CORINTO – PROF. DOGLIO

dal sito:

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SAN PAOLO APOSTOLO

CORINTO
 
Doglio C.

Prima di scrivere alla comunità cristiana di Corinto, Paolo ha vissuto in questa città per quasi due anni e vi è rimasto legato anche in seguito nei suoi vari spostamenti. È necessario, quindi, conoscere qualcosa di quell’ambiente umano che costituisce la cornice delle lettere: ogni introduzione a questi scritti paolini descrive la città di Corinto.[1] In questo caso, dunque, ho cercato solo un modo nuovo per riportare tali informazioni: mi sono messo nei panni del proconsole Gallione e, con un po’ di fantasia, gli ho fatto scrivere una lettera su Corinto, indirizzandola al fratello Seneca, il famoso filosofo.

1. Marco Anneo Novato Gallione al diletto fratello Seneca, salute!

«È ormai quasi un anno che abito a Corinto e il periodo del mio proconsolato volge al termine. Sto per ritornare a Roma; ma ora un po’ mi dispiace di lasciare questa strana e splendida città, che mi ha deluso e mi ha entusiasmato. Proprio per questo ho deciso di scriverti, perché parlandoti della mia esperienza a Corinto ho l’occasione piacevole di richiamare alla memoria il fascino di questa città con le vicende che qui hanno segnato la mia vita.
Alla fine di giugno dell’anno scorso sono sbarcato al porto di Lecheo: provenendo dall’Italia è qui che si fermano le navi, mentre quelle che vengono dall’Oriente fanno scalo nell’altro porto, al villaggio di Cencre. Corinto, infatti, ha due porti, pur non essendo direttamente sul mare: si trova al centro dell’istmo che collega la Grecia al Peloponneso e domina, quindi, ogni via terrestre di passaggio e controlla contemporaneamente il mar Ionio e il mar Egeo. La chiamano “regina dei due mari”. Da questa sua posizione geografica è derivata tutta la fortuna di Corinto: la gloria in passato e la ricchezza al presente.
Devo ammettere di essere partito prevenuto. La fama di Corinto non è buona: lo sai bene! Me ne avevano parlato come di una città senza cultura e senza tradizione, troppo moderna per avere storia e troppo plebea per avere importanza: ma era il mio primo incarico di amministratore fuori di Roma e dovevo accontentarmi. Nonostante tutto, però, ho avuto modo di ricredermi.

1.1. Ho trovato una città completamente nuova

Corinto è stata ricostruita negli ultimi decenni, perché circa duecento anni fa le nostre truppe l’avevano rasa al suolo. L’orgoglio dell’antica Corinto, infatti, si ergeva come un pericolo per la conquista romana. Al tempo di Filippo di Macedonia, Corinto aveva preso il posto di Atene, umiliata dal nuovo padrone, divenendo il centro della Lega Panellenica: così per due secoli la città dell’istmo aveva guidato la Grecia e, quando arrivò l’esercito di Roma, fu la sede naturale della resistenza antiromana, senza riuscire tuttavia a impedire che la nostra repubblica portasse la libertà in terra ellenica. E quando il dominio di Roma si fu consolidato, il generale Lucio Mummio volle dare al mondo un esempio e decise di cancellare questa città dalla carta geografica della terra, per eliminare ogni pericolo di rivolta e per tranquillizzare i banchieri romani che temevano la concorrenza dell’opulenta[2] Corinto. I suoi abitanti furono massacrati e fatti schiavi, gli edifici saccheggiati o incendiati, le opere d’arte depredate. Corinto cessò di esistere e per quasi un secolo rimase soltanto un mucchio di ruderi.
Rinacque grazie a Giulio Cesare. Proprio nell’anno fatale in cui sarebbe stato assassinato, il grande condottiero, consapevole dell’importanza della posizione geografica di Corinto, scelse questo sito per farvi sorgere una città da regalare ai suoi veterani, a quella massa di soldati che l’avevano accompagnato in molti anni di guerre e conquiste. Nacque, così, Colonia Laus Iulia Corinthiensis ed ebbe come abitanti degli stranieri, provenienti un po’ da tutto il mondo, soldati cesariani insieme a una gran quantità di liberti e di schiavi: tutta gente senza patria, originari dell’Italia e dell’Oriente, alla ricerca solo di guadagni e di benessere. La nuova Corinto, come puoi facilmente immaginare, non doveva essere una bella città, proprio a causa dei nuovi abitanti che, assolutamente disinteressati all’arte e alla cultura, cominciarono col saccheggiare le tombe antiche e i monumenti, per ricavarne gioielli e oggetti d’arte da vendere agli antiquari romani.
Col tempo, però, Corinto è cambiata ed è diventata una bella città. Oggi è una città moderna, con tutti i principali palazzi costruiti di recente, le monumentali fontane che raccolgono l’abbondante acqua della zona, le vie e le piazze realizzate secondo i criteri dei nostri migliori architetti, che sono stati capaci di valorizzare le antichità, inserendole in un nuovo impianto urbanistico. Il gioiello di Corinto è il meraviglioso tempio dorico di Apollo, il più antico e il più importante della Grecia: sopravvissuto alla distruzione, esso continua a ergersi, con le sue trentotto colonne monolitiche, al centro della città sopra una terrazza rocciosa, proprio attigua al nuovo foro romano, sede della vita economica e civile di Corinto, con il bema su cui io ho rappresentato, in qualità di proconsole, la giustizia di Roma.

