LA PASQUA NEI PRIMI SECOLI
dal sito:
http://www.nostreradici.it/pasqua_cristiana.htm
LA PASQUA NEI PRIMI SECOLI
G. Visonà
1. Alle origini della parola (E. Cattaneo)
2. Un bib bang alle origini della Chiesa
3. Pasqua giudaica e Pasqua cristiana – la continuità
4. Pasqua giudaica e Pasqua cristiana – la discontinuità
5. Il mistero della Pasqua
6. Origene
7. Gli sviluppi successivi
8. Il declino e la riscoperta
——————————————————————————–
Alle origini della parola
La parola « pasqua » (pascha in greco e latino) è una traslitterazione dell’aramaico pasha che corrisponde all’ebraico pesah.
L’etimologia di questa parola ebraica è incerta, ma pare che il suo significato fondamentale sia « passare oltre ». Gli antichi amavano molto riflettere sul senso delle parole, anche se non sempre in modo rigorosamente scientifico. Anche i Padri della Chiesa si sono soffermati su questa questione assumendo posizioni diverse tra loro. Un primo gruppo di Padri – generalmente di tradizione asiana, come Melitone di Sardi, Ireneo, Ippolito, Tertulliano – collegano il termine pascha con il verbo greco páschein, soffrire, riferendolo quindi alla passione (páthos) di Cristo. Benché piuttosto ingenua, questa spiegazione coglie però quello che era il senso giudaico della pasqua. In effetti nel giudaismo « pasqua » era diventato sinonimo di agnello pasquale, da cui le espressioni « immolare la pasqua », « mangiare la pasqua », che troviamo anche nel Nuovo Testamento (Mt 26, 17; Mc 14, 12; Gv 18, 28). Questa spiegazione mette in risalto il senso tipologico dell’agnello ponendo l’accento sulla passione del Signore nel suo significato salvifico. Da qui il tema della Pasqua come salvezza (sotería).
Un secondo gruppo (gli alessandrini, con Origene e la maggioranza dei Padri orientali e occidentali) trova un’etimologia più esatta nel termine « passaggio » (diabasis, transitus). Soggetto diventa il popolo che « passa » dalla schiavitù dell’Egitto alla Terra promessa attraverso il Mar Rosso. In questo caso viene sottolineata la tipologia battesimale, poiché con il battesimo si « passa » dalla schiavitù del peccato e dei vizi e si entra nella Chiesa. Applicata a Cristo, questa etimologia indicherà il suo « passaggio » da questo mondo al Padre, e quindi la sua passione-risurrezione, secondo le parole di Agostino.
Un terzo gruppo, più esiguo (scrittori di area palestinese-antiochena, come lo pseudo-Origene, Apollinare di Laodicca, Teodoreto di Ciro, Procopio di Gaza), intende pascha come « passar-oltre » (hypérbasis) e pone come soggetto « l’angelo sterminatore » che, vedendo il sangue dell’agnello, « passa oltre » le case degli Ebrei, procurando loro la salvezza. Oppure è Cristo stesso che, con la sua passione e risurrezione, è « passato oltre » i limiti della morte e comunica questo dono ai credenti in lui. « Cristo – scrive Apollinare di Laodicea – non ha mangiato la pasqua, ma è diventato egli stesso quella Pasqua, il cui compimento è nel Regno di Dio, quando passa oltre definitivamente la morte: ciò infatti indica la parola pasqua, che significa passar oltre » (Commento a Matteo, frammento 130).
- La pasqua dei primi secoli
Un big bang alle origini della Chiesa
Ci fu un’epoca nella vita della chiesa in cui la Pasqua era, per così dire, tutto. Non solo perché essa commemorava, senza spartirla con nessun’altra festa, l’intera storia della salvezza dalla creazione alla parusia, ma anche perché essa era il luogo di formazione di alcune componenti essenziali nella vita della comunità: la liturgia, l’esegesi tipologica, la catechesi, la teologia e lo stesso canone delle Scritture » (R. Cantalamessa).
In effetti, se si esaminano le origini dell’esperienza cristiana, la Pasqua ci appare come una specie di Big Bang che racchiude nel suo densissimo nucleo quel patrimonio teologico e liturgico della chiesa che solo progressivamente si andrà articolando nella serie delle componenti che costituiscono le tappe del mistero cristiano e, insieme, dell’anno liturgico.
