è possibile che io abbia già postato questo articolo, tuttavia, dato che commenta – un po’ ampliandola – la seconda lettura di domani lo metto comunque, dal sito:
http://www.paroledivita.it/upload/2006/articolo2_23.asp
LA SITUAZIONE DI GRAZIA DEL CRISTIANO (RM 5,1-11)
Ugo Vanni
Posta in un punto cruciale nella struttura della lettera, Rm 5,1-11 acquista, già per questo, un suo rilievo. Ma la sua importanza cresce e s’impone decisamente all’attenzione man mano che, scorrendo il suo testo, vi incontriamo i termini paolini più significativi dal punto di vista teologico-biblico. Vi si parla di Dio il Padre, di Cristo e dello Spirito; vi si parla di giustificazione, grazia, fede, amore, speranza; ricorre ripetutamente il concetto fondamentale di riconciliazione. E per ben tre volte Paolo, usando il verbo «vantarsi», avverte che il contenuto che sta presentando tocca la trascendenza divina e si entusiasma.
È una pericope che appare subito densa e promettente: ci proponiamo di farne una lettura teologico-biblica seguendo da vicino il movimento letterario del suo testo. Tenendo presenti le fasi di sviluppo del suo movimento letterario e i grandi temi teologico-biblici che man mano vi emergono, dividiamo la pericope in quattro unità letterarie minori: la situazione di grazia del cristiano giustificato (vv. 1-2), la tensione escatologica animata dalla speranza (vv. 3-5), l’amore tipico di Dio (vv. 6-9), la riconciliazione come dono pasquale (vv. 10-11).
La situazione di grazia del cristiano giustificato (5,1-2)
Paolo ha esposto, nella parte che precede della lettera, dettagliatamente e a più riprese, la trafila della giustificazione; ora si riallaccia a questo discorso e afferma: «Giustificati dunque in forza della fede, abbiamo pace verso Dio per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo» (5,1). Parlando qui dei cristiani come giustificati, Paolo suppone iniziato in loro il processo di pareggio tra la loro formula – immagine di Dio nei tratti di Cristo – e la loro situazione storica concreta (potremmo spiegare così il concetto di «giustificazione»). Tutto questo per opera di Dio, «giusto e giustificante» (Rm 3,26): «giustificati» (dikaiôthentes, passivo teologico) esprime l’azione di Dio che si concretizza nel dono del Cristo del mistero pasquale. Il cristiano dovrà solo accogliere il dono, aprire la sua porta e questo avviene per mezzo della fede; le opere che pure si esigono non la precedono e verranno dopo.
La situazione che, così, si è determinata nel cristiano è altamente positiva. Paolo ci dice che per mezzo di Gesù Cristo come loro Signore[1] i cristiani possiedono la pace verso Dio:
Giustificati dunque in forza della fede abbiamo pace verso Dio attraverso il Signore nostro Gesù Cristo (5,1).
Non si tratta semplicemente di un’assenza di guerra e di tensione. Il termine «pace» nell’Antico Testamento (AT) indica il complesso dei beni che Dio dona al suo popolo; su questa scia, nel Nuovo Testamento (NT) si concentra su Cristo detto esplicitamente «nostra pace» (Ef 2,14): pace è tutta la ricchezza cristologica della quale i cristiani sono portatori e che li plasma. I cristiani, così, non solo hanno accesso verso Dio, il Padre, ma lungi da trovarsi a mani vuote, possono presentarsi a lui come figli, pervasi come sono della vitalità che Cristo come Signore comunica loro.
Paolo, che non si stanca mai di parlare di Cristo, insiste ancora: proprio da Cristo derivano ai cristiani sia la situazione positiva in cui si trovano sia il vanto della speranza:
attraverso il quale e abbiamo ricevuto l’accesso a questa grazia nella quale ci basiamo e ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio (5,2).
La situazione che si realizza è una situazione di grazia, intesa nel senso di una benevolenza attiva da parte di Dio e di Cristo la quale produce i suoi effetti concreti sui cristiani che, così, formano come un ambiente rilevabile di bontà divina applicata. È questa la base solida su cui poggiano i cristiani, tutti costruiti sull’amore di Cristo e di Dio.
