Archive pour mai, 2010

Sant’Agostino: preghiera da « La Trinità »

dal sito:

http://www.augustinus.it/varie/preghiere/preghiere_trinita.htm

SANT’AGOSTINO

Preghiera  da: La Trinità, 15, 28, 51

Signore nostro Dio, crediamo in te, Padre e Figlio e Spirito Santo. Perché la Verità non avrebbe detto: Andate, battezzate tutte le genti nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, se Tu non fossi Trinità. Né avresti ordinato, Signore Dio, che fossimo battezzati nel nome di chi non fosse Signore Dio. E una voce divina non avrebbe detto: Ascolta Israele: Il Signore Dio tuo è un Dio unico, se Tu non fossi Trinità in tal modo da essere un solo Signore e Dio. E se Tu fossi Dio Padre e fossi pure il Figlio tuo Verbo, Gesù Cristo, e il Vostro Dono lo Spirito Santo, non leggeremmo nelle Sacre Scritture: Dio ha mandato il Figlio suo, né Tu, o Unigenito, diresti dello Spirito Santo: Colui che il Padre manderà in mio nome e: Colui che io manderò da presso il Padre.
Dirigendo la mia attenzione verso questa regola di fede, per quanto ho potuto, per quanto tu mi hai concesso di potere, ti ho cercato ed ho desiderato di vedere con l’intelligenza ciò che ho creduto, ed ho molto disputato e molto faticato. Signore mio Dio, mia unica speranza, esaudiscimi e fa sì che non cessi di cercarti per stanchezza, ma cerchi sempre la tua faccia con ardore. Dammi Tu la forza di cercare, Tu che hai fatto sì di essere trovato e mi hai dato la speranza di trovarti con una conoscenza sempre più perfetta.
Davanti a Te sta la mia forza e la mia debolezza: conserva quella, guarisci questa. Davanti a Te sta la mia scienza e la mia ignoranza; dove mi hai aperto ricevimi quando entro; dove mi hai chiuso, aprimi quando busso. Fa’ che mi ricordi di te, che comprenda te, che ami te. Aumenta in me questi doni, fino a quando Tu mi abbia riformato interamente.
So che sta scritto: Quando si parla molto, non manca il peccato, ma potessi parlare soltanto per predicare la tua parola e dire le tue lodi! Non soltanto eviterei allora il peccato, ma acquisterei meriti preziosi, pur parlando molto. Perché quell’uomo di cui Tu fosti la felicità non avrebbe comandato di peccare al suo vero figlio nella fede, quando gli scrisse: Predica la parola, insisti a tempo e fuori tempo. Non si dovrà dire che ha molto parlato colui che non taceva la tua parola, Signore, non solo a tempo, ma anche fuori tempo? Ma non c’erano molte parole, perché c’era solo il necessario. Liberami, o mio Dio, dalla moltitudine di parole di cui soffro nell’interno della mia anima misera alla tua presenza e che si rifugia nella tua misericordia. Infatti non tace il pensiero, anche quando tace la mia bocca. Se almeno non pensassi se non ciò che ti è grato, certamente non ti pregherei di liberarmi dalla moltitudine di parole. Ma molti sono i miei pensieri, tali quali Tu sai che sono i pensieri degli uomini, cioè vani. Concedimi di non consentirvi e, anche quando vi trovo qualche diletto, di condannarli almeno e di non abbandonarmi ad essi come in una specie di sonno. Né essi prendano su di me tanta forza da influire in qualche modo sulla mia attività, ma almeno siano al sicuro dal loro influsso i miei giudizi, sia al sicuro la mia coscienza, con la tua protezione.
Parlando di Te un sapiente nel suo libro, che si chiama Ecclesiastico, ha detto: Molto potremmo dire senza giungere alla meta, la somma di tutte le parole è: Lui è tutto. Quando dunque arriveremo alla tua presenza, cesseranno queste molte parole che diciamo senza giungere a Te; Tu resterai, solo, tutto in tutti, e senza fine diremo una sola parola, lodandoti in un solo slancio e divenuti anche noi una sola cosa in Te.
Signore, unico Dio, Dio-Trinità, sappiano essere riconoscenti anche i tuoi per tutto ciò che è tuo di quanto ho scritto in questi libri. Se in essi c’è del mio, siimi indulgente Tu e lo siano i tuoi. Amen.

LA SITUAZIONE DI GRAZIA DEL CRISTIANO (RM 5,1-11) (seconda lettura di domani)

è possibile che io abbia già postato questo articolo, tuttavia, dato che commenta – un po’ ampliandola – la seconda lettura di domani lo metto comunque, dal sito:

http://www.paroledivita.it/upload/2006/articolo2_23.asp

LA SITUAZIONE DI GRAZIA DEL CRISTIANO (RM 5,1-11)
 
Ugo Vanni

Posta in un punto cruciale nella struttura della lettera, Rm 5,1-11 acquista, già per questo, un suo rilievo. Ma la sua importanza cresce e s’impone decisamente all’attenzione man mano che, scorrendo il suo testo, vi incontriamo i termini paolini più significativi dal punto di vista teologico-biblico. Vi si parla di Dio il Padre, di Cristo e dello Spirito; vi si parla di giustificazione, grazia, fede, amore, speranza; ricorre ripetutamente il concetto fondamentale di riconciliazione. E per ben tre volte Paolo, usando il verbo «vantarsi», avverte che il contenuto che sta presentando tocca la trascendenza divina e si entusiasma.
È una pericope che appare subito densa e promettente: ci proponiamo di farne una lettura teologico-biblica seguendo da vicino il movimento letterario del suo testo. Tenendo presenti le fasi di sviluppo del suo movimento letterario e i grandi temi teologico-biblici che man mano vi emergono, dividiamo la pericope in quattro unità letterarie minori: la situazione di grazia del cristiano giustificato (vv. 1-2), la tensione escatologica animata dalla speranza (vv. 3-5), l’amore tipico di Dio (vv. 6-9), la riconciliazione come dono pasquale (vv. 10-11).

