Archive pour février, 2010

Clemente d’Alessandria : La legge nuova scritta nel cuore degli uomini

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100209

Martedì della V settimana delle ferie del Tempo Ordinario : Mc 7,1-13
Meditazione del giorno
Clemente d’Alessandria (150-circa 215), teologo
Il Pedagogo, III 89, 94, 98 ; SC 158

La legge nuova scritta nel cuore degli uomini

        Abbiamo il Decalogo, dato da Mosè … e tutto ciò che viene raccomandato dalla lettura dei libri santi. « Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista ! Imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova. Su, venite e discutiamo, dice il Signore » (Is 1, 16-18)… Ma abbiamo anche le leggi del Verbo, le parole di esortazione scritte non su tavole di pietra dal dito di Dio ( Es 24, 12), ma nel cuore dell’uomo (2 Cor 3, 3)… Per questo le tavole dei cuori duri sono state spezzate (Es 32, 19) ; la fede dei bambini imprima i suoi tratti negli spiriti docili. Queste due leggi sono servite al Verbo per la pedagogia dell’umanità, prima per bocca di Mosè, poi per bocca degli apostoli…

        Tuttavia abbiamo bisogno di un maestro per spiegarci queste parole sante… Lui ci insegnerà le parole di Dio. La scuola, è la Chiesa ; il nostro unico Maestro, è il Fidanzato, che è volontà buona di un Padre buono, saggezza originaria, santità della conoscenza. « Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati » (1 Gv 2, 2). Guarisce l’uomo intero, sia i nostri corpi, sia le nostre anime, lui, Gesù, che è « vittima di espiazione non soltanto per i nostri peccati, ma anche per quelli di tutto il mondo. Da questo sappiamo d’averlo conosciuto : se osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice « lo conosco » e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e la verità non è in lui » (1 Gv 2, 3-4).

        Allievi di questa beata pedagogia, completiamo il bel volto della chiesa e accorriamo come bambini, verso questa madre piena di bontà. Diventiamo gli ascoltatori del Verbo ; glorifichiamo la beata provvidenza, la quale ci guida per mezzo di questo Pedagogo e ci santifica come figli di Dio.

I morti e i vivi al momento della venuta del Signore (1Ts 4,13-18) (sulla speranza cristiana)

dal sito:

http://www.cappellauniss.org/Paolo/tess2.htm

I morti e i vivi al momento della venuta del Signore

(Arcidiocesi di Sassari,  Cappellanìa universitaria Santa Caterina)

(1Ts 4,13-18)

   Il brano è tipico e ben si presta a sostenere la speranza cristiana, se viene letto nella Liturgia della Parola  in occasione di un funerale.

4,13 :“Non vogliamo poi lasciarvi nell’ignoranza, fratelli…”. S. Paolo inizia con una frase tipica ed è sua ferma intenzione spiegare la sua dottrina escatologica affinché i destinatari la capiscano a fondo. Forse non hanno capito o hanno dubbi o lui ha detto qualcosa ed ora deve aggiungere altro.

“Fratelli” significa figli dello stesso utero perché Paolo e gli abitanti di Tessalonica sono legati da un nuovo rapporto: Dio è Padre di Gesù e Padre di coloro che credono in Cristo: dunque chi crede sono fratelli  e sorelle. Abbiamo un’ecclesiologia implicita: la Chiesa è comunità fraterna e i credenti sono figli di Dio e coeredi di Cristo. I cristiani sono figli di Dio.

“Circa quelli che sono morti” cioè “riguardo ai dormienti”. Forse Paolo risponde alle domande dei Tessalonicesi ed usa un linguaggio metaforico per parlare dei defunti. Il verbo greco usato è originale non tanto per la scelta quanto invece per l’indicazione durativa del participio: essi stanno soltanto dormendo. E’ la speranza della Resurrezione e il dormire è morte solo apparente e presuppone il concetto di risveglio alla luce della Resurrezione. I cristiani si sono addormentati nella speranza di risorgere (koimenon).

“Perché non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza”, cioè “Affinché non siate tristi come i restanti che non hanno la speranza”. “Affinché”  (ina) introduce lo scopo del discorso di Paolo, del suo insegnamento ed è parola chiave: Paolo esorta a non avere dolore come i pagani che non credono in Cristo. La differenza tra credenti e non è che questi non hanno speranza nella vita risorta. Per Paolo la speranza (elpis) è un concetto importante nella morale cristiana perché da ai cristiani la fiducia a vivere il presente e i problemi con pazienza, perseveranza, gioia, sperando nel ritorno del Signore.    

4,14: “Noi crediamo infatti che Gesù è morto e resuscitato”, cioè “se noi infatti crediamo che Gesù morì e resuscitò”. Si tratta di una costruzione ipotetica con due proposizioni collegate logicamente: “se questo allora quello” con valore dichiarativo: “noi crediamo che…”. Cosa? Gesù morì e resuscitò: c’è tutto il nucleo della nostra fede nei due verbi. La base della nostra fede è l’evento Cristo e Paolo accorda la prima proposizione con l’insegnamento dei defunti in Cristo, formula del Credo primitivo che i cristiani hanno professato fin da principio.

Ciò che segue si collega alla formula precedente: ciò che Dio fa al Figlio, lo farà ai defunti in Gesù: “Così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con Lui”, cioè “Dio per mezzo di Gesù condurrà con lui quelli che si sono addormentati con lui”. Si specifica la mediazione di Gesù (“di Gesù” e “con lui”). Ecco come interpretare “con lui”: 1)teologica. Dio per mezzo di Gesù conduce i defunti con lui, cioè con Dio stesso. Dio è il soggetto del verbo, autore principale di ogni azione salvifica. Gesù è mediatore di Dio che mette in luce il ruolo di Dio. 2) cristologica. Dio è sempre l’autore ma la mediazione di Gesù è sempre sottolineata: lui è mediatore di Dio e anche dei credenti e tale interpretazione è più corretta sintatticamente: “Dio per mezzo di Gesù condurrà i defunti con lui, cioè con Gesù stesso”. “Con lui” mette in relazione Dio con Gesù ed i cristiani. I destinatari perciò sono costretti a riflettere per capire chi è questo “lui” e quale sia il rapporto tra Dio e Gesù e tra Gesù e i credenti. La duplice natura di Gesù, uomo e Dio,  qui viene esplicitata: Gesù sfuma in Dio e Dio sfuma in Lui. Paolo esprime in modo sublime un concetto difficile: la divinità di Gesù: Dio guiderà tutti a sé  con Gesù. Gesù e i defunti sono compagni di viaggio nell’esperienza della comunione, sottolineata dai termini in greco che indicano questa ricchezza. 

