LA PASQUA DEI SAMARITANI: Il piccolo popolo del monte Gerizim

dal sito:

http://www.famigliacristiana.it/jesus/0704je/0704je10.htm

LA PASQUA DEI SAMARITANI

Il piccolo popolo del monte Gerizim
di Sara Laurenti – foto di Diego Zanetti  

Nei Vangeli sono spesso citati ma restano una realtà quasi sconosciuta. Pochi sanno, per esempio, che i samaritani, pur ridotti a un pugno di famiglie, sopravvivono ancora oggi, esattamente nei luoghi che abitavano al tempo di Gesù. E come allora, la Pasqua è la festa religiosa più importante, memoria del tempo in cui il popolo ebraico fuggì dall’Egitto.   

«Se obbedirai ai Suoi comandamenti, Egli ascolterà la tua voce; se metterai in pratica le Sue parole, Egli esaudirà le tue invocazioni. Se Lo temerai, tutte le genti della terra ti temeranno. Se ricorderai i Suoi comandamenti, sarai esaltato. Se aprirai le Scritture e le leggerai, Egli aprirà per te i tesori del bene» (Memar Markah IV. 10). È un’invocazione ripetuta all’infinito nelle preghiere dei samaritani più anziani, già raccolti nel tempio del villaggio di Kiryat Luza, sul Gerizim, «il monte scelto da Dio», come cita la Bibbia samaritana. Ieri questa vetta era parte del regno d’Israele, oggi è una colonia ebraica in territorio palestinese, nel cuore della Samaria, uno dei luoghi più nominati nel Libro sacro.

Abramo su questa montagna pose il primo altare quando quattromila anni fa arrivò qui dal Nord della Siria. Lo stesso fece Giacobbe. Sempre in questo luogo, dopo un anno dall’ingresso nella Terra promessa, Giosuè fece rinnovare l’Alleanza a tutto il popolo d’Israele, reduce dall’esperienza dell’Esodo. Qui ancora è posta la tomba venerata di Giuseppe, il patriarca riportato dall’Egitto.

Durante il pellegrinaggio sul Gerizim, i rotoli della Torah vengono
innalzati al cielo in una delle soste verso la cima, nel luogo dove –
secondo i samaritani – Giacobbe sognò una scala che saliva al cielo.

Attualmente solo la metà dei settecento samaritani, l’ultima comunità al mondo, vive tutto l’anno sul monte sacro. Il resto si è stabilito a Holon, una comunità fondata nel 1954-55, vicino Tel Aviv.

Sono ore di trepidazione: la vigilia di Pasqua riunisce tutti in cima. C’è chi cuoce la matzoth, il pane azzimo non lievitato, prima che inizi la festa; chi, invece, in ritardo si affretta a entrare nella sinagoga, che appare piuttosto una moschea, con tappeti invece di banchi. Non ci sono donne: non sono tenute a rivolgersi a Dio in pubblico. La religione è un affare maschile. Le mogli e le figlie, con tutta probabilità, sono a casa a ultimare le pulizie perché nulla di lievitato rimanga prima che inizi la celebrazione pasquale. Gli uomini in preghiera sembrano califfi turchi del passato, con lunghe tuniche bianche e in testa il tarboosh, il fez rosso di sapore ottomano. Chi lo decora con strisce di stoffa dorata vuole sottolineare la sua autorità di capofamiglia. «Nella nostra cultura è rimasta forte l’influenza della dominazione turca, cominciata nel XVI secolo e durata, con qualche interruzione, fino agli inizi del Novecento. Portiamo questo copricapo per rispetto al luogo sacro di Dio», spiega Izhar, 30 anni.

I pellegrini si avviano verso il monte Gerizim prima dell’alba:
in braccio, tappeti per le soste di preghiera.

Oggi la comunità samaritana è formata da sei grandi famiglie: i Sassoni, gli Tsedaka, gli Altif, gli Yehoshua, i Marchiv e i Kohen, quest’ultima erede della tribù sacerdotale di Levi. Solo i discendenti maschi di quest’ultimo gruppo possono, come è sempre stato nel passato, diventare sacerdoti, interpreti della legge e custodi della tradizione: si distinguono per il copricapo più basso e largo, a balze. Eppure l’eccezione non manca: il sommo sacerdote, sposato come tutti gli altri ministri della comunità, fa Tsedaka di cognome. «Qualche anomalia c’è sempre», sorride l’eletto, Elazar, 80 anni, che ci accoglie nella sua casa all’entrata del quartiere, ma non mi dà la mano perché potrei essere « impura ». Le leggi di purità e impurità sono state date a Mosè da Dio stesso e sono scritte nel Libro del Levitico. Tutto il popolo, ciascuno per la sua condizione, le deve rispettare. In questo caso l’impurità riguarda il ciclo mestruale: se la donna è in questo periodo, è considerata impura e non deve essere toccata se non ci si vuole contaminare.

