Archive pour mai, 2010

Omelia per il 26 maggio 2010

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/12779.html

Omelia (28-05-2008) 
a cura dei Carmelitani

Commento Marco 10,32b-45

1) Preghiera

Concedi, Signore,
che il corso degli eventi nel mondo
si svolga secondo la tua volontà nella giustizia e nella pace,
e la tua Chiesa si dedichi con serena fiducia al tuo servizio.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…

2) Lettura del Vangelo

Dal Vangelo secondo Marco 10,32-45
In quel tempo, Gesù, prendendo in disparte i Dodici, cominciò a dir loro quello che gli sarebbe accaduto: « Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi: lo condanneranno a morte, lo consegneranno ai pagani, lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno; ma dopo tre giorni risusciterà ».
E gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: « Maestro, noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo ». Egli disse loro: « Cosa volete che io faccia per voi? » Gli risposero: « Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra ». Gesù disse loro: « Voi non sapete ciò che domandate. Potere bere il calice che io bevo, o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato? » Gli risposero: « Lo possiamo ». E Gesù disse: « Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e il battesimo che io ricevo anche voi lo riceverete. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato ».
All’udire questo, gli altri dieci si sdegnarono con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù, chiamatili a sé, disse loro: « Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti ».

3) Riflessione

• Il vangelo di oggi narra il terzo annuncio della passione e, di nuovo, come nelle volte precedenti, ci mostra l’incoerenza dei discepoli (cf. Mc 8,31-33 e Mc 9,30-37). Gesù insiste nel servizio e nel dono della propria vita, e loro continuano a discutere sui primi posti nel Regno, uno a destra e l’altro a sinistra del trono. Tutto indica, quindi, che i discepoli continuano ad essere ciechi. Segno che l’ideologia dominante dell’epoca era penetrata profondamente nella loro mentalità. Malgrado il fatto di aver vissuto diversi anni con Gesù, loro non avevano cambiato il loro modo di vedere le cose. Guardavano Gesù con lo sguardo di prima. Volevano essere retribuiti per il fatto di seguire Gesù.
• Marco 10,32-34: Il terzo annuncio della passione. Erano in cammino verso Gerusalemme. Gesù li precedeva. Aveva fretta. Sapeva che l’avrebbero ucciso. Il profeta Isaia l’aveva annunciato (Is 50,4-6; 53,1-10). La sua morte non era il frutto di un destino cieco o di un piano prestabilito, ma la conseguenza dell’impegno assunto con la missione che ricevette dal Padre insieme agli esclusi del suo tempo. Per questo Gesù avverte i discepoli sulla tortura e la morte che affronterà a Gerusalemme. Il discepolo deve seguire il maestro, anche se se si tratta di soffrire con lui. I discepoli erano spaventati, e coloro che stavano dietro avevano paura. Non capivano cosa stava succedendo. La sofferenza non andava d’accordo con l’idea che avevano del messia.
• Marco 10,35-37: La richiesta del primo posto. I discepoli non solo non capiscono, ma continuano con le loro ambizioni personali. Giacomo e Giovanni chiedono un posto nella gloria del Regno, uno alla destra e l’altro alla sinistra di Gesù. Vogliono passare davanti a Pietro! Non capiscono la proposta di Gesù. Sono preoccupati solo dei propri interessi. Ciò rispecchia le tensioni ed il poco intendimento esistenti nelle comunità, al tempo di Marco, e che esistono fino ad oggi nelle nostre comunità. Nel vangelo di Matteo è la madre di Giacomo e di Giovanni che rivolge questa richiesta per i figli (Mt 20,20). Probabilmente, dinanzi alla situazione difficile di povertà e mancanza di lavoro crescente di quell’epoca, la madre intercede per i figli e cerca di garantire un impiego per loro nella venuta del Regno di cui Gesù parlava tanto.
• Marco 10,38-40: La risposta di Gesù. Gesù reagisce con fermezza: « Voi non sapete ciò che state chiedendo! » E chiede se sono capaci di bere il calice che lui, Gesù, berrà e se sono disposti a ricevere il battesimo che lui riceverà. E’ il calice della sofferenza, il battesimo di sangue! Gesù vuole sapere se loro, invece di un posto d’onore, accettano di dare la vita fino alla morte. I due rispondono: « Lo possiamo! » Sembra una risposta non pensata, perché, pochi giorni dopo, abbandoneranno Gesù e lo lasceranno solo nell’ora della sofferenza (Mc 14,50). Loro non hanno molta coscienza critica, né percepiscono la loro realtà personale. Quanto al posto di onore nel Regno accanto a Gesù, quello lo concede il Padre. Ciò che lui, Gesù, può offrire, è il calice e il battesimo, la sofferenza e la croce.
• Marco 10,41-44: Tra di voi, non sia così. Alla fine della sua istruzione sulla Croce, Gesù parla di nuovo, sull’esercizio del potere (Mc 9,33-35). In quel tempo, coloro che ostentavano il potere nell’Impero Romano non si occupavano della gente. Agivano secondo i propri interessi (Mc 6,17-29). L’Impero Romano controllava il mondo e lo manteneva sottomesso con la forza delle armi e, così, attraverso i tributi, le tasse e le imposte, riusciva a concentrare la ricchezza della gente nelle mani di pochi a Roma. La società era caratterizzata dall’esercizio repressivo ed abusivo del potere. Gesù ha un’altra proposta. Dice: « Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti ». Insegna contro i privilegi e contro la rivalità. Rovescia il sistema ed insiste nel servizio, quale rimedio contro l’ambizione personale. La comunità deve presentare un’alternativa per la convivenza umana.
• Marco 10,45: Il riassunto della vita di Gesù. Gesù definisce la sua missione e la sua vita: « Il Figlio dell’Uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e per dare la propria vita in riscatto di molti ». Gesù è il Messia Servo, annunciato dal profeta Isaia (cf. Is 42,1-9; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-53,12). Imparò da sua madre che disse all’angelo: « Ecco l’ancella del Signore! » (Lc 1,38). Proposta totalmente nuova per la società di quel tempo. In questa frase in cui lui definisce la sua vita, appaiono i tre titoli più antichi, usati dai primi cristiani per esprimere e comunicare agli altri ciò che significava per loro: Figlio dell’Uomo, Servo di Yavé, colui che riscatta gli esclusi (colui che libera, che salva). Umanizzare la vita, servire i fratelli e le sorelle, accogliere gli esclusi.

