Archive pour avril, 2010

Day 7 Shabbat, the rest of God and man

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Publié dans:immagini sacre |on 29 avril, 2010 |Pas de commentaires »

Il Cantico dell’amore (Il Cantico dei Cantici)

 dal sito:

http://www.fraternitadiemmaus.org/Sez.catechisti/Evangelizzazione/Sposi/Il%20cantico%20dell’amore/Lo%20stupore%20introduzione.doc

Il Cantico dell’amore

(Il Cantico dei Cantici)

Lo stupore iniziale

Introduzione

Il tema dell’amore è certamente affascinante e suggestivo. È fin troppo scontato affermare che l’amore dà sapore alla vita: « Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa / in cambio dell’amore, non ne avrebbe che dispregio » (Ct 8,7). Queste parole, tratte dal poema conclusivo del Cantico, confermano una consapevolezza che fa parte del nostro bagaglio di umanità e appartiene a quelle evidenze che la cultura non sembra capace di scalfire.

Il mistero

E tuttavia, dobbiamo registrare con una certa inquietudine che non sempre l’uomo appare capace di definire la verità dell’amore. Prevale, infatti, una lettura di tipo psicologico, un’interpretazione che pone l’accento più sull’istintivo bisogno di sicurezza che sul desiderio di comunione, più sulle esigenze dell’io che sulla realtà del noi. È giusto tener presente la dinamica psicologica, con tutte le sue sfumature, ma non dobbiamo dimenticare che essa s’innesta in una più ampia dinamica antropologica: l’amore è una dimensione che qualifica la natura umana, in qualche modo esprime il proprium che distacca l’uomo da ogni altra creatura.

Cosa è l’amore? È possibile rispondere in modo esaustivo a questa domanda solo tornando all’origine, l’identità è in qualche modo nascosta nel principio. Se infatti l’amore trova la sua prima causa nel cuore dell’uomo, esso rimane inevitabilmente soggetto al dinamismo psicologico della persona e serve a colmare l’ansia di insicurezza. Se invece l’amore trova la sua origine in Dio, se nasce dall’alto e trova nell’uomo solo un fertile terreno, allora possiamo affermare che l’amore è strettamente legato al mistero di comunione che abbraccia l’universo e contiene in sé la luce e la forza sufficiente per decifrare tutti gli interrogativi che fanno parte dell’umana esistenza.

La Scrittura e il Cantico ci conducono su questa seconda strada, annunciano che uno solo è l’amore da cui tutto ha avuto origine e presentano anche l’amore umano, in tutte le sue sfumature, come un riflesso dell’unico Amore.

In questa luce possiamo anche comprendere perché l’uomo cammina con fatica sulla via dell’amore e tante volte vi rinuncia: in realtà egli non ha in sé la capacità di amare nella verità e nella pienezza e rimane schiavo di sentimenti ed emozioni superficiali. Solo tornando alla fonte primitiva, chiedendo e accogliendo l’amore di Dio, può ricevere la forza per incamminarsi nell’amore. Chi vive questa esperienza scopre con immensa gioia che al termine del faticoso itinerario incontra Colui che tutto ha generato e tutti accoglie nell’unico ed eterno Amore.

Per introdurci nella lettura

1. Prima di iniziare un’attenta lettura del testo biblico, è opportuno richiamare le coordinate fondamentali del libro per fornire un’adeguata cornice di carattere esegetico e teologico. Il Cantico dei Cantici è un piccolo libretto, uno dei libri più piccoli della Scrittura: otto brevi capitoli, 1250 parole nell’originale ebraico, 117 versetti; eppure pochi libri sono stati studiati e discussi come questo. In un tempo in cui la lettura del Cantico non registrava sostanziali controversie, Sant’Agostino afferma che il Cantico è un « enigma ». Questa osservazione appare oggi più vera che mai. « Non esiste libro dell’AT di cui siano state proposte interpretazioni più divergenti » (Bibbia di Gerusalemme, 1357). È un libro che ha sempre affascinato tutti gli studiosi e non solo della Scrittura. Fin dai primi secoli registriamo numerosi commenti al testo biblico, il più antico che è giunto fino a noi è attribuito a Ippolito del III secolo: inizia così una storia che in ogni tempo si arricchisce di sempre nuovi discepoli. Ma l’abbondanza dei commenti ha generato anche, com’era prevedibile, una tale divergenza di interpretazioni da rendere il testo quasi indecifrabile e di difficile lettura. Per ritrovare il senso originario del testo è necessario recuperare una buona dose di ingenuità, solo così possiamo gustare la poesia amorosa e scoprire tra le righe, e spesso nascoste nelle stesse parole, sollecitazioni che invitano ad andare oltre, fino a raggiungere le vette della spiritualità. Conserviamo anche lo stupore per scorgere negli eventi ordinari l’inconfondibile impronta del divino.

2. Cominciamo dal titolo: « Cantico dei Cantici » (Ct 1,1): in ebraico la ripetizione del vocabolo – sir hassirim – è un rafforzativo e significa il « cantico sublime », il primo dei cantici. Si potrebbe anche dire « il miglior canto » (Schökel), « il più dolce e incantevole canto della Bibbia » (Ravasi, 1992, 146). La forma grammaticale usata si trova anche in altri luoghi della Scrittura per dare maggiore risalto alla cosa o alla persona che s’intende esaltare: il luogo più interno della tenda del convegno, e poi del Tempio, viene chiamato il « Santo dei santi » (Es 26,33); Jhwh è definito « il Dio degli dei, il Signore dei signori, il Dio grande, forte e terribile » (Dt 10,17); e così pure l’espressione « cieli dei cieli » che Salomone usa nella sua preghiera quando inaugura il Tempio (1Re 8,27). Il titolo indica con quanta venerazione l’ebreo si accostava al Cantico: aveva ragione Rabbì Aqiba (II secolo d.C.) quando diceva che « il mondo intero non è degno del giorno in cui il Cantico è stato donato ad Israele ». Nel titolo è anche annunciato che si tratta di un canto, cioè di una composizione che riveste la preghiera di lode (sal 30,1) ed esprime la gioia in occasione degli eventi più belli dell’umana esistenza.