La situazione di grazia del cristiano giustificato (5,1-2)

Paolo ha esposto, nella parte che precede della lettera, dettagliatamente e a più riprese, la trafila della giustificazione; ora si riallaccia a questo discorso e afferma: «Giustificati dunque in forza della fede, abbiamo pace verso Dio per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo» (5,1). Parlando qui dei cristiani come giustificati, Paolo suppone iniziato in loro il processo di pareggio tra la loro formula – immagine di Dio nei tratti di Cristo – e la loro situazione storica concreta (potremmo spiegare così il concetto di «giustificazione»). Tutto questo per opera di Dio, «giusto e giustificante» (Rm 3,26): «giustificati» (dikaiôthentes, passivo teologico) esprime l’azione di Dio che si concretizza nel dono del Cristo del mistero pasquale. Il cristiano dovrà solo accogliere il dono, aprire la sua porta e questo avviene per mezzo della fede; le opere che pure si esigono non la precedono e verranno dopo.
La situazione che, così, si è determinata nel cristiano è altamente positiva. Paolo ci dice che per mezzo di Gesù Cristo come loro Signore[1] i cristiani possiedono la pace verso Dio:
Giustificati dunque in forza della fede abbiamo pace verso Dio attraverso il Signore nostro Gesù Cristo (5,1).
Non si tratta semplicemente di un’assenza di guerra e di tensione. Il termine «pace» nell’Antico Testamento (AT) indica il complesso dei beni che Dio dona al suo popolo; su questa scia, nel Nuovo Testamento (NT) si concentra su Cristo detto esplicitamente «nostra pace» (Ef 2,14): pace è tutta la ricchezza cristologica della quale i cristiani sono portatori e che li plasma. I cristiani, così, non solo hanno accesso verso Dio, il Padre, ma lungi da trovarsi a mani vuote, possono presentarsi a lui come figli, pervasi come sono della vitalità che Cristo come Signore comunica loro.
Paolo, che non si stanca mai di parlare di Cristo, insiste ancora: proprio da Cristo derivano ai cristiani sia la situazione positiva in cui si trovano sia il vanto della speranza:
attraverso il quale e abbiamo ricevuto l’accesso a questa grazia nella quale ci basiamo e ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio (5,2).
La situazione che si realizza è una situazione di grazia, intesa nel senso di una benevolenza attiva da parte di Dio e di Cristo la quale produce i suoi effetti concreti sui cristiani che, così, formano come un ambiente rilevabile di bontà divina applicata. È questa la base solida su cui poggiano i cristiani, tutti costruiti sull’amore di Cristo e di Dio.
Dalla positività della situazione in cui si trova, il cristiano guarda al futuro. L’azione di Cristo che gli si comunica e che ha già una presa nel suo presente è vista in movimento. Lo specifico proprio di Dio, la sua «gloria»[2], che lo ha già raggiunto, crescendo e dilatandosi, accompagnerà il cristiano in tutto il suo cammino. Troverà il suo compimento a livello escatologico quando, per opera di Cristo risorto che partecipa la «gloria» propria della sua risurrezione, Dio «sarà tutto in tutti» (1Cor 15,28). È la prospettiva della speranza, sulla quale Paolo insiste particolarmente, fino ad affermare: «Siamo stati salvati nella speranza» (Rm 8,24). È una prospettiva esaltante: la speranza, animando già da adesso la vita del cristiano, lo mette in un contatto stretto con l’assoluto di Dio. La percezione trepida di questo assoluto fa scattare l’entusiasmo di Paolo: «Ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio»! (5,2). Per lui il verbo «vantarsi, gloriarsi» ha una valenza teologica precisa: lontano da qualunque trionfalismo, esprime il sussulto di gioia che gli provoca il contatto con Dio realizzato mediante qualche frammento di gloria, qualche aspetto di assoluto ravvisabile adesso nella vita del cristiano.

Il vanto nelle tribolazioni (Rm 5,3-5)

A questo punto Paolo sente il bisogno di completare l’affermazione fatta prima. A quello che è il vanto del cristiano, la percezione di un assoluto nella speranza della gloria di Dio, viene abbinato sorprendentemente il vanto nelle tribolazioni: «Non solo però, ma perfino ci vantiamo nelle tribolazioni». Dentro le tribolazioni Paolo avverte il sussulto dell’assoluto di Dio. Ma come può avvenire? L’affermazione di Paolo appare, a prima vista, paradossale fino a rasentare l’inverosimile: com’è possibile che l’uomo si vanti di ciò che lo ostacola e preme su di lui nel suo cammino, considerandolo addirittura un frammento di assoluto in suo possesso? E perché sente il bisogno, Paolo, di abbinare subito le tribolazioni alla speranza della gloria?

Alla base di queste affermazioni di Paolo sta la sua esperienza personale, di cui troviamo eco in 2Cor 12: la benevolenza di Dio e di Cristo non liberano il cristiano dalle tribolazioni, ma ne cambiano di segno rendendole una partecipazione alla croce di Cristo per condividerne poi la risurrezione, indivisibile dalla croce. Paolo, che si vanta «della croce di Cristo» (Gal 6,14), interpreta in questa ottica le sue tribolazioni considerandole parte del proprio assoluto. Questa esperienza personale illumina 5,3-4. Paolo ci dice qui che il cristiano leggendo il suo vissuto, interpretandolo alla luce del mistero pasquale e prendendone coscienza, vi scopre una trafila dinamica che lo porta dalle tribolazioni alla speranza. Vediamo da vicino le tre tappe successive di questa trafila.