4,15: “Questo vi diciamo sulla Parola del Signore”, cioè “Ciò infatti vi diciamo sulla Parola del Signore”. Cosa significa e a cosa si riferisce “questo”, “ciò”? Alcuni dicono si riferisca a ciò che precede, mentre altri a ciò che seguirà. Il termine greco usato fa da collegamento, in ogni caso, con ciò che precede e da transizione con ciò che seguirà. Inoltre, c’è una altro verbo greco, “diciamo” (legomen) che tecnicamente viene definito un hapax, cioè lo troviamo presente solo in questo testo relativamente al Nuovo Testamento. “Sulla Parola”, viene composto con un preposizione greca che ha valore temporale, strumentale, modale (en), ed è ricca di significati, perché in unione con il dativo del termine “parola”, mette in moto potenzialità inaspettate. Si vuole alludere alla Parola di Dio che gli evangelisti chiamano Verbo. La dottrina di Paolo perciò si basa su Gesù e su tutta la sua autorità.

“Noi che viviamo”, cioè “noi i rimanenti”. Nel testo greco, viene usata una congiunzione ad inizio proposizione, che si collega con la frase precedente e introduce quella successiva. Si amplia il soggetto della prima persona plurale: noi, i viventi, i rimanenti. Paolo vuole trasmettere un concetto base legato alla Resurrezione dei morti in Cristo. Il participio “viventi” ha un significato più profondo del senso fisico, ed anche metaforico, che ci proietta in un’altra dimensione: chi condivide la vita di Dio, per mezzo di Gesù. Ciò ha un senso fisico ed anche teologico, perché significa anche “coloro che sopravvivono e scampano alla morte eterna, i rimanenti, che tramite Gesù, con il Battesimo, hanno accesso alla Vita Eterna. Il soggetto, “i viventi” abbraccia tutti i cristiani e non solo i Tessalonicesi e risuona come affermazione globale riferita a tutta la Chiesa. Vengono usati due participi in greco, preceduti dal medesimo articolo plurale, per indicare i viventi, i rimanenti, estendendo così il campo semantico, e l’idea dell’eternità è raddoppiata.       

“Per la venuta del Signore” cioè “fino alla venuta del Signore”. Il testo è suggestivo e trasmette il dramma presente nell’uomo: cosa succede dopo la morte? Paolo fuga le incertezze e le angosce, aprendo prospettive di speranza, gioia, felicità: è la venuta del Signore alla fine dei tempi.

“Non avremo alcun vantaggio su quelli che sono morti”. Per Paolo i vivi non hanno nessun vantaggio sui defunti. Il suo linguaggio pone tutti in condizioni di parità, essendo consapevole di rivolgersi non solo ai Tessalonicesi ma, in qualità di apostolo sa che la buona notizia oltrepassa i confini di tempo e spazio: il vangelo è per tutti gli uomini.

4,16: “Perché il Signore stesso”. Il pronome greco “stesso” (autos) ha valore rafforzativo e sottolinea il ruolo del Signore nel suo atto salvifico. Paolo sottolinea il nome “Cristo Signore” per diversificare la sua dottrina da quella giudaica: a Damasco ha visto il Risorto e il Signore è già venuto, perché Gesù è il Signore, il Messia.

“A un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio”. C’è una preposizione greca che si ripete per tre volte, che traduciamo con “a” (en), che è riferita al Signore stesso e descrive i segni del suo ritorno in maniera apocalittica, descrivendo circostanze concomitanti con azioni apocalittiche, secondo il linguaggio apocalittico tipico della letteratura ebraica. Ma chi impartisce l’ordine? Dio o Gesù? E’ l’incrocio in Paolo tra teologia e cristologia. Visto il soggetto, il Signore si riferisce a Dio, ma i cristiani hanno dato il titolo a Gesù. Sarebbe meglio interpretare l’azione di Gesù in questi tre segni, senza però escludere Dio.

“A un  ordine” è un sostantivo che non troviamo altrove (hapax). Nel greco classico ci si vuole riferire a un ordine nel linguaggio tecnico-militare, riferito alla battaglia. C’è di fatto una guerra tra Dio e i nemici, tra cui vi è la morte. Ma il sostantivo può anche esprimere un ordine divino degli dei greci o un grido. E’ un ordine del Signore celeste che sottolinea l’autorità del comando nella battaglia.     

“Alla voce di un arcangelo”: è la spiegazione del secondo segno apocalittico (Isaia 6: la voce degli angeli fa scuotere il tempio divino), che altro non è che la voce del Signore. Si tratta di un segnale per tutti, vivi e defunti.

“Al suono della tromba di Dio”: è un segno che si pone in continuità con la vecchia Alleanza. Nella letteratura classica la tromba veniva usata per annunciare una battaglia, mentre nel giudaismo riceve una connotazione religiosa perché descrive teofanie, cioè manifestazioni di Dio, come in Es 19,10, relativo all’Alleanza tra il Signore e Mosé: “Il Signore scenderà”. Nel nostro testo c’è un legame tra la teofania e la tromba che annuncia l’arrivo del Signore ed è il segno dell’ultimo giorno per eccellenza, quello del giudizio. La tromba è tromba di Dio e pertanto l’arcangelo agisce con autorità divina. Si sottolinea l’arrivo del Signore e della fine dei tempi. Anche in Nm 10,4-segg. si sottolinea l’uso delle trombe, poiché ha un suo linguaggio per impartire ordini; anche in Gs 6,1-segg  viene menzionato il suo uso. La tromba ha la sua importanza dal punto di vista archeologico: nell’arco di Tito, sui bassorilievi spicca il candelabro a sette braccia con le trombe d’argento del tempio di Gerusalemme, segno di conquista dei romani, insieme alle tavole della legge. Sembra che Paolo descriva una scena istantanea smontandola in tre dimensioni: la simultaneità dell’obbedienza ottenuta a un cenno di comando. L’ordine è seguito da un intervento vocale dell’arcangelo ed infine la tromba carica di potenza energica auditiva: il suono viene udito ma si vedono anche i colori dell’argento metallico della tromba e il suono va in tutte le direzioni. Si potrebbe trattare di tante trombe che annunciano la venuta del Signore, le quali sono talmente in armonia che sembra una sola e l’effetto musicale e avvolgente e coinvolgente per le creature spettatrici e partecipi. Nel 50-51 d.C. il tempio accoglieva il sommo sacerdote facendo squillare la tromba come per l’arrivo del Signore: è un legame con la liturgia degli ebrei.