1.2. Il commercio è l’anima di Corinto

Caro fratello Seneca, è stato inutile cercare in questa città gli ambienti della grande cultura. In questo Corinto mi ha deluso, perché la nuova popolazione è interessata solo a far soldi: i pochi ricchi che vi abitano sono grandi commercianti e armatori, impegnati a difendere e moltiplicare il loro patrimonio, avidi di nuovi guadagni e di rendite sempre più facili; i moltissimi poveri, d’altra parte, che costituiscono la grande maggioranza della popolazione, sono angosciati quotidianamente dai problemi della sopravvivenza e si danno un gran da fare per guadagnare quel poco che permette loro di vivere e, magari, quel po’ di più che consente anche di divertirsi. I filosofi come te avrebbero grosse difficoltà a farsi ascoltare da gente del genere!
Corinto è sempre stata una città commerciale. La sua posizione strategica è stata sfruttata bene dall’abilità dei suoi abitanti. Le coste del Peloponneso, infatti, sono estremamente frastagliate e la navigazione intorno a quegli scogli è molto pericolosa; ma non c’era altra possibilità per le navi che volevano tenere i contatti fra l’Occidente e l’Oriente. Corinto ha escogitato un’altra strada! Appena giunto qui, sono stato a visitare questa originale iniziativa, che ormai, però, è quasi del tutto in disuso. La chiamano díolkos: si tratta di una pista di allaggio, costruita attraverso l’istmo per consentire alle navi da carico di transitare da un mare all’altro, evitando la circumnavigazione del Capo Maleo, tremendamente pericoloso.
Mi hanno regalato una copia dell’opera geografica di Strabone: vi ho letto con attenzione tutto quello che riguarda la storia di Corinto e ho trovato anche un proverbio che doveva circolare fra i marinai del Mare Nostro. Dice: “Quando passi il Malea, dimentica quelli di casa!”.[3] È chiaro che la strada alternativa offerta da Corinto veniva preferita, per forza: le navi venivano tirate su dall’acqua di un porto e sistemate su una specie di binario; quindi, con l’aiuto di grossi rulli e la fatica di innumerevoli manovali venivano fatte scivolare lungo tutto l’istmo fino all’altro porto. In tal modo si guadagnava tempo e si evitavano i pericoli del mare; ma soprattutto prosperava il commercio di Corinto, offrendo ai ricchi molti vantaggi e fornendo ai poveri molti posti di lavoro.
Purtroppo, però, l’accresciuta mole delle navi e l’eccessivo tonnellaggio delle imbarcazioni moderne ha reso sempre più difficile o addirittura impossibile questa operazione. Mi hanno detto che è stato utilizzato in grande stile per l’ultima volta circa ottant’anni fa, quando Ottaviano, inseguendo Antonio dopo la battaglia di Azio, vi fece transitare le sue navi da guerra in pieno inverno. Ormai, invece, è ridotto a un cimelio del passato. Ho pensato che al suo posto si potrebbe scavare un canale per mettere in comunicazione i due mari: ma non sembra una trovata originale. Mi hanno informato su vari tentativi del genere, a partire dal tiranno Periandro, ripresi in considerazione ancora di recente, ma sospesi perché gli esperti hanno detto che il livello del mar Ionio è più alto dell’Egeo e, in caso di collegamento, sommergerebbe completamente l’isola di Egina.
Anche senza díolkos il movimento a Corinto non manca. Tutte le imprese commerciali che vi avevano posto una sede continuano a usare i due porti, magari facendo trasportare la merce da uno all’altro: perciò la popolazione è in continuo cambiamento. Alcune stime parlano di quasi mezzo milione di abitanti, ma per due terzi sono schiavi: soprattutto operai addetti ai lavori portuali e alle varie attività connesse col mercato internazionale; proprio come merce umana anch’essi seguono gli spostamenti delle navi, delle mercanzie e degli interessi dei loro padroni. Residenti stabili a Corinto sono numerosi piccoli proprietari, impegnati nell’artigianato e nel commercio: fabbricano e vendono soprattutto vasi di ceramica, non più belli come quelli di una volta, ma utili per contenere vari generi alimentari, e oggetti di bronzo, come statue, armi e specialmente specchi. Invece i ricchi armatori che vi vengono per lavoro, passano e se vanno; certamente cercano qualcosa di meglio.