Dalla positività della situazione in cui si trova, il cristiano guarda al futuro. L’azione di Cristo che gli si comunica e che ha già una presa nel suo presente è vista in movimento. Lo specifico proprio di Dio, la sua «gloria»[2], che lo ha già raggiunto, crescendo e dilatandosi, accompagnerà il cristiano in tutto il suo cammino. Troverà il suo compimento a livello escatologico quando, per opera di Cristo risorto che partecipa la «gloria» propria della sua risurrezione, Dio «sarà tutto in tutti» (1Cor 15,28). È la prospettiva della speranza, sulla quale Paolo insiste particolarmente, fino ad affermare: «Siamo stati salvati nella speranza» (Rm 8,24). È una prospettiva esaltante: la speranza, animando già da adesso la vita del cristiano, lo mette in un contatto stretto con l’assoluto di Dio. La percezione trepida di questo assoluto fa scattare l’entusiasmo di Paolo: «Ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio»! (5,2). Per lui il verbo «vantarsi, gloriarsi» ha una valenza teologica precisa: lontano da qualunque trionfalismo, esprime il sussulto di gioia che gli provoca il contatto con Dio realizzato mediante qualche frammento di gloria, qualche aspetto di assoluto ravvisabile adesso nella vita del cristiano.
Il vanto nelle tribolazioni (Rm 5,3-5)
A questo punto Paolo sente il bisogno di completare l’affermazione fatta prima. A quello che è il vanto del cristiano, la percezione di un assoluto nella speranza della gloria di Dio, viene abbinato sorprendentemente il vanto nelle tribolazioni: «Non solo però, ma perfino ci vantiamo nelle tribolazioni». Dentro le tribolazioni Paolo avverte il sussulto dell’assoluto di Dio. Ma come può avvenire? L’affermazione di Paolo appare, a prima vista, paradossale fino a rasentare l’inverosimile: com’è possibile che l’uomo si vanti di ciò che lo ostacola e preme su di lui nel suo cammino, considerandolo addirittura un frammento di assoluto in suo possesso? E perché sente il bisogno, Paolo, di abbinare subito le tribolazioni alla speranza della gloria?
Alla base di queste affermazioni di Paolo sta la sua esperienza personale, di cui troviamo eco in 2Cor 12: la benevolenza di Dio e di Cristo non liberano il cristiano dalle tribolazioni, ma ne cambiano di segno rendendole una partecipazione alla croce di Cristo per condividerne poi la risurrezione, indivisibile dalla croce. Paolo, che si vanta «della croce di Cristo» (Gal 6,14), interpreta in questa ottica le sue tribolazioni considerandole parte del proprio assoluto. Questa esperienza personale illumina 5,3-4. Paolo ci dice qui che il cristiano leggendo il suo vissuto, interpretandolo alla luce del mistero pasquale e prendendone coscienza, vi scopre una trafila dinamica che lo porta dalle tribolazioni alla speranza. Vediamo da vicino le tre tappe successive di questa trafila.
La prima presa di coscienza riguarda l’impatto delle tribolazioni nella vita cristiana. È un impatto caratteristico:
divenuti consapevoli che la tribolazione mette in azione la pazienza (5,3).
Lungi da suscitare escandescenze o vittimismo, la tribolazione, nel cristiano consapevole, mette in moto una capacità di tenuta sotto pressione che possiamo chiamare «pazienza», nel senso di un’arte del soffrire tipica: il cristiano accoglie la tribolazione. Non la desidera e ne sente anche il peso, ma non la esclude dalla propria vita. Ci possiamo chiedere il perché e con ciò arriviamo alla seconda tappa della presa di coscienza: il discernimento, la valutazione, il collaudo delle tribolazioni:
…la pazienza [mette in azione] il discernimento[3] (5,4).
Si tratta di leggere le tribolazioni in profondità, come fa Paolo nella seconda lettera ai Corinzi. Viste nell’ottica del mistero pasquale, che contiene insieme la croce e la gloria futura della risurrezione, le tribolazioni appariranno allora come la parte presente e attuale del mistero pasquale. Ciò incoraggerà il cristiano a sopportarle, a praticare la sua pazienza tipica che stimola e mette in azione questo discernimento valutativo. Si comprende, così, anche la tappa conclusiva di questa complessa presa di coscienza:
il discernimento [mette in azione] la speranza (5,4).