Alcune coordinate storiche

3. Da chi è stato scritto? Il titolo del libro presenta Salomone come autore del cantico: « Cantico dei cantici, che è di Salomone » (1,1). Gli esegeti sono concordi nel ritenere che si tratta di un’attribuzione letteraria. La Scrittura, infatti, presenta Salomone come un re saggio e gli attribuisce « tremila proverbi e millecinque poesie » (1Re 5,12). Da notare che anche il libro dei Proverbi e il Qoelet sono posti sotto la sua paternità. Questo richiamo non è però del tutto arbitrario: in effetti è stato proprio Salomone ad aprire i confini culturali e a favorire l’incontro con la cultura e la poesia amorosa dei popoli vicini, a cominciare da quello egiziano. Secondo alcuni esegeti, il Cantico è una raccolta di poemi amorosi scritti in epoche diverse, alcuni anche molto antichi, che sono state successivamente raccolte in un solo libro da un Redattore, che fa parte della scuola sapienziale nata dopo l’esperienza dell’esilio, il quale ha dato al testo una precisa cornice teologica e spirituale. La sostanziale unità del testo, secondo Ravasi, impedisce di vedere in esso solo una raccolta antologica, siamo davanti ad una composizione unitaria che utilizza con raffinatezza elementi poetici e teologici più antichi (Ravasi, 85).

4. L’autore del Cantico, cioè colui che ha raccolto e unificato in un solo testo poemi diversi, « è un poeta originale e un letterato abile » (Bibbia di Gerusalemme, 1359), egli non ha solo raccolto i canti ma li ha anche rielaborati, il linguaggio poetico infatti presenta uno stile particolarmente elaborato. Per leggere oggi il testo biblico dobbiamo partire proprio dalla veste teologica che ricopre i singoli canti che lo compongono. Molti autori ritengono che il Cantico sia entrato a far parte del canone biblico grazie a questa rilettura sapienziale. Bisogna perciò domandarsi: qual era l’intenzione che ha ispirato il sapiente a raccogliere questi antichi testi della tradizione nuziale? La risposta a questa domanda non trova tutti concordi. Alcuni esegeti ritengono che la composizione sia nata dal desiderio di rileggere in chiave sponsale la storia d’Israele. Altri rifiutano questa lettura esclusivamente allegorica e affermano che lo scopo del libro è quello di esaltare l’amore umano.

5. Quando è stato scritto? La questione cronologica è strettamente legata a quella dell’autore. Chi propende per la raccolta antologica ritiene che si tratta di scritti distribuiti lungo un arco di tempo assai ampio. Chi invece abbraccia l’ipotesi di uno stesso autore, non fatica a fissare la data di composizione nella fase più recente del canone ebraico. Si tratta di un problema assai complesso che trova negli studiosi risposte molto diverse. Alcuni ritengono che sia impossibile giungere ad una datazione sicura. La gran parte degli studi esegetici tuttavia riconoscono che il testo, pur costituito di singoli brani più antichi, è stato composto nella sua attuale forma unitaria in tempi più recenti. Nel testo definitivo troviamo alcune tracce – la presenza di parole persiane (1,12, 4,13.14) e forse di una parola greca (3,9) (Bibbia di Gerusalemme, 1359; Ravasi, 1992, 80) – che orienta decisamente verso il periodo post-esilico, tra il V e IV sec a.C. Per questo nella Bibbia ebraica il Cantico è posto nella terza parte, quella che raccoglie gli scritti più recenti.

L’intenzione teologica

6. Perché è stato scritto? Questa domanda appassiona gli studiosi e trova ancora oggi risposte assai divergenti. Alcuni vi leggono solo un’allegoria, un annuncio suggestivo, che riprende in forme nuove la predicazione profetica, dell’infinito amore che Jhwh nutre per il suo popolo. Altri propongono un’interpretazione di tipo sapienziale, in questa luce il Cantico rappresenta un commento alla benedizione genesiaca del matrimonio (Gen 1,28). Altri ancora si limitano a considerare il motivo dell’amore umano e ritengono che il Cantico sia solo un poema amoroso. Non è facile districarsi tra opinioni così diverse. La datazione storica forse potrebbe offrire un indizio significativo. Se davvero il testo è stato rielaborato nel periodo successivo all’esilio possiamo comprendere allora sia il suo valore religioso che il ruolo che esso occupa nella storia della rivelazione:

« in un momento particolarmente difficile d’Israele, quali erano i giorni della restaurazione post-esilica, quando tutto poteva essere messo in discussione (l’amore di Dio, la vocazione di popolo eletto, la validità del culto, la persistenza dell’Antica alleanza sinaitica, la coscienza di poter resistere all’assalto della più brillante cultura ellenistica), si inserisce assai bene il nostro libro, che, riletto con altri intenti, poté dare agli sfiduciati reduci la certezza dell’immutato amore di JHWH verso di loro e la coscienza di essere pur sempre degli eletti » (D. Colombo, Cantico dei cantici, 766).

In questa prospettiva possiamo intravedere nella rilettura sapienziale un chiaro tentativo di riproporre in termini sponsali la relazione tra Jhwh e il suo popolo. L’autore sacro rilegge nella luce della fede una storia non priva di contraddizioni e annuncia con la simbolica dell’amore che Dio non è stanco del suo popolo e che il suo amore è « forte come la morte » (Ct 8,6). Questo annuncio non solo trova nell’amore umano una sua forte simbologia (come nella letteratura profetica) ma permette di vedere in esso un chiaro riflesso della presenza di Dio. L’amore umano rivela la modalità che Dio ha scelto per parlare al cuore d’Israele e diventa la via ordinaria e nascosta che Egli usa per raggiungere ogni creatura.

7. Nel leggere il Cantico non dobbiamo dimenticare che non si tratta di un trattato sull’amore ma di un testo poetico, raccoglie una serie di canti (anche sull’enumerazione dei canti vi sono non poche divergenze) che forse venivano utilizzati nella celebrazione nuziale o di fidanzamento. « Gli ebrei del I secolo usavano il Cantico nelle feste profane di matrimonio » (Bibbia di Gerusalemme, 1358). Nella traduzione della CEI il libro è diviso in 5 poemi che s’intrecciano e si richiamano continuamente. Uno studioso ha letto in questa scelta un tentativo di accreditare il Cantico come una sorta di pentateuco dell’amore che forma un tutt’uno con il pentateuco dell’alleanza (primi cinque libri dell’AT) e il pentateuco orante (anche il salterio è diviso in cinque libri): « Come i primi cinque libri della Bibbia ripetono l’impegno dell’Alleanza, così anche il Cantico ripete ininterrottamente l’impegno dell’amore » (Ravasi, 1988, 15). I diversi poemi non sono tra loro collegati come se facessero parte di un’unica trama ma hanno in comune solo il tema dell’amore. Di conseguenza non dobbiamo cercare un senso logico ma seguire le intuizioni poetiche, espresse a volte con un linguaggio estraneo alla nostra cultura, e cogliere il messaggio sapienziale racchiuso in esse.

