Il messaggio biblico sulla Carità – San Paolo (su tutti i testi di Paolo – Inno alla carità))

dal sito:

http://www.cistercensi.info/monari/1981/mc030181.htm

Il messaggio biblico sulla Carità – San Paolo

3 Gennaio 1981
Fonte, volume “Credo in Cristo mia vita” – “Le virtù teologali nella vita del laico” – A cura di Ernesto Cappellini – Editrice A.V.E. Roma 1981 – “Capitolo III” (pp 72-97).

A / San Giovanni
C / Vangeli sinottici

(se li volete leggere sul sito)

B / San Paolo

Non sarebbe difficile ripercorrere uno ad uno questi punti nelle lettere di San Paolo e vedere come – con differenti accenti e prospettive – è la stessa fede che si esprime. “Con differenti accenti” perché certo a ogni autore del Nuovo Testamento bisogna riconoscere una sua originalità. Per quanto riguarda Paolo la sua dottrina sull’amore è strettamente legata a quella della giustificazione mediante la fede e, insieme a questa, è legata alla comprensione del mistero pasquale come mistero di redenzione.

– I –
«[6]Mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito. [7]Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. [8]Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5, 6-8). Al centro dunque c’è la croce, la morte di Cristo come segno di amore, e di un amore gratuito. Perché negli “empi” per cui Cristo è morto non c’è nulla di gradevole, di attraente, nulla che possa spingere “naturalmente” a sacrificarsi per loro. La morte di Cristo è quindi un gesto gratuito, creativo, nel senso più pieno perché crea la bontà e la amabilità di ciò che ama. La preziosità dell’uomo peccatore è data esattamente dal fatto che Cristo muore per lui e non viceversa. Ma la riflessione di Paolo ha un altro punto importante; leggiamo nel v. 8: «Dio dà prova del suo amore verso di noi perché (…) Cristo è morto per noi». Noi avremmo detto più facilmente: «Cristo dà prova del suo amore…», ma Paolo opera uno spostamento molto significativo: «Dio dà prova…». Ciò significa che nella visione paolina Dio e Cristo sono una cosa sola per quanto riguarda l’opera della salvezza. In Cristo Dio stesso si fa vicino agli uomini, li ama, li salva: «[19]È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe» (2 Cor 5, 19). In questo modo-, la croce di Cristo diventa il “vanto” del cristiano (cfr. Gal 6, 14), diventa cioè il fondamento unico sul quale possiamo mettere la nostra fiducia; è da lì che viene la nostra salvezza. Non quindi nella nostra intelligenza o scienza o buona volontà, ma nell’amore di Dio che ci ha riconciliati in Cristo. Se San Paolo combatte strenuamente la sua battaglia per affermare che la giustificazione avviene mediante la fede, il motivo è che su questo si decide il valore della croce di Cristo. Ai Galati che “ammaliati” da dei Giudaizzanti sentono la tentazione forte di ritornare alle pratiche della legge come via verso la salvezza, Paolo ricorda con serietà: «Se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla(…) Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia(…) Noi infatti per virtù dello spirito attendiamo dalla fede la giustificazione che speriamo. Poiché in Cristo Gesù non è la circoncisione che conta o la non circoncisione, ma la fede che opera per mezzo della carità» (Gal 5, 2.4-6). “La fede che opera per mezzo della carità”; è una delle formulazioni più tipiche della teologia paolina. Non c’è giustificazione dell’uomo se non mediamente la fede, cioè mediante l’accoglimento umile e obbediente del dono di Dio. A sua volta la fede rende possibile e necessaria la carità; dove non c’è fede la carità non può nascere; ma d’altra parte una fede che non si esprima nella carità è inefficace, anzi contraddittoria, perché non produce quel frutto di libertà di cui solo l’amore è il segno.
– II –