“Discenderà dal cielo”: è il ruolo unico di Gesù nel suo ritorno ed il verbo usato ricorre per indicare in genere la discesa nell’altro mondo. Nell’Antico Testamento il discendere indica un ispezionare e giudicare e ciò vale anche per Gesù che scenderà come giudice.

“E prima risorgeranno i morti in Cristo” cioè “E come condizione primaria risorgeranno i morti in Cristo”: Paolo usa un  pronome che ha funzione di avverbio: ”prima” (panton), che indica una priorità ordinata di condizioni necessarie: condizione prima è la Resurrezione dai morti. Solo così i credenti vanno incontro al Signore. Paolo sottolinea che i morti non saranno più tali ma resuscitando si pongono nelle giusta direzione di incontrare il Signore che è la vita e il Risorto. Sarà il trionfo della vita sulla morte: Dio vincerà l’ultima battaglia. La scena è emozionante non solo per l’intervento divino dall’alto in basso, ma anche per l’elevazione degli uomini all’ordine del capo: dal basso all’alto. Ricordiamo Ez 37,1-segg. con l’episodio delle ossa aride e pensiamo alla valle di Giosafat che in ebraico significa “Dio ha giudicato” ed è la valle del giudizio. Anche in Gl 4,1-segg. si dice: “Signore fa scendere i tuoi eroi”: è il momento del giudizio.

4,17: “Quindi noi, i vivi, i superstiti” cioè “Poi noi, i viventi, i rimasti”: il versetto si aggancia al v. 15 per sottolineare che nel giorno del Signore i vivi non hanno vantaggio rispetto ai morti: sono tutti pronti e tutti uguali. C’è un avverbio greco ad inizio versetto (epeita) per indicare ciò che segue come condizione: i morti non saranno più tali.

“Saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole” cioè “Insieme con loro saremo rapiti sulle nubi”: Paolo vuole evidenziare la simultaneità dell’azione e le stretta unione con un avverbio particolare (ama sun), per dire che come i morti obbediscono  al comando, così tutti, con i vivi, saremo attirati dall’alto come razzi e frecce. Un verbo al futuro, in greco, (arpaghezometa) vuole indicare che i morti devono essere purificati prima di essere rapiti in cielo.

“Per andare incontro al Signore nell’aria”: lo scopo di Paolo è l’incontro col Signore nell’aria, elemento tra terra e cielo, spazio intermedio tra umano e divino, in cui il Signore, intermediario tra Dio e gli uomini, incontra i suoi. Il termine greco usato da Paolo (aera) fa pensare anche allo Spirito.

“E così saremo sempre con il Signore” cioè “E tutti staremo col Signore”: è la conclusione per cui staremo tutti con il Signore. L’avverbio usato (pantote), significa per ogni tempo, per sempre, in senso totalizzante.

4,18: “Confortatevi” cioè “Consolatevi”: tale versetto conclude ed è il punto essenziale e la consolazione vicendevole dei fratelli. Il verbo “consolatevi” appare molte volte ed è ugualmente usato in Isaia 40,1-segg. per consolare Israele in Babilonia.

“Dunque a vicenda con queste parole”: in Isaia 40,1-segg. si dice: “… allora si rivelerà la Gloria del Signore e ognuno la vedrà”. Ora Paolo conforta il suo popolo nel momento di persecuzione, lutto e sofferenza. Il pronome greco che conclude il versetto (tutois) fa da inclusione con il pronome all’inizio del vers. 15 (tuto) chiudendo all’interno il percorso sviluppato da Paolo attorno ai termini “diciamo”, “parole”, “Parola”. Ciò che Paolo dice, lo dice a nome degli apostoli e i Tessalonicesi conoscono le parole degli apostoli e quindi del Signore.  

Note finali

Al v. 14 Gesù è indicato due volte come uomo uguale agli altri, mentre al v. 16 viene definito come Cristo, l’unto di Dio, il Messia scelto: è un titolo del Signore. Cosa fa? Salva il suo popolo.

Paolo ci parla di Dio (teologia), di Gesù il Cristo (cristologia), dell’ultimo giorno del Signore (escatologia) quando i morti non saranno più tali; di pienezza della salvezza attraverso il nostro corpo mortale, per cui attendiamo la Resurrezione (soteriologia) in quanto non siamo nella pienezza della salvezza; dell’uomo mortale che condivide la Vita Divina (antropologia); della consolazione vicendevole in attesa del Signore (teologia morale); di cielo, terra, aria (cosmologia).  

Omelia per l’8 febbraio 2010 (prima lettura)

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/6293.html

Omelia (06-02-2006) 
Eremo San Biagio

Dalla Parola del giorno
Appena i sacerdoti furono usciti dal santuario, la nube riempì il tempio e i sacerdoti non poterono rimanervi a causa della nube perché la gloria del Signore riempiva il tempio.

Come vivere questa Parola?
L’inaugurazione del tempio di Gerusalemme è un momento importantissimo per la storia di Israele. E Salomone dirà a Dio con profonda esultanza: « Io ti ho costruito una casa potente, un luogo per la tua dimora perenne ». Eppure questo edificio grande e sontuoso è solo una prefigurazione, un simbolo del vero tempio di Dio che è il corpo di Gesù. Egli stesso dirà: « C’è qui uno che è più del tempio » e « Distruggete questo tempio (intendeva appunto il tempio del suo corpo) e in tre giorni lo farò risorgere » (Gv 2,19). Ma la nube? Che significato ha la nube che riempiva il tempio a tal punto che i sacerdoti dovettero uscirne? Non solo qui, ma anche nell’Esodo e in altri testi biblici la nube è simbolo della Presenza di Dio e della sua gloria: una Presenza colma di mistero. È importante penetrarne il senso simbolico, perché anche nella nostra vita spirituale siamo a volte chiamati a incontrare la « nube ». La gloria di Dio è così grande che riempie l’universo, ma è inafferrabile; è qualcosa che si sottrae alla nostra logica e che rifiuta di lasciarsi incapsulare nei nostri concetti.

Oggi, nella mia pausa contemplativa, mi soffermo a entrare nella « nube » e nel silenzio di Dio. No, non pretendo di vivere la sua presenza emozionalmente ma nella fede. La « nube » ne occulta l’infinita grandezza, ma la sua Parola mi dice che io stesso, con questo mio corpo, sono il suo tempio.

Che voglio, Signore, di più? Dammi di credere a quella parola di S.Paolo: « Il tempio di Dio è santo, e questo tempio siete voi ». Dammi di crederlo, lasciando che, qui e ora, il fulgore della sua presenza sia velato dalla « nube » di una « non conoscenza » che è però respiro di fede e di amore.