«Sono discendente di Aronne, fratello di Mosè», racconta il sommo sacerdote. «Oltre 3.600 anni fa gli israeliti entrarono nella terra di Canaan e fin dall’inizio siamo stati guidati da quattro principi di fede: un unico Dio, il Dio di Israele; un profeta, Mosè figlio di Amram; un unico libro sacro, il Pentateuco (ma rilevanti sono anche la liturgia samaritana, i commenti biblici e il Memar Markah, l’insegnamento di Markah, uno dei teologi più importanti, vissuto tra il III e IV secolo d.C., ndr), un unico luogo sacro, il monte Gerizim, la cui santità è detta anche nel nostro decimo comandamento», spiega preciso Elazar.

Tra una tappa e l’altra del pellegrinaggio sul Gerizim,
la Torah viene coperta con un telo.

Poi continua, dando conto delle regole della comunità: «Essere samaritano richiede di vivere in terra d’Israele senza lasciarne i confini storici oppure mantenendovi la residenza se si vive fuori, di partecipare al sacrificio di Pasqua sul monte Gerizim, di mangiare cibo kasher (secondo le regole alimentari che comprendono il non mescolare carne e latte), di studiare fin da bambini la Torah, che interpretiamo letteralmente, di rispettare il sabato e di osservare scrupolosamente le leggi della purità e impurità che indica la Bibbia: chiunque non osservi uno solo di questi doveri non può vivere all’interno della comunità».

La rigida ubbidienza a queste regole rende noto questo gruppo in Israele come Shomerim, osservanti appunto. «Può diventare uno di noi», prosegue Elazar, «chi si converte alla nostra fede: le donne straniere, che devono obbedire al marito, diventano samaritane prima di unirsi in matrimonio con uno dei nostri, altrimenti entrambi sono scomunicati. Anche il divorzio è contemplato: c’è bisogno però del mio consenso», dice il capo spirituale samaritano.

Il sommo sacerdote ci lascia. Deve affrettarsi a raggiungere gli altri in sinagoga. Tutti, appena entrati, si prostrano in direzione dell’altare, in fondo allo stanzone, dove è vietato apporre immagini sacre perché l’unicità di Dio non può essere divisa in tante riproduzioni; sull’ara è posta solo una teca chiusa a chiave che contiene il rotolo di Abisha, letteralmente «custode del sacro», il Pentateuco scritto in alfabeto « samaritano », che è precedente a quello adottato dagli ebrei dopo l’esilio. Prima di entrare, le scarpe sono deposte nell’anticamera.

Le donne assistono al pellegrinaggio sul Gerizim, riunite in gruppo,
ai lati del percorso.

La preghiera, a volte in ebraico antico, altre in aramaico, è cantata. Nell’invocare Dio, Mosè e i patriarchi, tutti si passano la mano destra sul viso in segno di venerazione. La cantilena è alternata da un chiacchiericcio che, ci spiegano, è una discussione animata sui testi del Pentateuco. I samaritani non considerano tutti i testi dei profeti e degli agiografi come sacri, ma credono che alla fine dei giorni ci sarà la resurrezione dei morti grazie a un taheb, un restauratore, possibilmente un profeta come Mosè, della tribù di Giuseppe, come dice la Bibbia samaritana nel Libro del Deuteronomio.

Per capire la cultura e il culto samaritano bisogna tornare al 926 a.C., quando con la morte del re Davide la Palestina si divise in due e le dodici tribù si separarono: al nord si formò il regno d’Israele, con capitale Sichem e quindi Samaria, i cui discendenti erano per lo più delle tribù di Giuseppe, Efraim e Manasse; a sud quello di Giuda, con capitale Gerusalemme. Il regno d’Israele dovette presto fronteggiare la potenza degli assiri che, dopo varie vicende, nel 722 a.C. con Sargon II, distrussero la città come aveva predetto il profeta Michea (1,6): «Ridurrò Samaria a un mucchio di rovine in un campo, a un luogo per piantarvi una vigna. Rotolerò le sue pietre nelle valli, scoprirò le sue fondamenta». Una parte della popolazione fu deportata in Mesopotamia.

Il pellegrinaggio sul Gerizim prende avvio prima dell’alba,
nel freddo pungente della notte.

