L’ACQUA DALLA ROCCIA E AMALEK, Es 17,1-16 – A.T. è un tema…
»anche » quaresimale e pasquale, lo ritroveremo anche in San Paolo, dal sito:
http://www.nabot.org/esodo_17,1-16.html
L’ACQUA DALLA ROCCIA E AMALEK
Es 17,1-16
Palazzolo Milanese, 22 aprile 1997 – Il capitolo 17 dell’Esodo racconta due episodi avvenuti a Refidim, una località di incerta identificazione (cf le differenze fra Es 17,1-16 e il parallelo Nm 20,1-13). La prima scena è legata ancora una volta alla sete e alle mormorazioni del popolo: di fronte alle proteste dei suoi Mosè invoca il Signore e fa scaturire l’acqua dalla roccia. La seconda, invece, è una scena di guerra: Amalek attacca Israele, il quale riesce a difendersi e a vincere grazie all’intercessione di Mosè.
Leggiamo con ordine, cominciando dal primo versetto. La comunità degli Israeliti si accampa a Refidim, “ma non c’era acqua da bere per il popolo” (Es 17,1). Così “il popolo protestò contro Mosè” (Es 17,2). Era già successo che il popolo protestasse: a Mara aveva reclamato per la sete e nel deserto di Sin per la mancanza di cibo.
In ebraico il verbo che esprime meglio la contestazione di Israele è rib (“litigare, questionare…”), da cui deriva il nome del luogo Meriba che significa appunto “controversia, disputa, protesta…”. Il versetto 7 dice espressamente: “Si chiamò quel luogo Massa e Meriba a causa della protesta degli Israeliti e perché misero alla prova il Signore dicendo: Il Signore è in mezzo a noi sì o no?” (Es 17,7). Il termine Massa (in ebraico massah, “tentazione”) deriva dal verbo nasah che significa “tentare, mettere alla prova”.
Come dice il versetto 2 il popolo protesta contro Mosè, ma questi ribatte chiamando in causa il Signore: “Perché protestate con me? Perché mettete alla prova il Signore?”. E’ il Signore infatti (non Mosè) che conduce il popolo. Ma gli Israeliti insistono: “Perché ci hai fatti uscire dall’Egitto per far morire di sete noi, i nostri figli e il nostro bestiame?” (17,3).
Davanti a tale accanimento Mosè cade nello sconforto e si rivolge a Dio per chiedere aiuto: “Che farò io per questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno!” (17,4). La rabbia del popolo si fa minacciosa e Mosè intuisce di essere personalmente in pericolo proprio a causa del suo ruolo di mediatore. Comincia a sentire il peso di un ministero che lo mantiene continuamente in tensione tra due fuochi, tra la santità di YHWH e la testardaggine del popolo. Nel libro dei Numeri troviamo un testo altamente drammatico che ci aiuta a capire il suo stato d’animo:
“Mosè udì il popolo che si lamentava in tutte le famiglie, ognuno all’ingresso della propria tenda; lo sdegno del Signore divampò e la cosa dispiacque anche a Mosè. Mosè disse al Signore: Perché hai trattato così male il tuo servo? Perché non ho trovato grazia ai tuoi occhi, tanto che tu mi hai messo addosso il carico di tutto questo popolo? O l’ho forse messo al mondo io perché tu mi dica: Portatelo in grembo, come la balia porta il bambino lattante, fino al paese che tu hai promesso con giuramento ai suoi padri? Da dove prenderei la carne da dare a tutto questo popolo? Perché si lamenta dietro a me dicendo: Dacci da mangiare carne! Io non posso portare da solo il peso di tutto questo popolo; è un peso troppo grave per me. Se mi devi trattare così, fammi morire piuttosto, fammi morire, se ho trovato grazia ai tuoi occhi; io non veda più la mia sventura!” (Nm 11,10-15; cf Es 18,13-27)
Questo sfogo ci mostra un tratto fortemente umano del personaggio Mosè. A differenza di Israele, il cui atteggiamento spirituale è ben sintetizzato dalla domanda del versetto 7 (“Il Signore è in mezzo a noi sì o no?”), Mosè non mette in dubbio la presenza di Dio, ma gli fa presente il proprio limite nel sostenere il peso del popolo.
