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DOMENICA 21 FEBBRAIO 2010 – I DI QUARESIMA ANNO C

DOMENICA 21 FEBBRAIO 2010 - I DI QUARESIMA ANNO C dans Lettera ai Romani 15%20BOTICELLI%20A%20THE%20TEMPTATION%20OF%20CHRIST

Botticelli – Vatican The fresco represents Christ’s threefold temptation by the Devil

http://www.artbible.net/3JC/-Mat-04,01-Temptation_and_freedom_Tentation_et_%20liberte/index2.html

DOMENICA 21 FEBBRAIO 2010 – I DI QUARESIMA ANNO C

MESSA DEL GIORNO LINK:

http://www.maranatha.it/Festiv2/quaresC/QuarC1Page.htm

MESSA DEL GIORNO:

Seconda Lettura   Rm 10,8-13
Professione di fede di chi crede in Cristo.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani 
Fratelli, che cosa dice [Mosè]? «Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore», cioè la parola della fede che noi predichiamo. Perché se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza.
Dice infatti la Scrittura: «Chiunque crede in lui non sarà deluso». Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato».

http://www.bible-service.net/site/379.html

Romains 10,8-13

Ce bref passage a été évidemment choisi en regard du Credo d’Israël : il s’agit sans doute de l’expression la plus ancienne de la profession chrétienne en deux formules parallèles, sources des développements théologiques ultérieurs. Paul, profitant de la citation de Deutéronome 30, 14 qui comporte « bouche et cœur » va attribuer chaque formule à chacun des deux organes ; pour le cœur l’adhésion de foi, pour la bouche la proclamation liturgique. On suppose que la proclamation de la bouche doit correspondre à l’adhésion du cœur. Deux éléments distincts à recomposer en unité pour exprimer le tout de la vie chrétienne.

Romani 10, 8-13

Questo breve passaggio è stato evidentemente scelto in riferimento al Credo di Israele : si tratta senza dubbio della espressione più antica della professione cristiana in due formule parallele, fondi di sviluppo teologico ulteriore. Paolo, approfittando della citazione di Deuteronomio 30,14 che comporta “bocca e cuore” attribuisce ognuna delle due formule a uno dei due organi ; per il cuore l’adesione alla fede, per la bocca la proclamazione liturgica. Si suppone che la proclamazione della bocca debba corrispondere all’adesione del cuore. Due elementi distinti che si ricompongono in unità per esprimere tutta la vita cristiana

PRIMI VESPRI

Lettura breve   2 Cor 6, 1-4a
Fratelli, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio. Egli dice infatti: Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso (Is 49, 8). Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza! Da parte nostra non diamo motivo di scandalo a nessuno, perché non venga biasimato il nostro ministero; ma in ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio.

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dal «Commento sui salmi» di sant’Agostino, vescovo
(Sal 60, 2-3; CCL 39, 766)

In Cristo siamo stati tentati e in lui abbiamo vinto il diavolo
«Ascolta, o Dio, il mio grido, sii attento alla mia preghiera» (Sal 60, 1). Chi è colui che parla? Sembrerebbe una persona sola. Ma osserva bene se si tratta davvero di una persona sola. Dice infatti: «Dai confini della terra io t’invoco; mentre il mio cuore è angosciato» (Sal 60, 2).
Dunque non si tratta già di un solo individuo: ma, in tanto sembra uno, in quanto uno solo è Cristo, di cui noi tutti siamo membra. Una persona sola, infatti, come potrebbe gridare dai confini della terra? Dai confini della terra non grida se non quella eredità, di cui fu detto al Figlio stesso: «Chiedi a me, ti darò in possesso le genti e in dominio i confini della terra» (Sal 2, 8).
Dunque, è questo possesso di Cristo, quest’eredità di Cristo, questo corpo di Cristo, quest’unica Chiesa di Cristo, quest’unità, che noi tutti formiamo e siamo, che grida dai confini della terra.
E che cosa grida? Quanto ho detto sopra: «Ascolta, o Dio, il mio grido, sii attento alla mia preghiera; dai confini della terra io t’invoco». Cioè, quanto ho gridato a te, l’ho gridato dai confini della terra: ossia da ogni luogo.
Ma, perché ho gridato questo? Perché il mio cuore è in angoscia. Mostra di trovarsi fra tutte le genti, su tutta la terra non in grande gloria, ma in mezzo a grandi prove.
Infatti la nostra vita in questo pellegrinaggio non può essere esente da prove e il nostro progresso si compie attraverso la tentazione. Nessuno può conoscere se stesso, se non è tentato, né può essere coronato senza aver vinto, né può vincere senza combattere; ma il combattimento suppone un nemico, una prova.
Pertanto si trova in angoscia colui che grida dai confini della terra, ma tuttavia non viene abbandonato. Poiché il Signore volle prefigurare noi, che siamo il suo corpo mistico, nelle vicende del suo corpo reale, nel quale egli morì, risuscitò e salì al cielo. In tal modo anche le membra possono sperare di giungere là dove il Capo le ha precedute.
Dunque egli ci ha come trasfigurati in sé, quando volle essere tentato da Satana. Leggevamo ora nel vangelo che il Signore Gesù era tentato dal diavolo nel deserto. Precisamente Cristo fu tentato dal diavolo, ma in Cristo eri tentato anche tu. Perché Cristo prese da te la sua carne, ma da sé la tua salvezza, da te la morte, da sé la tua vita, da te l’umiliazione, da sé la tua gloria, dunque prese da te la sua tentazione, da sé la tua vittoria.
Se siamo stati tentati in lui, sarà proprio in lui che vinceremo il diavolo. Tu fermi la tua attenzione al fatto che Cristo fu tentato; perché non consideri che egli ha anche vinto? Fosti tu ad essere tentato in lui, ma riconosci anche che in lui tu sei vincitore. Egli avrebbe potuto tener lontano da sé il diavolo; ma, se non si fosse lasciato tentare, non ti avrebbe insegnato a vincere, quando sei tentato.

LODI

Lettura Breve   Cfr. Ne 8, 9. 10
Questo giorno è consacrato al Signore vostro Dio; non fate lutto e non piangete! Perché questo giorno è consacrato al Signore nostro; non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza.

SECONDI VESPRI

Lettura Breve   1 Cor 9, 24-25
Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile.