La prima presa di coscienza riguarda l’impatto delle tribolazioni nella vita cristiana. È un impatto caratteristico:

divenuti consapevoli che la tribolazione mette in azione la pazienza (5,3).

Lungi da suscitare escandescenze o vittimismo, la tribolazione, nel cristiano consapevole, mette in moto una capacità di tenuta sotto pressione che possiamo chiamare «pazienza», nel senso di un’arte del soffrire tipica: il cristiano accoglie la tribolazione. Non la desidera e ne sente anche il peso, ma non la esclude dalla propria vita. Ci possiamo chiedere il perché e con ciò arriviamo alla seconda tappa della presa di coscienza: il discernimento, la valutazione, il collaudo delle tribolazioni:

…la pazienza [mette in azione] il discernimento[3] (5,4).

Si tratta di leggere le tribolazioni in profondità, come fa Paolo nella seconda lettera ai Corinzi. Viste nell’ottica del mistero pasquale, che contiene insieme la croce e la gloria futura della risurrezione, le tribolazioni appariranno allora come la parte presente e attuale del mistero pasquale. Ciò incoraggerà il cristiano a sopportarle, a praticare la sua pazienza tipica che stimola e mette in azione questo discernimento valutativo. Si comprende, così, anche la tappa conclusiva di questa complessa presa di coscienza:

il discernimento [mette in azione] la speranza (5,4).

Lo fa rendendo il cristiano consapevole che, data la compattezza inseparabile delle due componenti del mistero pasquale, con lo steso grado di realtà e di verità con cui ora sente e sopporta il peso delle tribolazioni, godrà, a livello escatologico, della pienezza della gloria. Il discernimento attivato dalla pazienza da una parte illumina la pazienza stessa, dall’altra spinge al contatto con la gloria futura che si realizzerà nel cristiano che spera. Paolo non si limita ad affermare tutto questo, ma ne fornisce anche una prova sorprendente: la speranza si basa tutta sull’esperienza che abbiamo di essere amati da Dio:

la speranza poi non delude perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori attraverso lo Spirito che c’è stato donato (5,5).

C’è, per Paolo, un nesso di causalità tra l’amore di Dio di cui siamo portatori e il compimento sicuro della speranza. Ma come si spiega che da un fatto realizzato nel nostro presente ricaviamo una certezza per un altro fatto che si colloca nel futuro, addirittura a livello escatologico?

Per dare una risposta occorre precisare anzitutto il senso che acquista, in se stessa e nel contesto prossimo in cui viene usata, l’espressione «amore di Dio». Come osserva R. Penna, l’interpretazione prevalente ai nostri giorni riferisce l’amore a Dio come soggetto[4]. È l’amore di un Dio che ci ama; nei nostri cuori, nella nostra interiorità è presente e viene percepita un’attività di amore che ha il taglio proprio di Dio. Come avviene tutto questo? Paolo ci dà un’indicazione condensata: l’attività amorosa di Dio nei nostri riguardi «è stata e rimane versata nei nostri cuori attraverso lo Spirito Santo che ci è stato donato». C’è stato quindi, a monte di tutto, l’invio dello Spirito come dono da parte di Dio, realizzato nel cristiano a partire dal battesimo.

Lo Spirito donato viene messo in contatto diretto con l’interiorità del cristiano. Paolo lo sottolinea quando ci dice – in Gal 4,6 – che «Dio inviò il suo Spirito nei nostri cuori». A contatto col cuore, con l’interiorità del cristiano, lo Spirito vi instilla, vi versa dentro l’attività amorosa di Dio: la testimonia (cf. Rm 8,16), la fa percepire gradualmente, potremmo dire che la versa goccia a goccia, la fa gustare, la rende addirittura transitiva abilitando il cristiano ad amare anche lui gratuitamente, col taglio proprio dell’amore di Dio. Ogni atto di amore gratuito che il cristiano riesce a realizzare e che ha, così, il tocco dell’amore proprio di Dio, porta implicita una dimensione di assoluto: fa parte di quell’amore che «non cade mai» (1Cor 13,8), cominciando ad attuare nel presente l’oggetto futuro proprio della speranza[5].

Ma Paolo insiste, qui, su un aspetto particolare. Accogliendo la pressione multipla che lo Spirito esercita nella sua interiorità – nella sua mente e nel suo cuore – a proposito dell’azione amorosa di Dio che lo riguarda, il cristiano ne prende atto e cerca di comprenderla, intuitivamente e quasi per affinità e poi anche col suo ragionamento. È quello che Paolo inculca nelle due unità letterarie che seguono e che corrispondono a due fasi del movimento letterario della pericope, collegate tra di loro e delimitate entrambe da un «infatti» iniziale (5,6.10). Da questa comprensione, che vedremo in dettaglio, apparirà evidente come l’amore di Dio nei riguardi del cristiano offre la massima garanzia per la speranza.

Dio nella morte di Cristo dimostra il suo tipo di amore (Rm 5,6-9)

Muovendosi sul filo della speranza che non delude a causa dell’amore proprio di Dio, Paolo fa anzitutto un’affermazione apodittica che qualifica l’amore di Dio:

Ancora infatti Cristo, quando noi eravamo ancora infermi, secondo il tempo stabilito, morì per gli empi (5,6).