4) Per un confronto personale

• Giacomo e Giovanni chiedono il primo posto nel Regno. Oggi molte persone pregano per chiedere denaro, promozioni, guarigioni, successo. Cosa cerco io nella mia relazione con Dio e cosa chiedo a Dio nella preghiera?
• Umanizzare la vita, servire i fratelli e le sorelle. Accogliere gli esclusi. E’ il programma di Gesù, è il nostro programma. Come le metto in pratica?

5) Preghiera finale

Il Signore ha manifestato la sua salvezza,
agli occhi dei popoli ha rivelato la sua giustizia.
Egli si è ricordato del suo amore,
della sua fedeltà alla casa di Israele. (Sal 97)

Sant Alfonso-Maria de Liguori : « Dare la propria vita in riscatto per molti »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100526

Mercoledì dell’VIII settimana delle ferie del Tempo Ordinario : Mc 10,32-45
Meditazione del giorno
Sant Alfonso-Maria de Liguori (1696-1787), vescovo e dottore della Chiesa
Opere, t.14

« Dare la propria vita in riscatto per molti »

        Un Dio che serve, che spazza la casa, che si dedica a lavori penosi – quanto uno solo di questi pensieri dovrebbe colmarci di amore! Quando il Salvatore ha cominciato a predicare il suo Vangelo, si è fatto «il servo di tutti», dichiarando lui stesso che «non era venuto per essere servito, ma per servire». È come se avesse detto che voleva essere il servitore di tutti gli uomini. E, al termine della sua vita, non si è contentato, dice san Bernardo, «di aver preso la condizione di servo per mettersi al servizio degli uomini; ha voluto prendere la forma del servo indegno, per lasciarsi colpire, e subire la pena che era dovuta a noi, a causa dei nostri peccati».

        Ecco che il Signore, obbediente servo di tutti, si sottomette alla sentenza di Pilato, per quanto ingiusta sia, e si consegna ai suoi carnefici… Così, Dio ci ha tanto amato, da voler obbedire come schiavo, per amore nostro, fino a morire e a morire di una morte dolorosa e infame, il supplizio della croce (Fil 2,8).

        Ora, in tutto questo, obbediva non in quanto Dio, ma in quanto uomo, che aveva assunto la condizione di schiavo. Un certo santo si è consegnato come schiavo per riscattare un povero, e si è attirato l’ammirazione del mondo per questo atto eroico di carità. Ma cos’è questa carità in confronto a quella del Redentore? Essendo Dio e volendo riscattarci dalla schiavitù del diavolo e della morte che avevamo meritata, si fa lui stesso schiavo, si lascia legare e inchiodare sulla croce. «Perché il servo diventasse maestro, dice san Agostino, Dio ha voluto farsi servo».

San Filippo Neri: memoria il 26 maggio…

San Filippo Neri: memoria il 26 maggio... dans immagini sacre

storia del santo sul mio blog:

« In cammino verso Gesù Cristo »

http://www.santiebeati.it/

Publié dans:immagini sacre |on 25 mai, 2010 |Pas de commentaires »

A domanda, risposta. L’Ebraismo è il popolo del libro?

dal sito:

http://www.eclettico.org/israele/ebraismo/libro.htm

A domanda, risposta. L’Ebraismo è il popolo del libro?