La voce di un Padre Apostolico
Chi possiede veramente la parola di Gesù può avvertire anche il suo silenzio per essere perfetto.
Ignazio di Antiochia

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 8 février, 2010 |Pas de commentaires »

San Gregorio Magno: « Quanti lo toccavano guarivano »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100208

Lunedì della V settimana delle ferie del Tempo Ordinario : Mc 6,53-56
Meditazione del giorno
San Gregorio Magno (circa 540-604), papa, dottore della Chiesa
Commento sul salmo 50, PL 75,581-582

« Quanti lo toccavano guarivano »

        Poniamo davanti al nostro sguardo interiore un ferito grave, sul punto di rendere l’ultimo respiro. La ferita dell’anima è il peccato, di cui parla la Scrittura in questi termini : « Ferite e lividure e piaghe aperte che non sono state ripulite, né fasciate, né curate con olio » (Is 1, 6). Riconosci dentro di te il tuo medico, o ferito, e scopri perché egli le veda, le piaghe dei tuoi peccati. Lascia che lui, che conosce ogni pensiero segreto, oda il gemito del tuo cuore. Che le tue lacrime lo commuovano. Che ci sia perfino un po’ di testardaggine nella tua richiesta. Senza sosta lascia salire dal tuo cuore verso di lui, profondi sospiri. Il tuo dolore giunga a lui affinché, anche a te, dica : « Il Signore ha perdonato il tuo peccato » (2 Sam 12, 13). Grida con Davide. Senti ciò che ha detto : « Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia » (Sal 50, 3).

        È come se dicesse : « Sono in grave pericolo a causa di una ferita mortale, che nessun medico può guarire, a meno che il medico onnipotente non venga in mio soccorso ». Per questo medico onnipotente, nulla è incurabile. Egli cura gratuitamente ; con una parola rende la salute. Dispererei a causa della mia ferita, se io non mettessi, in anticipo, la mia fiducia nell’Onnipotente.

Il midrash nel Nuovo Testamento (anche testo su Paolo)

 dal sito:

http://www.chiesacattolica.it/cci_new_v3/s2magazine/AllegatiArt/17/Spreafico.doc

AMBROGIO SPREAFICO

(Vescovo di Frosinone)