L’ammirazione entusiasta che si aveva nell’antichità classica per chi dava la vita per un amico[6] diventa qui uno stupore che toglie il respiro: «Cristo morì per gli empi». Il fatto che Cristo, il Figlio di Dio, muore per coloro che si oppongono a Dio, supera e spiazza qualunque aspettativa umana. Nell’amore di Dio che vi si percepisce, si avverte l’infinito e il brivido della trascendenza. È questo amore che fonda la speranza.

Da questa prima esposizione intuitiva, Paolo, sempre in vista di una comprensione dell’amore di Dio come fondamento della speranza, parte per un’argomentazione ragionata:

Dio dimostra il suo amore per noi per il fatto che essendo noi peccatori Cristo morì per noi: tanto più dunque adesso, giustificati nel suo sangue, saremo salvati attraverso di lui dall’ira (5,8-9).

Ecco il ragionamento: se già la percezione dell’amore trascendente di Dio, contenuto nella morte di Cristo per noi, forniva un fondamento solidissimo alla speranza al momento in cui noi, ancora peccatori, ne siamo stati fatti oggetto e ci ha raggiunto, quanto più dovremo sperare adesso, nel tempo presente. Paolo vuole che prendiamo atto della forza operosa dell’amore di Dio che ci sta trasformando. Il segmento già realizzato della nostra giustificazione in movimento ci fa vedere che la «nostra salvezza [la salvezza definitiva con tutte le sue implicazioni, oggetto della nostra speranza] è adesso più vicina di quando diventammo credenti!» (Rm 13,11). Un aspetto di questa salvezza definitiva è la liberazione irreversibile dall’ira, da quella disapprovazione, sentita e coinvolgente, da parte di Dio che fa pressione su ogni forma di iniquità. E liberati dall’ira possederemo la gloria.

La riconciliazione in atto e la speranza (Rm 5,10-11)

Introducendolo ancora con un «infatti» esplicativo, Paolo presenta un approfondimento ulteriore dell’amore come fondamento della speranza, seguendo lo stesso procedimento espositivo che abbiamo visto nell’unità letteraria precedente. Con la differenza, però, che qui Paolo inizia subito con un’argomentazione ragionata:

Se infatti essendo nemici fummo riconciliati a Dio mediante la morte del suo Figlio, molto di più, riconciliati, saremo salvati per mezzo della sua vita (5,10).

La riconciliazione comporta il superamento di un’eterogeneità, non semplicemente la normalizzazione dei rapporti dopo un litigio; le scelte sbagliate realizzate nella vita che lo rendono peccatore, comportano nell’uomo un accumulo di materiale improprio, eterogeneo rispetto all’immagine di Dio nei tratti di Cristo che egli dovrebbe realizzare. L’uomo se ne rende conto; la sua eterogeneità oggettiva nei riguardi di Dio può allora risolversi anche in una tensione soggettiva, in un disagio oscuro rispetto a Dio proprio come se ci fosse stato un litigio. In questo senso l’uomo che pecca è nemico di Dio che invece vuole la reciprocità. Ora, dice Paolo, l’applicazione all’uomo nemico della morte del «suo Figlio», libera l’uomo della sua eterogeneità, collocandolo, nei riguardi di Dio, in uno stato di faccia a faccia amichevole. Il passaggio dalla tensione sgradevole dell’ira a uno stato d’intesa cordiale è chiamato da Paolo «riconciliazione» e l’uomo che ne beneficia appare, così, «riconciliato». È una trasformazione di tutta la vita che trova la sua punta nella reciprocità intersoggettiva tra l’uomo e Dio.

La morte del Figlio di Dio per noi ci ha, dunque, riconciliati inizialmente, quando eravamo nemici, ed è un fatto talmente grande da far sperare senza il rischio di sbagli. Ma c’è di più. Ora che possediamo l’inizio della riconciliazione ci troviamo già nel campo operativo del mistero pasquale, della la morte e della vita di Cristo. Ma se la morte del Figlio ha prodotto in noi la riconciliazione che abbiamo, la sua vita, la sua vitalità di risorto applicata ugualmente a noi ci porterà alla salvezza intesa come la riconciliazione più piena e la realizzazione del progetto di Dio sopra di noi. Di nuovo l’evento pasquale che ci riconcilia e che, partecipato fin da adesso, è già in azione e punta al massimo escatologico, ci garantisce che non arrossiremo. Possiamo davvero sperare.

A questo punto Paolo si sposta di nuovo sul presente e sintetizza quanto ci ha detto:

non solo però, ma anche ci stiamo gloriando in Dio a causa del Signore nostro Gesù Cristo per mezzo del quale adesso ricevemmo la riconciliazione (5,11).

Dio Padre, col quale siamo stati riconciliati e ci lasciamo riconciliare ulteriormente, sta davanti a noi in un atteggiamento di reciprocità amorosa: è una situazione vertiginosa che ci fa sfiorare l’assoluto della trascendenza e allora siamo entusiasti (ci vantiamo in Dio). Paolo non si stanca mai di ricordarci che tutto questo lo dobbiamo a Cristo, il dono per eccellenza da parte del Padre, da cui abbiamo ricevuto la riconciliazione.