Parla il rabbino Bendetto Carucci Viterbi

Possiamo veramente dire che il popolo ebraico è il ‘popolo del Libro’?.
Secondo Rav Benedetto Carucci il Libro per eccellenza della tradizione ebraica è la Torah che è in senso stretto il Pentateuco; in senso più ampio la Torah è la dottrina, l’insegnamento, tutto ciò che è il contenuto della tradizione ebraica, orale e scritta. Un secondo livello di « libro » nella tradizione ebraica è la Bibbia, che secondo il Canone stabilito dai Maestri, che non corrisponde a quello cristiano, è composta da 24 libri.
Nella tradizione ebraica si privilegia la componente letta, ovvero verbale, orale, rispetto a quella scritta. Una prima evidente dimostrazione di questo è il fatto che della Torah si fa una lettura pubblica che risale a tempi immemorabili e che conclude tutte le pericopi della Torah, del Pentateuco, nel corso dei Sabati di un anno. Secondo Rav Carucci, la semplice affermazione che l’ebraismo è il « popolo del Libro » intendendo la Torah, il Pentateuco, è falsa perché l’ebraismo è il « popolo della oralità » ancor prima che della tradizione scritta, se non ci fosse la tradizione orale che accompagna la Bibbia, l’ebraismo sarebbe altra cosa (come nel caso del famoso « occhio per occhio, dente per dente » che, attraverso la tradizione orale, è « occhio per risarcimento di occhio, dente per risarcimento di dente »). Secondo la tradizione ebraica, D-o nel rivelarsi e nel consegnare il contenuto della rivelazione a Moshè, gli ha dato due fonti di pari legittimità, una scritta, il Pentateuco, ed una orale, la Torah orale e non è pensabile affermare che la Torah orale sia seconda di importanza o successiva rispetto a quella scritta; è contemporanea e di pari dignità.
L’ebraico alla sua origine è una lingua puramente consonantica, la vocalizzazione è una operazione successiva (la tradizione masoretica ha stabilito le vocali riprendendo la tradizione di lettura che deriva loro dalla tradizione orale). Una lingua solamente consonantica è una lingua molto interpretabile, perché si possono vocalizzare in maniere diverse le stesse consonanti e quindi si possono dare messaggi diversi.
Il grande paradosso della tradizione ebraica è che il testo scritto, per essere leggibile, deve far ricorso alla tradizione orale. Ad un certo momento della storia ebraica la tradizione orale è stata scritta, ma anche in questa fase, si mantiene tutta la caratteristica orale: si deve studiare in due, quindi si deve studiare dialogicamente, sentendo non solamente vedendo. Addirittura i mistici affermano che se non ci fosse un livello profondo di lettura e di interpretazione, la Bibbia è un libro che non vale neanche tanto.
Secondo una tradizione midrashica, la Torah è il Libro con cui D-o ha creato il mondo, il progetto del mondo è la Torah; i mistici arrivano a dire che c’è una sorta di identità tra la Torah e D-o. E allora forse si capisce per quale ragione c’è un’attenzione morbosa nella tradizione ebraica, alla scrittura del Sefer Torah. D-o non si cerca nel deserto o nella natura, D-o si cerca nel Libro. Noi non sappiamo se riusciamo ad arrivare a contatto con D-o, ma l’unica strada possibile, ci insegnano e ci teorizzano i Maestri, è quella di passare attraverso la Torah. Lo studio, per l’ebreo, non è un’opzione, ma un obbligo. Un insegnamento talmudico ci dice che qualunque cosa dirà anche l’ultimo studente un po’ intelligente di una scuola dove si studia la Torah, è già stato detto da D-o a Moshè: dentro la vecchiaia c’è la novità, dentro l’eternità c’è il divenire. Il senso della vita non è altro che tentare trovare qual è la strada propria per leggere quel testo.
Il valore numerico della parola « libro » è lo stesso valore della parola « nome »; i Maestri ci indicano che se c’è un’identità di valore numerico ci deve essere un’identità di senso, significato. Se leggiamo il Libro, andiamo verso di noi, il nostro nome, e verso il Nome per eccellenza.
E’ un gioco di specchi che vale tutta la vita in cui, conclude Rav Carucci, noi leggiamo qualche cosa che presuppone una tradizione orale, leggiamo qualcosa con cui è stato creato il mondo e con cui è mantenuto il mondo.
L’occupazione principale della vita dell’ebreo dovrebbe essere studiare la Torah perché così facendo si potrà trovare tutto. Solamente in quest’accezione, metafisica ed assoluta, si può accettare la locuzione che l’ebraismo è il ‘popolo del Libro’.

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IL SILENZIO DI DIO

dal sito:

http://www.orarel.com/pensieri/coccolini/silenzio_dio.htm

IL SILENZIO DI DIO

di Giacomo Coccolini

«Il silenzio, più della parola, rimane
la sostanza e il segno di ciò che fu il
loro universo e, come la parola,
il silenzio s’impone e chiede di essere
trasmesso».

Wiesel, Al sorgere delle stelle  

Da più parti, nel mondo laico come in quello credente, sembra essere sempre più avvertita l’esigenza di ascoltare parole non consunte dal tempo o dalle mode – una sorta di viatico capace in quest’ora di confusione di confortare le coscienze e mostra­re vie alternative a questo disagio che sta squassando ogni cosa. [1] Finita l’epoca delle sintesi falsamente risolutive, in cui le contraddizioni potevano essere consegnate ad un futuro che le avrebbe finalmente redente, l’uomo è rinvia­to al suo cuore – il cen­tro di ogni battaglia – là dove «ognuno con­duce da solo e in prima persona la sua lotta, e con la sua vittoria il mondo cambia» [Jünger]. Questo è il momento in cui bisogna fermarsi a pensare, per cercare di capire la situazione in cui ci muoviamo, dove i sentimenti del mostruoso e del terribile si confondono con l’ango­scia di chi sembra non aver più nulla da sperare.

Ma esiste ancora qualcosa in cui il cuore dell’uomo può restare saldo e, lì, consi­stere? E’ possibile per l’uomo ascoltare ancora una parola di salvezza? L’uomo è an­cora capace di tanto? Oppure è Dio che tace, Lui, «la sottile voce di silenzio», co­me ha af­fermato il rab­bino Benedetteo Ca­rucci Viterbi riprendendo un significa­tivo midrash [2] sul libro dell’Esodo (cap. 15, 11) – che di fronte ad Auschwitz è sem­brato rin­tanarsi in un mutismo più assordante di tutti i silenzi?

La teologia e la filosofia, così come molta della letteratura contemporanea, si so­no soffermati – quasi piegati davanti a quell’ir­redimibile Golgota che è Auschwitz [3] – a riflettere sullo scandalo pro­veniente dal silenzio di Dio e da quello che, con sguardo tragicamente premonitore, Martin Buber ebbe a chiamare l’eclissi di Dio: «L’ora in cui viviamo è caratterizzata dall’oscuramento della luce celeste, dall’eclissi di Dio» [4] .