1.3. «Corinteggiare»

Quando sono arrivato al Lecheo, mi hanno accolto con tutti gli onori e, poi, mi hanno scortato in città, fra vigneti, campi di ulivi e di fichi, lungo i dodici stadi[4] della nuova e ampia strada lastricata che conduce dal porto al centro della città. Proprio davanti a me, come sfondo delle costruzioni cittadine, si ergeva la massa montagnosa dell’Acrocorinto che domina imponente tutta la pianura: lassù, mi hanno spiegato, sorge il tempio di “Afrodite Pándemos”, la Venere popolare di cui i corinzi sono molto devoti. Ho letto in quel libro di Strabone che nell’antichità il tempio della dea dell’amore era stato così ricco da possedere più di mille sacerdotesse, o ierodule – come le chiamavano – schiave sacre che praticavano la prostituzione come atto di culto, per ottenere benefici dalla dea. Ma ho l’impressione che l’importanza di tale culto licenzioso sia stato esagerato: oggi, per lo meno, non ha più grande consistenza e non è questo culto che caratterizza la città. Tuttavia, è impressionante l’enorme diffusione della prostituzione a Corinto: penso sia normale in una città di mare con una popolazione di passaggio che cerca occasioni di divertimento e di sfogo fuori dal proprio ambiente. Ma qui sembra proprio un fenomeno tipico della vita cittadina e, come magistrato, devo ammettere che vi ho trovato proprio di tutto: fornicatori, adulteri, effeminati, sodomiti, ladri, sfruttatori, imbroglioni, calunniatori, ubriaconi.
Dagli studi giovanili mi è tornata in mente qualche battuta di Aristofane, che adoperava il verbo “corinteggiare” per alludere a un comportamento osceno; ma ancora oggi dire di una ragazza che è “corinzia” significa qualificarla come cortigiana, e il nomignolo corinthiastés viene dato ai protettori.[5] Pensavo che si trattasse di luoghi comuni della letteratura comica; e invece mi sono reso conto di persona che la città di Corinto è proprio così. Le taverne e i lupanari sono a ogni angolo di strada; persino sulle coppe da bere ho visto scritto il motto di questa mentalità di divertimento: “Mangiamo e beviamo, perché domani moriremo”.
Il nostro poeta Orazio ha scritto: “Non è da tutti recarsi a Corinto”;[6] alludeva al carattere molto costoso del vizio, e veramente qui vengono spesi capitali per il divertimento e per ogni genere di eccesso. Mi ricordo di aver visto lungo la grande strada che porta in città alcune tombe di persone famose, fra cui il sepolcro del filosofo Diogene e poco dopo quello della celebre cortigiana Laide. Senza dubbio quest’ultima rappresenta l’attuale mentalità di Corinto.