Un libro ispirato

8. Nonostante tutte le dispute che si addensano intorno a questo piccolo libro, non vi sono mai stati seri dubbi sulla sua canonicità (Ravasi, 1992, 116-120). Il Cantico dei cantici non è solo una raccolta sapienziale di canti amorosi ma è un libro ispirato: con questa espressione la Chiesa qualifica quei testi che hanno Dio per Autore. Il Cantico fa parte del canone biblico – di quello ebraico come di quello cattolico – dai tempi più remoti. Nel sinodo rabbinico di Iamnia del 90 d.C., l’ultimo primo della diaspora, si levarono alcune voci che mettevano in dubbio la sua divina ispirazione. Alla fine prevalse l’opinione del Rabbi Aqiba che richiamò l’ininterrotta tradizione dei padri e concluse con questa affermazione rimasta famosa: « Tutti i libri sono santi ma il Cantico dei cantici è il santo dei santi » (cf D. Colombo, 755). Due antichi testi rabbinici, citati da Ravasi (1992, 43), ci aiutano a comprendere in quale misura questo testo era venerato presso gli ebrei:

« Quando Adamo peccò, Dio salì al primo cielo allontanandosi dalla terra e dagli uomini. Quando peccò Caino, salì al secondo cielo. Con la generazione di Enoc salì al terzo cielo, con quella del diluvio al quarto, con la generazione di Babele al quinto, con la schiavitù d’Egitto salì al sesto cielo e al settimo cielo, l’ultimo e il più lontano dalla terra » (Genesi Rabbà 19,13).

« Dio però ritornò sulla terra il giorno in cui fu donato il Cantico d Israele » (Zohar Terumah 143-144a).

Il nono canto

9. Un’antica interpretazione ebraica inserisce il Cantico in un decalogo e lo presenta come il nono canto: il primo è quello di Adamo quando fu assolto dal suo peccato (sal 92,1), il secondo lo disse Mosè quando si aprì il mar Rosso (Es 15,1), il terzo fu proclamato dai figli di Israele quando fu loro data l’acqua nel deserto (Nm 21,17), il quarto è detto da Mosè prima di lasciare questa terra (Dt 32,1), il quinto è detto da Giosuè quando il sole e la luna si fermarono (Gs 10,12), il sesto fu detto da Debora e Barak quando il Signore mise il nemico nelle loro mani (Gdc 5,1), il settimo lo disse Anna quando ebbe il figlio dal Signore (1Sam 2,1), l’ottavo lo disse Davide per tutti i prodigi che il Signore aveva fatto per lui (2Sam 22,1), il nono canto appunto è quello proclamato da Salomone per lodare il Dio d’Israele. Il decimo e ultimo canto « lo diranno i redenti quando saranno riscattati dall’esilio ». A partire dal IV secolo il Cantico è utilizzato nella liturgia ebraica nella festa più solenne, quella della Pasqua: in esso l’ebreo leggeva la propria storia di liberazione, contemplava l’amore fedele di Dio e pregustava il giorno della pienezza messianica. Questa scelta testimonia il valore che il Cantico aveva presso gli ebrei ma anche la prospettiva teologica sottesa all’uso liturgico. Solo una lettura di tipo allegorico poteva giustificare l’inserzione nella liturgia pasquale.

La Teologia del Corpo (anche Paolo)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-22197?l=italian

La Teologia del Corpo

(anche Paolo)

ROMA, sabato, 24 aprile 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la Lectio magistralis pronunciata dal Vescovo Jean Laffitte, Segretario del Pontificio Consiglio per la Famiglia, nella Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” di Roma, il 22 aprile.

* * *

Il corpo umano e i suoi significati

Vorrei incominciare questa mia relazione con una prima osservazione sul titolo scelto: teologia del corpo. In verità l’espressione è paradossale. Il discorso su Dio, teo-logia, si riferisce alla persona umana considerata nella sua totalità e non solo in una dimensione del suo essere, qui, il corpo. Quindi quando si parla di teologia del corpo, è necessario capire fin dall’inizio in quale accezione si intende la parola corpo. Si tratta di tutta la persona umana considerata nella sua dimensione corporea. Parliamo così di un corpo animato, i cui fenomeni possono essere studiati nel campo di varie scienze: fisiologia, anatomia, tutti i settori delle scienze biomediche. Non è in questo senso ristretto fisiologico che la parola corpo deve essere intesa nella nostra prospettiva. Infatti, il corpo umano ha altri significati. Nella misura in cui rende presente e visibile tutta la persona umana, è portatore di valori simbolici: il corpo é la modalità in cui la persona è resa presente. Ogni persona si dà da contemplare nel suo corpo; il corpo è unico, singolare, personale. È certamente una realtà carnale. Tuttavia, è animato non al modo con cui un robot sarebbe animato da movimenti meccanici e stereotipati, ma in un modo tale da essere subito identificato come corpo di questa persona precisa. In questo senso, tutti i corpi sono diversi, perché diverse sono le persone.
Se ci vogliamo limitare all’antropologia di San Paolo, come la troviamo espressa per esempio nella prima lettera ai Tessalonicesi dove l’Apostolo si riferisce all’uomo tutto intero spirito, anima e corpo (1 Ts 5,23), vediamo che una realtà invisibile, indicata dai due termini anima e spirito, sui quali diremo poi una parola, è completata da un dato materiale, visibile, espresso dalla parola corpo. Come l’ha fatto giustamente osservare Denis Biju-Duval [1] questa antropologia non si deve opporre alla classica distinzione anima e corpo, più familiare agli spiriti occidentali. Secondo questo autore, le due antropologie (anima-corpo e spirito-anima-corpo) sono state opposte artificialmente, sostantivando i termini semitici, espressi nella Bibbia sotto forma di aggettivi: lo spirito (pneumatikos), lo psichico (psychikos). Le realtà spirituale e psichica rimandano all’interiorità dell’uomo, al cuore, luogo simbolico sia della decisione (spirituale) sia dei sentimenti e dell’affettività (psichica). L’interiorità dell’uomo si comprende solo nella tensione con la sua esteriorità. La carne esprime ciò che in qualche modo capita nel cuore dell’uomo. È talmente vero che, per designare la realtà interiore dell’uomo, si usa spesso simboli ed immagini ispirate all’esteriorità (oltre al linguaggio spaziale come per il binomio interiore-esteriore, troviamo elementi organici, il cuore, l’aria pura, le viscere, o ancora elementi naturali, parlando del cuore come di una terra fertile o sterile come di un tempio, di una casa, ecc..).
Oltre a questa funzione di rivelare qualcosa di nascosto, il corpo possiede il ruolo di mediare tra l’uomo e il mondo. Esiste una certa ambiguità del corpo nella misura in cui si trova per così dire a metà strada tra un oggetto subito (Körper) e un fatto assunto (Leib), tra se vogliamo l’avere e l’essere: ho un corpo che mi causa sofferenza o piacere, ma al contempo sono un corpo in tal modo che chi attacca e ferisce il mio corpo attacca e ferisce tutta la mia persona. Sono il mio corpo. Il mio corpo esige naturalmente rispetto.
Mi sembra che le distinzioni fatte aiutano a capire come la parola corpo sia una realtà complessa. Rimane adesso da dire qualcosa su l’altro termine del nostro titolo teologia.