Tale senti­mento, anche in riferimento ad avveni­menti della sto­ria passata e recente del po­polo ebraico, è stato elevato a condizione normale di un’epoca sprofondata in un’immane crisi di valori che ha cominciato a speri­men­tare su di sè il nichilismo più estremo. Nietzsche, Do­stoe­vskij, Heidegger, Kafka, Celan, Wiesel, insieme a moltissimi altri sismografi dello spirito, si so­no fatti te­sti­moni eloquenti di una condizione di povertà e «spaesamento metafi­sico» che, nell’investire la civiltà dalle fondamenta, ha com­portato, come ef­fetto-boomerang, una sorta di nostalgia del di­vino. [5] Allo stesso tempo, però, ha cominciato ad essere posta la domanda, trasformatasi poi in grido e invocazione [H.M.Woschitz], se questo silenzio di Dio non sia in verità il suo modo particolarissimo di comunicare con l’uomo e se, dal punto di vi­sta biblico, almeno per ciò che riguarda l’Antico Te­stamento, il rapporto tra ‘si­len­zio di Dio’ e ‘parola di Dio’ sia più dialettico di quanto non sembri a prima vi­sta e, quindi, più misterioso, di modo che credente e non credente vengono messi ra­di­calmente in que­stione non solo dalla parola di Dio ma soprattutto dal silenzio di Dio [6] .

E’ stato André Neher ne L’esilio della parola [7] ad affermare che «il silenzio costi­tuisce il paesaggio della Bibbia» dove il Signore non può essere conosciuto faccia a faccia ma solo da die­tro, a terga: «Io farò passare davanti a te tutta la mia bontà [...] ma tu non potrai vede la mia faccia, perchè un uomo non può vedere me e vivere [...] Quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della roccia, ti coprirò con la mia mano. Poi ritirerò la mia mano e mi vedrai da dietro, ma non potrai vedere la mia faccia» (Es. 33, 18-23). « Dio » de­signa quindi «il Luogo dove tutto si spiega – ha affermato Stefano Le­vi Della Torre – e, contemporaneamente, il luogo dell’inesplicabile. Dio diventa in un certo senso un ossimoro: è l’insplicabile dove tutto si spiega»; è una «dimensione paradossale». [8]

Questo modo di interrogare la Bibbia, per cui l’«instabilità dell’immagine di­vi­na» diventa la nota caratteristica di Dio, pur nella molteplicità delle tradizioni culturali a cui ci si può richiamare, evidenzia una gamma particolar­mente ampia di possibilità da parte dell’uomo di parlare di Dio (teo-logein). Paolo De Benedetti, nel suo Intervento alla Cattedra dei non-credenti [9] , così come nel suo testo Ciò che tarda avverrà da poco pubblicato [10] , ha richiamato l’attenzione, a par­tire dal testo biblico, sull’impossibilità di costruire una teolo­gia consolatoria «dopo Au­schwitz». «Il chiedere conto a Dio è come un filo rosso o un filo nero che percorre tutta la tradizione ebraica: da Giobbe a Qohelet fino ai processi a Dio nella tradi­zione e nella leg­genda chassidica». [11] Proprio per questo bisogna, a suo parere, desi­stere dal par­lare con troppa sicurezza di Dio: potremmo mentire su di Lui e, affer­mando cose che fanno parte delle nostre modalità rappre­sentative, farci un Dio a nostra imma­gine e somiglianza (Es. 32). Il mondo biblico scagliandosi contro l’idolatria e contro un sacralismo esasperato, pre­dilige un’immagine simbolica del volto di Dio: «Il Dio della Bibbia si rivela sostan­zialmente come il Simbolo per eccellenza, cioè come colui che unisce in sè i poli estremi, i perfetti contrari e tutta al gamma intermedia delle colorazioni dell’es­sere. Nell’infinito divino avviene una « sim-bo­lica » coincidentia oppositorum». [12] Dio resta più grande dell’orizzonte di questo mondo – ha detto Bruno Forte – «anche quando per un atto gratuito della sua libertà, e dunque per amore, si autocomunica al cuore umano entrando nella storia. [...] Re-velare viene pertanto a dire l’atto del passaggio dal velato allo sco­perto, lo svelamento del precedente­mente nascosto, ma non esclude mai del tutto una reduplicazione, un permanere del velo, anzi un suo in­fittirsi mediante la ripeti­zione, proprio nell’atto in cui sembra che venga tolto (analogamente si potrebbe dire del significato originario di apoka­lúpto, toglimento della copertura, che non esclude un rinfor­zarsi di essa)». [13] Ma questa simbolicità tipicamente biblica del volto di Dio non richiama forse la ne­cessità di una teologia negativa? Non diventa necessaria – come ha mostrato nella sua insonne ricerca Italo Mancini – una «logica dei doppi pensieri», ripren­dendo così quanto Dionigi l’Areopagita nella Teologia mistica (III, 1033 C) aveva ri­co­nosciuto, e cioè che di fronte all’incognito di Dio ogni discorso umano di­venta ??????, muto? [14] Termimi quali dolore messianico e impo­tenza di Dio, così am­piamente ri­presi da larga parte della teologia e della filosofia contemporanea (basti pensare a Dietrich Bonhoeffer e alla sua lettura ‘non religiosa’ della Bibbia e ad Hans Jonas con la sua ricerca di un nuovo « concetto di Dio dopo Auschwitz »), hanno per­messo di ritro­vare nella figura di Dio non tanto una risposta esau­stiva ad ogni domanda umana quanto, piuttosto, un «interlocutore delle domande di senso» e in special modo un interlocutore di tutte quelle domande che vivono lo scandalo della sofferenza inutile. [15] Di fronte a questa che se ne sta con­ficcata nella realtà come una sorta di ‘iattu­ra’ senza redenzione, un autore come Dostoevskij ha potuto affermare che essa, proprio a causa della sua irredimibilità, esprimerebbe il fallimento della creazione, l’assurdità del mondo e, di conse­guenza, la non-accettazione di un Dio simile. E’ nei Fratelli Karamazov, nella figura di Ivan, che erompe tutto lo scandalo di questa sofferenza, sperimentata soprat­tutto dagli idioti e dai bambini. Essa, restando senza senso, risulta incompatibile con l’esistenza stessa di un Dio giusto. Ivan – ha scritto Pareyson – «è disposto ad ammettere il ca­rattere trionfale ed esaltante dell’armonia finale, in cui non rimarrà nulla d’ingiustificato e d’incomprensibile per la mente umana, e ogni contrasto sa­rà elimi­nato fra gli uomini, tutti ugualmente redenti e redenti dal male, riscattati dal dolo­re, liberati dal bisogno e sa­ziati dalla sete di giustizia» [16] ; ma di fronte alla soffe­renza dei bam­bini l’utopia di una riconciliazione finale finisce in pezzi. Non solo Dostoevskij ha riflettuto su tale immane questione ma Albert Camus ne L’uomo in rivolta, Reinhold Schneider in Winter in Wien e Elie Wiesel ne La notte – per non ricordare che tre dei nomi più eminenti – po­trebbero porsi come testimoni privile­giati di queste domande espresse de profundis.