1.4. La ricchezza umana di Corinto

In primavera ho avuto la fortuna di assistere a una delle più significative manifestazioni di tutta la Grecia: i Giochi Istmici. Sono convenuti qui i migliori atleti, poeti e i musicisti più celebrati di questi anni, per disputarsi il trofeo della vittoria: una corona di rami di pino. Usano il pino, perché è l’albero sacro a Poseidone, in onore del quale vengono celebrate le gare: prima di tutto, infatti, sono una festa religiosa. Una suggestiva processione notturna ha dato inizio ai riti: alla luce delle fiaccole e delle lampade che ognuno portava in mano, ho sentito rievocare con commozione la leggenda dell’eroe Palemone, il principe annegato, deposto da un delfino sulla riva del mare e raccolto dal mitico Sisifo, re di Corinto. Nel suo piccolo santuario, si è sacrificato un toro nero in olocausto e i concorrenti hanno quindi prestato giuramento solenne di osservare le regole delle prove; e poi, sul finire della notte, ogni partecipante ha versato l’olio della sua piccola lampada sul grande fuoco nel quale si consumava il sacrificio.
La suggestione del rito si è aggiunta a un’altra impressione: mi aveva colpito, infatti, l’eccezionale impegno con cui gli sportivi si sono preparati alle gare, sottoponendosi per mesi a esercizi lunghi e faticosi, lontano dai divertimenti e rigorosi nella dieta. Tutto questo per una corona di pino! Evidentemente è la gloria e la fama che cercano: anche questo è Corinto!
Ma le gare sono una parentesi: la vita ordinaria è il mercato. Passeggiare per le vie di Corinto è uno spettacolo, perché è tutto un negozio, che vende di tutto. Però in questo mare di merci, la vera ricchezza è costituita dall’umanità. Nel mio breve soggiorno ho avuto modo di incontrare molte persone, tipi fra i più diversi, alcuni strani e caratteristici, altri banalmente comuni; ma mi ha lasciato l’impressione generale di una città vivace e amichevole, qualche volta anche passionale, interessata alla questioni della vita e capace di entusiasmarsi per qualcosa di più grande del denaro e del divertimento.
A proposito, mi è venuto a salutare il signor Aquila, con la moglie Prisca, che lui chiama familiarmente Priscilla: li avevo conosciuti a Roma, tempo fa, come produttori di tessuti e di tende, e avevamo stretto dei buoni rapporti; per cui incontrarli qui mi ha fatto piacere. Sono ebrei, ma molto aperti e capaci di dialogare con quelli diversi da loro: qualità che non è comune! Mi hanno raccontato i motivi del loro trasferimento, perché sono stati implicati in quella normativa che due anni fa il nostro glorioso Cesare ha emanato per calmare le continue sommosse che scoppiavano nel quartiere giudaico di Roma, per motivi assurdi che l’amministrazione imperiale non riusciva assolutamente a capire. Ho saputo che c’era di mezzo un certo Cristo: ma anch’io non ho compreso bene quale fosse il problema dei disordini. In ogni caso fra i giudei espulsi dalla capitale c’era anche il mio amico Aquila e così me lo sono ritrovato a Corinto.
Il fiuto dell’imprenditore gli ha suggerito la città adatta per riprendere la sua attività di commercio. Qui a Corinto, infatti, gli ebrei non sono pochi: ne passano da tutto il Mediterraneo e la loro sinagoga è un centro vivace di comunicazioni e di incontri; ma anche di scontri. Proprio su suggerimento di Aquila sono stato a far visita di cortesia, tanto per rendermi conto della situazione, al capo della sinagoga. Ho conosciuto così il signor Sóstene, che ha assunto l’incarico da poco tempo e, suo malgrado, ha dovuto raccontarmi dei disordini che hanno portato alla sostituzione del suo predecessore. Costui, di nome Crispo, aveva appoggiato un predicatore giudeo, un tal Paolo, proveniente da Gerusalemme che insegnava strane dottrine su Cristo: anche qui di nuovo lo stesso problema e il riferimento a questo strano nome! Crispo si era lasciato convincere da questo Paolo, mentre molti altri giudei non ne volevano sapere; e così, dopo qualche vivace discussione si è passati a un’aperta lite, che è finita con l’espulsione dalla sinagoga di tutti quei giudei che si fanno chiamare “cristiani”. Adesso la sinagoga di Corinto è in mano a Sóstene, che mi sembrava ben intenzionato a porre fine alle questioni.