DAVIDS PENANCE

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The book of Psalms, events and portraits / Le livre des Psaumes événements et portraits / 15 PSA 051 RICHES H B – DAVIDS PENANCE  

http://www.artbible.net/1T/Psa0000_Eventsportraits/index_6.htm

Publié dans:immagini sacre |on 19 février, 2010 |Pas de commentaires »

Giovanni Paolo II, udienza generale 28 febbraio 1990: sul salmo 50 « Miserere »

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/1990/documents/hf_jp-ii_aud_19900228_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì delle Ceneri, 28 febbraio 1990

(sul Miserere)

1. Nella precedente catechesi abbiamo riportato un versetto del Salmo 51, nel quale il salmista, pentito dopo il suo grave peccato, implora la misericordia divina e chiede al Signore: “Non privarmi del tuo santo spirito” (Sal 51, 13). È il “Miserere”, salmo molto conosciuto, ripetuto spesso non solo nella liturgia, ma anche nella pietà e pratica penitenziale del popolo cristiano, perché espressivo dei sentimenti di pentimento, di fiducia e di umiltà che facilmente sorgono in un “cuore affranto e umiliato” (Sal 51, 9) dopo il peccato. Il Salmo merita di essere studiato e meditato ulteriormente, sulla scia dei Padri e degli scrittori di spiritualità cristiana: esso ci offre nuovi aspetti della concezione dello “spirito divino” dell’Antico Testamento, e ci aiuta a tradurre la dottrina in pratica spirituale e ascetica.

2. Per chi ha seguito i riferimenti ai profeti, fatti nella precedente catechesi, è facile scoprire la parentela profonda del “Miserere” con quei testi, specialmente con quelli di Isaia e di Ezechiele. Il senso della presenza al cospetto di Dio nella propria condizione di peccato, che si trova nel brano penitenziale di Isaia (Is 59, 12), e il senso della responsabilità personale inculcato da Ezechiele (Ez 18, 1-32) sono già presenti in questo salmo, che, in un contesto di esperienza di peccato e di bisogno profondamente sentito di conversione, chiede a Dio la purificazione del cuore, unitamente a uno spirito rinnovato. L’azione dello spirito divino prende così aspetti di maggiore concretezza e di più preciso impegno in ordine alla condizione esistenziale della persona.

3. “Pietà di me, o Dio!”. Il salmista implora la divina misericordia per ottenere la purificazione dal peccato: “cancella il mio peccato, lavami da tutte le mie colpe, mondami dal mio peccato!” (Sal 51, 3-4). “Purificami con issopo, e sarò mondo; lavami, e sarò più bianco della neve” (Sal 51, 9). Ma egli sa che il perdono di Dio non può ridursi a una pura non-imputazione dall’esterno, senza che avvenga un rinnovamento interiore: e di questo l’uomo, da solo, non è capace. Perciò chiede: “Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo. Non respingermi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito. Rendimi la gioia di essere salvato, sostieni in me uno spirito generoso” (Sal 51, 12-14).

4. Il linguaggio del salmista è quanto mai espressivo: egli chiede una creazione, cioè l’esercizio dell’onnipotenza divina in vista di un essere nuovo. Solo Dio può creare (“barà”), cioè mettere nell’esistenza qualcosa di nuovo (cf. Gen 1, 1; Es 34, 10; Is 48, 7; 65, 17; Ger 31, 21-22). Solo Dio può dare un cuore puro, un cuore che abbia la piena trasparenza di un volere totalmente conforme al volere divino. Solo Dio può rinnovare l’essere intimo, cambiarlo dall’interno, rettificare il movimento fondamentale della sua vita consapevole, religiosa e morale. Solo Dio può giustificare il peccatore, secondo il linguaggio della teologia e dello stesso dogma (cf. Denz.-S. 1521-1522. 1560), che traduce in tal modo il “dare un cuore nuovo” del profeta (Ez 36, 26), il “creare un cuore puro” del salmista.

5. Si chiede poi “uno spirito saldo” (Sal 51, 12), ossia l’inserimento della forza di Dio nello spirito dell’uomo, liberato dalla debolezza morale sperimentata e manifestata nel peccato. Questa forza, questa saldezza, può venire solo dalla presenza operante dello spirito di Dio, e perciò il salmista implora: “Non privarmi del tuo santo spirito”. È l’unica volta che nei Salmi si trova questa espressione: lo spirito santo di Dio”. Nella Bibbia ebraica è adoperata solo nel testo di Isaia che, meditando sulla storia di Israele, lamenta la ribellione a Dio per cui “essi contristarono il suo santo spirito”, e ricorda Mosè al quale Dio “pose nell’intimo il suo santo spirito” (Is 63, 10-11). Il salmista ha già la coscienza della presenza intima dello spirito di Dio come fonte permanente di santità, e perciò prega: “Non privarmene!”. L’accostamento di questa richiesta con l’altra: “Non respingermi dalla tua presenza” lascia capire la convinzione del salmista che il possesso dello spirito santo di Dio è legato alla presenza divina nel suo intimo essere. La vera disgrazia sarebbe quella di essere privato di questa presenza. Se lo spirito santo rimane in lui, l’uomo sta con Dio in un rapporto non più soltanto di “faccia a faccia”, come dinanzi a un volto da contemplare: no, egli possiede in sé una forza divina, che anima il suo comportamento.

6. Dopo aver chiesto di non essere privato dello spirito santo di Dio, il salmista chiede la restituzione della gioia. Già prima aveva fatto la stessa preghiera, quando implorava Dio per la sua purificazione, sperando di diventare “più bianco della neve”: “Fammi sentire gioia e letizia; esulteranno le ossa che hai spezzato” (Sal 51, 10). Ma nel processo psicologico-riflessivo da cui nasce la preghiera, il salmista sente che, per godere pienamente di questa gioia, non basta che siano cancellate tutte le colpe: è necessaria la creazione di un cuore nuovo, con uno spirito saldo legato alla presenza dello spirito santo di Dio. Solo allora egli può chiedere: “Rendimi la gioia di essere salvato!”.

La gioia fa parte del rinnovamento incluso nella “creazione di un cuore puro”. È il risultato della nascita a una nuova vita, come Gesù spiegherà nella parabola del figlio prodigo, nella quale il padre che perdona è il primo a gioire e vuole comunicare a tutti la gioia del suo cuore.

7. Con la gioia, il salmista chiede uno “spirito generoso”, cioè uno spirito d’impegno coraggioso. Lo chiede a Colui che, secondo il Libro di Isaia, aveva promesso la salvezza per i deboli: “In luogo eccelso e santo io dimoro, ma sono anche con gli oppressi e gli umiliati, per ravvivare lo spirito degli umili e rianimare il cuore degli oppressi” (Is 57, 15).

