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Il Cantico dell’amore
(Il Cantico dei Cantici)
Lo stupore iniziale
Introduzione
Il tema dell’amore è certamente affascinante e suggestivo. È fin troppo scontato affermare che l’amore dà sapore alla vita: « Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa / in cambio dell’amore, non ne avrebbe che dispregio » (Ct 8,7). Queste parole, tratte dal poema conclusivo del Cantico, confermano una consapevolezza che fa parte del nostro bagaglio di umanità e appartiene a quelle evidenze che la cultura non sembra capace di scalfire.
Il mistero
E tuttavia, dobbiamo registrare con una certa inquietudine che non sempre l’uomo appare capace di definire la verità dell’amore. Prevale, infatti, una lettura di tipo psicologico, un’interpretazione che pone l’accento più sull’istintivo bisogno di sicurezza che sul desiderio di comunione, più sulle esigenze dell’io che sulla realtà del noi. È giusto tener presente la dinamica psicologica, con tutte le sue sfumature, ma non dobbiamo dimenticare che essa s’innesta in una più ampia dinamica antropologica: l’amore è una dimensione che qualifica la natura umana, in qualche modo esprime il proprium che distacca l’uomo da ogni altra creatura.
Cosa è l’amore? È possibile rispondere in modo esaustivo a questa domanda solo tornando all’origine, l’identità è in qualche modo nascosta nel principio. Se infatti l’amore trova la sua prima causa nel cuore dell’uomo, esso rimane inevitabilmente soggetto al dinamismo psicologico della persona e serve a colmare l’ansia di insicurezza. Se invece l’amore trova la sua origine in Dio, se nasce dall’alto e trova nell’uomo solo un fertile terreno, allora possiamo affermare che l’amore è strettamente legato al mistero di comunione che abbraccia l’universo e contiene in sé la luce e la forza sufficiente per decifrare tutti gli interrogativi che fanno parte dell’umana esistenza.
La Scrittura e il Cantico ci conducono su questa seconda strada, annunciano che uno solo è l’amore da cui tutto ha avuto origine e presentano anche l’amore umano, in tutte le sue sfumature, come un riflesso dell’unico Amore.
In questa luce possiamo anche comprendere perché l’uomo cammina con fatica sulla via dell’amore e tante volte vi rinuncia: in realtà egli non ha in sé la capacità di amare nella verità e nella pienezza e rimane schiavo di sentimenti ed emozioni superficiali. Solo tornando alla fonte primitiva, chiedendo e accogliendo l’amore di Dio, può ricevere la forza per incamminarsi nell’amore. Chi vive questa esperienza scopre con immensa gioia che al termine del faticoso itinerario incontra Colui che tutto ha generato e tutti accoglie nell’unico ed eterno Amore.
Per introdurci nella lettura
1. Prima di iniziare un’attenta lettura del testo biblico, è opportuno richiamare le coordinate fondamentali del libro per fornire un’adeguata cornice di carattere esegetico e teologico. Il Cantico dei Cantici è un piccolo libretto, uno dei libri più piccoli della Scrittura: otto brevi capitoli, 1250 parole nell’originale ebraico, 117 versetti; eppure pochi libri sono stati studiati e discussi come questo. In un tempo in cui la lettura del Cantico non registrava sostanziali controversie, Sant’Agostino afferma che il Cantico è un « enigma ». Questa osservazione appare oggi più vera che mai. « Non esiste libro dell’AT di cui siano state proposte interpretazioni più divergenti » (Bibbia di Gerusalemme, 1357). È un libro che ha sempre affascinato tutti gli studiosi e non solo della Scrittura. Fin dai primi secoli registriamo numerosi commenti al testo biblico, il più antico che è giunto fino a noi è attribuito a Ippolito del III secolo: inizia così una storia che in ogni tempo si arricchisce di sempre nuovi discepoli. Ma l’abbondanza dei commenti ha generato anche, com’era prevedibile, una tale divergenza di interpretazioni da rendere il testo quasi indecifrabile e di difficile lettura. Per ritrovare il senso originario del testo è necessario recuperare una buona dose di ingenuità, solo così possiamo gustare la poesia amorosa e scoprire tra le righe, e spesso nascoste nelle stesse parole, sollecitazioni che invitano ad andare oltre, fino a raggiungere le vette della spiritualità. Conserviamo anche lo stupore per scorgere negli eventi ordinari l’inconfondibile impronta del divino.