Conclusione

Al termine della nostra analisi di tutta la pericope verrebbe da dire che in questi versetti abbiamo un condensato di tutto Paolo. Vi troviamo i grandi protagonisti del suo messaggio teologico: il Padre, il Figlio, lo Spirito e noi; vi troviamo il mistero pasquale, la trafila della nostra salvezza che cominciando dalla liberazione dal peccato si sviluppa fino alla pienezza escatologica, l’amore di Dio nei nostri riguardi con la spinta tanto forte a farlo nostro. L’elenco potrebbe continuare; ma già da questi richiami sentiamo il bisogno di condividere l’entusiasmo di Paolo: ci vantiamo con lui nella speranza della gloria di Dio che sarà nostra, ci vantiamo nelle tribolazioni che attivano una speranza che non ci delude. Con la percezione che lo Spirito suscita in noi di essere amati, ci vantiamo di Dio, ci vantiamo di Cristo. C’è davvero tanto da ringraziare.

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[1] Il termine «Signore» va inteso non nel senso di padrone, ma come comunicatore della vita divina; è il valore tipico di kyrios (Signore), in Paolo. Lo sfondo di riferimento è probabilmente la Bibbia dei LXX, che traduce con kyrios il nome proprio di Dio, Yhwh, «colui che è, colui che fa essere»; Paolo, attribuendo a Cristo morto e risorto «il nome che è al di sopra di ogni nome» (Fil 2,9), gli riconosce nei riguardi del nuovo popolo di Dio la forza creativa attribuita a Dio col nome di Yhwh a proposito del popolo antico.
[2] Il termine «gloria» ha in Paolo un valore teologico proprio, sulla linea dell’AT che vedeva nella gloria (eb. kavôd, peso) il peso proprio, il valore soggettivo di Dio che si comunica. Nel NT, soprattutto in Giovanni e Paolo, la gloria assume una dimensione cristologica: il «peso specifico» di Dio si manifesta e comunica in Cristo; cf. Gv 1,14 e 2Cor 3,18.

[3] Dando al termine raro dokimê il significato di «discernimento», «valutazione», «collaudo» abbiamo nei riguardi delle tribolazioni una diagnosi in profondità (la stessa fatta da Paolo in 2Cor 12,1-11) che le colloca nel quadro del mistero pasquale, costituito inscindibilmente dalla croce presente e dalla gloria futura, oggetto tipico della speranza.
[4] Cf. R. Penna, Lettera ai Romani, I. Rm 1-5. Introduzione, versione, commento, EDB, Bologna 2005, 429.
[5] Cf. per un approfondimento di quest’ultimo U. Vanni, «L’amore di Dio è stato versato nei nostri cuori mediante lo Spirito (Rm 5,5)», in Id., L’ebbrezza nello Spirito. Una proposta di spiritualità paolina, ADP, Roma 20022, 127-138.
[6] Basti pensare al mito di Oreste e Pilade, che Paolo poteva conoscere; ne parla anche Cicerone nel De amicitia, 24.

Publié dans:Lettera ai Romani |on 29 mai, 2010 |Pas de commentaires »