È da notare che, fatta questa richiesta, il salmista aggiunge subito la dichiarazione del suo impegno con Dio in favore dei peccatori, per la loro conversione: “Insegnerò agli erranti le tue vie, e i peccatori a te ritorneranno” (Sal 51, 15). È un altro elemento caratteristico del processo interiore di un cuore sincero, che ha ottenuto il perdono dei propri peccati: egli desidera ottenere lo stesso dono per gli altri, suscitando la loro conversione, e a questo scopo intende e promette di operare. Questo “spirito d’impegno” deriva in lui dalla presenza del “santo spirito di Dio”, e ne è il segno. Nell’entusiasmo della conversione e nel fervore dell’impegno, il salmista esprime a Dio la convinzione dell’efficacia della propria azione: per lui sembra certo che “i peccatori a te ritorneranno”. Ma anche qui gioca la consapevolezza della presenza operante di una potenza interiore, quella dello “Spirito Santo”.

Ha poi un valore universale la deduzione che il salmista enuncia: “Uno spirito contrito è sacrificio a Dio; un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi” (Sal 51, 19). Profeticamente egli prevede che verrà il giorno in cui, in una Gerusalemme ricostituita, i sacrifici celebrati sull’altare del tempio secondo le prescrizioni della legge saranno graditi (cf. Sal 51, 20-21). La ricostruzione delle mura di Gerusalemme sarà il segno del perdono divino, come diranno anche i profeti Isaia (Is 60, 1 ss.), Geremia (Ger 30, 15-18), Ezechiele (Ez 36, 33). Ma rimane stabilito che ciò che più vale è quel “sacrificio dello spirito” dell’uomo che chiede umilmente perdono, mosso dallo spirito divino che, grazie al pentimento e alla preghiera, non gli è stato tolto (cf. Sal 51, 13).

8. Come appare da questa succinta presentazione dei suoi temi essenziali, il salmo “Miserere” è per noi non solo un bel testo di preghiera e un’indicazione per l’ascesi del pentimento, ma anche una testimonianza sul grado di sviluppo raggiunto nell’Antico Testamento nella concezione dello “spirito divino”, con progressivo avvicinamento a quella che sarà la rivelazione dello Spirito Santo nel Nuovo Testamento.

Il salmo è dunque una grande pagina nella storia della spiritualità dell’Antico Testamento, in cammino, sia pure tra le ombre, verso la nuova Gerusalemme che sarà la sede dello Spirito Santo.

Giovanni Paolo II: udienza 24 ottobre 2001: « Salmo 50 – Pietà di me, o Signore  »

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/2001/documents/hf_jp-ii_aud_20011024_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì 24 ottobre 2001

« Salmo 50 – Pietà di me, o Signore  »
Lodi Venerdì 1a Settimana (Lettura: Sal 50,3-5.11-12.19)

1. Abbiamo ascoltato il Miserere, una delle preghiere più celebri del Salterio, il più intenso e ripetuto Salmo penitenziale, il canto del peccato e del perdono, la più profonda meditazione sulla colpa e sulla grazia. La Liturgia delle Ore ce lo fa ripetere alle Lodi di ogni venerdì. Da secoli e secoli sale al cielo da tanti cuori di fedeli ebrei e cristiani come un sospiro di pentimento e di speranza rivolto a Dio misericordioso.

La tradizione giudaica ha posto il Salmo sulle labbra di Davide sollecitato alla penitenza dalle parole severe del profeta Natan (cfr vv. 1-2; 2Sam 11-12), che gli rimproverava l’adulterio compiuto con Betsabea e l’uccisione del marito di lei Uria. Il Salmo, tuttavia, si arricchisce nei secoli successivi, con la preghiera di tanti altri peccatori, che recuperano i temi del « cuore nuovo » e dello « Spirito » di Dio infuso nell’uomo redento, secondo l’insegnamento dei profeti Geremia ed Ezechiele (cfr v. 12; Ger 31,31-34; Ez 11,19; 36, 24-28).

2. Due sono gli orizzonti che il Salmo 50 delinea. C’è innanzitutto la regione tenebrosa del peccato (cfr vv. 3-11), in cui è situato l’uomo fin dall’inizio della sua esistenza: « Ecco, nella colpa sono stato generato, peccatore mi ha concepito mia madre » (v. 7). Anche se questa dichiarazione non può essere assunta come una formulazione esplicita della dottrina del peccato originale quale è stata delineata dalla teologia cristiana, è indubbio che essa vi corrisponde: esprime infatti la dimensione profonda dell’innata debolezza morale dell’uomo. Il Salmo appare in questa prima parte come un’analisi del peccato, condotta davanti a Dio. Tre sono i termini ebraici usati per definire questa triste realtà, che proviene dalla libertà umana male impiegata.

3. Il primo vocabolo, hattá, significa letteralmente un « mancare il bersaglio »: il peccato è un’aberrazione che ci conduce lontano da Dio, meta fondamentale delle nostre relazioni, e per conseguenza anche dal prossimo.

Il secondo termine ebraico è ‘awôn, che rinvia all’immagine del « torcere », del « curvare ». Il peccato è, quindi, una deviazione tortuosa dalla retta via; è l’inversione, la distorsione, la deformazione del bene e del male, nel senso dichiarato da Isaia: « Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre » (Is 5,20). Proprio per questo motivo nella Bibbia la conversione è indicata come un « ritornare » (in ebraico shûb) sulla retta via, compiendo una correzione di rotta.

La terza parola con cui il Salmista parla del peccato è peshá. Essa esprime la ribellione del suddito nei confronti del sovrano, e quindi un’aperta sfida rivolta a Dio e al suo progetto per la storia umana.

4. Se l’uomo, però, confessa il suo peccato, la giustizia salvifica di Dio è pronta a purificarlo radicalmente. È così che si passa nella seconda regione spirituale del Salmo, quella luminosa della grazia (cfr vv. 12-19). Attraverso la confessione delle colpe si apre, infatti, per l’orante un orizzonte di luce in cui Dio è all’opera. Il Signore non agisce solo negativamente, eliminando il peccato, ma ricrea l’umanità peccatrice attraverso il suo Spirito vivificante: infonde nell’uomo un « cuore » nuovo e puro, cioè una coscienza rinnovata, e gli apre la possibilità di una fede limpida e di un culto gradito a Dio.

Origene parla a tal proposito di una terapia divina, che il Signore compie attraverso la sua parola e mediante l’opera guaritrice di Cristo: « Come per il corpo Dio predispose i rimedi dalle erbe terapeutiche sapientemente mescolate, così anche per l’anima preparò medicine con le parole che infuse, spargendole nelle divine Scritture… Dio diede anche un’altra attività medica di cui è archiatra il Salvatore il quale dice di sé: ‘Non sono i sani ad aver bisogno del medico, ma i malati’. Lui era il medico per eccellenza capace di curare ogni debolezza, ogni infermità » (Omelie sui Salmi, Firenze 1991, pp. 247-249).