Il silenzio di Dio davanti alla sofferenza inutile diventa quindi lo spazio attraverso cui l’uomo viene interrogandosi, la possibilità, sperimen­tata in mezzo alla vita, di­cendole sì ogni momento – per riprendere un’immagine cara a Bonhoef­fer – di chiedere a Dio di rispon­dere finalmente alle nostre domande; e questo per­chè «l’alleanza, come la coscienza ebraica ha sempre creduto con ostinata fede, com­porta ob­blichi bilaterali, da parte cioè dell’uomo e di Dio. [...] L’esistenza del dolo­re ingiusto « salva » Dio solo se c’è un tempo o un luogo (parole estremamente im­proprie per la vita del mondo che verrà) in cui egli si spieghi e ci spieghi. La bontà del mondo è una moneta ormai troppo svalutata; la responsabilità dell’uomo o la finitezza degli es­seri sono semplici rinvii all’interno del triste mistero. Dio, in quanto nostro alleato, ci è debitore di una spiegazione: per questo crediamo in lui e nella vita futura. [...] Non ci sono parole utili, finchè non parlerà lui» [corsivo no­stro]. [17] Il compito dell’uomo resta invece quello di cercare, insonnemente cercare, «nella flebile voce che rimbomba» [B. Carucci Viterbi], il messaggio di Dio che continua a parla­re all’uomo che abita il proprio tempo. Questo Dio non si rivela nel frastuono, nè nel­le voci assor­danti del mondo, così come non si rivela in ciò che molto spesso adoriamo – quegli idoli che «hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono» (Sal. 115, 5). Il si­lenzio di Dio non resta solo un’enigma che lo studio dell’uomo do­vrà prima o poi sciogliere – come afferma la tradizione rabbi­nica – ma ri­manda all’evento del si­lenzio di Dio Padre che sulla croce, abbando­nando il Fi­glio, risuona nel grido: «Dio mio, Dio mio, perchè mi hai abbandonato?» (Mat. 27, 46). In quell’abbandono – co­me ha detto von Balthasar – è presente l’icona di Dio che sulla croce si infrange in una non-forma, ma «nonostante tutto non è infranta, perchè proprio nell’infrangersi mondano rivela, in modo univocamente non-dialettico, l’infrangi­bilità dell’amore divino». [18] Solo così questo silenzio impo­tente può diventare il luogo della re­denzione – la voce più assordante di tutte le voci – in cui possono risuonare gli alta silentia di Dio e l’umanità presente ritrova, intatta, l’icona di ogni grido e di ogni invo­ca­zione.
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[1] . Basterebbe leggere la sintesi del 26 Rapporto su La situazione sociale del Paese 1992 in Censis. Note e com­menti 10-12 (1992).
[2] . Il termine Midrash deriva dal termine ebraico darash (ricercare, sondare, interpretare) ed è «il tentativo – così ha scritto G. Stenberger [Il Midrash. Uso rabbinico della Bibbia. Intro­duzione, testi, commenti, Deho­nia­ne, Bologna 1992, p. 8] – di penetrare più profondamente nel linguaggio della rivelazione. (…) Ponen­dosi con cura all’ascolto del testo, prestando at­tenzione anche ai minimi dettagli linguistici, si cerca di sondare le profondità della rive­lazione, di sperimentare la continua presenza di Dio, di convincersi della solidità delle sue promesse». Il testo di Benedetto Carucci Viterbi, Una sottile voce di silenzio è contenuto nel volume Chi è come te fra i muti? L’uomo di fronte al silenzio di Dio, lezioni promosse e coordinate da Carlo Maria Martini, Garzanti, Milano 1993, pp. 75-84 [VI sessione della Cattedra dei non-credenti]. Il termine «voce di silenzio sottile» per designare l’impercettibilità di Dio è preso da I Re 19, 12.
[3] . E’ stato X.Tilliette [La settimana santa dei filosofi, Morcelliana, Brescia 1992, pp. 101-102] a riprendere la questione del rapporto tra la filosofia e la sofferenza assoluta sperimentata ad Auschwitz ri­prendendo  la domanda fatta da Adorno ne La dialettica negativa: «Si può filosofare dopo Auschwitz?». Per Tilliette, «tra un Prima colmo di premonizioni e un Dopo tormentato da paure, la filosofia ha vacillato sotto il colpo dell’olocausto, non si è più rimessa dallo shock, il malheur l’ha stregata, è entrata nella sua fase cri­tica, se si mantiene all’espressione la sua ambiguità». Cfr. J. Kohn/J.B.Metz, Auschwitz in Dizionario delle questioni re­ligiose del nostro tempo, Queriniana, Brescia 1992, pp. 42-46 e C.Thoma, Olocausto in Lessico dell’incontro ebraico-cristiano, Queriniana, Brescia 1992, pp. 171-174. Ultimamente E. Wiesel – J.M.Lustiger – R. Süssmuth – W. Bartoszewski, Per non dimenticare Auschwitz, Piemme, Milano 1993.
