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Gianfranco Ravasi: “Nessuna figura vedevate…solo una voce”

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“Nessuna figura vedevate…solo una voce”

ROMA, sabato, 19 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato l’11 dicembre da mons. Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, in occasione del convegno “Dio oggi: con lui o senza di lui cambia tutto”, organizzato a Roma dal Comitato per il Progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana.

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«Il Signore vi parlò dal fuoco. Voce di parole voi ascoltavate. Nessuna figura voi vedevate: era solo una voce» (Deuteronomio 4,12). «Se un pagano viene e ti dice: Mostrami la tua fede!…, tu portalo in chiesa e mostra a lui la decorazione di cui è ornata e spiegagli la serie dei sacri quadri» (Giovanni Damasceno, Patrologia Graeca XCV, 325). Sono questi i due estremi antitetici di uno spettro cromatico ideale. Esso si apre col gelido precetto aniconico del Decalogo che, sia pure per evidente apologetica anti-idolatrica, aveva intimato l’arresto all’arte sacra d’Israele: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra né di quanto è nelle acque sotto la terra» (Esodo 20,4). Ma si è alla fine giunti all’immenso patrimonio artistico cristiano, a cui faceva cenno il cantore delle icone, san Giovanni Damasceno (VIII sec.).

«Io sono colui che sono!»

La rappresentazione figurativa – fatta qualche esile e secondaria eccezione come, ad esempio, i cherubini (esseri alati di matrice mesopotamica) o i dodici buoi del grande bacino idrico rituale del tempio di Sion (1 Re 7,25) – nell’Antico Testamento è stata rubricata sotto la sua degenerazione che la relegava alla sfera proibita dell’idolo, anche quando di per sé ambiva a presentare lo stesso Jhwh a un popolo incline al realismo a livello gnoseologico. Il celebre toro d’oro (spregiativamente poi ridotto a vitello) eretto nel deserto voleva incarnare la potenza creatrice e fecondatrice non di Baal, la divinità cananea della quale il toro era un segno iconografico, bensì dello stesso Dio d’Israele (Esodo 32, 1-6), come accadrà anche per le analoghe due statue erette dal re Geroboamo I (1 Re 12, 28) che si attireranno l’anatema del profeta Osea («il vitello di Samaria è opera di artigiano, non è un dio e sarà ridotto in frantumi» 8,6).

La stessa riserva accompagnerà ogni altro emblema iconologico, come il serpente di bronzo (2 Re 18,4) o «la statua di metallo fuso» del santuario di Mica, trasferita poi nel tempio tribale di Dan (Giudici 17, 3-4; 18, 11-26), inesorabilmente votati alla deriva idolatrica, che era affiorata in Israele già durante il crepuscolo del regno di Salomone (1 Re 11, 4-8) e con la regina-madre Maacà nell’arco del lungo regno di Asa (1 Re 15,13). Certo è che l’incubo idolatrico, pendente come una costante spada di Damocle sulla religiosità popolare di Israele, genererà non solo un altrettanto continuo divieto di produzione artistica, ma anche un’inesorabile denuncia profetica – che non esiterà a ricorrere alla risorsa dell’ironia e fin del sarcasmo (si leggano Isaia 44, 9-20 o Geremia 10, 1-16) – e provocherà pure una sistematica e sferzante critica sapienziale, come è dimostrato nel settenario di idolatrie diverse condannate dal trattatello dei cc. 13-15 del Libro della Sapienza. Per non parlare poi del costante monito legislativo, a partire appunto dal primo comandamento decalogico e dal comma d’apertura del Codice sinaitico dell’Alleanza, sul quale si modelleranno tanti articoli dei vari codici biblici: «Non farete dèi d’argento e dèi d’oro accanto a me: non ne farete per voi!» (Esodo 20, 23).

Effettivamente ogni rappresentazione figurativa materiale del Dio d’Israele collide con un dato teologico di base, la sua realtà personale. Il suo stesso nome – come è noto, nella cultura dell’antico Vicino Oriente l’onomastica coincide con la definizione della realtà stessa a cui si assegna – non è espresso attraverso un sostantivo statico, ma con un verbo di sua natura dinamico, l’hyh della celebre formula teofanica del roveto ardente: «Io sono colui che sono!», sintetizzato nel semplice «Io-Sono» (Esodo 3,14), che sarà assunto anche dal Cristo giovanneo (ad esempio, 8, 24). In opposizione all’idolo inerte e silente, statua artigianale, «opera delle mani dell’uomo, che ha la bocca ma non parla, ha occhi ma non vede, ha orecchi ma non ode, ha narici ma non odora, ha mani che non palpano, ha piedi che non camminano, ha gola che non emette suoni» (Salmo 115, 4-7), l’Io-Sono parla e agisce, interviene giudicando e salvando e tutta la Rivelazione ne è l’attestazione.