Il corpo ha una valenza teologica per tre motivi fondamentali:

- il primo è il fatto che è stato voluto da Dio e creato da lui. Questa osservazione implica necessariamente che è portatore di alcune finalità intrinseche.
- Il secondo motivo è che Dio ha scelto il corpo umano come mediazione per rivelarsi agli uomini: è il dato dell’Incarnazione. Il verbo si è fatto carne.

- A questi due elementi, Creazione e Incarnazione, si deve aggiungere un terzo, la Risurrezione, che riguarda il destino finale del corpo umano; è un dato che specifica la fede cristiana: la resurrezione dei corpi. Nonostante la sua crescita, le sue sofferenze, il suo invecchiamento fino alla morte naturale, e la sua decomposizione organica, il corpo umano è destinato a risorgere. In una visione di fede, questo dato è stato accreditato dall’evento storico fondamentale che è stato la risurrezione di Gesù dai morti. È sulla base di tale evento che il cristiano crede davvero che ci sarà una resurrezione dei morti; un evento fondamentale per lui e per tutti gli uomini che saranno integrati alla forza del Risorto. Potremmo in un altro luogo approfondire il fatto che la risurrezione del corpo, lungi da essere una credenza irrazionale, si fonda al contrario sull’eminente coerenza della fede, espressa in questo campo dalla comunanza di destino tra il corpo di ogni battezzato e il corpo del Signore risorto.
È impossibile fondare una teologia del corpo senza integrare la certezza delle resurrezione. Ci aiuta in questo senso il testo essenziale di San Paolo nella prima lettera ai Corinzi: Il corpo poi non è per l’impudicizia ma per il Signore, e il Signore è per il corpo. Dio poi, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza (1 Cor 6, 13-14). Nel contesto di un insegnamento su l’uso sbagliato e peccaminoso del corpo che è la fornicazione, l’Apostolo trae le conseguenze morali in questo modo: Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Prenderò dunque le membra di Cristo e ne farò membra di una prostituta? Non sia mai! O non sapete voi che chi si unisce alla prostituta forma con essa un corpo solo? I due saranno, è detto, un corpo solo. Ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito (1 Cor 6, 15-17). In verità, per essere completi, dovremmo prolungare la lettura di San Paolo, in particolare ricordare queste due idee seconde le quali il corpo è tempio dello Spirito Santo, e poi che l’uomo non si appartiene più, dal momento che è stato comprato a caro prezzo dal Signore. Il caro prezzo è stato quello del Calvario, della passione e della morte di Gesù sul legno della croce.
Per riassumere in poche parole questi fondamenti della Teologia del corpo, è necessario non trascurare nessuno degli elementi appena evocati: creazione dell’uomo da Dio e quindi creazione del suo proprio corpo, assunzione del corpo umano dal Figlio eterno del padre, risurrezione di Gesù e risurrezione degli uomini nella sua persona, presenza dello Spirito di Dio come in un tempio, dando al corpo umano una eccelsa dignità.

Elementi strutturali della Teologia del corpo in Giovanni Paolo II

È solo a questa luce della fede cristiana che si può entrare nella comprensione della teologia del corpo di Giovanni Paolo II. Come si sa, la teologia del corpo designa il contenuto delle 129 Catechesi sull’amore umano che il Papa ha pronunciato dal 1979 al 1984 in occasione delle udienze pubbliche del mercoledì. Conoscete tutti almeno parte di questi testi che personalmente ritengo un apporto fondamentale del Magistero ordinario del pontefice polacco, e di cui sono convinto che siamo ancora solo all’inizio della diffusione.
La fecondità delle Catechesi proviene dal fatto che, non solo integrano l’insieme dell’approccio biblico e magisteriale tradizionale della Chiesa, ciò che abbiamo già provato a mostrare brevemente all’inizio di questa conversazione, ma esplicitandolo in un modo straordinariamente originale. L’originalità sta nel modo di presentare il contenuto della fede sulla persona umana, nel dinamismo proprio del soggetto. In questo modo, l’uditore o il lettore si sente personalmente impegnato in questa visione che prende un carattere esistenziale forte. Questa mi sembra una chiave centrale per capire la novità dell’apporto di Giovanni Paolo II.

a) il carattere concreto dell’esperienza

Vorrei ora darvi un primo criterio essenziale della teologia del corpo secondo Giovanni Paolo II, perchè gli consente di evitare fin dall’inizio ogni rischio di ideologia: si tratta del suo concetto di esperienza. Lungi dall’essere ridotta all’osservazione di fenomeni scientificamente osservabili, l’esperienza dell’amore non trascura alcuna delle dimensioni del vissuto umano. Tutti gli elementi dell’umana percezione e dei dinamismi volitivi dell’uomo sono presenti, oltre alla sua capacità di entrare in relazione con Dio. La comunione di persone secondo le Catechesi non si accontenta di usare l’apporto del personalismo di Martin Buber o di Max Scheler, ma ne dà la vera portata trascendente, dopo averne identificato la fonte in Dio: essere in comunione significa essere uniti a Dio fonte e fine di ogni autentica comunione umana. L’esperienza è un vissuto (un Erlebnis), il che significa a questa luce che Dio non è estraneo all’esperienza: l’uomo e la donna sperimentano la presenza e l’azione di Dio e Dio dà a loro la capacità di vivere una comunione di persone che diventa mediazione dell’assoluto e cammino verso di lui. È in questo senso che la comunione di persone è una vocazione e consente a chi ama davvero di santificarsi. In altre parole, di crescere nella comunione con Dio.
Faccio volentieri osservare che l’approccio delle Catechesi non è moralistico o volontaristico, ma si tratta di un approccio autenticamente mistico, nel senso che è concentrato sul mistero inafferrabile dell’unione tra Dio e l’uomo nel quale si inserisce la relazione nuziale uomo donna.