Essa, però, rappresenta anche uno dei più nitidi raccordi del cristianesimo con la sua matrice giudaica e, al tempo stesso, uno degli esempi più perspicui delle modalità di affrancamento del primo dalla seconda attraverso un processo di (ri)elaborazione e (ri)fondazione autonome.
Infine, la Pasqua è anche uno dei casi più fruttuosi di ritorno all’antico e di ricorso ai Padri: infatti, la riforma liturgica – con la connessa ricomprensione teologica – della Pasqua e della Settimana santa, introdotta in questo secolo a partire dagli anni cinquanta e ratificata dal Concilio Vaticano II, poggia interamente sulla riscoperta e sul recupero della significazione teologica e liturgica della Pasqua della chiesa antica dopo un’eclissi di secoli.
Pasqua cristiana e pasqua giudaica – la continuità
Pasqua è una festa che il cristianesimo assume dal giudaismo, ove commemorava (secondo il rito codificato in Es 12) la liberazione del popolo di Israele dalla schiavitù d’Egitto. Un primo legame con la Pasqua cristiana è di ordine storico, in quanto gli eventi che i cristiani da subito avvertirono come decisivi per la loro fede, ovvero la passione morte risurrezione di Gesù, si situarono nel quadro della celebrazione della « Pasqua dei giudei » (come la chiama l’evangelista Giovanni) di un anno ‘che poté essere il 29 d.C. Ma naturalmente questo legame puramente esteriore non è sufficiente a giustificare l’importanza assunta dalla Pasqua nella chiesa antica; è legittimo ritenere che esso, come tale, avrebbe lasciato campo libero a un’altra direttrice, questa sì specificamente e originariamente cristiana, che pure vediamo spuntare prestissimo: quella della Domenica, il « giorno del Signore » (Ap 1, 10), giorno della risurrezione di Cristo (Mc 16, 2 e paralleli), perno già in età apostolica di una « liturgia » settimanale dei cristiani (At 20, 7; 1 Cor 16, 2) che si configura come banchetto eucaristico con il risorto (cf. già Gv 20, 19 e 20, 26: « Otto giorni dopo »).
Invero, esiste una teoria che radica la Pasqua cristiana in questa direttrice della Domenica come festa della risurrezione, rispetto alla quale la Pasqua annuale sarebbe una emanazione secondaria come « grande Domenica dell’anno » (festa anniversaria della risurrezione), ma, quantunque il legame tra Pasqua e Domenica tenda a farsi sempre più stretto, molti elementi depongono a favore di un rapporto di continuità e di filiazione tra la Pasqua giudaica e la primitiva Pasqua cristiana, la quale solo in un secondo momento, in forza anche delle spinte antigiudaiche, si sarebbe portata sul tratti distintivi della Domenica.
Tra questi elementi vi sono il nome, la data e la struttura liturgico-teologica della festa. Il nome Pascha (rimasto sia in greco che in latino) deriva dalla forma ararnaica dell’ebraico Pesach; la data (mobile) della festa, anche quando questa si localizzerà sulla domenica, rimarrà comunque legata alla data della Pasqua giudaica (il 14 – quindi al plenilunio – del mese lunare di Nissan, tra marzo e aprile) come risultante di tre coordinate: essa cadrà la domenica dopo il plenilunio successivo all’equinozio di primavera (ovvero la domenica dopo la Pasqua giudaica), quindi tra il 22 marzo e il 25 aprile.
Questi elementi verranno teologicamente valorizzati dai Padri: la Pasqua è giorno di luce ininterrotta, in cui la luna piena, nell’equinozio, subentra di continuo alla luce del sole a segnalare un giorno senza tramonto; essa inoltre raccoglie il simbolismo della rinascita del mondo a primavera, dopo i rigori dell’inverno (= il peccato e la morte), e – in dipendenza dall’associazione tra primavera e creazione – diviene sinonimo di nuova creazione, di una palingenesi che coinvolge l’universo intero.