Il MIDRASH : una lettura spirituale della Bibbia

Il midrash nel Nuovo Testamento

Premessa Il termine midrash (al plurale: midrashim) viene dal verbo ebraico «darash» («cercare») e nella sua accezione più generale denota ogni tipo di ricerca. Originariamente indicava la ricerca della volontà di Dio in generale (2Cr 17,4; 22,9; 30,19; Sal 119,10). Nell’uso successivo la parola si riferisce alla ricerca della volontà di Dio nella Scrittura (Esd 7,10; Sal 111,2), per diventare alla fine un termine tecnico per descrivere qualsiasi tipo di ricerca esegetica sulla Scrittura, sia tecnica che omiletica (1QS 8,15; 4QFlor 1,14). In quest’ultimo senso viene a coincidere con il «commentario» che rende la Scrittura attuale e ne scopre tutte le ricchezze. Si può dire che si tratta di una lettura spirituale della Bibbia nel senso di una lettura che combina senza soluzione di continuità lettera e spirito, filologia e commento. L’interesse del midrash non è la ricerca della storia del testo, come cercherà di sviluppare l’esegesi moderna e contemporanea, ma il senso del testo così come si presenta al lettore e all’interprete. Per usare une terminologia di oggi, potremmo dire che il midrash giunge al senso di un testo attraverso un metodo sincronico, mentre l’esegesi recente ha preferito una lettura diacronica. Tuttavia, il midrash non elimina la comprensione della lettera del testo. Esiste talvolta l’equivoco di intendere l’interpretazione midrashica come accessibile a tutti, perché priva di quegli strumenti indispensabili per un’interpretazione « scientifica » dei testi. I commenti midrashici sono ricchi di annotazioni filologiche, di rimandi ai testi paralleli, quindi di confronti, di citazioni di studiosi. Non dobbiamo pensare che lettura spirituale significhi quella lettura spontanea, che fa a meno di ricorrere agli strumenti tecnici dell’esegesi. I rabbini che commentarono la Bibbia erano degli studiosi, non dei lettori sprovveduti che si affidavano all’improvvisazione o al sentimento. Tracce di midrash si trovano già nella Tanak. Ad esempio alcuni studiosi sostengono che i libri delle Cronache sono una sorta di midrash dei libri di Samuele e dei Re, mentre elementi midrashici sono presenti nell’elogio degli antenati di Sir 44-50 o nella rilettura dell’esodo di Sap 10-19 (Cf. G. Stemberger, Introduzione al Talmud e al Midrash, Città Nuova, Roma 1995, 328-329). Si può discutere fino a che punto la lettura e il commento sinagogale abbia influito sulle raccolte midrashiche successive. Il midrash tuttavia si sviluppa principalmente nelle scuole e nelle accademie rabbiniche soprattutto dell’epoca tannaitica (I-II sec. D. C.; comincia con R. Gamaliel I e Jonatan Ben Zakkai e si conclude con R. Jehuda ha-Nassi; la chiusura coincide con la redazione della Mishna) e amoraica (III- VI sec.; si chiude con la redazione del Talmud). Anche i Padri della Chiesa e i primi commentatori della Bibbia cristiana erano buoni conoscitori dei testi. Pensiamo solo a un Origene o a un Girolamo. Vedremo anche come gli scrittori del Nuovo Testamento siano lettori attenti delle Scritture ebraiche che utilizzano. Il midrash è un vero e proprio metodo esegetico, non una lettura improvvisata o spontanea della Scrittura, che finalmente può fare a meno delle necessarie conoscenze esegetiche. Certo, nello sviluppo soprattutto dei midrashim haggadici ci si discosta talvolta dalle regole esegetiche e dalla filologia, ma ciò non può essere preso come la regola dell’esegesi midrashica. Spiritualità non equivale a spontaneità! Il midrash ha raggiunto la sua forma più sofisticata e consapevole negli scritti dei rabbini. Ivi designa un commentario o una spiegazione che segue un versetto, un passo oppure anche un libro della Scrittura prodotto con lo scopo di rendere il testo della Scrittura rilevante per le nuove circostanze della vita della comunità dei credenti. Per legittimare un tale procedimento e per farlo diventare meno soggettivo possibile ci si è serviti di precise regole ermeneutiche. Le più famose erano le sette regole (middot) di Hillel (I secolo d.C.), le 13 di Rabbi Ishmael (II secolo d.C.) o le 32 di Rabbi Eliezer (II secolo d.C.; sono attribuite a lui). Il loro uso è molto diffuso nei libri del Nuovo Testamento. I principi dell’esegesi midrashica vi si trovano non soltanto nell’uso del materiale veterotestamentario da parte dei singoli evangelisti (per es. le numerose allusioni al Primo Testamento nei vangeli dell’infanzia non si capiscono se non alla luce di gezera shawa) ma sono adoperati anche nell’ insegnamento di Gesù stesso (qal wahomer, cioè il passaggio a minori ad maius: Mt 6,26; cf. 2 Cor 3,7-11; gezera shewa, letteralmente « uguale decreto », cioè la deduzione analogica: Mc 2,23-24 etc.). Le lettere paoline ne conservano gli esempi più chiari e più numerosi. Oltre all’uso massiccio delle regole ermeneutiche (qal wahomer: 2Cor 3,7-11; gezera shewa: Gal 3,11-12), vi si trovano anche alcuni parallelismi formali con gli scritti rabbinici: (1) le catene delle citazioni correlate tra di loro tramite l’uso delle stesse parole (per es. Rom 9,25-29 che cita successivamente Os 2,23; 1,10; Isa 10,22-23 e 1,9), (2) la strutturazione dell’esposizione in forma analoga alla tecnica di Yelammedenu rabbenu (Gal 4,21-31) che inizia con un riferimento generale al testo di base (Gen 16 e 21), nell’esposizione introduce un testo secondario (Isa 54,1) e nell’applicazione cita il testo di Gen 21,10, legato ai due precedenti tramite richiami terminologici e tematici). Tuttavia, l’uso delle regole e tecniche ermeneutiche da solo non basta per poter definire una interpretazione come un midrash nel senso della precisa forma letteraria. Gli specialisti parlano di midrash come forma o genere letterario soltanto quando l’uso dei principi esegetici è accompagnato dalle due seguenti condizioni: (1) si indica chiaramente il testo commentato e il discorso fa ad esso delle ripetute allusioni riprendendone esplicitamente parole o espressioni; (2) oltre al testo biblico commentato (chiamato testo principale) si utilizzano gli altri passi biblici (chiamati testi connessi o secondari), aventi dei legami verbali sia tra loro che con il testo commentato. Queste condizioni trovano la loro perfetta applicazione nei midrashim rabbinici la cui redazione e l’edizione avvenne però ben più tardi dell’epoca del Nuovo Testamento. Se vogliamo entrare nei testi del Nuovo Testamento, bisogna riconoscere che non c’è neppure un testo nel Corpus Paulinum — e Paolo è indubbiamente il più grande cultore dell’esegesi giudaica all’interno del Nuovo Testamento — dove tutti questi elementi sarebbero esplicitamente presenti. Inoltre esiste un aspetto abbastanza sostanziale per poter affermare l’utilizzo da parte dell’Apostolo, e a maggior ragione degli altri scritti del N.T., del metodo midrashico. Nelle esposizioni dell’Apostolo il testo biblico non costituisce il punto di partenza e la sua comprensione non è il punto d’arrivo. Infatti, quando Paolo interpreta dei testi del Primo Testamento, il suo scopo non è quello di scoprire il loro significato e la loro rilevanza per le nuove circostanze della vita dei credenti, ma quello di trovare in essi e tramite essi la conferma della coerenza delle realtà cristiane con l’agire di Dio in tutta la storia della salvezza. Non i testi biblici dunque, ma la figura di Cristo e l’esperienza cristiana, costituiscono il punto di partenza delle sue esposizioni dei testi del Primo Testamento, mentre lo scopo dell’utilizzo e dell’interpretazione del Primo Testamento è quello di capire e spiegare meglio le realtà cristiane. Per queste due ragioni sembra più corretto non parlare di midrash in Paolo, ma soltanto del carattere midrashico della sua interpretazione del Primo Testamento oppure del suo uso delle tecniche midrashiche. Questo, come vedremo, vale anche per i Vangeli e gli altri testi del Nuovo Testamento. Si dovrebbe anche tener presente il pesher, interpretazione rinvenuta Qumran, che applica ogni versetto del testo biblico alla situazione attuale. Il più noto tra i commentari di Qumran è il pesher di Abacuc. Per concludere la premessa si deve riconoscere che i testi del Nuovo Testamento non contengono dei veri e propri midrashici né seguono in maniera sistematica altri metodi interpretativi contemporanei (come ad es. quello allegorico di Filone), ma si inseriscono all’interno dei metodi di lettura e interpretazione delle Scritture ebraiche dei loro contemporanei. Farò qualche esempio, offerto solo come breve accenno e invito all’approfondimento, dato l’esiguo spazio a disposizione.Paolo

Per comprendere il modo attraverso cui il Nuovo Testamento utilizza le tecniche midrashiche, vorrei partire dagli scritti paolini, che sono senza dubbio quelli che più di tutti contengono riferimenti ai libri del Primo Testamento. Si è calcolato che negli scritti paolini, comprese le pastorali, ci siano 107 citazioni del Primo Testamento. Di queste alcune concordano con il testo ebraico masoretico, altre con i LXX, altre sono elaborazioni (traduzioni) di Paolo stesso, mostrando la sua conoscenza di ebraico, greco ed aramaico. Mi fermo brevemente su un solo esempio, che è un modo per entrare nella lettura che il Nuovo Testamento fa del Primo, nel tentativo di individuare il processo esegetico che ad esso sottende. Non mi interessa perciò il senso e il valore dell’interpretazione paolina all’interno del rapporto ebraico-cristiano, ma unicamente il metodo. Prendo il passo dal capitolo quarto della lettera ai Galati (4,21-31), dove l’apostolo reinterpreta le due figure di Sara e Agar. Vi troviamo procedimenti midrashici interessanti, senza tuttavia poter dire che si tratta di un vero e proprio midrash. Si inizia con la citazione introdotta da « sta scritto », che corrisponde alle citazioni scritturistiche rabbiniche. E poi inizia una sorta di haggadah del testo biblico di Gen 16 e 21, a cui Paolo dà subito un’interpretazione, che di per sé non contraddice il testo: « Quello dalla schiava è nato secondo la carne, quella dalla donna libera in virtù della promessa ». Ma poi aggiunge « tali cose sono dette per allegoria ». Infatti, per poter coerentemente continuare nel suo intento interpretativo deve ricorrere all’allegoria, alla trasposizione e alla corrispondenza delle immagini, comprovata però da un altro testo citato da Is 54, per poter avvallare la corrispondenza tra la donna libera e la Gerusalemme di lassù, la donna feconda. Dopo le citazioni e la dimostrazione esegetica, Paolo applica il suo ragionamento alla comunità cui si rivolge introducendo il « voi »: « Voi, fratelli, siete figli della promessa, alla maniera di Isacco ».