2. Cominciamo dal titolo: « Cantico dei Cantici » (Ct 1,1): in ebraico la ripetizione del vocabolo – sir hassirim – è un rafforzativo e significa il « cantico sublime », il primo dei cantici. Si potrebbe anche dire « il miglior canto » (Schökel), « il più dolce e incantevole canto della Bibbia » (Ravasi, 1992, 146). La forma grammaticale usata si trova anche in altri luoghi della Scrittura per dare maggiore risalto alla cosa o alla persona che s’intende esaltare: il luogo più interno della tenda del convegno, e poi del Tempio, viene chiamato il « Santo dei santi » (Es 26,33); Jhwh è definito « il Dio degli dei, il Signore dei signori, il Dio grande, forte e terribile » (Dt 10,17); e così pure l’espressione « cieli dei cieli » che Salomone usa nella sua preghiera quando inaugura il Tempio (1Re 8,27). Il titolo indica con quanta venerazione l’ebreo si accostava al Cantico: aveva ragione Rabbì Aqiba (II secolo d.C.) quando diceva che « il mondo intero non è degno del giorno in cui il Cantico è stato donato ad Israele ». Nel titolo è anche annunciato che si tratta di un canto, cioè di una composizione che riveste la preghiera di lode (sal 30,1) ed esprime la gioia in occasione degli eventi più belli dell’umana esistenza.
Alcune coordinate storiche
3. Da chi è stato scritto? Il titolo del libro presenta Salomone come autore del cantico: « Cantico dei cantici, che è di Salomone » (1,1). Gli esegeti sono concordi nel ritenere che si tratta di un’attribuzione letteraria. La Scrittura, infatti, presenta Salomone come un re saggio e gli attribuisce « tremila proverbi e millecinque poesie » (1Re 5,12). Da notare che anche il libro dei Proverbi e il Qoelet sono posti sotto la sua paternità. Questo richiamo non è però del tutto arbitrario: in effetti è stato proprio Salomone ad aprire i confini culturali e a favorire l’incontro con la cultura e la poesia amorosa dei popoli vicini, a cominciare da quello egiziano. Secondo alcuni esegeti, il Cantico è una raccolta di poemi amorosi scritti in epoche diverse, alcuni anche molto antichi, che sono state successivamente raccolte in un solo libro da un Redattore, che fa parte della scuola sapienziale nata dopo l’esperienza dell’esilio, il quale ha dato al testo una precisa cornice teologica e spirituale. La sostanziale unità del testo, secondo Ravasi, impedisce di vedere in esso solo una raccolta antologica, siamo davanti ad una composizione unitaria che utilizza con raffinatezza elementi poetici e teologici più antichi (Ravasi, 85).
4. L’autore del Cantico, cioè colui che ha raccolto e unificato in un solo testo poemi diversi, « è un poeta originale e un letterato abile » (Bibbia di Gerusalemme, 1359), egli non ha solo raccolto i canti ma li ha anche rielaborati, il linguaggio poetico infatti presenta uno stile particolarmente elaborato. Per leggere oggi il testo biblico dobbiamo partire proprio dalla veste teologica che ricopre i singoli canti che lo compongono. Molti autori ritengono che il Cantico sia entrato a far parte del canone biblico grazie a questa rilettura sapienziale. Bisogna perciò domandarsi: qual era l’intenzione che ha ispirato il sapiente a raccogliere questi antichi testi della tradizione nuziale? La risposta a questa domanda non trova tutti concordi. Alcuni esegeti ritengono che la composizione sia nata dal desiderio di rileggere in chiave sponsale la storia d’Israele. Altri rifiutano questa lettura esclusivamente allegorica e affermano che lo scopo del libro è quello di esaltare l’amore umano.
