicinarsi tra di loro e di interrogarsi sulle responsabilità delle loro divisioni. Sotto la croce di Cristo, membri di tutte le Chiesa e Comunità cristiane hanno saputo resistere fino al sacrificio supremo. Molti di essi hanno sfidato esemplarmente, con le armi pacifiche della testimonianza pacifica e dell’amore, i torturatori e gli oppressori. Insieme ad altri, credenti e non credenti, uomini e donne di ogni razza, religione e nazione, hanno lanciato ben alto, al di sopra della marea montante della violenza, un messaggio di fratellanza e di perdono.
«In questo anniversario – scrive Giovanni Paolo II in detto messaggio- , come non fare memoria di tali cristiani che, rendendo testimonianza contro il male, hanno pregato per gli oppressori che si sono curvati a curare le piaghe di tutti?»
I martiri del nazismo offrono a tutti noi, in un periodo che vorrebbe relegare il cristianesimo alle scelte personali e relativizzare tutti gli obblighi, la testimonianza di una lealtà alla verità di Cristo che non accetta compromessi, laddove essa sempre risplende. In tal modo essi possono essere nostri intercessori celesti in quanto Patroni del coraggio nell’annuncio e della santità del matrimonio e del servizio sacerdotale.

Nuove forme di persecuzione religiosa nel nostro secolo
In occasione del suo viaggio apostolico a Lourdes il 14 agosto 1983, al termine della fiaccolata serale, il Santo Padre pronunciò un discorso nel quale sottolineò lo speciale amore della Chiesa per tutti i sofferenti, e in particolare per le vittime delle ingiustizie, delle guerre, del terrorismo, dei rapimenti, delle torture e di tutte le miserie umane. È un discorso fondamentale per capire l’atteggiamento della Chiesa di fronte alle nuove forme di persecuzione religiosa sviluppatesi nel nostro secolo ed ancora ai nostri giorni, in numerosi paesi.
«La Chiesa – disse il Papa in tale discorso – è nata dalla croce di Cristo ed è cresciuta in mezzo alle persecuzioni. Fu così agli inizi nell’antichità romana. Fu lo stesso anche più tardi. Nel corso dei secoli, in luoghi diversi, sono scoppiate persecuzioni contro la Chiesa, e coloro che credevano al Cristo donarono la loro vita per la fede e subirono le peggiori torture. Il martirologio della Chiesa è stato scritto secolo dopo secolo». Il Papa aggiunse: «Oggi vorrei abbracciare con il pensiero e con il cuore della Chiesa tutti coloro che subiscono persecuzioni nella nostra epoca. Le persecuzioni a causa della fede sono talvolta simili a quelle che il martirologio della Chiesa ha già scritto nei secoli passati. Esse prendono diverse forme di discriminazione dei credenti, e di tutta la comunità della Chiesa. Queste forme di discriminazione sono talvolta applicate nel momento stesso in cui viene riconosciuto il diritto alla libertà religiosa, alla libertà di coscienza, e questo sia nella legislazione dei diversi Stati che nei documenti di carattere internazionale. Vogliamo precisare? Nelle persecuzioni dei primi secoli, le abituali condanne erano la morte, la deportazione e l’esilio».

I martiri del comunismo
Oggi alla prigione, ai campi di internamento e di lavori forzati, all’espulsione dalla propria patria, si sono aggiunte altre pene meno dure ma più sottili: non più la morte cruenta ma una sorte di mortecivile; non solo la segregazione in un carcere o in un campo, ma la restrizione permanente della libertà personale o la discriminazione sociale.
Ci sono oggi centinaia e centinaia di migliaia di testimoni di fede, molto spesso ignorati o dimenticati dall’opinione pubblica la cui attenzione è assorbita da fatti diversi. Essi sono spesso conosciuti solo da Dio. Sopportano privazioni quotidiane, nelle regioni più diverse di ogni continente. Si tratta di credenti costretti a riunirsi clandestinamente poichè le loro comunità religiose non sono autorizzate. Si tratta di Vescovi, di sacerdoti, di religiosi ai quali è vietato esercitare il santo ministero in chiesa o in pubbliche riunioni. Si tratta di religiose disperse, che non possono condurre la loro vita consacrata. Si tratta di giovani generosi impediti ad entrare in un seminario o in un luogo di formazione religiosa ove realizzare la propria vocazione. Si tratta di ragazze alle quali non è data la possibilità di consacrarsi in una vita comune votata alla preghiera e alla carità verso i fratelli. Si tratta di genitori che si vedono rifiutare la possibilità di assicurare ai propri figli un educazione ispirata dalla propria fede. Si tratta di uomini e donne, lavoratori manuali, intellettuali o persone che esercitano altre professioni, che per il semplice fatto di professare la propria fede affrontano il rischio di vedersi privati di un avvenire interessante per la loro carriera e i loro studi.
Queste testimonianze si aggiungono alle situazioni gravi e dolorose dei prigionieri, degli internati, degli esiliati, non soltanto presso i fedeli cattolici, e gli altri cristiani ma anche presso altri credenti (cf enciclica Redemptor Hominis n.17). Essi costituiscono come una lode che ascende continuamente a Dio dal santuario delle loro coscienze, come una offerta spirituale certamente gradita a Dio. Nel discorso di Lourdes, il Santo Padre ha parlato anche di »altre difficoltà per vivere la fede ».
«Esse – sono le parole di Giovanni Paolo II – non provengono soltanto da restrizioni esterne di libertà, da costrizioni umane, dalle leggi o dai regimi. Esse possono derivare parimenti da abitudini e da correnti di pensiero contrarie alla tradizione evangelica e che esercitano una forte pressione su tutti i membri della società. O ancora si tratta di un clima di materialismo o di indefferentismo religioso che soffoca le aspirazioni spirituali, o di una concezione fallace o individualistica della libertà che confonde la possibilità di scegliere qualsiasi cosa assecondi le passioni con la preoccupazione di realizzare al meglio la propria vocazione umana, il proprio destino spirituale e il bene comune. Non è questa la libertà che fonda la dignità umana e favorisce la fede cristiana (cf Redemptor Hominis n.12). Ai credenti che sono immersi in tali ambienti è necessario un grande coraggio per restare limpidi e fedeli, per fare buon uso della loro libertà. Anche per loro è necessario pregare. Temete, dice Gesù coloro che hanno potere di uccidere l’anima (cf Mt 10,28). In tutte le epoche della sua storia, la Chiesa ha circondato di un attenzione e di un ricordo particolari, di un amore speciale coloro che soffrono in « nome di Cristo ». V’è qui da parte della Chiesa un ricordo imperituro e una costante sollecitudine ».