Due figli:

dalla schiava nato secondo la carne;

nato dalla donna libera – in virtù della promessa

Due alleanze:

quella del monte Sinai – Che genera nella schiavitù

Rappresentata da Agar

Essa corrisponde alla Gerusalemme attuale, Schiava insieme ai suoi figli

La Gerusalemme di lassù, è libera – Ed è la nostra madre

Voi siete figli della promessa

(citazione di Isaia)

Colui che è nato secondo la carne perseguitava

Quello nato secondo lo spirito

(cosa dice la Scrittura?)

« Manda via la schiava e suo figlio

Poiché il figlio della schiava non avrà eredità

col figlio » della donna libera

Così noi non siamo figli di una schiava

ma di una donna libera.

(citazione di Isaia)

Colui che è nato secondo la carne perseguita

Quello nato secondo lo spirito

(cosa dice la Scrittura?)

« Manda via la schiava e suo figlio

Poiché il figlio della schiava non avrà eredità

Così noi non siamo figli di una schiava

Possiamo dire che non siamo di fronte a un vero e proprio midrash, perché non si tratta di un commentario a un testo biblico, facendo Paolo riferimento al Primo Testamento solo a partire da una precomprensione cristologia, ma non si può neppure dire che l’Apostolo non conosca il modo di argomentare rabbinico, che si avvale di testi scritturistici accostati per assonanze o temi comuni in vista dell’interpretazione. Le citazioni servono a Paolo per contrapporre due termini che hanno un ruolo essenziale nello sviluppo del suo pensiero, schiava/libera, per poi mostrare le conseguenze che il rapporto con le due donne hanno sui « figli ». Cinque volte ricorre il termine « schiava » e una volta « schiavitù », quattro volte l’aggettivo « libera », e ben sette volte il riferimento ai figli-figlio. Il problema centrale per l’apostolo sono i figli, cioè la comunità dei discepoli, in rapporto al « figlio » della donna libera, Sara, e in opposizione a quello della schiava, Agar. La schiava, Agar, è stata mandata via da Dio insieme al figlio, mentre la donna libera, Sara, ha generato il figlio Isacco che ci permette di partecipare all’eredità di Israele e all’alleanza. È chiaro che il punto di partenza dell’interpretazione viene dall’evento di Gesù, che permette al credente di raggiungere la maturità di figlio, proprio perché Dio ha mandato « nei nostri cuori lo Spirito del Figlio, che grida: « Abba, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio, e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio. » Così si legge all’inizio del capitolo, mentre dopo 4,21-31 segue la parenesi del capitolo 5, che inizia con l’esortazione a vivere nella libertà: « Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; siate dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. » La libertà di cui Paolo parla è quella dalla circoncisione e dalla legge. Si vede bene come i testi del Primo Testamento sono citati in vista di un insegnamento che aiuta a comprendere la vita cristiana di colui che è diventato discepolo di Gesù di Nazaret e che si inserisce pienamente all’interno della rivelazione di Dio al suo popolo Israele. Il procedimento si muove all’interno delle tecniche misdrashiche, anche se non si tratta mai di un vero e proprio commentario a un testo biblico. Le lettere di Paolo sono infarcite di simili procedimenti interpretativi, mostrando come l’apostolo conoscesse molto bene le Scritture Ebraiche. Accanto alla letteratura paolina le nostre Bibbie collocano la lettera agli Ebrei. Questo scritto è un altro esempio illuminante del valore che il Primo Testamento ebbe per le prime comunità per comprendere la vicenda di Gesù all’interno di eventi a loro contemporanei. Scritta forse da un giudeo cristiano, ottimo conoscitore della Tanak, rimangono diversi problemi aperti relativi sia alla data di composizione che allo scopo del testo. Certo una cosa colpisce in particolare per il nostro tema: la presenza massiccia di testi del Primo Testamento, ma soprattutto il fatto che ben otto capitoli (da 3 a 10) abbiano come tema il sacerdozio e il culto nel tempio. L’intento è di mostrare che Cristo è l’unico Sommo Sacerdote e che egli ha offerto il sacrificio definitivo, rendendo così inutile l’apparato sacrificale del tempio di Gerusalemme. Perché questa insistenza? R. Brown in uno studio famoso, Antioch and Rome, avanzava l’ipotesi che la lettera fosse stata scritta contro alcuni giudeo cristiani di Roma che, dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme, avrebbero creduto possibile una sua sostituzione in un tempio cristiano che avrebbe ripreso purificandola la tradizione cultuale ebraica. Mi sembra che questa possa essere una linea interpretativa interessante, indispensabile per quegli ebrei soprattutto di origine sacerdotale divenuti cristiani. La lettera potrebbe essere quindi la risposta di una comunità giudeo cristiana alla distruzione del tempio, tuttavia nel senso di una reinterpretazione cristologica dell’apparato cultuale del tempio. Infatti non si trovano elementi polemici contro il tempio. Anche un ebreo convertito – come d’altro canto dovette fare la tradizione rabbinica reinterpretando le leggi cultuali – doveva spiegarsi teologicamente perché il tempio era stato distrutto e che fine avrebbe fatto l’apparato cultuale, che aveva una funzione essenziale nell’espressione della fede di Israele. Sappiamo come l’ebraismo risolse il problema, ma anche le comunità giudeo cristiane dovevano motivare l’evento, continuando i primi discepoli a frequentare il tempio. Da qui la reinterpretazione di tutto quanto riguardava il sacerdozio e il tempio in relazione a Cristo. Non abbiamo tempo sufficiente per seguire i metodi interpretativi della lettera, ma è evidente anche a una lettura superficiale l’efficacia delle argomentazioni scritturistiche portate dall’autore a dimostrazione della sua verità.Matteo