Omelia (30-05-2010) : Un solo Dio in tre persone: un dialogo d’Amore

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/18609.html

Omelia (30-05-2010) 
padre Antonio Rungi

Un solo Dio in tre persone: un dialogo d’Amore

Celebriamo oggi la Festa della Santissima Trinità, uno dei misteri principali della nostra fede cristiana e cattolica: un solo Dio, in tre persone, in dialogo d’amore. E’ Gesù stesso lungo il suo cammino di evangelizzatore a catechizzare i suoi discepoli sul mistero del Dio uno e trino. Basta leggere tutti i testi dei vangeli e soprattutto quello di Giovanni che ci rendiamo perfettamente conto come Gesù abbia rivelato attraverso la sua persona e il suo messaggio la natura intima di Dio stesso e le relazioni intercorrenti all’interno della Trinità tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Anche il brano della celebrazione odierna tratto dal Vangelo di Giovanni ci immette in questo clima di rivelazione di un Dio uno e trino e di un Dio che ama e come tale è vicino all’umanità. Le è vicino nella creazione, ma soprattutto nella redenzione, quando Cristo, Figlio di Dio, offre per l’intera umanità la sua vita in riscatto dei nostri peccati. Padre, Figlio e Spirito Santo sono qui indicati in modo preciso e come tale sono piena e autentica rivelazione chi è Dio in se stesso e chi è Dio per noi.
Nel brano della prima lettura di oggi tratto dal Libro dei Proverbi c’è l’identificazione della sapienza con la persona di Cristo: Egli è il Verbo Incarnato, Egli è la sapienza incarnata.
Riflettendo sul mistero della salvezza, l’Apostolo delle Genti ci presenta nel brano di oggi tratto dalla lettera ai Romani la sintesi di un itinerario di perfezione nella carità, mediante la fede e sostenuti dalla speranza da cui non possiamo prescindere se vogliamo sinceramente camminare sulle strade di Dio e sulla strada della redenzione. Una strada che richiede coraggio, accettazione della prova, disponibilità alla volontà di Dio. Essere in Cristo significa seguire il maestro anche attraverso la difficile via del dolore e della sofferenza, delle prove e delle tribolazioni. E queste prove tribolazioni non mancano mai nella vita di nessuno.
Oggi la liturgia ci fa celebrare questo primo mistero della fede, fondamento di tutti gli altri. La prima verità di fede che si apprende quando ci si prepara coscientemente al sacramento della Comunione, è che Dio è uno e trino. Uno nella natura, trino nelle persone. Noi, infatti, crediamo che Dio è Padre, è Figlio e Spirito Santo. Una sintesi efficace e chiara di questo mistero di fede, tra i più difficili da intendere razionalmente, la troviamo nel Prefazio della Messa della SS.Trinità, che riporto qui per meglio calarci nella riflessione: Padre santo, Dio di infinita potenza, tu con il tuo unico Figlio e con lo Spirito santo sei un solo Dio e un solo Signore, non nell’unità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Quanto hai rivelato della tua gloria noi lo crediamo e, con la stessa fede, senza differenze, lo affermiamo del tuo unico Figlio e dello Spirito santo. Nel proclamare te Dio vero ed eterno noi adoriamo la Trinità delle Persone, l’unità della natura, l’uguaglianza nella maestà divina.
Nel Catechismo della Chiesa cattolica viene sottolineato che « Il mistero della Santissima Trinità è il mistero centrale della fede e della vita cristiana. È il mistero di Dio in se stesso. È quindi la sorgente di tutti gli altri misteri della fede; è la luce che li illumina. È l’insegnamento fondamentale ed essenziale nella «gerarchia delle verità» di fede. «Tutta la storia della salvezza è la storia del rivelarsi del Dio vero e unico: Padre, Figlio e Spirito Santo, il quale riconcilia e unisce a sé coloro che sono separati dal peccato». Ed aggiunge che « la Trinità è un mistero della fede in senso stretto, uno dei «misteri nascosti in Dio, che non possono essere conosciuti se non sono divinamente rivelati». Indubbiamente Dio ha lasciato tracce del suo essere trinitario nell’opera della creazione e nella sua rivelazione lungo il corso dell’Antico Testamento. Ma l’intimità del suo Essere come Trinità Santa costituisce un mistero inaccessibile alla sola ragione, come pure alla fede d’Israele, prima dell’incarnazione del Figlio di Dio e dell’invio dello Spirito Santo. Come allora intendere ed accogliere questo mistero nella nostra vita di credenti e come cercare di proporlo agli altri perché si accostino ad esso con il rispetto dovuto?
Sempre dal catechismo leggiamo: « Il fine ultimo dell’intera economia divina è che tutte le creature entrino nell’unità perfetta della Beatissima Trinità. Ma fin d’ora siamo chiamati ad essere abitati dalla Santissima Trinità. Dice infatti il Signore: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23): «O mio Dio, Trinità che adoro, aiutami a dimenticarmi completamente, per stabilirmi in te, immobile e serena come se la mia anima fosse già nell’eternità; nulla possa turbare la mia pace né farmi uscire da te, o mio Immutabile, ma che ogni minuto mi porti più addentro nella profondità del tuo mistero! Pacifica la mia anima; fanne il tuo cielo, la tua dimora amata e il luogo del tuo riposo. Che io non ti lasci mai sola, ma che sia lì, con tutta me stessa, tutta vigile nella mia fede, tutta adorante, tutta offerta alla tua azione creatrice».
Dunque, un solo Dio, una sola sostanza, in Tre Persone, ciascuna con le sue caratteristiche, a cui va la stess adorazione e la stessa lode. Meditiamo, lodiamo il mistero di Dio che è Amore, contempliamo questo mistero di unità nella diversità. Anche noi siamo chiamati a condividere questo mistero, perché Dio comunica anche a noi la sua vita, e siamo chiamati – in qualche modo – a riprodurre nella nostra esistenza questo mistero di Amore. Unità, ma anche diversità, pluralismo, accoglienza dell’altro e collaborazione con gli altri. Il modello trinitario riguarda la vita dei singoli, delle famiglie, delle parrocchie e della Chiesa.
Sia questa la nostra preghiera di oggi: « Ti glorifichi, o Dio, la tua Chiesa, contemplando il mistero della tua sapienza con la quale hai creato e ordinato il mondo; tu che nel Figlio ci hai riconciliati e nello Spirito ci hai santificati, fa’ che, nella pazienza e nella speranza, possiamo giungere alla piena conoscenza di te che sei amore, verità e vita ». 

DOMENICA 30 MAGGIO 2010 – SANTISSIMA TRINITÀ – SOLENNITÀ

 DOMENICA 30 MAGGIO 2010 - SANTISSIMA TRINITÀ  - SOLENNITÀ dans Lettera ai Corinti - prima

http://www.santiebeati.it/ 

DOMENICA 30 MAGGIO 2010 – SANTISSIMA TRINITÀ  – SOLENNITÀ

MESSA DEL GIORNO LINK:

http://www.maranatha.it/Festiv2/festeSolen/TrinCpage.htm

MESSA DEL GIORNO

Seconda Lettura  Rm 5, 1-5
Andiamo a Dio per mezzo di Cristo, nella carità diffusa in noi dallo Spirito.
 
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a que­sta grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio.
E non solo: ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza.
La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.  

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dalla prima lettera ai Corinzi di san Paolo, apostolo     2, 1-16
 
Il grande mistero della volontà d Dio
Fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi presentai ad annunziarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio.
Tra i perfetti parliamo, sì, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo che vengono ridotti al nulla; parliamo di una sapienza divina, misteriosa, che è rimasta nascosta, e che Dio ha preordinato prima dei secoli per la nostra gloria. Nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscerla; se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria.
Sta scritto infatti:
Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano (Is 64, 4).
Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio. Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato. Di queste cose noi parliamo, non con un linguaggio suggerito dalla sapienza umana, ma insegnato dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali. L’uomo naturale però non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito. L’uomo spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno.
Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo dirigere? (Sap 9, 13).
Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo.

Responsorio    Cfr. Ef 1, 17. 18; 1 Cor 2, 12
R. Il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui. Illumini gli occhi della vostra mente * per comprendere a quale speranza egli vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità tra i santi.
V. Non avete ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio;
R. per comprendere a quale speranza egli vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità tra i santi.