[4] .  M. Buber, L’eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, Mondadori, Milano 1992.
[5] . Sulla questione ultimamente è intervenuto J. Imbach, Nostalgia di Dio, Studium, Roma 1992. Bisogna però notare che gli effetti di tale condizione di disincanto si sono fatti sentire nel bene come nel male. Ba­ste­rebbe considerare il fenomeno del fondamentalismo – tema che in questi ultimi anni è diventato centrale per la comprensione dell’orizzonte tardo-modermo – dal punto di vista di un tentativo di compensazione nei confronti di una realtà ‘scarica’ di Assoluto. Per un primo approccio al problema cfr. E. Pace, Il regime della verità. Il fonda­mentalismo religioso contemporaneo, Il Mulino, Bologna 1990 e il n. 4(1991) di Sette e Religioni dedicato a Il fon­damentalismo di matrice cristiana.
[6] . La fenomenologia del typos del credente e del non credente, così come la loro reciproca dialettica, sono stati ri­presi da un punto di vista biblico, pur se con intenzioni diverse, nella relazione di E. Bianchi, L’incredulità del cre­dente, pp. 95- 104 e nell’intervento di M. Cacciari, pp. 105-109 in Chi è come te fra i muti? su cui torne­remo. Sul tema del silenzio e della parola si possono vedere utilmente M. Baldini e S. Zucal (a cura di), Le forme del silenzio e della parola, Morcelliana, Brescia 1989 e Il silenzio e la parola da Eckhart a Jabès,  Morcelliana, Brescia 1990.
[7] . L’edizione francese originale è del 1970 ma in Italia è stato tradotto dalla Marietti, Casale Monferrato 1983. Il sottotitolo del libro suona: Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz.
[8] . Pp. 21. Il testo di S. Levi Della Torre, Forse [in Chi è come te fra i muti?, pp. 18-32] si interroga sul ‘luo­go’ occupato dall’uomo che vive «tra» due versanti del divino che gli si manifestano e che, contempora­neamente, possono caratterizzare due modalità di ‘visione’ del divino qualitativamente differenti: l’una, rap­presentata dalla possibilità da parte dell’uomo-Mosè di vedere Dio da dietro; l’altra, rappresentata dall’im­possibilità da parte dell’uomo-Mosè di vedere Dio in faccia: «Dunque un lato visibile, un ditro-verso noi; e una parte invisibile – la faccia: due versanti del divino, verso di noi e verso di Lui: rivelazione e inaccessi­bilità» (p. 22).  Un altro filosofo ebraico contemporaneo – E. Levinas – parlerà della possibilità da parte dell’uomo di cogliere solo le tracce di Dio.
[9] . In Chi è come te fra i muti?, pp.33-41.
[10] . Edizioni Qiqajon, Magnano 1992. Per una nota sulla teologia di De Benedetti cfr. I. Bertoletti, Tra domande dell’attesa e interpretazione della Legge. Una nota sulla teo-logia di Paolo De Benedetti in Humanitas, 1 (1993) pp. 127-131
[11] . P. De Benedetti, Intervento in Chi è come te fra i muti?, p. 38.
[12] . G. Ravasi, I volti di Dio nella Bibbia in I volti di Dio. Il Rivelato e le sue tradizioni, a cura di E. Guerriero e A. Tarzia, Paoline, Milano 1992, pp. 59-68, cit. p. 65.
[13] . B. Forte, Gli «alta silentia» e l’autocomunicarsi di Dio: silenzio, parola, incontro. Un dialogo teologico con hegel, Schelling e Barth in L’ombra di Dio. L’ineffabile e i suoi nomi, a cura di E. Guerriro e A. Tarzia, Paoline, Milano 1991, pp. 103-125, cit. p. 119.
[14] . I. Mancini, Doxa. Debolezza e forza di Dio in L’ombra di Dio, pp. 141-183. Sulla ‘logica dei doppi pen­sieri’ Mancini è intervenuto in Teologia e filosofia. Per una logica della fede in Scritti cristiani, Marietti, Genova 1991, pp. 13-28.
[15] . Sulla questione cf. L. Pareyson, La sofferenza inutile in Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed espe­rienza reli­giosa, Einaudi, Torino 1993, pp. 170-217.
[16] . Così L. Pareyson, La sofferenza inutile, p. 185. Scrive Dostoevskij  ne I fratelli Karamazov [Vol. I, Mi­la­no, p. 313]: «Non vale, essa [cioè, la suprema armonia] le povere lacrime foss’anche di quel bambino so­lo, che straziato si batteva col minuscolo pugno sul petto, e nel fetido suo canile pregava con le sue lacrime ir­riscattabili il « buon Gesù »! Non vale, perchè queste piccole lacrime rimarranno irriscattate, altrimenti non potrebbe sussitere l’armonia. Ma in che modo, in che modo vorresti mai riscattarle? Ti pare una cosa possibile? Forse col dire che saranno vendicate? »
[17] . P. De Benedetti, Ciò che tarda avverrà, pp. 11-113.
[18] . H. Urs von Balthasar, Il Linguaggio di Dio in Homo creatus est, Morcelliana, Brescia 1991, pp. 271-302, cit. p. 295.