Il Signore interviene prontamente, facendo sgorgare l’acqua dalla roccia. Il testo sottolinea che il bastone con cui Mosè batte sulla roccia è lo stesso che egli aveva usato per percuotere il Nilo (cf Es 4,1-4; 7,8-25). Colui che agisce allora è YHWH, presente “sulla roccia, sull’Oreb” (17,6) davanti a Mosè. E’ Dio che cambia il sasso in sorgente, “che muta la rupe in un lago, la roccia in sorgenti d’acqua” (Sl 114,8).
Il tema dell’acqua che sgorga dalla roccia torna più volte nella Bibbia (Dt 8,15; Gdc 15,19; Ne 9,15; Sap 11,4; Is 48,21). La tradizione rabbinica ha pensato che Israele portasse con sé questa roccia come segno della costante protezione di YHWH durante la marcia nel deserto. Nel Talmud Babilonese (Trattato Sukkà, Tosefta 3.11) è scritto: “La fonte che accompagnava Israele nel deserto assomigliava a una roccia [...], essa saliva con loro sulle montagne, scendeva con loro nelle valli; dove soggiornava Israele là essa soggiornava davanti all’ingresso della tenda di riunione”. Anche S.Paolo conosceva questa interpretazione, come risulta dalla prima lettera ai Corinzi: “tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava e quella roccia era il Cristo” (1 Cor 10,4).
Leggendo questa pagina dell’Esodo chiediamoci: quante volte anche noi ci accostiamo al Signore con la pretesa di ricevere dei segni (cf Mt 18,38-42)? quante volte mettiamo alla prova la sua pazienza (cf Mc 9,19)? perché non alziamo lo sguardo verso di Lui che ci sta davanti “sulla roccia, sull’Oreb” (Es 17,6) e fa sgorgare per noi “fiumi di acqua viva” (Gv 7,38)?
La seconda scena del dittico di Es 17 è la battaglia contro Amalek, una tribù nomade appartenente alla discendenza di Esaù (cf Gen 36,12) e al numero dei nemici tradizionali di Israele (cf Es 17,14-16; Nm 14,45; Gdc 3,13; 6,3 e 7,12; 1 Sam 15,1-8; 27,8; 30,1-31; Nm 24,20). Sulla strada verso la terra promessa Israele non incontra soltanto l’ostacolo della fame e della sete, ma anche i pericoli derivanti dai beduini del deserto.
Al versetto 9 incontriamo per la prima volta Giosuè nelle vesti di capo militare. Il futuro successore di Mosè riceve l’ordine di organizzare un contingente di truppe scelte e di uscire in battaglia contro Amalek. Mosè invece starà “ritto sulla cima del colle con in mano il bastone di Dio” (17,9). In questo modo l’Esodo intende mostrare la reale gerarchia del potere: non è Giosuè che conduce alla vittoria il popolo in armi e neanche Mosè che assiste alla battaglia dall’alto, ma Dio il cui bastone disperde i nemici. In questa prospettiva si comprende il versetto 15: “Mosè costruì un altare e lo chiamò: YHWH è il mio vessillo”.
L’episodio di Mosè sul monte con le mani alzate è stato frequentemente interpretato come un’immagine del legame esistente tra contemplazione e azione, anche se il testo non dice in modo esplicito che Mosè stesse pregando: “quando Mosè alzava le mani Israele era il più forte, ma quando le lasciava cadere era più forte Amalek” (17,11). In ogni caso, appare chiaro che lo scontro vero e proprio tra le forze non si svolge nella piana dove le due tribù si affrontano animosamente, ma sul colle dove Mosè fatica a tenere le mani alzate.
A cura di Eugenio Arienti e Giovanni Giuranna

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