Paolo: a Roma in catene per Lui
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Paola RONCONI
Paolo: a Roma in catene per Lui
tratto da: in Tracce. Litterae Communionis, luglio/agosto 2000 (anno XXVII), p. 96-100.
Venne chiamato tre anni dopo la Resurrezione per convertire i Gentili. Lui che sino al giorno prima era stato il più accanito dei persecutori. L’Apostolo delle genti nella capitale dell’impero
«Vi raccomando Febe, nostra sorella, salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Gesù Cristo e la comunità che si riunisce nella loro casa, salutate il mio caro Epeneto, Maria, Andronico e Giunia, Ampliato, Urbano, Stachi, Apelle, Aristobulo, Erodione, Narciso, Trifena e Trifosa, Perside, Rufo e sua madre, Asincrito, Flegonte, Erme, Patroba, Erma e i fratelli che sono con loro. Salutate Filologo, e Giulia, Nereo e sua sorella e Olimpas e tutti i credenti che sono con loro». Così Paolo aveva scritto nel 57-58 da Corinto ai cristiani di Roma. «Ho infatti un vivo desiderio di vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale perché ne siate fortificati, o meglio, per rinfrancarmi con voi e tra voi mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io» (Rm 1,11-12). Non era mai passato dalla capitale dell’impero, non conosceva quindi tutta questa gente di persona. Molti li aveva forse incontrati in altri luoghi, altri li conosceva di fama (Rm 1,8), forse grazie a Prisca e Aquila, i due coniugi dai quali aveva soggiornato per parecchio tempo a Corinto e con i quali era sempre rimasto in contatto.
Forse proprio qualcuno di questi si era incamminato lungo la via Appia per accoglierlo, quando in catene arrivò a Roma, presumibilmente un giorno dell’anno 60. Circa 3 anni prima era stato accusato a Gerusalemme da un gruppo di giudei per aver parlato pubblicamente contro la legge mosaica. Ma Paolo aveva fatto appello alla sua cittadinanza romana per essere giudicato da Cesare. Doveva essere quindi trasferito a Roma dopo due anni di prigione a Cesarea. Da qui era salpato alla volta dell’Italia insieme a Luca (che descrive questi spostamenti negli Atti 27-28), ad altri prigionieri e al centurione Giulio, della coorte Augusta. Un viaggio via mare decisamente avventuroso, se si pensa che aveva toccato Sidone, Cipro, Mira in Licia, Cnido, Creta, dove si erano dovuti fermare per l’arrivo della stagione poco propizia alla navigazione. Quindi erano ripartiti, ma avevano naufragato a Malta, rimanendovi per quattro mesi. Poi Siracusa, Reggio e finalmente Pozzuoli, porto di arrivo per giungere a Roma. Il viaggio era continuato via terra e sulla via Appia (la strada consolare tuttora, in parte, in pietra lavica basaltina, che collegava il sud Italia a Roma), all’altezza del foro Appio (circa 50 km da Roma), gli era venuto incontro un gruppo di cristiani, avvisati del suo arrivo. Più avanti ancora, nella zona detta Tre Taverne, altri si unirono al gruppo (At 28,15). L’Apostolo delle genti, il grande navigatore, la cui fama aveva fatto il giro dell’impero, giunse così, in catene, nella Roma imperiale e pagana.
Agli arresti domiciliari
Anche se prigioniero, Paolo ottenne il permesso «di abitare per suo conto con un soldato di guardia» (At 28,16); si trattava di una “custodia militaris” (arresti domiciliari, diremmo oggi). Andò quindi in cerca di una “casa in affitto”, trovando un vasto locale in un granaio nel quartiere oggi chiamato Regola, a est del Tevere, all’altezza dell’ansa dell’Isola Tiberina (dove probabilmente il suo amico e medico Luca lavorava). Quella zona di Roma era allora popolata soprattutto da ebrei e tra qui e Trastevere c’era la più alta concentrazione di artigiani del cuoio. Anche Paolo era del mestiere: infatti, come aveva imparato alla scuola di Gamaiel a Gerusalemme, fabbricava tende di pelle già a Corinto, quando era stato ospite di Prisca e Aquila, anch’essi artigiani del cuoio.