Quanto alla struttura liturgica, l’antica celebrazione della Pasqua cristiana come unica veglia la notte del 14 Nissan (Pasqua quartodecimana) o la notte tra sabato è domenica (Pasqua domenicale) non si spiega con la prassi cristiana ma con l’indicazione e la prassi biblico-giudaica della Pasqua come « notte di veglia per il Signore » (Es 12, 42: Questa sarà una notte di veglia in onore del Signore per tutti gli Israeliti, di generazione in generazione »). In questa notte il Targum di Es 12, 42 fa cadere la sequenza di quattro eventi cardine: è la notte della creazione, quella del sacrificio di Isacco, quella appunto della liberazione dall’Egitto e quella futura dell’avvento messianico.
Nelle letture bibliche e nella prospettiva teologica antica veglia pasquale cristiana ha mirabilmente conservato questa struttura storico-salvifica racchiusa tra creazione ed escatologia. In particolare essa mantiene il carattere fortemente dinamico della soteriologia dell’Esodo, fondata sul passaggio da una situazione di perdizione a una di salvezza. Lo mostra il fatto che una delle più antiche omelie pasquali cristiane riprende pressoché alla lettera, applicandolo a Cristo, un passaggio che l’haggadah pasquale giudaica (precisamente Pesachim 10, 5) riferisce a :
Egli è colui che ci ha fatti passare dalla schiavitù alla libertà, dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita, dalla tirannia al regno eterno… Egli è la Pasqua della nostra salvezza (Melitone di Sardi, Sulla Pasqua 68-69).
In questa prospettiva la più antica Pasqua cristiana appare essere la Pasqua detta « quartodecimana », che del Pesach giudaico conservava anche la data del 14 Nissan, mentre la Pasqua « domenicale » non rappresenterebbe che una fase successiva, dettata dall’esigenza di distinzione dal giudaismo e dalla forza attrattiva della domenica di risurrezione. Ma è possibile anche che le due tradizioni risalgano a due distinti filoni del giudaismo, ovvero che la Pasqua quartodecimana sia la ripresa cristiana del Pesach (e quindi più. propriamente la « Pasqua »), e che invece la Domenica di risurrezione corrisponda alla festa dell’Omer (ovvero delle primizie), primo dei cinquanta giorni (Pentecoste) della festa delle Settimane, che in base a Lv 23, 11 il calendario sacerdotale in uso a Qumran faceva cadere « il giorno dopo il sabato » successivo al 14 Nisan.
Va ricordato, in proposito, come Paolo evochi il tema della « primizia » in rapporto alla risurrezione di Cristo (1 Cor 15, 20.23) o come risurrezione e festa dell’Omer risultino collegate ad esempio nello scritto Sulla Pasqua di Clemente Alessandrino (framm. 28). « Ciò che chiamiamo Pasqua è in realtà l’inizio della Pentecoste » (J. van Goudoever): a sostegno va citata anche la strettissima correlazione che nei primi secoli lega la Pentecoste alla Pasqua di risurrezione, di cui costituisce una specie di cassa di risonanza da celebrare come un’unica « grande Domenica ».
Pasqua giudaica e pasqua cristiana – la discontinuità
Il nesso tra Pasqua giudaica e Pasqua cristiana si situa a un livello ben più profondo della coincidenza cronologica, ovvero nella comprensione dell’evento Cristo in chiave storico-salvifica attraverso la griglia di lettura fornita dalla Pasqua storica dell’Esodo, memoriale del riscatto del popolo di Israele dalla schiavitù d’Egitto. Qui troviamo le ragioni non più solo della continuità tra la Pasqua di Israele e quella della chiesa, ma anche e soprattutto dello scarto che separa la seconda dalla prima, scarto la cui misura è data dalla tipologia, cioè dalla struttura binaria che ora taglia l’intera storia dell’umanità e che ha il suo punto discriminante in Cristo.
La realtà non è più univocamente orientata e determinata, ma è ora suddivisa in due versanti (due « economie’), quello della figura (typos) e quello della verità, quello dell’immagine e quello della realtà, quello del preannuncio e quello del compimento, quello della Legge e quello del Verbo. Tutto questo presuppone che le realtà della storia di Israele perdano consistenza propria e assumano significato solo in rapporto a Cristo. Questo trasferimento, quanto alla Pasqua di Es12, è già presente nella perentoria proclamazione dell’Apostolo Paolo: « Cristo, nostra Pasqua (Pascha nostrum) è stato immolato! Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verìtà » (1 Cor 5, 7-8)
Qui gli elementi rituali della Pasqua di Es 12 appaiono risignificati e trasferiti su Cristo come Pascha, qui da intendere nel senso di « agnello pasquale » immolato, l’agnello il cui sangue valse agli ebrei la salvezza dal flagello di sterminio » con cui Dio colpì l’Egitto (Es 12, 7-13). Anche il Vangelo di Giovanni legge la morte di Cristo in croce (il giorno di Pasqua, nell’ora in cui nel tempio i sacerdoti uccidevano gli agnelli) come immolazione dell’agnello pasquale, al quale « non sarà spezzato alcun osso » (Es 12, 46, citato in Gv 19, 36).