Lo fa rendendo il cristiano consapevole che, data la compattezza inseparabile delle due componenti del mistero pasquale, con lo steso grado di realtà e di verità con cui ora sente e sopporta il peso delle tribolazioni, godrà, a livello escatologico, della pienezza della gloria. Il discernimento attivato dalla pazienza da una parte illumina la pazienza stessa, dall’altra spinge al contatto con la gloria futura che si realizzerà nel cristiano che spera. Paolo non si limita ad affermare tutto questo, ma ne fornisce anche una prova sorprendente: la speranza si basa tutta sull’esperienza che abbiamo di essere amati da Dio:
la speranza poi non delude perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori attraverso lo Spirito che c’è stato donato (5,5).
C’è, per Paolo, un nesso di causalità tra l’amore di Dio di cui siamo portatori e il compimento sicuro della speranza. Ma come si spiega che da un fatto realizzato nel nostro presente ricaviamo una certezza per un altro fatto che si colloca nel futuro, addirittura a livello escatologico?
Per dare una risposta occorre precisare anzitutto il senso che acquista, in se stessa e nel contesto prossimo in cui viene usata, l’espressione «amore di Dio». Come osserva R. Penna, l’interpretazione prevalente ai nostri giorni riferisce l’amore a Dio come soggetto[4]. È l’amore di un Dio che ci ama; nei nostri cuori, nella nostra interiorità è presente e viene percepita un’attività di amore che ha il taglio proprio di Dio. Come avviene tutto questo? Paolo ci dà un’indicazione condensata: l’attività amorosa di Dio nei nostri riguardi «è stata e rimane versata nei nostri cuori attraverso lo Spirito Santo che ci è stato donato». C’è stato quindi, a monte di tutto, l’invio dello Spirito come dono da parte di Dio, realizzato nel cristiano a partire dal battesimo.
Lo Spirito donato viene messo in contatto diretto con l’interiorità del cristiano. Paolo lo sottolinea quando ci dice – in Gal 4,6 – che «Dio inviò il suo Spirito nei nostri cuori». A contatto col cuore, con l’interiorità del cristiano, lo Spirito vi instilla, vi versa dentro l’attività amorosa di Dio: la testimonia (cf. Rm 8,16), la fa percepire gradualmente, potremmo dire che la versa goccia a goccia, la fa gustare, la rende addirittura transitiva abilitando il cristiano ad amare anche lui gratuitamente, col taglio proprio dell’amore di Dio. Ogni atto di amore gratuito che il cristiano riesce a realizzare e che ha, così, il tocco dell’amore proprio di Dio, porta implicita una dimensione di assoluto: fa parte di quell’amore che «non cade mai» (1Cor 13,8), cominciando ad attuare nel presente l’oggetto futuro proprio della speranza[5].
Ma Paolo insiste, qui, su un aspetto particolare. Accogliendo la pressione multipla che lo Spirito esercita nella sua interiorità – nella sua mente e nel suo cuore – a proposito dell’azione amorosa di Dio che lo riguarda, il cristiano ne prende atto e cerca di comprenderla, intuitivamente e quasi per affinità e poi anche col suo ragionamento. È quello che Paolo inculca nelle due unità letterarie che seguono e che corrispondono a due fasi del movimento letterario della pericope, collegate tra di loro e delimitate entrambe da un «infatti» iniziale (5,6.10). Da questa comprensione, che vedremo in dettaglio, apparirà evidente come l’amore di Dio nei riguardi del cristiano offre la massima garanzia per la speranza.
Dio nella morte di Cristo dimostra il suo tipo di amore (Rm 5,6-9)
Muovendosi sul filo della speranza che non delude a causa dell’amore proprio di Dio, Paolo fa anzitutto un’affermazione apodittica che qualifica l’amore di Dio:
Ancora infatti Cristo, quando noi eravamo ancora infermi, secondo il tempo stabilito, morì per gli empi (5,6).