Lo stesso avviene per gli altri scritti del Nuovo Testamento. Il caso di Matteo è forse quello più significativo tra i Sinottici. Infatti, l’evangelista è senza alcun dubbio il più interno alle pagine del Primo Testamento. Egli si presenta come uno scriba che conosce ebraico e greco. Scrive in greco, ma conosce l’ebraico, come si evince dalle sue citazioni, che sono fatte prevalentemente dalla LXX, ma con ricorsi anche alla Tanak. Come ha ben mostrato Alberto Mello nel suo commentario a Matteo, l’evangelista è un targumista, nel senso che traduce, ma anche interpreta il testo, quindi un esegeta. Nel suo vangelo si trovano, secondo il Greek New Testament, 62 citazioni del Primo Testamento, mentre Luca ne ha solo 31, Giovanni 10. Giovanni tuttavia ha un altro approccio al Primo Testamento e alla tradizione ebraica. Alberto Mello avanza un’idea interessante. Si può parlare di Matteo come di un midrash, ma non del Primo Testamento, bensì del Vangelo di Marco, allo stesso modo in cui i due libri delle Cronache sono un midsrash dei libri dei Re. Infatti il midrash non è semplicemente la citazione di un testo biblico o la sua interpretazione in un nuovo contesto, ma un vero e proprio commentario al testo biblico nel suo insieme. Così almeno sono i midrashim rabbinici. Di solito si fa riferimento ai primi due capitoli di Matteo come esempio di interpretazione midrashica dell’infanzia di Gesù a partire dai testi del Primo Testamento. Senza alcun dubbio l’evangelista fin dai primi due capitoli intende mostrare che le Scritture di Israele giungono al loro compimento in Gesù di Nazaret. Lo fa innanzitutto nella genealogia, che riprende un genere letterario tipico della Genesi ed anche di Cronache, che dedica addirittura quasi interamente i primi 10 capitoli a genealogie, il cui scopo è di mostrare che il compimento della storia di salvezza avviene in Davide e nel tempio, che egli aveva in animo di costruire. Infatti nella teologia sacerdotale delle Cronache è il tempio il cuore della fede e della vita dell’Israele postesilico. Quindi Matteo, più che un midrash, utilizza un genere letterario noto, con lo stesso scopo dei libri delle Cronache: la genealogia mostra che la storia non è frutto del caso, ma conduce a un risultato il cui artefice è Dio. Gesù di Nazaret è colui che realizza la storia di Israele, racchiusa in Abramo e in Davide. Da qui l’importanza nei primi due capitoli di Matteo della figura di Giuseppe, discendente di Davide, che ne è il protagonista. La diversità dalla narrazione proposta nei vangeli dell’infanzia della redazione lucana, dove la figura preminente è la Vergine Maria, è visibile anche ad occhi inesperti. A Giuseppe Dio rivela la sua volontà mediante il sogno, perché la vita del Salvatore non sia annientata dai poteri ostili. L’uso delle citazioni scritturistiche è funzionale a questa visione della storia di Israele, che in Gesù, discendente di Davide, viene riproposta. Del resto, per un ebreo convinto e radicato nelle Scritture di Israele, non sarebbe stato possibile fare diversamente: l’evento di Gesù doveva inserirsi nel piano salvifico di Dio, altrimenti non avrebbe avuto senso.

Si tratta di un midrash? Direi che siamo di fronte a un modo spirituale di leggere le Scritture, che affonda le sue radici nell’interpretazione ebraica, come si evince da Qumran e dagli scritti rabbinici, anche se questi ultimi sono tutti posteriori al N.T., almeno nella loro elaborazione scritta. È significativo che la formula « perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per messo del profeta (o del profeta Geremia, o dai profeti) si ripeta ben tre volte nel capitolo secondo (un’altra volta al versetto 5 troviamo « perché così è scritto per mezzo del profeta »). È Gesù che permette a Matteo l’utilizzo delle citazioni profetiche. Esiste un intreccio tra vicenda-messaggio di Gesù di Nazaret e Scritture ebraiche che risulta indispensabile per comprendere l’uno e le altre. Giovanni

Sebbene le citazioni esplicite del Primo Testamento siano ridotte rispetto a Matteo e Paolo, le allusioni a testi, motivi o temi presenti nelle Scritture ebraiche sono molto numerose, tanto da rendere possibili delle vere e proprie nuove narrazioni, che reinterpretano interi racconti biblici. Alcuni esempi: nel prologo Gesù incarnato rappresenta la nuova creazione e la realizzazione della shekina di Dio nel mondo (1,14); in 2,21 il corpo di Gesù è il nuovo tempio, luogo della presenza di Dio; in 4,3 ss si allude alla vicenda del profeta Osea; in 6,1 ss è la narrazione dell’esodo che fa da base; in 20,1 ss si potrebbe rileggere il Cantico dei Cantici. Inoltre Giovanni usa la simbologia delle feste ebraiche per illustrare l’opera di Gesù. Sei sono le feste nominate esplicitamente: – una prima Pasqua in 2,13; – una non specificata festa in 5,1 (secondo alcuni la Pentecoste); – una seconda Pasqua in 6,4; – la festa delle Capanne in 7,1; – la festa della Dedicazione in 10,23; – una terza Pasqua in 11,55. Il prologo rilegge il racconto della creazione e l’insieme della storia dell’esodo, componendole in un quadro che ne vuole mostrare il compimento.

Conclusione

I padri della Chiesa e gli scrittori ecclesiastici dei primi secoli si muoveranno in questa direzione, anche se essi scriveranno dei veri e propri commentari al testo biblico. Lì allora si potrà dire se si tratta di generi interpretativi simili al midrash, perché siamo di fronte a dei commentari ai libri della Bibbia. Ma non spetta a me addentrarmi in questa ulteriore questione. Le due scuole esegetiche che si contenderanno l’interpretazione cristiana antica della Bibbia, quella antiochena e quella alessandrina, si muovono in pratica contemporaneamente a quelle midrashiche rabbiniche. Ma per i commentatori cristiani delle Scritture ebraiche lo yelammedenu rabbenu sarà sostituito dall’insegnamento del Vangelo di Gesù di Nazaret, ormai norma di vita e di fede dei cristiani. È chiaro che questa è la differenza sostanziale con l’ebraismo nascente e con l’interpretazione della Tanak ad esso propria. Tuttavia possiamo dire che ambedue le esegesi bibliche, e quindi in un certo senso ambedue le raccolte misdrashiche, ci danno delle indicazioni importanti per l’interpretazione della Bibbia, che vorrei così riassumere:

- ricentrare l’esegesi del testo sulla Bibbia nel suo insieme, per comprendere che la Bibbia va interpretata innanzitutto con la Bibbia e che non è solo il senso storico a dare valore e significato al testo;

- il testo va interpretato all’interno della propria tradizione di fede. Lo yelammedenu rabbenu sottolinea il valore della tradizione interpretativa, che non può essere liquidata come superata, come è stato fatto talvolta con troppa facilità, anche se bisogna riconoscere che oggi abbiamo a disposizione maggiori strumenti e conoscenze per poter giungere a un’interpretazione filologicamente e storicamente più accurata dei testi (archeologia, testi letterari, metodi di analisi…);

- la contrapposizione tra metodo storico critico, che potremmo chiamare « lettera », e interpretazione spirituale, non ha senso, anzi impoverisce la portata del testo. Se ogni esegesi deve partire dalla lettera e dalla storia, pena la negazione del valore stesso della rivelazione che è storica, non può non tener conto di un di più di senso che si sviluppa ogni volta che il credente pone mano a leggere e a comprendere le Scritture. « Scriptura crescit cum legente », scriveva sapientemente Gregorio Magno. In questo senso l’esegesi midrashica provoca l’interprete a un di più di senso, che va ricercato non solo nella lettera del testo o nella sua storia redazionale, ma nella sua interpretazione all’interno del contesto di fede, che è storia ma anche contemporaneità. La Wirkungsgeschichte forse ha cercato di compiere questo ulteriore passo, che nessun esegeta può più omettere. In Italia anche lo sviluppo della Lectio Divina ha contribuito a dare di nuovo attualità al metodo esegetico rabbinico e patristico.