Dopo il ritorno dall’esilio babilonese, i samaritani tentarono di opporsi alla ricostruzione del Tempio di Gerusalemme e, sotto Antioco IV, si allearono con i pagani contro i giudei e crearono un tempio tutto loro sul Gerizim. In Samaria si stabilirono un certo numero di coloni assiri che si fusero con gli ebrei locali. I giudei non riconobbero mai ai samaritani lo statuto di ebrei ed ebbero sempre verso di loro disprezzo e rivalità. Nel 128 a.C. arrivarono addirittura a distruggere il tempio samaritano. «Noi non siamo ebrei, siamo samaritani», dice con orgoglio Elazar.

Al tempo di Gesù, l’ostilità fra questi due gruppi era ancora viva. Non a caso la parabola parla del buon samaritano per spiegare l’amore verso il prossimo. Questa comunità appare anche in un altro passo del Vangelo: Gesù chiede da bere a una samaritana con grande scandalo degli apostoli e, a una domanda della donna, risponde che ogni posto è buono per adorare Dio. Gesù si riferisce appunto alla disputa fra il Tempio di Gerusalemme e quello sul monte Gerizim. Solo verso la metà del secolo scorso la frattura si colmò: il Gran rabbino di Gerusalemme, Abraham Hayyim, dichiarò che i samaritani erano un ramo dell’albero giudaico e professavano la verità della Legge.

Un samaritano legge le Sacre Scritture,
codificate in un alfabeto ebraico antico.

Nel luogo del sacrificio pasquale, intanto, il fuoco di legno d’ulivo è acceso da diverse ore in profonde buche che diventeranno presto forni per una cinquantina di agnelli. È l’imbrunire del quattordicesimo giorno del nuovo anno samaritano. Tutti gli uomini sono pronti, ognuno con la propria offerta. Elazar e il suo assistente intonano i canti secondo gli antichi riti dell’Esodo. Fanno memoria di Pesach, il passaggio del popolo d’Israele dalla schiavitù alla liberazione. E proprio come allora, oggi i samaritani sacrificano l’agnello.

Assiepati sugli spalti del centro costruito proprio per il sacrificio, molti curiosi vocianti, intanto, si godono lo spettacolo: sono ebrei ortodossi con molti figli al seguito, turisti e fotografi per lo più stranieri. Vicino al sommo sacerdote siedono i rappresentanti di altre comunità religiose: un rabbino, un prete cattolico, uno ortodosso e un imam palestinese, venuti dalla vicina Nablus per festeggiare. Sui tetti delle case circostanti giovanissimi soldati israeliani, con i fucili spianati, proteggono il luogo ma specialmente l’incolumità dei presenti. Anche molti di loro fotografano l’evento.

Prima del banchetto pasquale, gli uomini si riuniscono
e cantano inni liturgici tradizionali.

Più che una festa sacra, la Pasqua samaritana sembra una sagra. L’odore del sangue versato è intenso e gli abiti bianchi degli uomini al lavoro si macchiano inevitabilmente di rosso. Le donne della comunità siedono in seconda fila e commentano, guardando i loro uomini compiere il sacrificio. «Non ci sentiamo discriminate perché non siamo coinvolte nelle celebrazioni. È sempre stato così e siamo felici di vivere in questo modo la nostra fede», spiega Ema, 30 anni.

Compiuto il sacrificio, tutti si abbracciano e cantano le preghiere dell’Esodo invocando Mosè e i profeti. È tempo di preparare gli agnelli prima di cucinarli. Scende il buio. Le vittime sacrificali sono calate nella terra incandescente. L’atmosfera si fa convulsa: i forni sono chiusi ermeticamente col fango per una cottura più rapida. Ci vogliono oltre tre ore per arrostire le offerte: la lunga attesa scoraggia molti che se ne vanno. I pochi rimasti siedono intorno all’altare dove si bruciano le frattaglie perché è scritto che nulla di impuro deve rimanere.

Bambini seduti fuori dalla sinagoga, in attesa dell’avvio
del pellegrinaggio sul Gerizim.

La notte è sempre più umida e fredda. Il fuoco mitiga l’attesa ed è l’ora delle confidenze. «Come sarebbe bello ricostruire il tempio distrutto», dice malinconico Jacob, elettricista di 32 anni. «A quel punto dovremmo sacrificare a Dio due agnelli al giorno e sarebbe impegnativo», ironizza poi inconsapevole. «Ma se togliamo la tradizione religiosa alla nostra comunità, cosa ci farebbe rimanere uniti? Eppure non sono diverso dai miei coetanei ebrei. Vado in discoteca, al bar, e bevo alcolici, proprio come loro e, come tutti, cerco una brava ragazza, che, se mi amerà, sarà capace di convertirsi alla mia fede».