Seconda Lettura
Dalle «Lettere» di sant’Atanasio, vescovo
(Lett. 1 a Serap. 28-30; PG 26, 594-595. 599)
 
Luce, splendore e grazia della Trinità
Non sarebbe cosa inutile ricercare l’antica tradizione, la dottrina e la fede della Chiesa cattolica, quella s’intende che il Signore ci ha insegnato, che gli apostoli hanno predicato, che i padri hanno conservato. Su di essa infatti si fonda la Chiesa, dalla quale, se qualcuno si sarà allontanato, per nessuna ragione potrà essere cristiano, né venir chiamato tale.
La nostra fede è questa: la Trinità santa e perfetta è quella che è distinta nel Padre e nel Figlio e nello Spirito Santo, e non ha nulla di estraneo o di aggiunto dal di fuori, né risulta costituita del Creatore e di realtà create, ma è tutta potenza creatrice e forza operativa. Una è la sua natura, identica a se stessa. Uno è il principio attivo e una l’operazione. Infatti il Padre compie ogni cosa per mezzo del Verbo nello Spirito Santo e, in questo modo, è mantenuta intatta l’unità della santa Trinità. Perciò nella Chiesa viene annunziato un solo Dio che è al di sopra di ogni cosa, agisce per tutto ed è in tutte le cose (cfr. Ef 4, 6). E’ al di sopra di ogni cosa ovviamente come Padre, come principio e origine. Agisce per tutto, certo per mezzo del Verbo. Infine opera in tutte le cose nello Spirito Santo.
L’apostolo Paolo, allorché scrive ai Corinzi sulle realtà spirituali, riconduce tutte le cose ad un solo Dio Padre come al principio, in questo modo: «Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; e vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti» (1 Cor 12, 4-6).
Quelle cose infatti che lo Spirito distribuisce ai singoli, sono date dal Padre per mezzo del Verbo. In verità tutte le cose che sono del Padre sono pure del Figlio. Onde quelle cose che sono concesse dal Figlio nello Spirito sono veri doni del Padre. Parimenti quando lo Spirito è in noi, è anche in noi il Verbo dal quale lo riceviamo, e nel Verbo vi è anche il Padre, e così si realizza quanto è detto: «Verremo io e il Padre e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14, 23). Dove infatti vi è la luce, là vi è anche lo splendore; e dove vi è lo splendore, ivi c’è parimenti la sua efficacia e la sua splendida grazia.
Questa stessa cosa insegna Paolo nella seconda lettera ai Corinzi, con queste parole: «La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi» (2 Cor 13, 13). Infatti la grazia è il dono che viene dato nella Trinità, è concesso dal Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo. Come dal Padre per mezzo del Figlio viene data la grazia, così in noi non può avvenire la partecipazione del dono se non nello Spirito Santo. E allora, resi partecipi di esso, noi abbiamo l’amore del Padre, la grazia del Figlio e la comunione dello stesso Spirito.

Omelia (29-05-2010)

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/18598.html

Omelia (29-05-2010) 
Eremo San Biagio

Dalla Parola del giorno
Il battesimo di Giovanni veniva dal cielo o dagli uomini? Rispondetemi.

Come vivere questa Parola?
Anche oggi, Gesù entra nel cuore del nostro vissuto e ci provoca. La domanda, ridotta all’osso, suona così: voi credete veramente alla forza della mia Parola nella sua entità di fondo che è richiamo a conversione? Si tratta anzitutto di convertire la mente.
I capi dei sacerdoti e gli scribi, i potenti uomini religiosi del tempo di Gesù, in realtà avevano una mente abitata da tutt’altro che da un retto pensare, in linea con l’umile attesa del Messia. Il loro era un arzigogolare di pensieri centrati sul loro apparire bravi e buoni e religiosi, secondo le attese della folla. Avevano sete di potere e di soldi, pur apparendo tutt’altro. Ma il ‘sembrare’ non equivale a ‘essere’.
« Se diciamo: dal cielo, risponderà: perché allora non gli avete creduto. Diciamo dunque: dagli uomini? »
Che cosa è il vero credere, se non la conversione del cuore? La domanda che i capi dei sacerdoti e gli scribi pongono a Gesù affonda le radici nella loro inautenticità che è malafede nei confronti del Signore. La domanda, invece, che Gesù pone loro e pone anche a noi, oggi, è: Hai vera fede nel mio essere Colui che salva? E se ci credi, rendi vera la tua fede convertendo il cuore e la vita?
E convertirsi vuol dire aprirgli il cuore con piena fiducia, ascoltando e vivendo il Vangelo. Se invece tengo il cuore chiuso, impedisco al flusso della vita vera di venire a me. A quanti rifiutano di credere e non fanno scelte di conversione della propria vita, Gesù oppone il silenzio. Come parlare se l’altro non ascolta? Dio tace per non travolgere e schiantare la nostra libertà!
Solo chi ascolta la sua Parola e la vive, rimane unito a Lui come tralcio alla vite, e porta molto frutto: una vita vera, buona, luminosa, gioiosa.

Nel mio rientro al cuore di oggi farò verifica circa la mia capacità e disponibilità all’ascolto.

Signore Gesù, aiutami a convertire sempre più il mio cuore: che io sia autentico, che io getti via dal mio volto le maschere dell’apparenza e dell’ipocrisia.