b) la solitudine originaria

La prima parte delle Catechesi è dedicata in modo classico alla lettura dei due racconti della creazione dell’uomo e della donna nei primi capitoli del libro della Genesi:1, 26-27. E Dio disse: facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza… Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò (Gen 1,26-27) ». Il secondo racconto (Gen 2, 18-25) mostra la creazione della donna a partire dalla costola di Adamo e l’accettazione da quest’ultimo del dono del creatore: questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. Da queste fonti tradizionali, il Papa non teme di proporre una lettura di tipo filosofico: usa un concetto normalmente psicologico, la solitudine, e lo trasforma in una realtà ontologica di creazione. Nasce così la geniale espressione solitudine originaria che definisce lo stato oggettivo nel quale fu creato il primo uomo, Adamo, che è pienamente realizzato nella sua umanità quando a lui viene offerto un aiuto a lui simile. Il secondo racconto presenta a questa luce l’uomo sotto l’aspetto della sua soggettività.
Il primo rapporto che sperimenta l’uomo è la sua relazione a Dio che l’ha creato direttamente a partire dall’argilla. È da Dio che riceve l’ordine di non gustare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Quindi, questo legame di dipendenza fondamentale da Dio fa capire la condizione etica dell’uomo, che si trova per la prima volta davanti a una scelta morale: ubbidire o disubbidire.
La solitudine originaria suggerisce l’attesa dell’uomo di questo aiuto a lui simile, ciò che consente di integrare in modo coerente il fondamentale desiderio che l’uomo ha di essere unito ad una donna. Viene integrata così tutta la dimensione del desiderio e della sua espressione sessuale: ormai i due faranno una sola carne.
La solitudine ha due significati essenziali: l’uomo si scopre diverso da tutto il mondo che lo circonda e sperimenta la specificità del suo essere nei confronti di tutte le creature.
Il secondo elemento interessa di più il nostro proposito. È al rapporto maschio-femmina che si riferisce Giovanni Paolo II quando parla di solitudine originaria: l’uomo fa l’esperienza dei propri limiti simboleggiati dai confini naturali del proprio corpo. La contemplazione del corpo della donna lo introduce in un’esperienza singolare, quella della bellezza del corpo. Attraverso questa mediazione che coinvolge tutta la sua natura, egli fa in un modo ancora più fondamentale l’esperienza della comunione. Come vediamo, il corpo serve anche a scoprire, attraverso l’ambiguità del desiderio, la vocazione profonda dell’uomo e della donna alla comunione.

c) la communio personarum

Un altro esempio è quello della comunione di persone, (communio personarum). La comunione rappresenta anche un dato di esperienza personale: essere in comunione con Dio, essere in comunione con l’altro. La seconda originalità di Giovanni Paolo II è di avere visto nella comunione di persone un dato creaturale che è stato perfettamente illustrato da un testo magisteriale: Mulieris Dignitatem. Mi riferisco ai primi numeri della lettera apostolica. Cito: Il fatto che l’uomo, creato come uomo e donna, sia immagine di Dio non significa solo che ciascuno di loro individualmente è simile a Dio, come essere razionale e libero. Significa anche che l’uomo e la donna, creati come « unità dei due » nella comune umanità, sono chiamati a vivere una comunione d’amore e, in tal modo, a rispecchiare nel mondo la comunione d’amore che è in Dio, per la quale le tre Persone si amano, nell’intimo mistero dell’unica vita divina ». In questo testo, in realtà, troviamo un eco di ciò che Giovanni Paolo II aveva introdotto in una delle Catechesi, procedendo a un’estensione straordinaria del concetto tradizionale di immagine di Dio. Egli infatti aveva scritto con audacia che: l’uomo diventa immagine di Dio non tanto nel momento della solitudine quanto nel momento della comunione ». Fin dall’inizio, infatti, non era solo l’immagine nella quale rifletteva la solitudine di una Persona che governa il mondo, ma anche, ed essenzialmente, l’immagine di una divina ed imperscrutabile comunione di Persone » [2].
L’implicazione di questa visione consente a Giovanni Paolo II di mettere in rilievo la complementarietà sessuale, nella misura in cui essa esprime proprio la comunione di persone come dato originario. L’assoluta novità della Teologia del Corpo, qui, proviene dal fatto che, nell’atto creativo dell’uomo da parte di Dio, è iscritta in questo modo la corporeità dell’uomo e della donna come una chiamata alla comunione.
Mi sia permesso qui di invitarvi a meditare la tendenza che esiste oggi, ad abbandonare il criterio assoluto della comunione per cogliere il vero senso della sessualità; esiste, infatti, un nesso tra questa tendenza e l’odierna ideologia che consiste nel trascurare la diversità sessuale attraverso la negazione esplicita della mascolinità e della femminilità. Mi riferisco all’ideologia del gender, la quale non ha altra scelta che una riduzione miserabile del mistero della sessualità umana a un dato meramente culturale, il quale fonderebbe il carattere indifferenziato delle scelte di comportamento nel campo sessuale. È interessante notare che questa visione ideologica si accompagna ad una mancanza di speranza nella capacità dell’uomo e della donna di vivere per sempre una comunione di persone nella sua forma coniugale, ciò che suppone d’evidenza la decisione di rispettarne i due caratteri essenziali di unità e indissolubilità.