I martiri parlano il linguaggio della Croce
Il Papa ha affermato che i martiri ci parlano con il linguaggio della Croce, poichè ci riportano indietro ai tempi nei quali i cristiani venivano perseguitati. Il loro è stato un sacrificio eroico; un eredità in cui « la morte e la vita si affrontano in un prodigioso duello » (sequenza pasquale). Anche se la morte sembra aver trionfato , essi, secondo il divino disegno salvifico di liberazione, hanno sofferto a causa della propria fede, hanno partecipato in maniera eccezionale alla Croce di Cristo. La Croce porta con il suo intervento di morte il corpo di Cristo, fino a quando « tutto è compiuto ». Questo mistero continua nella storia del mondo. Allo stesso modo continua la splendida liberazione che sempre sarà legata alla Croce del calvario. Attraverso questa Croce Dio non morirà mai nella storia dell’uomo!

I martiri linfa di unità per la Chiesa
Nel discorso pronunciato a Castelgandolfo, prima della preghiera mariana dell’Angelus, il 25 agosto 1996, Giovanni Paolo II ha detto:
«In duemila anni di storia, ai cristiani è stata chiesta non poche volte la prova suprema del martirio. Restano vivi nella memoria soprattutto i martiri della prima era cristiana. Ma anche nei secoli successivi sono molti coloro che, in diverse circostanze, hanno versato il sangue per Cristo, tanto in Oriente quanto in Occidente. La divisione, che purtroppo è intervenuta tra le Chiese, non rende meno prezioso il loro sacrificio! Ai martiri si rivolge con particolare intensità la venerazione del popolo di Dio, che in essi vede rappresentata dal vivo la passione di Cristo.
E che dire della grande esperienza di martirio, in cui ortodossi e cattolici dei paesi dell’Est europeo sono stati accomunati in questo nostro secolo? Perseguitati da un implacabile potere ateistico, tanti coraggiosi testimoni del vangelo hanno « completato » nella loro carne la passione di Cristo (cf Col 1,24). Veri martiri del ventesimo secolo, essi sono una luce per la Chiesa e l’umanità: « I cristiani d’Europa e del mondo, chini in preghiera sul limitare dei campi di concentramento e delle prigioni, devono essere riconoscenti per quella loro luce: era la luce di Cristo, che essi hanno fatto risplendere nelle tenebre » (Lettera apostolica per il quarto centenario dell’unione di Brest, 12 novembre 1995, N.4).
Il sangue dei martiri, diceva Tertulliano, è seme di nuovi cristiani. Esso è anche linfa di unità per la Chiesa, mistico corpo del Cristo. Se al termine del secondo millennio, essa « è diventata nuovamente Chiesa di martiri » (TMA, N.37), possiamo sperare che la loro testimonianza, raccolta con cura nei nuovi martirologi e soprattutto la loro intercessione, affrettino il tempo della piena comunione tra i cristiani di tutte le confessioni e in special modo tra le venerate Chiese Ortodosse e la Sede Apostolica».

Padovese è tornato a casa, in un cargo merci, come un agnello sgozzato;

Padovese è tornato a casa, in un cargo merci, come un agnello sgozzato; (notizia del giornale: La stampa)

ben in altro modo venivano trattati i martiri nella Chiesa primitiva, sì, scrivo martire perché lui ha amato  quelle terre, quei popoli, come un fratello, come un Padre ha trattato i suoi persecutori ed assassini;
come sarebbe bello avere, anche ora, in questo tempo degli « Atti dei Martiri » e trovarvi scritta la storia di coloro che sono stati uccisi in questo tempo, assassinati, forse neppure per un idea religiosa, ma, purtroppo, semplicemente per odio, odio per chi fa il bene, odio per chi è mite, odio per chi è saggio, odio per i cristiani e per Cristo; in questi « Atti dei Martiri » ritrovare il racconto tragico, orribile, ma anche vittorioso in Cristo della morte di Mons. Padovese; ci sarà qualcuno che avrà coraggio di scrivere per la Chiesa, per i cristiani, gli Atti del martirio di Padovese, insieme quello di tanti altri?
è finito proprio in questi giorni, oggi, l’anno sacerdotale, sarebbe stato bello proporre come modello di virtù eroiche, tra gli altri,  Mons. Luigi Padovese;
sarebbe stato bello se tra gli scandali di preti che non hanno vissuto il loro ministero con purezza, proporre quello di chi, innocente, mite,  saggio, è morto per Cristo, per una volta si poteva – e doveva – non dubitare;
la Chiesa è anche questa, oggi,  quella santa di Mons. Padovese,

Gabriella

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