L’ammirazione entusiasta che si aveva nell’antichità classica per chi dava la vita per un amico[6] diventa qui uno stupore che toglie il respiro: «Cristo morì per gli empi». Il fatto che Cristo, il Figlio di Dio, muore per coloro che si oppongono a Dio, supera e spiazza qualunque aspettativa umana. Nell’amore di Dio che vi si percepisce, si avverte l’infinito e il brivido della trascendenza. È questo amore che fonda la speranza.
Da questa prima esposizione intuitiva, Paolo, sempre in vista di una comprensione dell’amore di Dio come fondamento della speranza, parte per un’argomentazione ragionata:
Dio dimostra il suo amore per noi per il fatto che essendo noi peccatori Cristo morì per noi: tanto più dunque adesso, giustificati nel suo sangue, saremo salvati attraverso di lui dall’ira (5,8-9).
Ecco il ragionamento: se già la percezione dell’amore trascendente di Dio, contenuto nella morte di Cristo per noi, forniva un fondamento solidissimo alla speranza al momento in cui noi, ancora peccatori, ne siamo stati fatti oggetto e ci ha raggiunto, quanto più dovremo sperare adesso, nel tempo presente. Paolo vuole che prendiamo atto della forza operosa dell’amore di Dio che ci sta trasformando. Il segmento già realizzato della nostra giustificazione in movimento ci fa vedere che la «nostra salvezza [la salvezza definitiva con tutte le sue implicazioni, oggetto della nostra speranza] è adesso più vicina di quando diventammo credenti!» (Rm 13,11). Un aspetto di questa salvezza definitiva è la liberazione irreversibile dall’ira, da quella disapprovazione, sentita e coinvolgente, da parte di Dio che fa pressione su ogni forma di iniquità. E liberati dall’ira possederemo la gloria.
La riconciliazione in atto e la speranza (Rm 5,10-11)
Introducendolo ancora con un «infatti» esplicativo, Paolo presenta un approfondimento ulteriore dell’amore come fondamento della speranza, seguendo lo stesso procedimento espositivo che abbiamo visto nell’unità letteraria precedente. Con la differenza, però, che qui Paolo inizia subito con un’argomentazione ragionata:
Se infatti essendo nemici fummo riconciliati a Dio mediante la morte del suo Figlio, molto di più, riconciliati, saremo salvati per mezzo della sua vita (5,10).
La riconciliazione comporta il superamento di un’eterogeneità, non semplicemente la normalizzazione dei rapporti dopo un litigio; le scelte sbagliate realizzate nella vita che lo rendono peccatore, comportano nell’uomo un accumulo di materiale improprio, eterogeneo rispetto all’immagine di Dio nei tratti di Cristo che egli dovrebbe realizzare. L’uomo se ne rende conto; la sua eterogeneità oggettiva nei riguardi di Dio può allora risolversi anche in una tensione soggettiva, in un disagio oscuro rispetto a Dio proprio come se ci fosse stato un litigio. In questo senso l’uomo che pecca è nemico di Dio che invece vuole la reciprocità. Ora, dice Paolo, l’applicazione all’uomo nemico della morte del «suo Figlio», libera l’uomo della sua eterogeneità, collocandolo, nei riguardi di Dio, in uno stato di faccia a faccia amichevole. Il passaggio dalla tensione sgradevole dell’ira a uno stato d’intesa cordiale è chiamato da Paolo «riconciliazione» e l’uomo che ne beneficia appare, così, «riconciliato». È una trasformazione di tutta la vita che trova la sua punta nella reciprocità intersoggettiva tra l’uomo e Dio.
La morte del Figlio di Dio per noi ci ha, dunque, riconciliati inizialmente, quando eravamo nemici, ed è un fatto talmente grande da far sperare senza il rischio di sbagli. Ma c’è di più. Ora che possediamo l’inizio della riconciliazione ci troviamo già nel campo operativo del mistero pasquale, della la morte e della vita di Cristo. Ma se la morte del Figlio ha prodotto in noi la riconciliazione che abbiamo, la sua vita, la sua vitalità di risorto applicata ugualmente a noi ci porterà alla salvezza intesa come la riconciliazione più piena e la realizzazione del progetto di Dio sopra di noi. Di nuovo l’evento pasquale che ci riconcilia e che, partecipato fin da adesso, è già in azione e punta al massimo escatologico, ci garantisce che non arrossiremo. Possiamo davvero sperare.