5. La ricchezza del Salmo 50 meriterebbe un’esegesi accurata di ogni sua parte. È ciò che faremo quando tornerà a risuonare nei vari venerdì delle Lodi. Lo sguardo d’insieme, che ora abbiamo rivolto a questa grande supplica biblica, ci rivela già alcune componenti fondamentali di una spiritualità che deve riverberarsi nell’esistenza quotidiana dei fedeli. C’è innanzitutto un senso vivissimo del peccato, percepito come una scelta libera, connotata negativamente a livello morale e teologale: « Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto » (v. 6).

C’è poi nel Salmo un senso altrettanto vivo della possibilità di conversione: il peccatore, sinceramente pentito, (cfr v. 5), si presenta in tutta la sua miseria e nudità a Dio, supplicandolo di non respingerlo dalla sua presenza (cfr v. 13).

C’è, infine, nel Miserere, una radicata convinzione del perdono divino che « cancella, lava, monda » il peccatore (cfr vv. 3-4) e giunge perfino a trasformarlo in una nuova creatura che ha spirito, lingua, labbra, cuore trasfigurati (cfr vv. 14-19). « Anche se i nostri peccati – affermava santa Faustina Kowalska – fossero neri come la notte, la misericordia divina è più forte della nostra miseria. Occorre una cosa sola: che il peccatore socchiuda almeno un poco la porta del proprio cuore… il resto lo farà Dio… Ogni cosa ha inizio nella tua misericordia e nella tua misericordia finisce » (M. Winowska, L’icona dell’Amore misericordioso. Il messaggio di suor Faustina, Roma 1981, p. 271).

Commento al Salmo 51 (50) Miserere

dal sito:

http://www.cistercensi.info/monari/1999/mq260299.htm

Commento al Salmo 51 (50) Miserere

26 febbraio 1999

«Al maestro del coro. Salmo. Di Davide.
Quando venne da lui il profeta Natan dopo che aveva peccato con Betsabea.

Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia;
nella tua grande bontà cancella il mio peccato.
Lavami da tutte le mie colpe,
mondami dal mio peccato.
Riconosco la mia colpa,
il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
Contro di te, contro te solo ho peccato,
quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto;
perciò sei giusto quando parli,
retto nel tuo giudizio.
Ecco, nella colpa sono stato generato,
nel peccato mi ha concepito mia madre.
Ma tu vuoi la sincerità del cuore
e nell’intimo m’insegni la sapienza.
Purificami con issopo e sarò mondo;
lavami e sarò più bianco della neve.
Fammi sentire gioia e letizia,
esulteranno le ossa che hai spezzato.
Distogli lo sguardo dai miei peccati,
cancella tutte le mie colpe.
Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
Non respingermi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito.
Rendimi la gioia di essere salvato,
sostieni in me un animo generoso.
Insegnerò agli erranti le tue vie
e i peccatori a te ritorneranno.
Liberami dal sangue, Dio, Dio mia salvezza,
la mia lingua esalterà la tua giustizia.
Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode;
poiché non gradisci il sacrificio
e, se offro olocausti, non li accetti.
Uno spirito contrito è sacrificio a Dio,
un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi.
Nel tuo amore fa grazia a Sion,
rialza le mura di Gerusalemme.
Allora gradirai i sacrifici prescritti,
l’olocausto e l’intera oblazione,
allora immoleranno vittime sopra il tuo altare» (Sal 51, 1-21).

“Tu non hai ancora considerato seriamente quanto sia grave il peso del peccato”, sono parole di sant’Anselmo di Aosta quando s’interrogava sul perché sia stato necessario che Dio si facesse uomo per la redenzione dell’umanità. Il Miserere, che insieme abbiamo pregato, ci vuole aiutare in questa stazione quaresimale a fare nostra la meditazione dolorosa sul peccato, ma che sia anche piena di speranza sulla misericordia e la bontà del Signore. Il cammino quaresimale ha nella sua prima parte un colore fortemente penitenziale. Poi c’è una seconda parte che è invece piuttosto di contemplazione del mistero e dell’identità del Signore. Ma innanzitutto bisogna passare dalla meditazione sulla gravità del nostro peccato.

1. La richiesta di perdono
Di fatto, ad un certo punto il Miserere dice: «Ecco, nella colpa sono stato generato, nel peccato mi ha concepito mia madre». Vuole dire: il peccato è inciso profondamente nella mia vita. Non è come un vestito che io indosso e che posso togliere quando lo desidero, ma, diceva il profeta Geremia, è piuttosto come una pelle: “Può forse il Moro cambiare la sua pelle o la pantera cambiare il suo mantello? E voi potete forse fare il bene, abituati come siete a fare il male?» (Ger 13, 23). Il Miserere esprime questa dimensione di profondità con un’immagine temporale: «nel peccato mi ha concepito mia madre». Vuole dire: se io ritorno indietro fino all’inizio della mia vita trovo ugualmente il peccato. È come se io, disgustato dalla mia condizione di egoismo attuale, volessi andare indietro nella mia vita nel tempo passato per trovare un’epoca in cui il mio cuore era puro e la mia mente era sana. Ma non riesco a trovarlo, perché fin dal primo istante della mia vita mi sento segnato dalla realtà negativa del peccato. Per questo il Miserere dice: «il mio peccato mi sta sempre dinanzi». È come se fosse un tormento, una presenza scomoda e inquietante, alla quale vorrei sfuggire ma senza mai riuscirci, perché mi sta davanti come un’ossessione, come un incubo, poiché molti sono i crimini contro di te e i nostri peccati ci accusano. Diceva il profeta: «Siamo diventati tutti come una cosa impura e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia» (Is 64, 5a).

Ma che cos’è il peccato? Perché è così pesante da portare? Il Salmo lo dice attraverso una serie di immagini che cercano di introdurci e di accostarci alla comprensione di una realtà che rimane fondamentalmente incomprensibile (non si riesce a comprendere con la ragione, perché il peccato è un’espressione di irrazionalità, è la smentita della sanità del cuore e della mente dell’uomo).