Proprio l’essere amati gratuitamente da Dio è il fondamento della libertà cristiana di cui Paolo è un irriducibile difensore: «[35]Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? (…) [37]Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. [38]Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, [39]né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8, 35-37-39). Il senso è che in mezzo alle numerose paure che accompagnano la nostra vita ci rimane come punto di appoggio saldo e incrollabile l’amore che Cristo ci ha dimostrato. La vita dell’uomo è infatti collocata su un dedicato equilibrio; è una vita fragile, bisognosa di mille cose, condizionata da mille fattori. Non c’è da meravigliarsi se a volte l’uomo si lascia sedurre dalle promesse del mondo e ne diviene schiavo; il denaro, il potere, il benessere si presentano come sicurezze consolanti in mezzo al mare di incertezze che ci paralizzano. «Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati». E cioè, l’amore di Cristo ci libera dalla paura. Nell’essere amati da Cristo la nostra vita acquista un senso e non siamo più costretti a cercare di darle un senso noi stessi col successo o con la bella figura o con qualunque altro surrogato; se «Cristo mi ha amato e ha dato la sua vita per me» (Gal 2, 20) non c’è bisogno di altro perché la mia vita abbia valore. Ecco allora che tribolazione o angoscia o persecuzione non si tramutano più in disperazione; al contrario può succedere che «sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione» (2 Cor 7, 4; cfr 2 Cor 4, 7ss).
Il cristiano è dunque libero da tutte queste cose, è signore della vita e della morte perché la vita non lo seduce e la morte non lo terrorizza; parimenti il presente non lo imprigiona e il futuro non lo sconvolge (cfr. 1 Cor 3, 21-23). È iniziato a tutto; alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Può tutto nella forza che gli viene da Cristo (cfr. Fil 4, 12s).
– III –
Ma che libertà è questa di cui il cristiano gode, anzi a cui il cristiano non può rinunciare se non vuole rinunciare nello stesso tempo alla sua condizione di “salvato”? Per Paolo la prospettiva è chiara; il cristiano ha una sola libertà, quella di amare e di servire gli altri: “13]Voi fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri» (Gal 5, 13). Paradossale libertà! È libertà dalla carne, cioè dall’egoismo e da tutte le schiavitù che l’egoismo ci impone; ma e libertà che si esercita nel servizio premuroso e attento degli altri. Ma come si possono conciliare queste due cose: libertà e servizio? Non c’è una contraddizione evidente? Libero è “colui che esiste per se stesso e non per gli altri” (Aristotele); servo è esattamente il contrario: chi vive per un altro e non per se stesso. Eppure per Paolo il cristiano può esercitare la sua libertà solo mettendosi a servire, imparando a portare i pesi degli altri (cfr. Gal 6, 2). Il fatto è che per Paolo la carità, il servizio, non sono una legge esterna da osservare scrupolosa mente ma sono prima di tutto un dinamismo interiore da lasciar sviluppare e crescere. «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5, 5). L’amore con cui Dio ci ama (cfr. la nota della BJ) si diffonde nel nostro cuore per mezzo dello Spirito Santo. Siamo sommersi dall’amore di Dio che ci domina e questo amore diventa nei nostri cuori sorgente di amore e di servizio fraterno. È come un seme, lo Spirito, che genera una vita nuova, una vita che ha i suoi frutti caratteristici (anzi il suo frutto; San Paolo usa il singolare; i nove termini indicano quindi tutti la stessa realtà contemplata nella sua multiforme ricchezza): «Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5, 22).
IV
Ma forse la descrizione più ricca del mondo in cui la carità diffusa nei nostri cuori opera e si manifesta si trova nell’“Inno alla carità” di 1 Cor 13. Per capirlo bisogna tenere presente anzitutto il contesto. Paolo sta parlando dei doni dello Spirito e della gerarchia di valore che esiste tra questi doni diversi. A Corinto gli è stata posta una domanda precisa a riguardo di due carismi diversi: la profezia e il parlare in lingue (una specie di parlare estatico, con suoni non articolati, incomprensibile quindi ma che faceva molta impressione perché sembrava un parlare angelico). A quale di questi due carismi bisogna riconoscere il primato? Quale dei due bisogna piuttosto ricercare? L’apostolo darà la sua risposta nel cap. 14 assegnando il primo posto alla profezia perché essa edifica tutta la comunità cristiana mentre il parlare in lingue non edifica gli altri che non lo capiscono. Ma prima, dice Paolo “vi insegnerò una via che sorpassa ogni altra”. Al di sopra del parlare in lingue, al di sopra della profezia, al disopra di ogni altro dono dello Spirito sta la carità.