d) il desiderio e la scoperta della dimensione sponsale del corpo

Ho parlato prima di ambiguità del desiderio nel senso che, nella sua struttura, il desiderio sessuale, come lo mostreranno alcune Catechesi, contiene insieme una dimensione gratificante che mira alla dilatazione del proprio essere nell’unione dell’uomo con la donna, ma anche un certo pathos, una sofferenza di chi sperimenta che non può dare a se stesso una gioia che solo la comunione con l’altro (o l’altra) può suscitare.
La ricchezza di un tale approccio mi sembra evidente. Osserviamo che trova la sua origine in una lunga contemplazione da parte del filosofo Karol Wojtyla del fenomeno dell’amore, nonché di un suo approfondimento della sua espressione coniugale nel mistero della sessualità. Una lettura delle sue opere filosofiche e antropologiche, per esempio, Amore e Responsabilità, Persona e Atto, i numerosi articoli pubblicati in Polonia di cui abbiamo da alcuni anni la traduzione in lingua italiana, manifesta l’influsso di vari autori appartenenti alle correnti fenomenologiche e personalistiche. Non è possibile sviluppare qui ciò che il filosofo Karol Wojtyla deve a ciascuno di questi autori di cui possiamo soltanto citare i principali: Edmund Husserl, Max Scheler, Edith Stein, Dietrich von Hildebrand.
Il desiderio manifesta un valore inscritto nel corpo: la sua dimensione sponsale. Il corpo è orientato al dono della persona. Secondo le parole stesse del Papa [3]3: il corpo esprime la femminilità per la mascolinità e viceversa la mascolinità per la femminilità, manifesta la reciprocità e la comunione delle persone. Proprio nell’Amore la persona diventa dono. Giovanni Paolo II si ispira all’antropologia sviluppata nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes per la quale l’uomo come persona, creatura che Dio ha voluto per se stessa, non può ritrovarsi pienamente se non mediante il dono di sé [4]4.
L’uomo puro di cuore scopre il significato sponsale del proprio corpo orientato verso il dono di tutta la persona e il ricevimento di tutta la persona dell’altra. L’amore presuppone questo doppio movimento, in una reciprocità del dono che i due coniugi fanno di sé all’altro (altra). Questo implica che i due siano giunti alla coscienza del significato del corpo. Il rispetto del significato del corpo segna un ethos del dono che consente ai vari dinamismi della persona di essere integrati.

e) il linguaggio del corpo

Sappiamo che il giovane esperto, al Concilio Vaticano Secondo, Karol Wojtyla, aveva partecipato alla riflessione e ai dibattiti su ciò che sarebbe diventato il contenuto dell’enciclica Humanae Vitae nel 1968. L’enciclica di Paolo VI ha dato luogo ad una contestazione dell’insegnamento e dell’argomentazione della morale coniugale insegnata in quel testo. L’arcivescovo di Cracovia aveva capito che il cuore dell’argomentazione doveva essere fondato sull’affermazione del carattere inscindibile delle due dimensioni dell’atto coniugale: unitiva e procreativa. Già la Costituzione Gaudium et Spes del Concilio Vaticano Secondo aveva sviluppato questa analisi della natura dell’atto sessuale, il quale doveva riflettere l’integro senso della mutua donazione e della procreazione umana. L’atto coniugale possiede una intima struttura che va rispettata: è insieme un atto di profonda unione tra i coniugi e un atto che, nella misura in cui rimane aperto alla vita, può avere come conseguenza la venuta all’esistenza di una nuova persona umana. Questo possibile effetto non dipende solo dalla volontà degli sposi, come lo mostra il fatto che non tutti gli atti sessuali sono seguiti da un concepimento. L’osservazione ci aiuta a ricordare che il vero datore della vita è Dio creatore. Tuttavia, gli sposi hanno il potere di rendersi disponibili all’eventuale accoglienza di questa nuova vita, agendo in questo modo come dei collaboratori del Creatore. Per questo motivo sono detti procreatori. La trasmissione della vita è quindi una forma di servizio. Le due dimensioni dell’atto che unisce profondamente gli sposi non possono essere separate da un atto deliberato dei coniugi. Nella sua Teologia del Corpo, Giovanni Paolo II ricorda che Humanae Vitae si riferiva alle leggi iscritte nell’essere stesso dell’uomo e della donna. L’intima struttura dell’atto sessuale è chiamata dal Papa la verità ontologica dell’atto. Ora, gli atti degli sposi devono esprimere una tale verità. I coniugi la assumono rimanendo aperti alla trasmissione della vita; è un atteggiamento interiore che è reso possibile dalla virtù di castità coniugale. Il corpo umano è il mezzo di espressione dell’uomo integrale, della persona che rivela se stessa attraverso il linguaggio del corpo. Questo linguaggio dice Giovanni Paolo II ha un importante significato interpersonale, specialmente quando si tratta dei rapporti reciproci tra l’uomo e la donna. Il Papa aggiunge però che a un determinato livello il linguaggio del corpo deve esprimere la verità del sacramento. È una partecipazione all’eterno piano d’amore di Dio, ciò che gli consente di diventare quasi un profetismo del corpo. Vediamo che Giovanni Paolo II cerca di unire così la dimensione sacramentale del dono degli sposi alla dimensione personalistica. Così abbiamo una vera rivelazione del corpo che, nell’atto coniugale, significa non soltanto l’amore ma anche la potenziale fecondità. Se non è lecito separare il significato unitivo dal significato procreativo, è perché l’uno e l’altro appartengono alla verità dell’atto: l’uno si attua insieme all’altro e, in certo senso, l’uno attraverso l’altro. Non posso sviluppare qui tutta la forza argomentativa dell’enciclica Humanae Vitae visitata e interpretata da Giovanni Paolo II, né le implicazioni etiche che riguardano la paternità e la maternità responsabili e l’uso di metodi naturali per limitare le nascite, quando ci sono dei seri motivi (iustae causae). Per Giovanni Paolo II la malizia essenziale dell’atto contraccettivo, cioè reso deliberatamente infertile, proviene dal fatto che viene violato l’ordine interiore della comunione coniugale.