La prima immagine è della macchia, quando dice: «Lavami… cancella il peccato». Dietro c’è quest’idea del peccato come una macchia che rovina la bellezza dell’uomo. Secondo il Libro della Genesi, Dio ha fatto l’uomo bello: «lo ha fatto a sua immagine e somiglianza» (Gen 1, 26), tanto che il Salmo può dire con stupore: «che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi? Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, lo hai coronato di gloria e di onore» (Sal 8, 5-6). È proprio questa gloria, che Dio ha messo sul volto dell’uomo, che è offuscata e macchiata con il peccato.
La seconda immagine è il debito. Il peccato è un debito, perché è una ribellione contro quel rapporto di alleanza che Dio ha voluto stabilire con l’uomo: «Dio è il nostro Dio, e noi siamo il suo popolo» (Sal 95, 7). Dio ha fatto di noi dei figli, c’è quindi un impegno, un debito di reciprocità; all’amore e alla generosità di Dio deve rispondere la fedeltà e l’obbedienza dell’uomo. Il peccato è una ribellione contro questo debito che abbiamo con Dio. Diceva il profeta Isaia: «Figli ho allevato e cresciuto, ed essi si sono ribellati contro di me. Il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone, ma Israele non conosce e il mio popolo non capisce» (Is 1, 2b-3). Quell’amore che Dio ha donato con generosità al suo popolo, per farlo suo popolo, è stato rifiutato, non compreso da un Israele ribelle. Tanto che – di fronte alla ribellione d’Israele Dio rimane sgomento – si chiede ancora nel profeta Isaia: «Che cosa dovevo fare… che io non abbia fatto?» (Is 5, 4). Che cosa potevo offrire che io non abbia donato al mio popolo? Perché, mentre io mi aspettavo giustizia, ho trovato oppressione, falsità e menzogna?
La terza immagine è del fallimento di un progetto che aveva suscitato delle speranze e che in realtà è miseramente fallito, si è ripiegato su se stesso. Uno potrebbe pensare (perché questo è l’immagine che sta sotto ad un verbo del miserere) che ha l’arco allentato. Un arco allentato può cercare di gettare la freccia, ma non riesce a farla arrivare al bersaglio, perché cade prima di quella che è la sua meta, il suo obiettivo.
Ebbene, il peccato è questo: è la condizione dell’uomo che dovrebbe avere una meta e un obiettivo da raggiungere, e che invece si perde per la strada, cade e fallisce la sua vocazione, la sua chiamata. Il salmista del Miserere riconosce questo peccato con sincerità, perché dice: «Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi». E quel “riconosco” non vuole dire semplicemente: so di essere peccatore. Ma significa: sperimento tutto il dolore e l’avvilimento, e la vergogna del mio peccato mi pesa. È una conoscenza per l’esperienza che suscita dolore e nasce davanti a Dio per quello che viene riconosciuto come offesa a Dio: «Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto». Non c’è dubbio che il peccato è contro l’uomo, è offesa e distruzione del tessuto sociale, è umiliazione della persona umana. Ma in realtà si può comprendere la gravità del peccato solo quando si riconduce a Dio e ritrovo, nella mia menzogna verso il fratello, il mio rifiuto radicale di quel Dio da cui viene il mondo e la mia esistenza. Nel momento in cui io riconosco la mia colpa proclamo nello stesso tempo la giustizia di Dio. A questo non ci siamo molto abituati, ma nella Scrittura, nei Salmi, ritorna fuori abbastanza spesso, perché dice: «Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto; perciò sei giusto quando parli, retto nel tuo giudizio». Per capire un’espressione di questo genere bisogna pensare a Dio non solo come ad un giudice, ma come ad una parte lesa, che è in gioco; in quello che è il gioco della vita e della storia sono coinvolto io e Dio. C’è un patto, un’alleanza; ebbene di fronte alla realtà del peccato c’è qualcosa che in questo patto non ha funzionato. Gli Israeliti del tempo dell’esilio, che abbiamo ascoltato nel cap. 18° di Ezechiele, davano la colpa a Dio, proclamavano che quella punizione, quell’esperienza di esilio, era immeritata: è Dio che è venuto meno al suo impegno di proteggere Israele. Quando noi riconosciamo il nostro peccato, proclamiamo che Dio ha avuto ragione, che Dio è giusto, che se qualche cosa non ha funzionato è dalla nostra parte. Vuole dire: se il mondo non è così bello come dovrebbe, e se la Chiesa non è così santa come dovrebbe, non posso dare la colpa a Dio, la colpa la debbo assumere e portare io, «perché tu sei giusto quando parli», perché tu appaia giusto nel tuo comportamento e nelle tue parole, non sei venuto meno alla fedeltà; l’infedeltà è mia. Quando l’uomo proclama il suo peccato implicitamente proclama la giustizia di Dio; è una confessione della santità e della verità di Dio.

Ma questa confessione di colpa si manifesta nel modo più pieno, proprio negli imperativi che aprono la preghiera del Miserere. Il Miserere è fatto in ebraico con 17 imperativi, sono verbi che esprimono la richiesta, l’attesa e la speranza dell’uomo: «Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia; nella tua grande bontà cancella il mio peccato. Lavami da tutte le mie colpe». In ebraico sono tre verbi. In italiano la parola “pietà” sembra un sostantivo, ma in realtà non è il nome “pietà, è il verbo “abbi pietà”: «Guarda con benevolenza me, o Dio, secondo la tua misericordia». Quindi ci sono tre imperativi: “abbi pietà” – “cancella” – “lava”; sono il grido di chi si sente affondare nella morte e può solo chiamare aiuto. Perché l’uomo è in grado di produrre il peccato, ma non è in grado di uscire dal peccato. Per questo ha bisogno di Dio, di un aiuto, di una grazia, di un sostegno che gli venga dalla potenza e dalla misericordia di Dio.

Anzi soprattutto dalla misericordia, perché dice il Miserere: «Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia; secondo la tua grande bontà cancella il mio peccato». In questo modo vengono richiamati alcuni termini che sono l’immagine fondamentale di Dio. Nel Libro dell’Esodo, quando Mosè vuole vedere il volto di Dio, Dio gli si rivela passandogli davanti proclamando il suo nome: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà» (Es 34, 6). Così si è presentato Dio e sono esattamente le parole del Miserere: «Pietà di me» – «Dio pietoso»; «secondo la tua misericordia» – «Dio misericordioso».

Ed è significativo come «nella tua grande bontà», voglia dire: «nel tuo grande amore viscerale cancella il mio peccato». Cosa dice questo? Che, quando Dio cancella il peccato dell’uomo, manifesta quello che lui è. Certamente, quello che Dio è, si manifesta nella creazione, quando Dio fa dal mondo il sole, la luna, le stelle, le piante… manifesta quello che è, cioè la sua potenza. Ma in realtà non c’è una manifestazione così vera e piena dell’identità di Dio come il perdono dei peccati. Perché l’identità di Dio, quella che Dio ha manifestato a Mosè, è questa: «Dio misericordioso e pietoso». Noi vediamo il Dio misericordioso e pietoso proprio nel perdono dei peccati. Dio non è mai così Dio (questo è un modo barbaro di parlare, ma intendete cosa voglio dire) come quando perdona. Una preghiera dell’Eucaristia dice: “O Dio, che manifesti la tua potenza, soprattutto con la misericordia e il perdono”. Sant’Ambrogio, quando spiegava l’“Hexaemeron”, i sei giorni della creazione, si chiedeva: «Come mai solo al sesto giorno Dio si è riposato? Perché leggo che Dio nel primo giorno ha separato la luce dalle tenebre, ma non leggo che si sia riposato. E dopo il secondo giorno non leggo che si sia riposato, nemmeno dopo il terzo e neanche dopo il quarto… Solo dopo il sesto giorno si è riposato, perché nel sesto giorno aveva creato l’uomo, e quindi aveva qualcuno a cui rimettere i peccati». Dio cercava qualcuno a cui rimettere i peccati, nei cui confronti manifestare la sua misericordia, la bontà, la fedeltà e il suo amore paterno. E quando lo ha trovato nella creazione dell’uomo, Dio ha potuto riposarsi perché la creazione era completa, non mancava più niente.