Anche altrove nel Nuovo Testamento – in particolare 1 Pt 1,19 (« foste liberati … con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia »: cf. Es 12, 5; ma anche 1 Pt 2, 9: « Vi ha chiamati dalle tenebre alla sua ammirabile luce », da confrontare con Pesachim e Melitone) – si segnalano tracce di una haggadah pasquale cristiana, cioè di una illustrazione/spiegazione del significato della Pasqua (era una delle componenti del rito ebraico) in una prospettiva cristologica. Questa haggadah diviene la struttura stessa delle più antiche omelie pasquali cristiane, che poggiano sulla trasposizione tipologica delle prescrizioni di Es 12, la cui lettura durante la liturgia è esplicitamente attestata.
Ma sono gli stessi racconti evangelici della passione a mettere in risalto la natura « pasquale » del sacrificio di Cristo (e non stupirà, dunque, che per l’intero Vangelo di Marco – definito, com’è noto, un racconto della passione con una lunga introduzione – sia stata avanzata l’ipotesi di un’origine come ‘haggadah pasquale cristiana »).
Non è escluso, anzi, che proprio questa comprensione – e la sua traduzione liturgica nelle prime comunità cristiane – si sia imposta sul resoconto storico-cronachistico degli eventi della passione e sia quindi all’origine della discordanza cronologica tra i racconti sinottici e quello di Giovanni. Per quest’ultimo, come abbiamo visto, Gesù muore il 14 del mese di Nisan, giorno della Pasqua giudaica (Gv 18, 28: i giudei non entrano nel pretorio « per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua »); per i Sinottici, invece, l’ultima cena di Gesù è per l’appunto un banchetto pasquale tenuto la sera del 14 Nisan (Mc 14, 12-16; Lc 22, 15: « Ho ardentemente desiderato mangiare questa Pasqua con voi prima di patire »).
Per Giovanni, dunque, Cristo stesso è l’agnello pasquale immolato, cui non viene « spezzato alcun osso »: questa prospettiva diviene il motivo guida della primitiva teologia pasquale: « Al posto dell’agnello il Figlio di Dio » (Melitone, Pseudo Ippolito, Apollinare di Gerapoli); nella prospettiva dei Sinottici, invece, la risignificazione dell’immolazione pasquale avviene a livello rituale, nel cenacolo, ma ha comunque come centro la morte redentrice di Cristo (Lc 22, 19: « Questo è il mio corpo dato per voi: fate questo in memoria di me »). La chiesa antica ha mantenuto un filone che collega la notte di Pasqua con la Pasqua-eucaristia dell’Ultima Cena. Canta un inno di Efrem Siro:
Beata sei tu, o notte ultima, perché in te si è compiuta la notte d’Egitto. Il Signore nostro in te mangiò la piccola Pasqua e divenne lui stesso la grande Pasqua: la Pasqua si innestò sulla Pasqua, la festa sulla festa. Ecco la Pasqua che passa e la Pasqua che non passa; ecco la figura e il suo compimento.
È stato ipotizzato che i racconti sinottici della cena pasquale altro non siano che la storicizzazione delle prime liturgie pasquali dei cristiani, cioè del memoriale con cui i cristiani riconoscevano nella immolazione in croce di Cristo la nuova Pasqua redentrice del (nuovo) popolo di Dio. Come che sia, i Sinottici e Giovanni ci ammettono da punti di inserzione diversi in quella piena circolarità tra l’evento originario e la sua traduzione/attualizzazione sacramentale che può forse confondere i termini dell’esatto decorso storico ma non meno realmente pone la croce e l’eucaristia al centro della Pasqua dei cristiani.