f) il sacramento del corpo

È questa relazione nuziale tra i coniugi che è il luogo della presenza di Cristo. La riflessione di Giovanni Paolo II sulla sessualità ha sempre avuto una prospettiva cristologica. Cristo è fonte e modello dei rapporti tra i coniugi. Il mistero nuziale d’amore tra Cristo Sposo e la Chiesa Sposa fonda i mistero del matrimonio cristiano. In una visione di fede la comunione d’amore e di vita tra i coniugi ha come missione propria, di natura profetica, di significare e di rendere attuale l’unione tra Cristo e la sua Chiesa. Dovremo riflettere sul modo con cui la Chiesa è veramente una comunione di vita e di amore. Da una parte è all’interno della Chiesa che viene trasmessa la vita eterna, dal momento che essa è resa feconda dal dono dello Spirito Santo. Dall’altra parte la Chiesa è essenzialmente una comunione d’amore, nella misura in cui è l’amore infinito che l’ha fatto nascere dal costato trafitto del Redentore. È interessante osservare che negli autori sacri e nella grande tradizione dei Padri, l’unione tra Dio e la Chiesa è sempre stata descritta in termini ispirati all’amore nuziale. Per esempio, nel contesto di un insegnamento coniugale, Paolo si riferisce al modello di Cristo che si prende cura della sua Chiesa. La Chiesa si nutre dell’attesa escatologica di essere eternamente unita al suo Signore. In questo modo l’unione tra Cristo e la Chiesa appare come la celebrazione delle nozze eterne dell’Agnello. L’analogia tra l’amore del Signore per la Chiesa e dell’amore dello sposo per la sua sposa è una pietra miliare della teologia cristiana del matrimonio in san Paolo. Tuttavia, anche in questo campo della sacramentaria l’apporto della Teologia del corpo di Giovanni Paolo II è molto originale. Parte dal legame che unisce corpo e sacramento. Come si sa, appartiene ad ogni sacramento di supporre una realtà corporale: il sacramento è segno di qualcosa, è una realtà visibile che rimanda ad un’altra realtà nascosta. Il Papa medita sulla lettera ai Efesini. Osserva che la realtà invisibile che deve essere significata è la carità di Cristo, il suo amore infinito. Ora quale è il segno visibile dell’amore di Cristo se non il suo corpo morto e risorto? Il corpo morto sulla Croce può essere interpretato senza difficoltà come la conseguenza dell’amore di chi ha offerto la propria vita per la salvezza del mondo. Tuttavia, il fatto che lo stesso corpo sia risorto mostra che è anche sacramento dell’amore del Padre, dal momento che è al Padre che il Figlio si è offerto in sacrificio. La risurrezione di Gesù attesta che la sua preghiera al Padre è stata esaudita.
Il mistero ecclesiale dell’amore degli sposi può essere prolungato, come lo fa Giovanni Paolo II, in una direzione eucaristica. San Paolo ricorda il dovere dei mariti di amare le mogli come il proprio corpo. Facendo in questo modo lo sposo che ama la propria moglie ama se stesso, nutre la propria carne e come dice l’Apostolo la cura come fa Cristo per la Chiesa poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua donna e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento in Cristo e alla Chiesa.
Nel senso proprio, la parola corpo indica il corpo sessuato dell’uomo e della donna che consente loro, unendosi, di fare una caro. È in senso metaforico che la Chiesa è detta Corpo di Cristo. Questo suggerisce il legame profondo che unisce tutti gli uomini al Figlio di Dio. Abbiamo già evocato come l’unione sessuale tra l’uomo e la donna debba essere intesa come il dono reciproco che ciascuno dei due fa all’altro. Tuttavia, la frase paolina secondo la quale nessuno ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura, contiene un riferimento implicito all’eucaristia: è con il proprio corpo che Cristo nutre la Chiesa. Il Papa osserva che l’analogia tra il rapporto uomo dona e la relazione Cristo Chiesa contribuisce ad illuminare il mistero divino, nel senso che ci insegna qualcosa sull’amore reciproco che unisce Cristo alla Chiesa. Nel contempo, però, ci insegna anche la verità essenziale del matrimonio, la cui vocazione consiste nel riflettere il dono di Cristo alla Chiesa insieme all’amore della Chiesa per Cristo. Se il sacramento ha come finalità di esprimere questo mistero divino, dobbiamo ammettere che non potrà mai farlo completamente. Il mistero, infatti, eccede sempre il sacramento. Ma Giovanni Paolo II completa la sua analisi con l’osservazione secondo la quale il sacramento, in realtà, va oltre il significato. Non si accontenta di proclamare il mistero in modo significativo; è destinato a realizzarlo nell’uomo. È cosi in virtù del battesimo degli sposi la loro intima comunione di vita e d’amore fondata dal Creatore come ha mostrato Giovanni Paolo II, è elevata e assunta nella carità nuziale di Cristo che la sostiene con la sua forza di redenzione.
È certamente la luce della Redenzione che consente al Papa di dare alla Teologia del corpo la sua dimensione più profonda. Il centro dell’attenzione si volge qui verso l’Ultima Cena. Nel momento della più intensa comunione con i suoi discepoli, Gesù anticipa la libera offerta che egli farà di se. Non solo afferma che il pane e il vino che da loro da mangiare e da bere sono il suo corpo suo sangue, ma ne esprime il valore di sacrificio rendendolo sacramentalmente presente. Il corpo tradito e il sangue versato ormai non hanno solo il significato di un simbolo: sono offerti come cibo e bevanda ai discepoli che, uniti a Gesù è tra di loro, si uniscono corporalmente a lui. Essere unito corporalmente a Cristo vuole dire associato al suo sacrificio redentore. L’unità nella carità è richiesta per ricevere degnamente ed efficacemente il corpo e il sangue di Cristo. Questo dono è fatto a tutta la Chiesa Sposa di Cristo. Il Papa mostra così che l’essenza dell’eucaristia è nuziale, perché è il dono che lo sposo fa alla sua sposa e che la sposa accoglie nella fede.
Potete senza sforzo immaginare l’interesse di questo sviluppo per una autentica spiritualità coniugale. Indico solo alcune vie di esplorazione: l’eucaristia rinforza è rigenera la comunione fra gli sposi; essa rivela ai sposi cristiani la vera identità eucaristica del matrimonio; è in qualche modo memoria del dono che gli sposi si sono fatti l’uno all’altra; la luce eucaristica consente di pensare l’unione degli sposi nella sua giusta dimensione di donazione totale, aperta a una fecondità che la trascende.

___________________

 [1] Biju-duval D.; La profondità del cuore. Tra psichico e spirituale (Prefazione J. Laffitte), Effatà Editrice, Cantalupa (To) 2009, pp. 29-41
 [2] Giovanni Paolo I, Catechesi XIX, Ibid., pp.91.
[3] Giovanni Paolo II, Catechesi XIV, XV e XVI, in Uomo e Donna lo creò, Catechesi sull’amore umano, Città Nuova Editrice-Libreria Editrice Vaticana, Roma 1985, pp 74- 83
 [4] Ibid., p 80.

Omelia prima lettura 1Gv 1,5b: Dio è luce e in Lui non c’è tenebra alcuna.

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/18413.html

Omelia (29-04-2010) 
Eremo San Biagio
Commento su 1Gv 1,5b

Dalla Parola del giorno
Dio è luce e in Lui non c’è tenebra alcuna.