Per questo il Miserere nello stesso tempo è proclamazione del peccato dell’uomo e della misericordia di Dio; anzi la consapevolezza del proprio peccato nasce dalla conoscenza della misericordia di Dio. Quando ci guardiamo allo specchio non possiamo comprendere bene il nostro peccato, anche se sulla nostra faccia vediamo tutti i nostri difetti, quello che non funziona e non è bello; questo è solo un inizio, una propedeutica al senso del peccato. Il senso del peccato scaturisce quando la misericordia di Dio è misurata in tutta la sua grandezza. Allora appare, in tutta la sua gravità, l’infedeltà e la mancata risposta dell’uomo.

Questa consapevolezza del peccato diventa una supplica: «Lavami da tutte le mie colpe, mondami dal mio peccato». Ma questo chiedere il perdono è espresso nel Miserere anche in un altro modo, come la domanda di una richiesta di gioia: «Fammi sentire gioia e letizia, esulteranno le ossa che hai spezzato». E un po’ più avanti: «Rendimi la gioia di essere salvato, sostieni in me un animo generoso». “Le ossa spezzate” sono il simbolo di una vita fiaccata, di un’esistenza che non ha più sostegno. Le ossa danno al corpo umano la sua solidità e il suo sostegno, ma è venuto meno: la mia esistenza si è ripiegata su se stessa. Allora ho bisogno che Dio mi ridia la vita, la dignità di creatura e di suo figlio. Per questo chiedo il perdono secondo la sua misericordia, perché la mia vita possa rifiorire e rinascere la gioia.

Per questo bisogna che Dio distolga lo sguardo dai miei peccati: «Distogli lo sguardo dai miei peccati, cancella tutte le mie colpe»; cioè che tiri via la faccia dal mio egoismo e dal mio orgoglio. Però qui c’è un aspetto sorprendente e paradossale, perché il versetto 11 dice: «Distogli lo sguardo dai miei peccati». Invece il versetto 13 dice: «Non respingermi dalla tua presenza». Allora mi chiedo: io debbo stare o no davanti a Dio? Dio deve guardare da un’altra parte o deve accogliermi alla sua presenza? Tutte e due le cose! è necessario che Dio mi accolga, e per me stare alla presenza di Dio, altrimenti non si vive. Dio è sorgente di vita e di gioia, non è possibile andarlo a cercare da un’altra parte: «Non respingermi dalla tua presenza», perché se tu non mi parli la mia vita precipita nell’oscurità della notte. Ho bisogno dello sguardo di Dio, ma che nello stesso tempo sia benevolo e accogliente; e che non stia misurando a valutare e a pesare il mio peccato, altrimenti lo sguardo di Dio diventerebbe di distruzione, di annientamento. Allora «distogli lo sguardo dai miei peccati», vuole dire: io chiedo a Dio di “non guardare il peccato, ma il peccatore” (cfr. Ez 33, 11), perché se il peccato ha bisogno di essere cancellato, il peccatore, cioè io, ho bisogno di essere accolto e di ritrovare dallo sguardo di Dio la mia gioia.

2. La richiesta di una nuova creazione
Ma il perdono è ancora di più. Il Miserere è fatto più o meno di due sezioni, la prima è questa richiesta di perdono che abbiamo tentato di esprimere. La seconda incomincia così: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo». Sottolineate quel verbo, quell’imperativo iniziale, “crea”, che non è messo lì a caso. Il verbo che è usato si ritrova nella Bibbia sempre con Dio come soggetto. In italiano diciamo che gli artisti creano, un poeta crea. Nella Bibbia questo verbo è riservato a Dio, è il suo; dice un’azione da Dio quale lui solo è in grado di compiere.

Proprio perché il peccato è radicato profondamente nel mio cuore, ho bisogno di un’azione che non può essere semplicemente umana di purificazione; ho bisogno di un’azione divina che è niente meno una creazione: «Crea in me, o Dio, un cuore puro». Il cuore è il centro della coscienza da cui escono i pensieri, i sentimenti e le decisioni dell’uomo. Nell’antropologia biblica il cuore è la sede della libertà. Allora “un cuore puro” vuole dire: una libertà pulita non deformata dall’interesse o dall’egoismo, che non vede le cose secondo il proprio vantaggio, che non decide secondo le sue preferenze ma sa vedere la realtà e la sa accettare e riconoscere così com’è; cioè un cuore pulito che non ha doppi fini né maschere.
Insieme al cuore l’altra richiesta fondamentale è lo spirito, che è ricordato tre volte. In italiano se ne vedono due, ma in realtà il testo ne ha tre: «rinnova in me uno spirito saldo»; «non privarmi del tuo santo spirito»; «sostieni in me uno spirito (non un animo) generoso». Ed è quello che gli esegeti chiamano una triplice epìclesi. “Epìclesi” vuole dire: invocazione dello Spirito. Che facciamo nella Messa quando invochiamo lo Spirito, perché “il pane e il vino diventino il corpo e il sangue del Signore”. Poi invochiamo lo Spirito, perché la gente che è a Messa diventi “il corpo e il sangue del Signore”. È l’epìclesi, è il momento più solenne della celebrazione, perché è quello dell’intervento di Dio che dona, non qualche cosa, ma lo Spirito, cioè se stesso.
Dunque il perdono non consiste solo nel cancellare il male; questo sarebbe ancora troppo poco. Perché il perdono sia autentico bisogna che ci sia una creazione nuova, che si esprime nel cuore e soprattutto nello spirito.