Il mistero della pasqua
Come credo appaia da quanto siamo venuti illustrando, la pasqua non rappresenta nella chiesa antica esclusivamente – e nemmeno primariamente – la festa della risurrezione, bensì la festa della salvezza nella sua globalità e onnicomprensività. I termini del mistero pasquale sono i termini del disegno salvifico di Dio, il mistero di Pasqua è tout- court il mistero di Cristo, come recita Melitone nella sua omelia pasquale (§ 65). La Pasqua, proclama lo Pseudo Ippolito, è « Dio apparso come uomo e l’uomo asceso ai cieli come Dio ». Perno di questo movimento è, casomai, la croce piuttosto che la risurrezione, secondo una correlazione amplificata dai cristiani attraverso il nesso etimologico che vollero instaurare tra Pascha e páschein (in greco patire), cioè tra Pasqua e passione.
Questo nesso, però, si estese fino a mettere in relazione il patire di Cristo con il patire dell’uomo, dilatando il mistero pasquale fino alle origini stesse dell’umanità, allorché Adamo cadde preda del peccato e della morte; a supporto intervenne la stessa comprensione tipologica della Pasqua storica di Es 12, sotto la cui figura (liberazione degli ebrei dalla schiavitù d’Egitto e del faraone) si vide adombrata la realtà del riscatto dell’umanità dalla schiavitù del mondo e del demonio, facendo della Pasqua di Israele il paradigma della liberazione dell’uomo dal male e dalla morte. Dunque, così lo Pseudo Ippolito mirabilmente fonde Pasqua, croce ed eucaristia:
Questa era la Pasqua che Gesù desiderava patire per noi. Con la passione ci ha liberati dalla passione, con la morte ha la morte e per mezzo dei suo cibo visibile ci ha elargito la sua vita immortale.
Melitone risponde in questo modo alla domanda: cos’è la Pasqua?
Apprendete dunque chi è colui che patisce (l’uomo) e chi colui che ha compatito con chi patisce (Cristo) e apprendete perché il Signore è venuto sulla terra, per rivestire colui che pativa e trascinarlo verso la sommità dei cieli.
I confini della Pasqua sono quelli della storia della salvezza, il suo baricentro è la morte redentrice di Cristo.
Origene
Origene (sulla Pasqua 1) espressamente si propone di correggere la falsa derivazione etimologica di Pasqua da passione, che egli riconosce imperante ai suoi tempi, a favore di quella, basata sull’ebraico, che collega il termine pasqua a passaggio, e spiega: « Poiché in questa festa il popolo esce dall’Egitto, conseguentemente essa è chiamata Pasqua, cioè « passaggio »" (ivi). Per questa via si dischiudono alla esplorazione cristiana gli ampi spazi della trasposizione allegorica, già anticipata in ambiente alessandrino dal giudeo Filone: « La Pasqua dell’anima significa il passaggio da ogni passione e da ogni realtà sensibile ». Vediamo come Origene applica questa concezione al testo basilare di 1 Cor 5,7:
Colui che ha compreso che la nostra Pasqua, Cristo, è stata immolata e che bisogna celebrare la festa mangiando la carne del Verbo, non c’è momento che non faccia Pasqua, che significa passaggio: egli infatti con il pensiero, con ogni parola e con ogni azione sempre passa dalle cose della vita a Dio e si affretta verso la sua città (Contro Celso 8, 22).
Origene ribadisce, sempre in riferimento a 1 Cor 5,7, che
La Pasqua è sì figura (typos) di Cristo, ma non della sua passione. Dobbiamo infatti immolare noi il vero agnello e arrostire noi e mangiare noi le sue carni: ma se questo non è avvenuto in occasione della passione del Salvatore, allora la realtà corrispondente alla Pasqua non è la passione, bensì è la Pasqua che è figura di Cristo immolato per noi (Sulla Pasqua 13).
Ovvero, per Origene la struttura portante del mistero pasquale non è quella che collega l’agnello di Es 12 e gli eventi della passione di Cristo, bensì quella che mette in relazione la celebrazione storica della Pasqua dell’Esodo e la celebrazione che oggi il credente è chiamato a fare (si noti l’insistenza sul noi!) cibandosi del vero agnello e compiendo il vero passaggio della Pasqua.