Per concludere, oserei dire che siamo sulla buona strada per provare a recuperare alcuni aspetti importanti dell’esegesi antica, che non annullano lo sforzo della ricerca esegetica dell’ultimo secolo, ma ci inducono a una lettura più attenta e profonda del testo biblico, accettandone la complessità e la stratificazione interpretativa, dovuta non solo alla sua storia letteraria, ma anche alla ricchezza della vita di fede di coloro che nei secoli vi hanno attinto. I maestri della Tanak insieme ai primi commentatori della Bibbia cristiana ci insegnano a riappropriarci del testo biblico senza lasciarlo sotto il dominio della sola archeologia storica per coglierne la profondità spirituale che da esso sprigiona.

COMMENTO BIBLICO A TUTTE E TRE LE LETTURE DI DOMANI, IN FRANCESE…

SI TRATTA DEL SITO: BIBLE SERVICE DEL QUALE HO MESSO ANCHE IL LINK;

METTO IL LINK AL MIO BLOG FRANCESE DOVE HO MESSO INSIEME IL COMMENTO ALLE TRE LETTURE; SUL SITO BLIBLE SERVICE, INVECE,  SI TROVANO IN DUE PAGINE SEPARATE, OSSIA IL COMMENTO A PAOLO DA UNA PARTE ED IL COMMENTO ALLA PRIMA LETTURA, AL SALMO ED AL VANGELO DA UN ALTRA, NON CAPISCO BENE PERCHÉ FORSE VOGLIONO SEPARARE LA LETTERATURA PAOLINA, COMUNQUE QUESTO LINK CORRISPONDE AL MIO BLOG FRANCESE E TROVATE IL COMMENTO A TUTTE E TRE LE LETTURE E AL SALMO;

http://gabriellaroma.unblog.fr/2010/02/06/commentaire-biblique-a-le-lecture-du-dimanche-7-fevrier/

Dal «Prologo al commento del Profeta Isaia» di san Girolamo: L’ignoranza delle Scritture é ignoranza di Cristo

dal sito:

http://liturgia.silvestrini.org/santo/272.html

Dal «Prologo al commento del Profeta Isaia» di san Girolamo, sacerdote

L’ignoranza delle Scritture é ignoranza di Cristo

Adempio al mio dovere, ubbidendo al comando di Cristo: «Scrutate le Scritture» (Gv 5, 39), e: «Cercate e troverete» (Mt 7, 7), per non sentirmi dire come ai Giudei: «Voi vi ingannate, non conoscendo né le Scritture, né la potenza di Dio» (Mt 22, 29). Se, infatti, al dire dell’apostolo Paolo, Cristo é potenza di Dio e sapienza di Dio, colui che nin conosce le Scritture, non conosce la potenza di Dio, né la sua sapienza. Ignorare le Scritture significa ignorare Cristo. Perciò voglio imitare il padre di famiglia, che dal suo tesoro sa trarre cose nuove e vecchie, e così anche la Sposa, che nel Cantico dei Cantici dice: O mio diletto, ho serbato per te il nuovo e il vecchio (cfr. Ct 7, 14 volg.). Intendo perciò esporre il profeta Isaia in modo da presentarlo non solo come profeta, ma anche come evangelista e apostolo. Egli infatti ha detto anche di sé quello che dice degli altri evangelisti: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi, che annunzia la pace» (Is 52, 7). E Dio rivolge a lui, come a un apostolo, la domanda: Chi manderò, e chi andrà da questo popolo? Ed egli risponde: Eccomi, manda me (cfr. Is 6, 8).
Ma nessuno creda che io voglia esaurire in poche parole l’argomento di questo libro della Scrittura che contiene tutti i misteri del Signore. Effettivamente nel libro di Isaia troviamo che il Signore viene predetto come l’Emmanuele nato dalla Vergine, come autore di miracoli e di segni grandiosi, come morto e sepolto, risorto dagli inferi e salvatore di tutte le genti. Che dirò della sua dottrina sulla fisica, sull’etica e sulla logica? Tutto ciò che riguarda le Sacre Scritture, tutto ciò che la lingua può esprimere e l’intelligenza dei mortali può comprendere, si trova racchiuso in questo volume. Della profondità di tali ministeri dà testimonianza lo stesso autore quando scrive: «Per voi ogni visione sarà come le parole di un libro sigillato: si dà a uno che sappia leggere, dicendogli: Léggilo.
Ma quegli risponde: Non posso, perché é sigillato. Oppure si dà il libro a chi non sa leggere, dicendogli: Léggilo, ma quegli risponde: Non so leggere» (Is 29, 11-12). (Si tratta dunque di misteri che, come tali, restano chiusi e incomprensibili ai profani, ma aperti e chiari ai profeti. Se perciò dai il libro di Isaia ai pagani, ignari dei libri ispirati, ti diranno: Non so leggerlo, perché non ho imparato a leggere i testi delle Scritture. I profeti però sapevano quello che dicevano e lo comprendevano). Leggiamo infatti in san Paolo: «Le ispirazioni dei profeti devono essere sottomesse ai profeti» (1 Cor 14, 32), perché sia in loro facoltà di tacere o di parlare secondo l’occorrenza. I profeti, dunque, comprendevano quello che dicevano, per questo tutte le loro parole sono piene di sapienza e di ragionevolezza. Alle loro orecchie non arrivavano soltanto le vibrazioni della voce, ma la stessa parola di Dio che parlava nel loro animo. Lo afferma qualcuno di loro con espressioni come queste: L’angelo parlava in me (cfr. Zc 1, 9), e: (lo Spirito) «grida nei nostri cuori: Abbà, Padre» (Gal 4, 6), e ancora: «Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore» (Sal 84, 9).

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