A questo punto Paolo si sposta di nuovo sul presente e sintetizza quanto ci ha detto:
non solo però, ma anche ci stiamo gloriando in Dio a causa del Signore nostro Gesù Cristo per mezzo del quale adesso ricevemmo la riconciliazione (5,11).
Dio Padre, col quale siamo stati riconciliati e ci lasciamo riconciliare ulteriormente, sta davanti a noi in un atteggiamento di reciprocità amorosa: è una situazione vertiginosa che ci fa sfiorare l’assoluto della trascendenza e allora siamo entusiasti (ci vantiamo in Dio). Paolo non si stanca mai di ricordarci che tutto questo lo dobbiamo a Cristo, il dono per eccellenza da parte del Padre, da cui abbiamo ricevuto la riconciliazione.
Conclusione
Al termine della nostra analisi di tutta la pericope verrebbe da dire che in questi versetti abbiamo un condensato di tutto Paolo. Vi troviamo i grandi protagonisti del suo messaggio teologico: il Padre, il Figlio, lo Spirito e noi; vi troviamo il mistero pasquale, la trafila della nostra salvezza che cominciando dalla liberazione dal peccato si sviluppa fino alla pienezza escatologica, l’amore di Dio nei nostri riguardi con la spinta tanto forte a farlo nostro. L’elenco potrebbe continuare; ma già da questi richiami sentiamo il bisogno di condividere l’entusiasmo di Paolo: ci vantiamo con lui nella speranza della gloria di Dio che sarà nostra, ci vantiamo nelle tribolazioni che attivano una speranza che non ci delude. Con la percezione che lo Spirito suscita in noi di essere amati, ci vantiamo di Dio, ci vantiamo di Cristo. C’è davvero tanto da ringraziare.
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[1] Il termine «Signore» va inteso non nel senso di padrone, ma come comunicatore della vita divina; è il valore tipico di kyrios (Signore), in Paolo. Lo sfondo di riferimento è probabilmente la Bibbia dei LXX, che traduce con kyrios il nome proprio di Dio, Yhwh, «colui che è, colui che fa essere»; Paolo, attribuendo a Cristo morto e risorto «il nome che è al di sopra di ogni nome» (Fil 2,9), gli riconosce nei riguardi del nuovo popolo di Dio la forza creativa attribuita a Dio col nome di Yhwh a proposito del popolo antico.
[2] Il termine «gloria» ha in Paolo un valore teologico proprio, sulla linea dell’AT che vedeva nella gloria (eb. kavôd, peso) il peso proprio, il valore soggettivo di Dio che si comunica. Nel NT, soprattutto in Giovanni e Paolo, la gloria assume una dimensione cristologica: il «peso specifico» di Dio si manifesta e comunica in Cristo; cf. Gv 1,14 e 2Cor 3,18.
[3] Dando al termine raro dokimê il significato di «discernimento», «valutazione», «collaudo» abbiamo nei riguardi delle tribolazioni una diagnosi in profondità (la stessa fatta da Paolo in 2Cor 12,1-11) che le colloca nel quadro del mistero pasquale, costituito inscindibilmente dalla croce presente e dalla gloria futura, oggetto tipico della speranza.
[4] Cf. R. Penna, Lettera ai Romani, I. Rm 1-5. Introduzione, versione, commento, EDB, Bologna 2005, 429.
[5] Cf. per un approfondimento di quest’ultimo U. Vanni, «L’amore di Dio è stato versato nei nostri cuori mediante lo Spirito (Rm 5,5)», in Id., L’ebbrezza nello Spirito. Una proposta di spiritualità paolina, ADP, Roma 20022, 127-138.
[6] Basti pensare al mito di Oreste e Pilade, che Paolo poteva conoscere; ne parla anche Cicerone nel De amicitia, 24.