Gli sviluppi successivi
NeIla prospettiva origeniana sono racchiusi tutti i principali successivi sviluppi, teologici, liturgici e sacramentali, della Pasqua cristiana. Anche se nel caso di Origene è eccessivo dire, come è stato fatto, che « la cristologia passa dietro l’antropologia », è innegabile che una concezione secondo cui « la Pasqua del Signore è il passaggio dalle passioni alla pratica delle virtù » (così Ambrogio di Milano, grande divulgatore in Occidente dell’esegesi origeniana) porterà la catechesi e l’omiletica a concentrarsi piuttosto su tematiche antropologiche e morali, col rischio di perdere il radicamento cristocentrico
Parimenti, la prospettiva origeniana, che privilegia la Pasqua che oggi il cristiano è chiamato a celebrare e vivere, alimenterà l’accentuazione in senso sacramentale che la Pasqua riceverà soprattutto a partire dal IV secolo, con la strutturazione liturgica del tempo pasquale e dell’istruzione catecumenale. Battesimo ed Eucaristia sono valorizzati come « sacramenti pasquali », in particolare il battesimo come passaggio nell’acqua verso la salvezza, che ha ora, nella tipologia dell’Esodo, un riscontro privilegiato nel passaggio del Mar Rosso (Es 14). Scrive Ambrogio : Cosa c’è di più opportuno, a proposito del passaggio dei Mar rosso da parte dei popolo ebraico, che parlare dei battesimo? Gli ebrei che passarono morirono nel deserto; invece chi passa attraverso questo fonte, cioè dalle cose terrene alle celesti – questo è infatti il ‘passaggio’ e quindi la Pasqua, passaggio dal peccato alla vita, dalla colpa alla grazia, dalla macchia alla santità – chi passa attraverso questo fonte non muore ma risorge (I sacramenti 1, 4,12).
La veglia pasquale diviene il momento culminante dell’iniziazione cristiana e la « notte battesimale dell’anno » (Asterio Sofista la chiama « la madre dei neobattezzati »). La schiera dei neofiti, che dal fonte battesimale viene accolta nella basilica con già una ‘liturgia della luce » (lucernarium) e viene ammessa alla comunione eucaristica, rappresenta visivamente la Pasqua-passaggio dalle tenebre dei peccato alla luce della grazia. In questa prospettiva si viene strutturando la Quaresima come periodo di preparazione catecumenale, mentre l’Ottava di Pasqua verrà dedicata all’istruzione mistagogica dei neobattezzati. Di questo abbiamo circostanziata testimonianza nei cicli di catechesi battesimali e mistagogiche di Cirillo di Gerusalemme, Crisostomo, Ambrogio, Agostino.
Dal nucleo originario dell’antica Pasqua vediamo dunque dispiegarsi un più articolato « tempo pasquale », che comprende la Quaresima, la Settimana santa e il Triduo, l’Ottava di Pasqua, e celebra come feste distinte l’ascensione e la Pentecoste. La veglia pasquale non perde la sua centralità (essa rimane la « madre di tutte le veglie », come la chiama sant’Agostino) ma perde la sua assolutezza. Alla « scomposizione » della festa di Pasqua contribuisce anche il fenomeno della sua storicizzazione, cioè la tendenza a scandire i riti della Settimana santa ricalcando la successione storica degli eventi e quindi commemorando separatamente i singoli misteri della passione morte risurrezione di Cristo.
Questa tendenza ha come centro propulsore Gerusalemme (in concomitanza con la « corsa » ai luoghi santi dal IV secolo in poi) e ne è testimone preziosa la pellegrina Egeria che, nel 383/384, ci descrive i riti che si svolgevano a Gerusalemme dal Giovedì santo all’Ottava « apte diei et loco », cioè in maniera conforme al giorno e al luogo. Alla fine del sec. IV, con Giovanni Crisostomo in Oriente e Agostino in Occidente, troviamo ormai strutturato il Triduo, sacratissimum tríduum crucifixi, sepulti, suscitati (Agostino), che comporta in particolare una liturgia propria per il Venerdì Santo.