Appena si fu sistemato, volle vedere i giudei della città, per spiegare i motivi delle accuse rivoltegli in Palestina: «Fratelli, senza aver fatto nulla contro il mio popolo e contro le usanze dei padri, sono stato arrestato a Gerusalemme e consegnato in mano dei Romani. Sono stato costretto ad appellarmi a Cesare, senza intendere con questo muovere accuse contro il mio popolo». I giudei accolsero benevolmente le sue parole e per qualche giorno «vennero in molti da lui nel suo alloggio; egli dal mattino alla sera espose loro accuratamente, rendendo la sua testimonianza, il Regno di Dio, cercando di convincerli riguardo a Gesù, in base alla Legge di Mosè e ai Profeti. Alcuni aderirono alle cose da lui dette, ma altri non vollero credere e se ne andavano discordi tra loro» (At 28,23-25).
Presto Paolo divenne un punto di riferimento notevole per la piccola comunità romana; poté godere di una certa libertà d’azione, se, come ci dice Luca, «trascorse due anni nella casa che aveva preso a pigione e accoglieva tutti quelli che venivano a lui, annunziando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù» (At 28,30-31).
Forse proprio nella casa alla Regola conobbe Onesimo (lo schiavo che Paolo rimandò all’amico Filemone insieme a una sua missiva) e scrisse le lettere ai Filippesi, ai Colossesi, agli Efesini. Oggi la chiesa di San Paolo alla Regola (dietro al Ministero di Grazia e Giustizia) ricorda il luogo della prima dimora romana dell’Apostolo, dove visse e soprattutto insegnò, come indica una scritta posta all’entrata dell’adiacente oratorio: DIVI PAULI APOSTOLI HOSPITIUM ET SCHOLA.
La seconda casa
Appena terminati i due anni di custodia (il processo contro di lui, infatti, non ebbe luogo; i suoi accusatori non affrontarono il viaggio da Gerusalemme a Roma? È plausibile), Paolo cambiò dimora: venne accolto sull’Aventino, ancora una volta a casa dei suoi amici Aquila e Prisca. Essendo giudei, erano stati cacciati da Roma dall’imperatore Claudio nel 49-50, avevano soggiornato qualche tempo a Corinto, avevano seguito Paolo nei suoi viaggi fino a Efeso, quindi erano tornati a Roma verso il 58. La loro casa era presto divenuta una «domus ecclesia», un luogo di ritrovo e preghiera per tutta la comunità cristiana di Roma. Avevano ospitato anche Pietro e, stando all’iconografia sacra, era stato proprio lui a battezzare la nobile romana Prisca (o Priscilla), mentre Aquila si era convertito in un secondo momento. Oggi su quel luogo dell’Aventino, dove già nel V secolo era attestato un «titulus Priscae» (un’iscrizione riguardante Prisca), sorge la chiesa di Santa Prisca.
La permanenza di Paolo dai due amici non durò molto. Riprese a viaggiare. Andò in Spagna, come avrebbe voluto? Non ne possiamo essere certi (Rm 15,24).
La seconda lettera a Timoteo, però, ci fa intuire che finì una seconda volta in carcere a causa della fede, sempre a Roma. Era l’anno 64. Nerone era al potere. La “Domus Aurea”, l’immensa residenza sul colle Oppio, stava prendendo forma proprio sopra le rovine del disastro che fu pretesto ideale per incastrare quel gruppuscolo di cristiani e i loro capi in particolare: l’incendio di Roma. Niente di più semplice che Paolo fosse stato sbattuto insieme a Pietro nelle celle del carcere Mamertino, nel sottostante serbatoio idrico detto Tullianum, per lesa maestà (congiura contro lo Stato).
«Sono in carcere per Lui», «A causa del vangelo io soffro fino a portare le catene come un malfattore» (2Tm 1,8; 2,9), scrisse a Timoteo. Capì di essere giunto al tramonto della sua vita: «Il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede». In un momento così duro lo prese lo sconforto della solitudine: «Dema mi ha abbandonato ed è partito per Tessalonica, Crescente è andato in Galazia, Tito in Dalmazia. Erasto è rimasto a Corinto». Qualcuno si era adoperato per fargli del male: «Alessandro il ramaio. Il Signore gli renderà secondo le sue opere. Guardatene anche tu, perché è stato un accanito avversario della nostra predicazione», e la nostalgia per gli amici era forte: «Cerca di venire presto da me. Affrettati a venire prima dell’inverno», disse all’amico Timoteo, «solo Luca è con me» (cfr. 2Tm 4,9-20).