É anch’essa, certamente, un dono dello Spirito (cfr. Gal 5, 22) e tuttavia non un dono accanto agli altri; piuttosto è quel dono che dà valore e consistenza a tutti gli altri. E Paolo, con un termine significativo, la chiama una “via”, un cammino sempre aperto, senza fine. La carità è esattamente questo: non una virtù che si può conquistare; non un pacifico possesso di cui godere, ma solo una via per la quale si deve camminare senza mai superarla del tutto, un “compito immenso” che non si potrà mai esaurire. L’Inno si articola chiaramente in tre parti: anzitutto Paolo fa il confronto tra la carità e tutti gli altri carismi; poi – con una serie di 15 verbi – descrive la carità in atto; infine insiste sulla permanenza eterna della carità in confronto con tutti gli altri carismi che sono destinati a scomparire. Vediamo. I vv. 1-3 prendono successivamente in esame i diversi carismi con un “crescendo” significativo: il parlare in lingue, la profezia, la scienza, la fede (cioè in questo caso il dono di fare miracoli), l’elemosina, il sacrificio della vita. Evidentemente bisogna intendere la lista come fosse completa: questi o qualunque altro carisma possa esistere, dal più umile al più elevato. E ripetutamente Paolo afferma che il valore dei singoli carismi e loro dato dalla carità. Senza la carità «sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna… non sono nulla… nulla mi giova» (1 Cor 13, 1). È impressionante questa serie di affermazioni che elimina ogni illusione di grandezza fondata sul possesso dell’uno o dell’altro dono. Paolo non dice solo che la carità è il massimo dei carismi, il primo, il più importante; dice chiaramente che qualsiasi carisma se non e vivificato dalla carità non ha nessun valore. Può anche essere, in sé, importante; può ottenere riconoscimenti elevati; può addirittura servire alla edificazione degli altri; ma non ha nessun valore per chi lo pratica. Possiamo forse accostare a questa riflessione il testo di Rm 13, 8: «Non abbiate con nessuno altro debito se non quello di un amore vicendevole», che vuol forse dire: se devi qualcosa a qualcuno, guarda di darglielo per amore; è l’unica motivazione valida. Se fai l’elemosina, falla per amore e non per farti vedere; se elogi una persona, che sia per amore e non per adulazione. Solo in questo modo ciò che doni a un altro diventerà anche motivo di edificazione per te. Ma perché alla carità è riconosciuto questo statuto speciale all’interno dei doni dello Spirito? Ci può aiutare a capirlo l’ultima parte del capitolo dove ritorna il confronto tra la carità e gli altri carismi per dire che «le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà», mentre al contrario «la carità non avrà mai fine». Paolo evidentemente contrappone “questo mondo” con il “mondo che viene”, per dire che la carità appartiene al mondo futuro mentre gli altri carismi appartengono a questo mondo. E allora, quando la scena di questo mondo sarà passata, passerà con lei anche tutto quello che è imperfetto e cioè tutti i carismi. Ma la carità no; perché la carità non è determinata dalle esigenze di questo mondo ma è la sostanza del mondo futuro. In altre parole la carità è “la forma escatologica di vita”, la forma della vita perfetta verso la quale siamo incamminati e che solo nel mondo futuro si realizzerà pienamente. Ma se la carità appartiene al mondo futuro, al mondo di Dio e non a questo mondo, come essa è entrata nell’esperienza del cristiano? Come la possiamo vivere e sperimentare? Bisogna tornare a quanto abbiamo ascoltato più sopra: «La speranza non delude perché l’amore di Dio è stato, diffuso nei nostri, cuori per mezzo dello Spirito che ci è stato dato» (Rm 5, 5). C’è dunque la carità nei nostri cuori; ma non c’è per un impulso naturale, nativo. C’è perché ve l’ha riversata lo Spirito Santo; c’è perché Dio ci ha amato. Ma è tempo che, guidati da Paolo, ci lasciamo istruire sull’opera della carità. «La carità è paziente», longanime. Un gesto di rifiuto non la chiude in se stessa; la mancanza dì riconoscenza non la intristisce. È generosa, munifica, signorile. È la caratteristica di chi è ricco e non tanto di beni quanto di cuore; non meschino, non avaro, non meticoloso nel misurare ciò che dona. Così è Dio «misericordioso e pietoso… ricco di grazia e di fedeltà» (Es 34, 6). Proprio perché è infinitamente ricco, Dio può permettersi di essere splendido, magnanimo; può donare gratuitamente e con sovrabbondanza. E la