Il quale spirito deve essere prima di tutto «uno spirito saldo». Anche questo è un po’ strano, perché la parola “spirito” in ebraico o in greco è la parola stessa che indica il vento; e se c’è qualche cosa di poco saldo, fermo e stabile è il vento. È invece no, è uno spirito che ha la leggerezza e la libertà del vento, ma che è stabile e fermo e di cui ci si può fidare, che non cambia capricciosamente il suo atteggiamento e che deve essere forte nella sua perseveranza e costanza. È quello che chiediamo al Signore, perché siamo così incostanti che se il Signore non ci dona lo Spirito noi non ce la caviamo. Diceva Osea: «La vostra pietà è come la nube del mattino, come la rugiada che svanisce presto» (Os 6, 4); vi entusiasmate, fate delle grandi celebrazioni penitenziali e poi durano per qualche istante, poi si ritorna alla propria inconsistenza. Ebbene «uno spirito saldo», consistente e fermo.
Poi «uno spirito santo». “Santo” vuole dire quello che il Signore aveva promesso e donato ad Israele, quando ha proposto l’alleanza al suo popolo: «Voi sarete per me… una nazione santa» (Es 19, 6); cioè una nazione che appartiene integralmente e totalmente a Dio, che non ha due o tre padroni, ma ha un unico Signore. «Li chiameranno popolo santo, redento dal Signore» (Is 62, 12a); «siate santi, perché io, il Signore vostro Dio, sono santo» (Lv 11, 45). La somiglianza con lui, che mi permette di assomigliare a Dio e di essere santi come lui è santo, è solo il suo Spirito: «non privarmi del tuo santo spirito».
«Sostieni in me un animo generoso». Questa è la traduzione, ma il testo dice: «uno spirito principesco», cioè da principe. “Da principe” vuole dire: padrone; non uno spirito da schiavo, che fa le cose per timore e sottomesso a chissà quali condizionamenti. No, questo è un principe, è un re, che si muove liberamente e spontaneamente, che opera con generosità e con un animo – spirito – nobile. Dentro è ricco della libertà e dignità che vengono dal Signore: «quelli che sono guidati dallo spirito di Dio, costoro sono figli di Dio» (Rm 8, 14), quindi quelli che nei loro desideri sono suscitati e animati dallo spirito e dalla generosità ricca di Dio. Non è una legge esterna che possa guidare l’esistenza dell’uomo, ma è lo Spirito che mette nel cuore la connaturalità con la volontà di Dio, per cui la volontà di Dio diventa nostra. Questo è il centro del Miserere, l’aspetto più bello e sorprendente, quello che richiama l’insegnamento dei profeti, in particolare nel profeta Ezechiele (bisognerebbe leggere anche Geremia). Ezechiele nel cap. 36° fa esattamente questa promessa: «Vi prenderò dalle genti, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi» (Ez 36, 24-27). Qui corrisponde esattamente al Miserere, in tutto il suo dinamismo: 1) La purificazione: «Vi aspergerò con acqua pura… vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli». 2) Poi la nuova creazione: «vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo». Anzi questo spirito nuovo che metto dentro di voi è il mio spirito: «Porrò il mio spirito dentro di voi», perché voi impariate ad avere i desideri e i pensieri di Dio, quindi anche i suoi comportamenti.

Questa esperienza del perdono e il dono dello spirito costituiscono il salmista, una volta perdonato, in testimone: «Insegnerò agli erranti le tue vie e i peccatori a te ritorneranno. Liberami dal sangue, Dio, Dio mia salvezza, la mia lingua esalterà la tua giustizia. Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode». Che cosa significhi quel “liberami dal sangue” è misterioso (forse dalla punizione della vita che mi toccherebbe), ma il significato globale si capisce. Sino a che sono in questa condizione di peccato le mie labbra sono sigillate: non possono lodare, benedire e ringraziare. E il non poterlo fare vuole dire: non posso vivere. Non esiste una vita gioiosa, degna di questo nome, se non quella per la quale si può ringraziare e dire: Signore è bello, ringrazio. Ma nella condizione di peccato questa lode è inaridita, esprime l’inaridimento della vita. Ma quando il Signore farà fiorire il perdono, rinascerà anche la lode e il ringraziamento. E la lode non sarà privata e nascosta, ma proclamata davanti a tutti gli uomini, perché tutti possano partecipare della mia gioia e della mia salvezza: «Insegnerò agli erranti le tue vie e i peccatori a te ritorneranno».

Tradizionalmente la lode, il sacrificio di ringraziamento, era accompagnata da sacrifici veri e propri: dall’offerta di un capretto o di un vitello, secondo le situazioni diverse. Questo adesso è impossibile: il Salmo è nato probabilmente al tempo dell’esilio, quando il tempio era distrutto e la possibilità di fare dei sacrifici era tolta a Israele. Allora vuole dire che il ringraziamento non è completo, perché ci manca l’aspetto sacrificale? No, dice il nostro Salmo: il sacrifico ha solo cambiato prospettiva, anzi il vero sacrificio, che può e deve accompagnare la lode, è la vita, non dei capretti o vitelli o animali: «tu non gradisci il sacrificio e, se offro olocausti, non li accetti. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi». Siamo ancora nell’insegnamento dei profeti, quando hanno aiutato Israele a comprendere che il sacrifico esterno non può altro che essere il segno di un cuore che diventa lui stesso sacrificio, di un cuore spezzato e donato al Signore.

Secondo molti autori gli ultimi due versetti dovrebbero essere un’aggiunta, ma in ogni modo danno al Salmo una prospettiva più ampia. Abbiamo commentato che il Salmo si presenta come la preghiera di un singolo: è un peccatore che davanti a Dio presenta la sua angoscia e il pentimento; e proprio per questo il titolo attribuisce il Salmo a Davide (gli esperti dicono che non è probabilmente di Davide, perché dovrebbe appartenere al tempo dell’esilio). Infatti, è significativo che sia stato messo questo titolo, perché vuole dire che l’esperienza di Davide, peccatore e condotto al pentimento, si esprime meglio in questo Salmo: «Quando venne da lui il profeta Natan dopo che aveva peccato con Batsabea». Ricordate come il profeta racconta a Davide una storiella, perché non capisca che si sta parlando di lui, e quando Davide ha dato un giudizio di condanna nei confronti del protagonista di questa storiella il profeta gli ha detto: «Sei tu quell’uomo!» (2 Sam 12, 7), il peccato è tuo. E Davide ha risposto chiedendo il perdono di Dio: «Pietà di me, o Dio». Per questo il Miserere si taglia bene sull’esperienza di Davide. Ma gli ultimi due versetti l’allargano: non è più Davide che parla, è Gerusalemme, è il popolo intero che ha conosciuto tutto il peccato e chiede il perdono e la rinascita. È Israele del dopo esilio che attende da Dio di potere ritornare in patria e di riprendere tutta quell’esperienza di culto, di sacrificio religioso, che aveva accompagno la sua storia. In questo senso anche gli ultimi due versetti sono preziosi perché ci permettono di leggere il Miserere, come preghiera della Chiesa, di ciascuno di noi, ma della comunità nel suo complesso.