5. Quando è stato scritto? La questione cronologica è strettamente legata a quella dell’autore. Chi propende per la raccolta antologica ritiene che si tratta di scritti distribuiti lungo un arco di tempo assai ampio. Chi invece abbraccia l’ipotesi di uno stesso autore, non fatica a fissare la data di composizione nella fase più recente del canone ebraico. Si tratta di un problema assai complesso che trova negli studiosi risposte molto diverse. Alcuni ritengono che sia impossibile giungere ad una datazione sicura. La gran parte degli studi esegetici tuttavia riconoscono che il testo, pur costituito di singoli brani più antichi, è stato composto nella sua attuale forma unitaria in tempi più recenti. Nel testo definitivo troviamo alcune tracce – la presenza di parole persiane (1,12, 4,13.14) e forse di una parola greca (3,9) (Bibbia di Gerusalemme, 1359; Ravasi, 1992, 80) – che orienta decisamente verso il periodo post-esilico, tra il V e IV sec a.C. Per questo nella Bibbia ebraica il Cantico è posto nella terza parte, quella che raccoglie gli scritti più recenti.
L’intenzione teologica
6. Perché è stato scritto? Questa domanda appassiona gli studiosi e trova ancora oggi risposte assai divergenti. Alcuni vi leggono solo un’allegoria, un annuncio suggestivo, che riprende in forme nuove la predicazione profetica, dell’infinito amore che Jhwh nutre per il suo popolo. Altri propongono un’interpretazione di tipo sapienziale, in questa luce il Cantico rappresenta un commento alla benedizione genesiaca del matrimonio (Gen 1,28). Altri ancora si limitano a considerare il motivo dell’amore umano e ritengono che il Cantico sia solo un poema amoroso. Non è facile districarsi tra opinioni così diverse. La datazione storica forse potrebbe offrire un indizio significativo. Se davvero il testo è stato rielaborato nel periodo successivo all’esilio possiamo comprendere allora sia il suo valore religioso che il ruolo che esso occupa nella storia della rivelazione:
« in un momento particolarmente difficile d’Israele, quali erano i giorni della restaurazione post-esilica, quando tutto poteva essere messo in discussione (l’amore di Dio, la vocazione di popolo eletto, la validità del culto, la persistenza dell’Antica alleanza sinaitica, la coscienza di poter resistere all’assalto della più brillante cultura ellenistica), si inserisce assai bene il nostro libro, che, riletto con altri intenti, poté dare agli sfiduciati reduci la certezza dell’immutato amore di JHWH verso di loro e la coscienza di essere pur sempre degli eletti » (D. Colombo, Cantico dei cantici, 766).
In questa prospettiva possiamo intravedere nella rilettura sapienziale un chiaro tentativo di riproporre in termini sponsali la relazione tra Jhwh e il suo popolo. L’autore sacro rilegge nella luce della fede una storia non priva di contraddizioni e annuncia con la simbolica dell’amore che Dio non è stanco del suo popolo e che il suo amore è « forte come la morte » (Ct 8,6). Questo annuncio non solo trova nell’amore umano una sua forte simbologia (come nella letteratura profetica) ma permette di vedere in esso un chiaro riflesso della presenza di Dio. L’amore umano rivela la modalità che Dio ha scelto per parlare al cuore d’Israele e diventa la via ordinaria e nascosta che Egli usa per raggiungere ogni creatura.