Con Agostino è ancora garantita la forte coesione di morte e risurrezione nel mistero pasquale di Cristo (ne è garanzia il ricorso privilegiato e assiduo a Rm 4, 25: « Morto per i nostri peccati, risorto per la nostra giustificazione »). Essa è alla base della concezione della Pasqua con cui il grande dottore volle comporre la prospettiva antropocentrica della Pasqua-passaggio con quella cristocentrica della Pasqua-passione, che in Occidente manteneva tenaci sostenitori (Ambrosiaster: « Pascha itaque immolatio est, non transitus »). Per Agostino la Pasqua è transitus per passionem, cioè « passaggio attraverso la passione », passaggio prima di Cristo e poi dell’uomo. Il passaggio di Cristo al Padre attraverso la croce dischiude all’uomo il passaggio dalla morte alla vita:
Tramite la passione il Signore passò dalla morte alla vita, aprendo la via a noi che crediamo nella sua risurrezione, per passare anche noi dalla morte alla vita » (Commento al salmi 120, 6); « Cristo è morto, moriamo al peccato; Cristo è risorto, viviamo per Dio. Cristo passa da questo mondo al Padre: non si fissi qui il nostro cuore, ma lo segua nelle realtà di lassù (Serm. 229/DI).
Ma la distinzione tra la memoria della passione e quella della risurrezione (scrive Ambrogio: « Celebriamo in tal modo un giorno di tristezza e uno di gioia. Nel primo digiuneremo, nel secondo saremo saziati ») comporterà, dal punto di vista teologico, il rischio di una frammentazione dell’unità profonda del mistero pasquale e in particolare della perdita dello stretto legame tra la croce e la risurrezione, passando da una concezione unitaria, dinamica, storico-salvifica della Pasqua a una prospettiva storicizzante che allinea e distingue, celebrandoli separatamente, i singoli momenti ed eventi.
La conseguenza più rilevante fu che, dopo Agostino, la Pasqua nell’ambito del Triduo si identificò sempre più con la domenica divenendo la festa della risurrezione, lasciando al Venerdì santo la memoria della croce in una prospettiva di lutto e cordoglio. Troviamo già pienamente affermata questa prospettiva incentrata sulla « Pasqua di risurrezione » nei sermoni per il tempo pasquale di san Leone Magno (m. 461).
Il declino e la riscoperta
Successivamente, ulteriori fattori contribuirono a uno stravolgimento del significato della Pasqua e in particolare al declino della veglia pasquale, già nucleo assoluto dell’antica Pasqua cristiana. Il fenomeno più rilevante fu l’anticipazione sempre più marcata della veglia: dovendo terminare prima di mezzanotte, essa fu liturgicamente computata al Sabato santo e non più alla Pasqua; quando poi si stabilì che le messe dovevano finire prima di mezzogiorno, la veglia « notturna » si trovò collocata la mattina del sabato (!), che per di più decadde da giorno festivo. Il significato di vigilia passò definitivamente da quello di « veglia » a quello di « giorno che precede » la festività: quest’ultima si identificò più che mai con la domenica di risurrezione, sviluppando la specifica liturgia.
Intervennero, inoltre, da una parte il crescente rilievo del Giovedì santo, che venne inserito nel Triduo, e dall’altra il fatto che giorni festivi rimasero soltanto oltre alla Domenica di Pasqua, il lunedì e il martedì successivi: si venne di fatto a creare quello che è stato chiamato « Doppio Triduo », cioè un triduum mortis (Giovedi-Venerdì-Sabato santi) e un triduum resurrectionis (che si apre con la Domenica di Pasqua), sancendo così la frattura fra passione e risurrezione.
La Pasqua aveva perso il suo nucleo liturgico e teologico, la veglia notturna (celebrata la mattina di un giorno feriale), il cui ricco simbolismo, svilito e snaturato, non era più compreso. Col diffondersi della consuetudine di battezzare i neonati, essa non fu più nemmeno veglia battesimale. Pasqua rimaneva una festa della risurrezione sganciata dalla comprensione « pasquale » del mysterium crucis.
Nel nostro secolo, lo sforzo pionieristico di liturgisti e patrologi, l’impulso decisivo del Movimento liturgico tra le due guerre, l’apporto di personalità come Romano Guardini e di ambienti monastici come quello benedettino, tutto questo ha rimesso in luce la centralità del mysterium paschale nella teologia e nella liturgia della chiesa e ha valorizzato la Pasqua come fons et culmen dell’anno liturgico e la veglia come cuore e vertice delle celebrazioni pasquali.
——————————————————————————–
1 Tratto da: Primi Secoli – Il mondo delle origini cristiane, Anno II – n.3 gennaio 1999, Città Nuova
Vous pouvez laisser une réponse.
Laisser un commentaire
Vous devez être connecté pour rédiger un commentaire.