carità è “divina”; è ricca della ricchezza stessa di Dio e da lui impara a comportarsi. Si legga, come esempio, quello che Paolo scrive ai Corinzi: «Il nostro cuore si è spalancato per voi…!» (2 Cor 6, 11-13). «É benigna la carità». È detto di Dio che è benevolo verso gli ingrati e i malvagi (cfr. Lc 6, 35) e cioè non restituisce male per male ma ama e benefica anche i cattivi; e proprio in questo modo Dio cerca di spingere il peccatore alla conversione (cfr. Rm 2, 4). Certamente anche Dio reagisce al peccato dell’uomo con l’ira e si mostra a volte severo; ma «l’ira di Dio dura in istante, la sua bontà per tutta la vita» (Sal 30, 6); e quando egli corregge lo fa sempre come un padre fa verso il suo figlio (cfr. Eb 12, 7), «Non è invidiosa la carità», non considera cioè gli altri come degli. avversari e non è ossessionata dal bisogno di fare valere se stessa; non trova perciò nessuna compiacenza nell’abbassare gli altri. Per questo sa «piangere con quelli che sono nel pianto» e, cosa ancor più difficile, «rallegrarsi con quelli che sono nella gioia» (Rm 12, 15). L’invidia, al contrario, gode per gli insuccessi degli altri, e si rode per le loro gioie. In questo a carità si mostra semplice: prova la gioia e il dolore per quello che sono, non li trasforma con l’ottica deformata dell’egoismo e dell’interesse. «Non si vanta»; non ha sempre sulla bocca il proprio io; sa apprezzare e stimare con gioia i doni degli altri. Non pretende che sulla scena tutti i riflettori siano puntati su di lei; lascia spazio agli altri. E anche quando ama non guarda troppo se stessa, non soffoca con spiegazioni e richiami e parole il suo comportamento. È umile, discreta, modesta. «Non si gonfia» come gli gnostici di Corinto che, consapevoli di “avere la scienza”, disprezzano i deboli o, semplicemente, non li vedono neppure (cfr. 1 Cor 8, 1-2.11). La carità si prende così come è; non ha bisogno di ingrandirsi artificialmente con parole (cfr. l Cor 4, 18s.) per nascondere la sua povertà interiore. «Non manca di rispetto»; ama la chiarezza, interiore ed esteriore; non cerca di fare colpo o di scandalizzare. È pudica, non sfacciata; educata ma non formalista. «Non cerca ciò che è» suo (Bibbia CEI: “non cerca il suo interesse” ma il senso è anche “non è attaccata ai suoi diritti”). È una esortazione che ritorna spesso nelle lettere di Paolo: «Nessuno cerchi l’utile proprio, ma quello altrui» (1 Cor 10, 24 cfr 10, 33). «Senza cercare ìl proprio interesse ma anche quello degli altri» (Fil 2, 4). Quest’ultimo testo è illuminante perché è collegato con l’inno cristologico di Fil 2, 6-11, dove Paolo mette davanti agli occhi dei Filippesi l’esempio di Cristo che non si è aggrappato gelosamente ai diritti che gli spettavano in quanto Figlio di Dio, ma si è fatto servo, umiliato, obbediente fino alla morte. La carità non è ossessivamente legata ai suoi diritti; sa anche «subire l’ingiustizia… lasciarsi privare di ciò che le appartiene» (1 Cor 6, 7). La gratuità, il disinteresse sono regola delle sue azioni (cfr. Lc 6, 27-35). Essa sa, infatti, che alla sua difesa ci pensa Dio, può affidare a lui la rivendicazione dei propri diritti (Rm 12, 19; cfr. 1 Pt 2, 23; Lc 6, 38) ed è quindi libera di amare, di donare, di essere disinteressata. «Non si adira»; è la conseguenza necessaria. L’ira esplode quando ci sembra che un nostro diritto sia stato calpestato (cfr. Lc 15, 28) e non è altro che il primo passo verso il far del male (cfr. Mt 5, 22). San Giacomo descrive il dinamismo così: «[1]Da che cosa derivano le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra? [2]Bramate e non riuscite a possedere e uccidete; invidiate e non riuscite ad ottenere, combattete e fate guerra!» (Gc 4, 1-2). É vero che Paolo, citando il Sal 4, 4 (LXX) scrive: «Nell’ira non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira» (Ef 4, 26) ma proprio l’ultima parte del versetto dimostra che qui si tratta di qualcosa altro. È l’“ira medicinale”, quella che reagisce salutarmente davanti al male (non al peccatore!) e lo respinge. Ma anche questa, che è pure ira salutare, deve sapersi contenere per non «dare occasione al diavolo» (Ef 4, 27) che potrebbe servirsi di questo per insinuare odio o malvagità. «Non tiene conto del male ricevuto», non lo computa meschinamente scrivendolo con inchiostro indelebile sul suo