La voce di un testimone di oggi
Anche noi crediamo in Dio e lo preghiamo; ma poi ci convinciamo che sono i grandi predicatori a convertire le anime; e riduciamo la nostra preghiera per l’estensione del Regno a un qualcosa di futile, come la petizione ad un ufficio da cui non speriamo quasi nulla.
Carlo Carretto 

Sant’Ilario di Poitiers : « Con quale autorità fai queste cose ? »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100529

Sabato della VIII settimana delle ferie del Tempo Ordinario : Mc 11,27-33
Meditazione del giorno
Sant’Ilario di Poitiers (circa 315-367), vescovo, dottore della Chiesa
De Trinitate, VII, 26-27

« Con quale autorità fai queste cose ? »

        Dipende dal Padre, il fatto che il Figlio gli assomogli. Viene da lui, quel Figlio che gli si può paragonare, perché è simile a lui. È pari a lui, il Figlio che compie le stesse opere di lui (Gv 5,36)… Sì, il Figlio compie le opere del Padre ; perciò ci chiede di credere che egli è il Figlio di Dio. Non si arroga in questo un titolo che non gli sarebbe dovuto ; non fonda la sua rivendicazione sulle sue opere. No, rende testimonianza che queste non sono le sue opere, bensì quelle del Padre suo. E attesta così che lo splendore delle sue azioni è dovuto alla sua divina nascita. Ma come gli uomini avrebbero potuto riconoscere in lui il Figlio di Dio, nel mistero di questo corpo che aveva assunto, in questo uomo nato da Maria ? Il Signore compieva dunque tutte queste opere allo scopo di fare penetrare nel loro cuore la fede in lui : « Se compio le opere del Padre mio, anche se non volete credere in me, credete almeno alle opere ! » (Gv 10,38).

        Se l’umile condizione del suo sorpo sembra costituire un ostacolo per credere alla sua parola, ci chiede di credere almeno alle sue opere. Perché, infatti, il mistero della sua nascita umana ci impedirebbe di percepire la sua nascita divina ? … « Se non volete credere a me, credete alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me e io nel Padre »…

        Tale è la natura che egli possiede fin dalla sua nascita ; tale è il mistero di una fede che ci garantirà la salvezza : occorre non dividere coloro che sono una cosa sola, non privare il Figlio dalla sua natura e proclamare la verità del Dio Vivo nato dal Dio Vivo… « Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me, così io vivo per il Padre » (Gv 6,57). « Come il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso al Figlio di avere la vita in se stesso » (Gv 5,26).

SABATO 29 MAGGIO 2010 – VIII SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

SABATO 29 MAGGIO 2010 – VIII SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dal «Commento al libro di Giobbe» di san Gregorio Magno, papa
(Lib. 10, 47-48; PL 75, 946-947)

La testimonianza interiore
«Chi è deriso dal suo amico, come lo sono io, invocherà Dio ed egli lo esaudirà» (Gb 12, 4 volgata). Spesso la mente inferma, quando per le buone azioni è raggiunta dalla lode e dal plauso umano, si lascia andare alle gioie esteriori, dà poca importanza alle aspirazioni interiori, e si adagia volentieri in ciò che sente dire. Così si rallegra più di essere proclamata buona, che di esserlo veramente. Mentre brama parole di lode, abbandona ciò che aveva incominciato a essere. Si allontana da Dio proprio per quelle lodi che sembravano unirla a lui.
Talvolta poi attende con impegno a operare rettamente, e tuttavia è tormentata dalla derisione degli uomini. Compie cose mirabili e ne riceve insulti; e mentre le lodi l’avrebbero tirata fuori di sé, gli oltraggi la costringono a rientrare in se stessa; e tanto più saldamente si attacca a Dio nel suo interno, quanto non ha trovato all’esterno dove riposare. Allora dirige tutta la speranza nel Creatore e, tra i biasimi e le derisioni, invoca unicamente il suo testimone interiore.
L’anima afflitta si fa tanto più vicina a Dio quanto più si fa estranea alla stima e al favore umano; si dà subito alla preghiera, e, sotto la pressione esteriore, diventa più pura e più limpida, per penetrare più facilmente nel mondo interiore.
A ragione dunque si dice ora: «Chi è deriso dal suo amico, come lo sono io, invocherà Dio ed egli lo esaudirà»; i malvagi infatti, mentre rimproverano la coscienza dei buoni, dimostrano quale testimone cerchino delle loro azioni. E così i buoni vengono stimolati a raccogliersi in preghiera, e a procurarsi il favore divino nella sfera interiore proprio mentre vengono privati della lode umana nella sfera esteriore.
E’ da notare poi quanto saggiamente si soggiunga: «Come lo sono io», perché vi sono alcuni che sono oppressi dalle irrisioni umane, e tuttavia non trovano ascolto alle orecchie di Dio. Quando infatti la derisione è diretta contro la colpa, non si acquista certo alcun merito di virtù nella derisione.
«Ma viene derisa la semplicità del giusto» (Gb 12, 4 volgata). La sapienza di questo mondo sta nel coprire con astuzia i propri sentimenti, nel velare il pensiero con le parole, nel mostrare vero il falso e falso il vero. Al contrario, la sapienza del giusto sta nel fuggire ogni finzione, nel manifestare con le parole il proprio pensiero, nell’amare il bene così com’è, nell’evitare la falsità, nel donare gratuitamente i propri beni, nel sopportare più volentieri il male che farlo, nel non cercare di vendicarsi della ingiurie, nel ritenere un guadagno l’offesa subita a causa della verità.
Ma questa semplicità del giusto viene derisa, perché la purezza d’intenzione è creduta stoltezza dai sapienti di questo mondo. Infatti tutto ciò che si fa con innocenza, è ritenuto da questi senz’altro una cosa stolta; e tutto ciò che la verità approva nell’agire, suona come sciocchezza per la sapienza di questo mondo.

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