La condanna
Questa volta il processo ebbe luogo. Paolo fu condannato a morte per lesa maestà. La pena era la decapitazione da eseguirsi in una località lungo la via Ostiense detta “Ad aquas salvias”. Alcune fonti antiche tramandano che Paolo sarebbe stato decapitato lo stesso giorno del martirio di Pietro, il trentasettesimo anno dopo la passione del Signore (Girolamo, “De viris illustribus”), cioè nel 67, l’ultimo anno del regno di Nerone. Un’edicola ormai distrutta su un tratto della via Ostiense ricordava il luogo dove Paolo e Pietro si sarebbero salutati, abbracciandosi per l’ultima volta, prima di essere giustiziati; oggi è rimasta solo una lapide.
La tradizione vuole che nel momento della decollazione la sua testa, rimbalzando tre volte a terra, abbia fatto sgorgare miracolosamente tre zampilli d’acqua. Da qui il nome di Tre fontane per quella località. Nel IV-V secolo su quel luogo venne costruita la chiesa di San Paolo ad Tres Fontes e al suo interno era chiara l’indicazione delle tre sorgenti d’acqua, su livelli diversi del terreno. Subito dopo l’esecuzione, il corpo di Paolo fu portato in una località cimiteriale, per persone di ceto medio (dagli schiavi ai militari), lungo la via Ostiense e lì seppellito. È probabile che da subito venne costruito un piccolo monumento sopra la sua tomba, di cui parla anche Eusebio di Cesarea nella sua “Storia ecclesiastica”: egli racconta del presbitero Gaio che, per controbattere a un eretico che vantava tombe illustri in Asia Minore, dichiarò: «Io posso mostrarti i trofei degli apostoli. Se vorrai recarti sul Vaticano o sulla via di Ostia, troverai i trofei di coloro che fondarono questa Chiesa». Per “trofei” si intendeva “tombe gloriose in segno di vittoria”, prendendo il termine dal linguaggio militare.
La devozione
I cristiani, come anche per Pietro, iniziarono a farsi seppellire accanto alla sua tomba. Successivamente le sue ossa vennero chiuse, per volontà dell’imperatore Costantino, in una cassa bronzea. Sopra di essa vi fece erigere una basilica che, nel corso dei secoli, subì numerose modifiche: l’attuale basilica di San Paolo fuori le mura protegge ancora, sotto l’altare di Arnolfo di Cambio, il sepolcro dell’Apostolo. È curioso che ad oggi la cassetta non sia ancora stata aperta (come invece è avvenuto nel caso di san Pietro sotto il Vaticano). Da alcuni scavi compiuti, però, sappiamo che sopra la cassa vi è (chi dice dall’epoca di Costantino, chi dal V secolo) una lastra di marmo con l’epigrafe PAULO APOSTOLO MART (a Paolo apostolo e martire). Mediante tre fori nella lastra i fedeli potevano avvicinare per contatto un proprio oggetto direttamente alla tomba di Paolo.
Alcune fonti antiche attestano che le ossa di Paolo, insieme a quelle di Pietro, “traslocarono” per una quarantina d’anni a causa della persecuzione (anno 258) promossa dall’imperatore Valeriano: per difendere queste sacre reliquie, i cristiani le avrebbero trasportate in un’altra località cimiteriale lungo la via Appia, detta “ad catacumbas” (da cui il nome “catacomba”). Per questo motivo, proprio qui l’imperatore Massenzio e il suo successore Costantino fecero costruire una basilica (la “Memoria Apostolorum”, oggi San Sebastiano, in onore di un ufficiale romano martirizzato). Entrando sulla destra c’è una lapide di papa Damaso (366-384), nella quale si dice che «i santi [Pietro e Paolo] dimorarono qui in passato»; nei locali sottostanti l’altare, recentemente scoperti, si celebravano dei banchetti in onore dei defunti, alla maniera pagana: numerose iscrizioni, visibili ancora oggi, testimoniano la devozione dei primi cristiani verso i due apostoli: «Pietro e Paolo, pregate per Vittore», «Pietro e Paolo, proteggete i vostri servi». Nel V secolo papa Sisto III qui volle una comunità monastica che assicurasse la preghiera in uno dei luoghi più cari alla memoria cristiana.
Data inserimento: 24/09/2009
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