Publié dans:EBRAISMO - STUDI, MEDITAZIONI |on 25 mai, 2010 |Pas de commentaires »

SALMO 117 – Alleluyah!

SALMO 117 - Alleluyah! dans A. UN PENSIERO DAI SALMI...PRIMA DELLA NOTTE 2432537217_e82364bff8

JESUS CHRIST IS RISEN TODAY, ALLELUJA

http://glenkirk.blogspot.com/2009/04/jesus-christ-is-risen-today.html

dal sito:

http://www.carmelotoscano.it/segnaliamo/segnaliamo.php?funzione=articoli_estesi&articolo=8

SALMO 117

Alleluyah!
Lodate il Signore, popoli tutti,
voi tutte, nazioni, dategli gloria;
perché forte è il suo amore per noi
e la fedeltà del Signore dura in eterno.
Alleluyah!

Il salmo 117 (116) è un inno in miniatura e, come in tutti i salmi di lode, non c’è posto per ripiegamenti su se stessi né per richieste personali. Ogni sorta di “interesse” è, cioè, allontanato dalla mente e tutto lo spazio viene dato a Dio, di cui il salmista canta la grandezza e la gloria sperimentata dal suo popolo. Come tutti gli inni, infatti, anche questo nasce come un Amen della comunità in risposta a quel Dio che si è rivelato suo Signore e, soprattutto, suo liberatore. In altre parole, questo piccolo inno totalmente centrato su Dio, ne canta soprattutto la benevola e benefica vicinanza.
 
Amore e fedeltà
Lo schema – secondo il canovaccio che vale per tutti i salmi di questo tipo – comprende tre passaggi essenziali: 1. Un invito (v. 1), in cui è da notare il parallelismo tra lodare / dar gloria e tra popoli tutti / nazioni; 2. Il motivo della lode (v. 2), espresso anch’esso con un parallelismo (tra amore forte e fedeltà che dura in eterno); 3. La conclusione (al termine del v. 2) che riprende l’invito iniziale (Hallelu-Yah) che non è, un semplice grido di gioia come potrebbe sembrare a chi si è abituato a identificare l’alleluya con il tempo pasquale, ma l’imperativo plurale del verbo lodare (hll) più le prime due lettere del sacro tetragramma (Yhwh) con il Significato di “lodate il Signore”.
 
La Bible de Jérusalem lo definisce, di fatto, un “Appel à la louange” (un invito alla lode) e, nella Liturgia delle Ore, viene additato come “Invito a lodare Dio per il suo amore”, ricordando che Paolo vi legge la profezia realizzata della riconoscenza dei pagani salvati dal Cristo (cf. Rm 15,8-11). Nel Salmo 117 risalta, infatti, l’universalismo del Dio d’Israele che, pur avendo scelto quella mediazione storica, non ha certo perso la memoria degli altri popoli. Il salmista, infatti, sa che tutte le nazioni sono state benedette in Abramo (cf. Gn 12,3) da un Dio che non può e non vuole venir meno a questa sua promessa.
 
Il parallelismo più importante, infatti, è quello tra “amore” (chesed) e “fedeltà” (’emet) del secondo versetto. Il primo significato di ’emet è verità, ma qui si tratta di una verità dimostrata con i fatti, Dio è stato e continua a stare al fianco del suo popolo e, quindi, è fedele. È ciò che vuol dire il salmista quando, appunto, proclama che l’amore del Signore è grande e la sua fedeltà per sempre. È ciò che Israele vorrebbe che comprendessero anche gli altri popoli in modo da volgersi a Lui, come nell’esortazione del primo versetto: “Lodate il Signore tutte le nazioni, popoli tutti fategli omaggio”.
 
Per la preghiera del cristiano
Facendo proprio questo invito alla lode, il cristiano, come è più ancora dell’antico salmista, si sente missionario, portatore, cioè, presso tutte le genti, della manifestazione più tangibile dell’amore di Dio. Il minuscolo salmo 117 è, infatti, un invito rivolto a tutti gli uomini che, anche quando non lo sanno, sono chiamati a sentirsi fratelli attorno alla mensa del Padre di Gesù che, morendo per tutti, ne ha mostrato la misericordia.
 
Il binomio chesed-­’emet (bontà e fedeltà) fa sempre riferimento all’Alleanza che Dio ha voluto, liberamente e di propria iniziativa, stipulare – attraverso Abramo – con tutti i popoli della terra. In quanto buono, Dio promette (stipula una Alleanza) e, in quanto fedele, mantiene le promesse che, a partire da Abramo, culminano tutte in Gesù. In Lui, infatti, la forte bontà di Dio si estende a tutti e rimane in eterno. Per questo, tutti, sono invitati alla lode che, in fondo, non è altro che la forma più elevata della gratitudine. Fa bene, dire spesso questa giaculatoria che riporta all’essenziale tutte le nostre preghiere.
 
Che cosa ci ha insegnato, infatti, lo stesso Gesù, se non che Dio, Padre di tutti, ha così tanto amato il mondo da inviare suo Figlio e di andare a dire in tutto il mondo questa buona notizia? Sì, in Cristo, l’amore di Dio per noi è veramente forte e la sua fedeltà dura veramente per sempre. Noi ci sforzeremo di corrispondere a questo amore, ma anche quando questo non accadrà, Lui, il Padre, non cesserà di attenderci a braccia aperte. Perché il suo amore è forte (gabar) e la sua fedeltà (’emet) è per sempre.
 
P. Bruno Moriconi, ocd 

Omelia per il giorno 25 maggio 2010

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/12777.html

Omelia (27-05-2008) 
a cura dei Carmelitani Commento Marco 10,28-31

1) Preghiera

Concedi, Signore,
che il corso degli eventi nel mondo
si svolga secondo la tua volontà nella giustizia e nella pace,
e la tua Chiesa si dedichi con serena fiducia al tuo servizio.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…

2) Lettura del Vangelo

Dal Vangelo secondo Marco 10,28-31
In quel tempo, Pietro disse a Gesù: « Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito ».
Gesù gli rispose: « In verità vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna. E molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi i primi ».