7. Nel leggere il Cantico non dobbiamo dimenticare che non si tratta di un trattato sull’amore ma di un testo poetico, raccoglie una serie di canti (anche sull’enumerazione dei canti vi sono non poche divergenze) che forse venivano utilizzati nella celebrazione nuziale o di fidanzamento. « Gli ebrei del I secolo usavano il Cantico nelle feste profane di matrimonio » (Bibbia di Gerusalemme, 1358). Nella traduzione della CEI il libro è diviso in 5 poemi che s’intrecciano e si richiamano continuamente. Uno studioso ha letto in questa scelta un tentativo di accreditare il Cantico come una sorta di pentateuco dell’amore che forma un tutt’uno con il pentateuco dell’alleanza (primi cinque libri dell’AT) e il pentateuco orante (anche il salterio è diviso in cinque libri): « Come i primi cinque libri della Bibbia ripetono l’impegno dell’Alleanza, così anche il Cantico ripete ininterrottamente l’impegno dell’amore » (Ravasi, 1988, 15). I diversi poemi non sono tra loro collegati come se facessero parte di un’unica trama ma hanno in comune solo il tema dell’amore. Di conseguenza non dobbiamo cercare un senso logico ma seguire le intuizioni poetiche, espresse a volte con un linguaggio estraneo alla nostra cultura, e cogliere il messaggio sapienziale racchiuso in esse.
Un libro ispirato
8. Nonostante tutte le dispute che si addensano intorno a questo piccolo libro, non vi sono mai stati seri dubbi sulla sua canonicità (Ravasi, 1992, 116-120). Il Cantico dei cantici non è solo una raccolta sapienziale di canti amorosi ma è un libro ispirato: con questa espressione la Chiesa qualifica quei testi che hanno Dio per Autore. Il Cantico fa parte del canone biblico – di quello ebraico come di quello cattolico – dai tempi più remoti. Nel sinodo rabbinico di Iamnia del 90 d.C., l’ultimo primo della diaspora, si levarono alcune voci che mettevano in dubbio la sua divina ispirazione. Alla fine prevalse l’opinione del Rabbi Aqiba che richiamò l’ininterrotta tradizione dei padri e concluse con questa affermazione rimasta famosa: « Tutti i libri sono santi ma il Cantico dei cantici è il santo dei santi » (cf D. Colombo, 755). Due antichi testi rabbinici, citati da Ravasi (1992, 43), ci aiutano a comprendere in quale misura questo testo era venerato presso gli ebrei:
« Quando Adamo peccò, Dio salì al primo cielo allontanandosi dalla terra e dagli uomini. Quando peccò Caino, salì al secondo cielo. Con la generazione di Enoc salì al terzo cielo, con quella del diluvio al quarto, con la generazione di Babele al quinto, con la schiavitù d’Egitto salì al sesto cielo e al settimo cielo, l’ultimo e il più lontano dalla terra » (Genesi Rabbà 19,13).
« Dio però ritornò sulla terra il giorno in cui fu donato il Cantico d Israele » (Zohar Terumah 143-144a).
Il nono canto
9. Un’antica interpretazione ebraica inserisce il Cantico in un decalogo e lo presenta come il nono canto: il primo è quello di Adamo quando fu assolto dal suo peccato (sal 92,1), il secondo lo disse Mosè quando si aprì il mar Rosso (Es 15,1), il terzo fu proclamato dai figli di Israele quando fu loro data l’acqua nel deserto (Nm 21,17), il quarto è detto da Mosè prima di lasciare questa terra (Dt 32,1), il quinto è detto da Giosuè quando il sole e la luna si fermarono (Gs 10,12), il sesto fu detto da Debora e Barak quando il Signore mise il nemico nelle loro mani (Gdc 5,1), il settimo lo disse Anna quando ebbe il figlio dal Signore (1Sam 2,1), l’ottavo lo disse Davide per tutti i prodigi che il Signore aveva fatto per lui (2Sam 22,1), il nono canto appunto è quello proclamato da Salomone per lodare il Dio d’Israele. Il decimo e ultimo canto « lo diranno i redenti quando saranno riscattati dall’esilio ». A partire dal IV secolo il Cantico è utilizzato nella liturgia ebraica nella festa più solenne, quella della Pasqua: in esso l’ebreo leggeva la propria storia di liberazione, contemplava l’amore fedele di Dio e pregustava il giorno della pienezza messianica. Questa scelta testimonia il valore che il Cantico aveva presso gli ebrei ma anche la prospettiva teologica sottesa all’uso liturgico. Solo una lettura di tipo allegorico poteva giustificare l’inserzione nella liturgia pasquale.