Come vivere questa Parola?
Dio, dunque, è soltanto luce, esclude ogni tenebra. Giovanni utilizza qui un simbolo potente, che è ben presente, come tutti sappiamo, fin dalla prima pagina della Genesi e che pervade tutta la Scrittura: accostare Dio alla luce non è in sé una novità.
Per capire però meglio la portata e la novità di questo simbolo occorre leggere attentamente ciò che Giovanni aggiunge a questa frase: « se diciamo che siamo in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, siamo bugiardi e non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, il suo Figlio, ci purifica da ogni peccato » (1,6-7).
Si tratta di camminare nella luce, piuttosto che nelle tenebre, e insieme di fare la verità, espressione singolare già presente nel vangelo di Giovanni (Gv 3,21)!
Dio è dunque « luce »: cioè guida per il nostro cammino; si tratta perciò di accogliere Dio-luce e insieme di rifiutare la tenebra e la menzogna. Giovanni ci invita a stabilire una relazione duplice: la comunione con Dio, ma anche la comunione con gli altri. Sì, poiché così come è il nostro rapporto con Dio, tale sarà il nostro rapporto con ogni fratello e sorella, e viceversa.

Oggi nel mio rientro al cuore chiedo al Signore un cuore ‘vigile’, capace di amare ciascuno per poter dire in verità di amare profondamente Lui.

Signore Gesù, che io cerchi te sempre, ma mai separato dal volto di ogni uomo e donna che mi passano accanto.

Da una lettera di Santa Caterina da Siena
Lèvati su dunque da ogni tenerezza e amore proprio di te, e entra nelle piaghe di Cristo crocifisso, dove è perfetta, e vera sicurtà. Egli è quel luogo dolce, dove la sposa empie la lampana del cuore suo: ché drittamente il cuore è una lampana. Il quale debbe essere siccome la lampana, ch’è stretta da piedi e larga da capo; cioè che ‘l desiderio e affetto suo sia ristretto al mondo, e largo di sopra: cioè dilargare il cuore e l’affetto suo in Cristo crocifisso, amandolo e tenendolo con vera e santa sollecitudine. E allora empirai questa lampana al costato di Cristo crocifisso. Il costato ti mostra il segreto del cuore: ché quello ch’egli ha fatto e dato per noi, ha fatto per proprio amore. 

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 29 avril, 2010 |Pas de commentaires »

Omelia 29 aprile 2010: Ecco lo sposo, andategli incontro… E Caterina entrò.

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/12594.html

Omelia (29-04-2008) 

Monaci Benedettini Silvestrini

Ecco lo sposo, andategli incontro… E Caterina entrò.

La parabola delle dieci vergini si riferisce alla seconda venuta di Cristo e descrive la situazione di coloro che vivono nella speranza l’attesa della sua venuta. Il regno dei cieli non è paragonato per sé alle dieci vergini, ma alla celebrazione solenne d’un banchetto nuziale, solennità che è messa in evidenza nell’ultimo momento. E’ un banchetto nel quale la fine delle singole invitate e il giudizio su di loro, hanno un ruolo decisivo. Lo sposo di solito è in ritardo – « non sapete né il giorno né l’ora » – e tutte le dieci damigelle finirono per addormentarsi. A mezzanotte si udì un grido: « Ecco lo sposo, andategli incontro ». Le vergini con l’olio si misero in corteo verso la casa dello sposo, e fu chiusa la porta. Esse poterono entrare a far festa con lo sposo, perché erano pronte personalmente. Le vergine stolte dovettero andare a comprare dell’olio – non erano preparate – e per loro non ci fu nulla da fare, rimasero escluse. Il ritardo, la mancanza di preparazione personale ne comportano l’esclusione definitiva dal regno. « In verità vi dico: non vi conosco ». La vergine saggia è invece Caterina, che fin dalla giovinezza è tutta intenta alle cose dello Spirito, perfino contro gli stessi suoi genitori. Gesù le apparve una volta, confitto sulla croce, grondante sangue. Per lei fu come un invito al mistico sposalizio con Cristo vittima. D’ora in avanti promise di dedicare la sua vita alla conversione dei peccatori. Presto, pur essendo analfabeta, cominciò a dettare le sue parole, dicendo: « Scrivo nel prezioso sangue di Cristo » e in questo sangue ossia nell’amore del Redentore, scriverà a privati, a prelati, a sovrani, al Papa. Riuscì perfino a riportare la sede del Papa « del dolce Cristo in terra » – così lo chiamava lei – a Roma da Avignone. Caterina ha perseguito sempre due ideali: la pacificazione della Patria e la purificazione della Chiesa, che chiamava « il grande ponte sul mondo », il ponte cioè dal quale tutti potevano passare dalla terra al cielo. La sua vita fu sempre travagliata fino all’ultimo. Mori il 29 aprile 1380. Non aveva che trentatré anni: la stessa età del suo Sposo. « Ecco lo Sposo viene, andategli incontro », ed ella entrò con lui nelle nozze eterne. Caterina visse con passione il Vangelo come discernimento per la sua vita, portando le stimmate nel suo corpo, non visibili, segno e strumento della presenza del suo amato Gesù

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 29 avril, 2010 |Pas de commentaires »

Santa Caterina da Siena: « Hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100429

Santa Caterina da Siena, vergine e dottore della Chiesa, patrona d’Italia – Festa : Mt 11,25-30
Meditazione del giorno
Santa Caterina da Siena (1347-1380), terziaria domenicana, dottore della Chiesa, compatrona d’Europa
Dialogo della Divina Provvidenza, 167 (trad. cfr. Ed Taurisano, Firenze, 1928, II p.586)

« Hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli.  »

        Tu, Trinità eterna, sei come un mare profondo, in cui più cerco e più trovo ; e quanto più trovo, più cresce la sete di cercarti. Tu sei insaziabile ; e l’anima, saziandosi nel tuo abisso, non si sazia, perché permane nella fame di te, sempre più te brama, o Trintà eterna, desiderando di vederti con la luce della tua luce…

        Io ho gustato e veduto con la luce dell’intelletto nella tua luce il tuo abisso, o Trinità eterna, e la bellezza della tua creatura. Per questo, vedendo me in te, ho visto che sono tua immagine per quella intelligenza che mi vien donata dalla tua potenza, o Padre eterno, e dalla tua sapienza, che viene appropriata al tuo Unigenito Figlio. Lo Spirito Santo poi, che procede da te e dal tuo Figlio, mi ha dato la volontà con cui posso amarti. Tu infatti, Trinità eternà, sei creatore e io creatura ; e ho conosciuto – perché tu me ne hai data l’intelligenza, quando mi hai ricreata con il sangue del tuo Figlio – che tu sei innamorato della bellezza della tua creatura.

29 APRILE – SANTA CATERINA DA SIENA

29 APRILE - SANTA CATERINA DA SIENA dans immagini sacre

http://www.santiebeati.it/

Publié dans:immagini sacre |on 28 avril, 2010 |Pas de commentaires »
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