Finalmente gli agnelli sono pronti: il centro è di nuovo gremito. Le donne in vestaglia, assonnate, non vogliono mancare alla festa. Si canta e si balla: ognuno a suo modo ringrazia Dio e ricorda ancora il grande Mosè e le sofferenze del popolo d’Israele. Ogni famiglia torna a casa con il proprio agnello deposto sull’azzima tra le erbe amare. Qualcuno si ferma lì a festeggiare. «Chi non è samaritano non è invitato al banchetto perché impuro», dice Jacob. Le regole della purità sono ferree. Nel periodo pasquale è d’obbligo non mangiare pane o altro cibo lievitato durante tutti i sette giorni di Pesach. Chi non rispetta questa norma può contaminare chi è puro.

In queste foto, le fasi del sacrificio pasquale:
le pecore vengono scuoiate e poste in forni scavati nel terreno.
Dopo tre ore di cottura, i forni vengono riaperti.

Guardiamo da lontano la festa e non condividiamo la gioia pasquale. È l’una del mattino.

Nei sette giorni che seguono la Pasqua, si celebra la Festa del pane azzimo, che fa memoria dell’Esodo del popolo scelto da Dio. Durante questo periodo, nel quale non è permesso mangiare nulla di lievitato, né cibi preparati, ma solo frutta, verdura, dolci fatti in casa e carne macellata nella comunità, tutto è cucinato prima della festa. Il settimo e ultimo giorno, la mattina presto, verso le tre, la comunità si ritrova a pregare in sinagoga. Dopodiché gli uomini, vestiti con lunghe tuniche bianche, salgono al monte sacro tra canti e preghiere: il pellegrinaggio è avvolto da un buio nebbioso, gelido, inospitale.

Nella prima tappa si ricordano le dodici pietre che Giosuè comandò a dodici uomini delle tribù d’Israele di trasportare fino al monte Gerizim per costruire un altare per i sacrifici a Dio. La preghiera non s’interrompe mai. Uno dei più anziani della comunità, con un grande mantello bianco, alza al cielo più volte la Torah e la preghiera si fa più intensa. Sembra Mosè sul monte Sinài che accoglie le leggi da Dio. Il canto accorato, misto al freddo pungente dell’altitudine, penetrano nelle ossa e nel cuore. Poco più avanti la processione sosta davanti all’altare di Adamo e del figlio Seth. La terza sosta, invece, ricorda Giacobbe e il sogno di una scala che giunge in cielo, ponte tra l’umano e il divino. Il gelo non si stempera. Ci si ripara come si può: con coperte, tappeti, sciarpe. Il corteo dopo pochi passi, si ferma ancora: questa volta dove si dice che Abramo abbia sacrificato l’ariete al posto del figlio Isacco. Non manca nemmeno un luogo sacro eretto dal patriarca Noè dopo il diluvio.

Dopo aver estratto le pecore dal forno, si recuperano i frammenti
di carne caduti sul fondo; le frattaglie vengono bruciate;
infine si dà il via al banchetto.

Tutto si compie nello spazio di poche decine di metri. La nebbia, nel frattempo, è diventata foschia, ma il sole fa ancora fatica a uscire dalle nuvole. Nablus s’intravede appena ai piedi della vallata. Si arriva così all’ultimo luogo, il più sacro, l’Eterna Collina, dove erano conservate le Tavole della Legge, detto anche Sakhra. I canti aramaici continuano ad animare il momento solenne. La Torah si staglia sempre meglio al cielo: c’è chi piange ricordando la schiavitù in Egitto. Accanto agli altari, una chiesa bizantina con il poco che resta dei preziosi mosaici ricorda un’altra storia, quella cristiana. Si è alzato il vento: chissà se è quello dello Spirito, che non conosce divisioni né confini.

Mentre continua la preghiera della comunità, arrivano le donne in tenuta da casa portando cibo e tè caldo per i loro uomini. Prima di rifocillarsi, ricordano anche loro i patriarchi fermandosi ai diversi altari. La discesa è in ordine sparso. Si continua a festeggiare nelle case. Stavolta qualcuno ci offre da bere. Alla fine della giornata la maggioranza si prepara per tornare a Tel Aviv. Chi resta entra in sinagoga per la preghiera: fino a tarda sera ringrazia Dio per un’altra Pasqua di pace.

Sara Laurenti

Publié dans : FESTE - PASQUA, RELIGIONI - STUDI |le 3 avril, 2010 |Pas de Commentaires »

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