1.5. Uno strano caso giudiziario

Dico “sembrava”, perché ho dovuto ricredermi. Pochi giorni fa, infatti, mentre sedevo sul bema, simbolo della mia autorità di proconsole d’Acaia, me lo sono visto comparire davanti, come capo della delegazione giudaica con l’intento di denunciare quel tal Paolo. Evidentemente le questioni non erano finite.
Sóstene non era solo: molti giudei l’avevano accompagnato e con forza mi avevano portato davanti anche il loro imputato. Nello sporgere denuncia contro Paolo, il capo della sinagoga mi ha detto che questo predicatore ha preso in affitto un locale proprio sulla stessa piazza dove sorge la sinagoga e vi ha installato una specie di scuola alternativa. Mi è parso di intuire una questione di concorrenza, quasi un diverbio fra commercianti che si rubano i clienti. Ma il discorso degli accusatori era molto più serio: mi hanno, infatti, parlato di un insegnamento relativo a un culto contrario alla legge romana.
Per quel poco che avevo capito dai racconti e dalle spiegazioni di Aquila, mi sono accorto subito che si trattava di un problema interno alla comunità giudaica e tutta la questione ruotava sull’interpretazione della loro legge religiosa e sull’uso di parole o di nomi. I giudei aspettano un liberatore che in greco chiamano “Cristo”; ma non sono affatto d’accordo sulle sue caratteristiche e sul suo ruolo. Ora questo Paolo, mi hanno detto, gira il mondo a dire che il Cristo è venuto e si identifica con un certo Gesù di Nazaret che il procuratore Ponzio Pilato ha condannato alla crocifissione circa vent’anni fa. Crispo lo ha accettato e come lui tanti altri ebrei che lo seguono; Sóstene, invece, insieme a molti altri, non ne vuole sapere e cerca di ostacolarlo.
È evidente che tutto questo non ha nulla a che fare con il diritto di Roma; perciò non ho voluto nemmeno aprire il processo e con fermezza ho allontanato quella delegazione dal mio tribunale. Ne è venuto fuori un subbuglio generale: proprio in mezzo al foro, infatti, i giudei si sono messi a urlare e se la sono presa con Sóstene, dandogli dell’incapace e accusandolo di non essere riuscito a sostenere l’accusa. Dalle parole sono passati alle mani e hanno sfogato le loro ire aggredendo con violenza il capo della sinagoga, mentre quel Paolo se ne è andato per la sua strada.
Non ho più voluto entrare in queste faccende, perché non mi riguardano e non mi interessano. Tuttavia la vicenda mi ha lasciato un po’ perplesso: come è possibile che in una città come Corinto ci siano delle persone che si appassionano a questioni religiose? Forse, come avevo già intuito, in questa città malfamata si nascondono desideri e speranze che non possono essere saziati con soldi e piaceri; forse in mezzo a questa moltitudine volgarmente banale, ci sono persone che si aspettano qualcosa di più e cercano un senso della vita che neppure noi, caro fratello filosofo, sappiamo trovare. Per questo strano contrasto Corinto mi ha affascinato.
Ma presto sarò di nuovo a Roma; e di queste cose forse non ne sentiremo parlare mai più! A presto.

Ave atque vale».

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[1] Oltre alle introduzioni alle lettere ai Corinzi, si possono trovare notizie sulla città di Corinto in: J.L. Vesco, In viaggio con san Paolo. Città e regioni del Mediterraneo nella storia e nell’archeologia, Morcelliana, Brescia 1974, pp. 117-135; H.D. Saffrey, «Paolo fonda la Chiesa di Corinto», in Il Mondo della Bibbia 4 (1990) 41-47; R. Penna, «Corinto: città greca e Vangelo a confronto», in Eteria 1 (1996) 42-46.
[2] La distruzione di Corinto avvenne nell’anno 146 a.C. Il titolo di «opulenta» (aphneiós) dato a Corinto è classico: si trova già nell’Iliade (2, 570).
[3]Strabone, Geografia, VIII, 6, 20; prezioso testo edito di recente: Strabone, Geografia. Il Peloponneso: libro VIII, tr. it. a cura di A.M.Biraschi, Rizzoli, Milano 2000, pp. 242-251.
[4] Uno stadio romano corrisponde a mt.185; fra il porto di Lecheo e l’antica città di Corinto c’erano infatti circa 2 km.
[5]Aristofane, fram. 370; così è testimoniato anche in altri testi di poeti comici, meno noti, del V sec. come Filetero e Polioco. L’espressione «ragazza corinzia [he korinthia kóre]» si incontra in Platone, La Repubblica, 404d.
[6]Quinto Orazio Flacco, Epistole, I, 17, 36: «Non cuivis homini contingit adire Corinthum». Anche Strabone riporta la stessa frase e la qualifica come un proverbio. 

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