Conclusione
Il Miserere fino al versetto 11 è fondamentalmente una richiesta di perdono: la consapevolezza e la gravità del peccato, la supplica a Dio e soprattutto alla misericordia e alla bontà di Dio.

Quindi il versetto dal 12 in poi è la richiesta di una nuova creazione: non solo il perdono come cancellazione del male, ma il perdono come una nuova esistenza, un nuovo cuore, e soprattutto un nuovo spirito. Lo spirito di Dio come sorgente di un’esistenza nuova: «Se qualcuno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove» (2 Cor 5, 17).

Credo che riprendendolo con pazienza, imparandolo un po’ a memoria, facendolo entrare dentro al cuore, il Miserere ci possa davvero fare entrare nello spirito penitenziale della Quaresima. È il testo più bello che c’è nel Salterio per cogliere la dimensione penitenziale e di conversione del nostro cammino quaresimale.

* Documento rilevato dalla registrazione, adattato al linguaggio scritto, non rivisto dall’autore.

An unidentified Cardinal puts ash on Pope Benedict XVI…

An unidentified Cardinal puts ash on Pope Benedict XVI... dans immagini varie

An unidentified Cardinal puts ash on Pope Benedict XVI’s head during the celebration of Ash Wednesday mass at the Basilica of Santa Sabina, in Rome, Wednesday, Feb. 17 2010. Ash Wednesday marks the beginning of Lent, a solemn period of 40 days of prayer and self-denial leading up to Easter.
(AP Photo/Alessia Pierdomenico, pool)

http://news.yahoo.com/nphotos/slideshow/ss/events/wl/033002pope#photoViewer=/100217/481/8279dd286cf24ba085f59453abb78a10

Publié dans:immagini varie |on 18 février, 2010 |Pas de commentaires »

Il Papa apre la Quaresima: siamo “polvere, sì, ma amata”

dal sito:

http://www.zenit.org/article-21430?l=italian

Il Papa apre la Quaresima: siamo “polvere, sì, ma amata”

Presiede la Messa di imposizione delle ceneri

ROMA, mercoledì, 17 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Benedetto XVI ha ricevuto le ceneri, nella messa per l’inizio della Quaresima, questo mercoledì pomeriggio, e ha ricordato che l’uomo è “polvere, sì, ma amata” da Dio.

Nella Basilica di Santa Sabina di Roma affidata ai Padri Domenicani, il Papa ha presentato il rito di benedizione e di imposizione delle ceneri come “un gesto di umiltà, che significa: mi riconosco per quello che sono, una creatura fragile, fatta di terra e destinata alla terra, ma anche fatta ad immagine di Dio e destinata a Lui”.

Ed ha aggiunto: “Polvere, sì, ma amata, plasmata dal suo amore, animata dal suo soffio vitale, capace di riconoscere la sua voce e di rispondergli; libera e, per questo, capace anche di disobbedirgli, cedendo alla tentazione dell’orgoglio e dell’autosufficienza”.

Come un semplice fedele, il Papa ha ricevuto le ceneri sul capo dal Cardinale slovacco Jozeph Tomko, Prefetto emerito della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli e titolare di Santa Sabina.

A sua volta, il Santo Padre le ha imposte a numerosi Cardinali tra i quali il Segretario di Stato Tarciso Bertone, il Vicario di Roma Agostino Vallini, e il suo predecessore Camillo Ruini.

Prima il Papa aveva presieduto un’assemblea di preghiera nella forma delle « Stazioni » romane, nella Chiesa di Sant’Anselmo all’Aventino, dei Monaci Benedettini. Dopo c’è stata la tradizionale processione penitenziale verso la Basilica di Santa Sabina per la celebrazione del rito.

L’uso di celebrare in Quaresima la Messa “stazionale” risale ai secoli VII-VIII, quando il Papa celebrava l’Eucaristia assistito da tutti i preti delle Chiese di Roma, in una delle 43 Basiliche stazionali della Città.

Dopo una preghiera iniziale si snodava la Processione da una Chiesa ad un’altra al canto delle Litanie dei Santi, che si concludeva con la celebrazione dell’Eucaristia.

Alla fine della Messa i preti prendevano il pane eucaristico (fermentum) e lo portavano ai fedeli che non avevano potuto partecipare, ad indicare la comunione e l’unità fra tutti i membri della Chiesa.

L’imposizione delle ceneri era un rito riservato dapprima ai penitenti pubblici, che avevano chiesto di venir riconciliati durante la Quaresima. Tuttavia, per umiltà e riconoscendosi sempre bisognosi di riconciliazione, il Papa, il clero e poi tutti i fedeli vollero successivamente associarsi a quel rito ricevendo anch’essi le ceneri.

La Stazione Quaresimale indica la dimensione pellegrinante del popolo di Dio che, in preparazione alla Settimana Santa, intensifica il deserto quaresimale e sperimenta la lontananza dalla “Gerusalemme” verso la quale si dirigerà la Domenica delle Palme, perché il Signore possa completare – nella Pasqua – la sua missione terrena e realizzare il disegno del Padre.

Nel’omelia, il Santo Padre ha presentato l’intero itinerario quaresimale, che avrà come culmine la Pasqua, “ponendo a suo fondamento l’onnipotenza d’amore di Dio, la sua assoluta signoria su ogni creatura, che si traduce in indulgenza infinita, animata da costante e universale volontà di vita”.

“In effetti – ha sottolineato –, perdonare qualcuno equivale a dirgli: non voglio che tu muoia, ma che tu viva; voglio sempre e soltanto il tuo bene”.

“La salvezza, infatti, è dono, è grazia di Dio, ma per avere effetto nella mia esistenza richiede il mio assenso, un’accoglienza dimostrata nei fatti, cioè nella volontà di vivere come Gesù, di camminare dietro a Lui”.

“Seguire Gesù nel deserto quaresimale è dunque condizione necessaria per partecipare alla sua Pasqua, al suo ‘esodo’”, ha continuato.

“Adamo fu cacciato dal Paradiso terrestre, simbolo della comunione con Dio – ha sottolineato il Papa –; ora, per ritornare a questa comunione e dunque alla vera vita, la vita eterna, bisogna attraversare il deserto, la prova della fede. Non da soli, ma con Gesù! Lui – come sempre – ci ha preceduto e ha già vinto il combattimento contro lo spirito del male”.

“Ecco il senso della Quaresima – ha quindi concluso –, tempo liturgico che ogni anno ci invita a rinnovare la scelta di seguire Cristo sulla via dell’umiltà per partecipare alla sua vittoria sul peccato e sulla morte”.

Come ogni anno, il Papa ha indirizzato un messaggio ai cattolici di tutto il mondo in vista di questa Quaresima che ha come tema: “La giustizia di Dio si è manifestata per mezzo della fede in Cristo”.

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