3) Riflessione

• Nel vangelo di ieri, Gesù parlava della conversazione tra i discepoli sui beni materiali: distanziarsi dalle cose, vendere tutto, dare ai poveri e seguire Gesù. Ossia, come Gesù, devono vivere in totale gratuità, mettendo la propria vita nella mano di Dio, servendo i fratelli e le sorelle (Mc 10,17-27). Nel vangelo di oggi Gesù spiega meglio come deve essere questa vita di gratuità e di servizio di coloro che abbandonano tutto per lui, Gesù, e per il Vangelo (Mc 10,28-31).
• Marco 10,28-31: Cento volte, ma d’ora in poi con persecuzioni. Pietro osserva: « Noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito ». E’ come se dicesse: « Abbiamo fatto ciò che il Signore chiese al giovane ricco. Lasciammo tutto e ti abbiamo seguito. Spiegaci, come deve essere la nostra vita? » Pietro vuole che Gesù spieghi un poco di più il nuovo modo di vivere nel servizio e nella gratuità. La risposta di Gesù è bella, profonda e simbolica: « In verità vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna. E molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi i primi ». Il tipo di vita che scaturisce dal dono di tutto è l’esempio del Regno che Gesù vuole instaurare: (a) Estende la famiglia e crea comunità, aumenta cento volte il numero di fratelli e sorelle. (b) Produce la condivisione di beni, poiché tutti avranno cento volte di più case e campi. La provvidenza divina si incarna e passa per l’organizzazione fraterna, dove tutto è di tutti e non ci sono più persone nel bisogno. Loro mettono in pratica la legge di Dio che chiede « tra di voi non ci siano poveri » (Dt 15,4-11). Fu ciò che fecero i primi cristiani (At 2,42-45). E’ il vissuto perfetto del servizio e della gratuità. (c) Non devono aspettare in cambio nessun vantaggio, nessuna sicurezza, nessun tipo di promozione. Anzi in questa vita avranno tutto questo, ma con persecuzioni. Poiché, coloro che in questo mondo organizzato, a partire dall’egoismo e dagli interessi di gruppi e persone, vivono l’amore gratuito ed il dono di sé, saranno crocifissi come lo fu Gesù. (d) Saranno perseguitati in questo mondo, ma nel mondo futuro avranno la vita eterna di cui parlava il giovane ricco.
• Gesù è la scelta dei poveri. Una duplice schiavitù marcava la situazione della gente all’epoca di Gesù: la schiavitù della politica di Erode, appoggiata dall’impero romano e mantenuta da tutto un sistema ben organizzato di sfruttamento e di repressione, e la schiavitù della religione ufficiale, mantenuta dalle autorità religiose dell’epoca. Per questo, il clan, la famiglia, la comunità, si stava disintegrando e una gran parte della gente viveva esclusa, emarginata, senza dimora, nella religione, nella società. Per questo c’erano diversi movimenti che cercavano un nuovo modo di vivere in comunità: esseni, farisei e, più tardi, gli zeloti. Nella comunità di Gesù c’era qualcosa di nuovo che la rendeva diversa dagli altri gruppi. Era l’atteggiamento verso i poveri e gli esclusi. Le comunità dei farisei vivevano separate. La parola « fariseo » vuol dire « separato ». Vivevano separati dalla gente impura. Molti farisei consideravano la gente ignorante e maledetta (Gv 7,49), in peccato (Gv 9,34). Gesù e la sua comunità, al contrario, vivevano insieme alle persone escluse, considerate impure: pubblicani, peccatori, prostitute, lebbrosi (Mc 2,16; 1,41; Lc 7,37). Gesù riconosce la ricchezza e il valore che i poveri posseggono (Mt 11,25-26; Lc 21,1-4). Li proclama felici, perché il Regno è loro, è dei poveri (Lc 6,20; Mt 5,3). Definisce la sua missione: « annunciare la Buona Novella ai poveri » (Lc 4, 18). Lui stesso vive da povero. Non possiede nulla per sé, nemmeno una pietra dove reclinare il capo (Lc 9,58). E a chi vuole seguirlo per condividere la stessa sorte, ordina di scegliere: o Dio o il denaro! (Mt 6,24). Ordina di scegliere a favore dei poveri! (Mc 10,21) La povertà che caratterizzava la vita di Gesù e dei discepoli, caratterizzava anche la missione. Al contrario di altri missionari (Mt 23,15), i discepoli e le discepole di Gesù non potevano portare nulla, né oro, né denaro, né due tuniche, né borsa, né sandali (Mt 10,9-10). Dovevano avere fiducia nell’ospitalità (Lc 9,4; 10,5-6). E se fossero stati accolti dalla gente, dovevano lavorare come tutti gli altri e vivere di ciò che ricevevano in cambio (Lc 10,7-8). Inoltre, dovevano occuparsi dei malati e dei bisognosi (Lc 10,9; Mt 10,8). Allora potevano dire alla gente: « Il Regno di Dio è in mezzo a voi! » (Lc 10,9).

4) Per un confronto personale

• Tu, nella tua vita, come metti in pratica la proposta di Pietro: « Abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito »?
• Condivisione, gratuità, servizio, accoglienza agli esclusi sono i segni del Regno. Come le vivo oggi?

5) Preghiera finale
Tutti i confini della terra hanno veduto
la salvezza del nostro Dio.
Acclami al Signore tutta la terra,
gridate, esultate con canti di gioia. (Sal 97) 

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