libro. Non rinfaccia il male che riceve come, parallelamente, non rinfaccia il bene che ha donato. Non aspetta l’occasione propizia per rivelarsi, «è la tomba dell’ingiustizia» (H. Schlier). Sa cancellare i debiti degli altri così come i propri crediti. Questo la rende, nello stesso tempo, riconoscente per ogni briciola di bene che riceve. «Non gode dell’ingiustizia». Degli empi dice San Paolo che «non solo continuano a fare il male, ma approvano chi lo fa» (Rm 1, 32). >È un modo anche questo di giustificare se stessi e il proprio comportamento. La carità, al contrario, non sopporta l’ingiustizia, non la approva mai, non la accarezza. Ma è un modo di godere dell’ingiustizia anche quel mormorare degli altri che nasconde solo il desiderio di sentirsi migliori; dietro a parole dure di censura c’è talvolta la gioia nascosta e ipocrita di trovare l’ingiustizia negli altri. La carità non ha mai bisogno di giustificare se stessa e non è costretta a ricorrere a sotterfugi di nessun genere (cfr. Gal 6, 3-4). Al contrario essa: «gode della verità», la ama, se ne compiace; e non perché è sua o perché è dalla sua parte ma semplicemente perché è verità, perché è un riflesso dello bellezza luminosa di Dio. È anche questo un segno di distacco e di disinteresse. Non è vero che a volte la verità ci piace solo se è detta da noi o dai nostri? E che ci fa invece dispetto sulle labbra degli “altri”? Anche qui là carità ignora ogni doppiezza; è semplice.
A questo punto Paolo conclude la descrizione della carità con quattro affermazioni che definiscono la sua “intrepidezza”, il fatto che la carità non indietreggia di fronte a nulla. Nessuna cattiveria, nessuna ingratitudine, nessun rifiuto, nessun fallimento sono capaci di farla ripiegare su se stessa, di costringerla a un rifiuto sdegnoso degli altri, del mondo, della vita. «Tutto copre», non mette il sale sulle ferite per renderle più brucianti; non amplifica le parole cattive fino a renderle assordanti; non offre al male quel rifiuto duro che lo fa riecheggiare all’infinito. Al contrario lenisce le sofferenze, attutisce i contrasti, accoglie dentro di sé il male e senza lasciarlo rimbalzare all’esterno; quando incontra una parola, un gesto dove ci sono cattiveria e odio, assorbe il veleno e in questo modo lo scioglie e libera la bontà delle cose e delle persone. «Tutto crede», non perde mai la fiducia. Può sperimentare fallimenti e insuccessi; può incontrare opposizione e ingratitudine; può giungere a conoscere le miserie di cui è capace il cuoreumano ma non perde la fiducia. È fondata in Dio, nel suo amore solido come roccia; non vacilla e non viene meno. «Spera tutto». Vede sempre davanti a sé un futuro aperto. Il presente, coi suoi limiti, non è capace di rinserrarla e imprigionarla. Crede nel futuro di Dio che si apre una strada anche in mezzo al peccato. Nelle persone sa vedere i progetti di Dio, sa apprezzare quello che ancora non si vede e in questo modo lo fa emergere attraverso la cappa di abitudini e di errori che lo nascondono. «Sopporta tutto». Conosce il peso della vita ma non tenta di sottrarvisi; non carica gli altri dei suoi pesi ma piuttosto si fa carico dei pesi degli altri così come Cristo si è fatto carico dei pesi di tutti. Alla fine di questo cammino di amore e di sopportazione c’è ancora la croce. Sopportare tutto vuol dire in una parola sopportare anche la morte come segno supremo dell’amore che si dona.

Conclusione
Cercando ora di riassumere brevemente i punti della nostra riflessione su Giovanni e Paolo potremmo enumerarli così: Cristo ci ha amato dando la sua vita per noi; in lui era Dio stesso che dimostrava il suo amore per noi. A noi viene chiesto di accogliere questo amore nella fede. Solo in questo modo la nostra vita viene “giustificata” e ci diventa possibile essere in comunione con Dio.
L’amore di Dio accolto nella fede ci fa figli di Dio e quindi ci libera dalla debolezza e impotenza della “carne” per renderci capaci di una vita nuova. La novità di questa esistenza è la forza dello Spirito e la capacità di amare. Questo “comandamento” è “nuovo” perché è la forma di esistenza che corrisponde alla “nuova creazione”. Amare i fratelli significa “dare la vita per loro”, mettere gioiosamente l’altro al centro delle proprie scelte.

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