A questo punto, allora, scatta una domanda: questo Dio-persona non riducibile a una statua, non raffigurabile in un’immagine, rimane inesorabilmente aniconico, irrappresentabile se non a livello concettuale? La risposta evidente è: no. Ed è la stessa Bibbia a indicarci almeno tre percorsi iconologici che salvaguardano la trascendenza senza per questo costringerci all’iconoclasmo. Il Dio «splendido e magnifico», come si canta nel Salmo 76,5, ha una vera e propria via “analogica” attraverso la quale è possibile non solo dirlo, ma anche raffigurarlo. La formulazione più limpida, a livello teorico e tematico di questo percorso, è reperibile nel già citato Libro della Sapienza che riflette anche il contributo del pensiero greco, essendo stata quest’opera probabilmente elaborata ad Alessandria d’Egitto, nella Diaspora giudaica. Si legge in 13,5: «Dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia (analogôs) si contempla (theoréitai) il loro Autore», un’idea ripresa anche da san Paolo, sia pure con altra finalità, nella Lettera ai Romani (1, 20: «Le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute»).

«Dio creò l’uomo a sua immagine»

Eccoci, allora, di fronte alla prima via analogica “figurativa”, quella delle creature in sé assunte come modello estetico. La “gloria” – kabôd in ebraico denota la stessa essenza intima divina nel suo svelarsi epifanico – è intuibile nel riflesso creaturale, come si canta nel Salmo 19: «I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annuncia il firmamento…, senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce» (vv. 2.4). Non è, quindi, una narrazione verbale, bensì un racconto figurato cosmico, che si dispiega come una pergamena miniata tra cielo e terra, per usare una suggestiva metafora presente in un inno sinagogale di Shavu‘ôt– Pentecoste.

Ma c’è una creatura che espleta in modo capitale l’analogia figurativa divina ed è la coppia umana. È ciò che è illustrato in modo efficace in un versetto della Genesi (1,27). Tra parentesi, ricordiamo che la qualità estetica del creato, espressa attraverso il reiterato uso dell’aggettivo tôb che indica il “bello-buono”, ha nella creatura umana il suo apice: essa, infatti, non è solo tôb, ma tôb me’ôd, è «molto bella» (1,31). Ma ritorniamo al nostro versetto che, già nella sua configurazione stilistica fondata sul tipico parallelismo esplicativo semantico, delinea la funzione iconologica teologica dell’essere umano nella sua realtà bipolare sessuale:

«Dio creò l’uomo a sua immagine,
a immagine di Dio lo creò
maschio e femmina li creò».

È evidente, anche graficamente, che l’“immagine” divina, in ebraico celem, nella versione greca eikôn, ha il suo sorprendente parallelo esplicativo in «maschio e femmina». Dio è, allora, da rappresentare come sessuato e accanto a lui si deve far assidere una dea paredra, come l’Astarte o l’Asherah idolatrica dei popoli circostanti a Israele? La risposta è ovviamente negativa, sulla base della polemica anti-idolatrica che pervade la Bibbia e a cui sopra abbiamo già fatto riferimento. L’“immagine” divina, d’altronde, non è neppure da cercare – stando al testo sacro – affidandoci alla tradizionale linea spiritualista, attestata ad esempio dalla Genesi alla lettera di sant’Agostino che non aveva dubbi al riguardo: «Che l’uomo sia fatto a immagine di Dio viene detto a causa della parte intima dell’uomo, ove ha sede la ragione e l’intelletto. L’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio soprattutto per quanto riguarda l’anima». L’“immagine” divina stampata nell’uomo e nella donna è nella loro capacità generativa: essa è la rappresentazione più “somigliante” (1,26) del Dio Creatore: non per nulla la storia della salvezza successiva sarà delineata dalla “Tradizione Sacerdotale” della Genesi sulla base delle genealogie (1,28; 2,4; 9,1.7; 10; 17, 2.6.16; 25,11; 28,3; 35,9.11; 47,27; 48,3-4).

Interessante è, però, notare la calibratura che viene effettuata dall’autore sacro su questa rappresentabilità iconica divina nella creatura umana. Nel precedente versetto si legge: «Facciamo l’uomo a nostra immagine (celem), a nostra somiglianza (d emût)» (1,26). Ora, il primo termine adottato dall’autore è celem, già presentato in 1,27: esso denota una vicinanza reale rispetto al soggetto rappresentato, una “verità” figurativa, una sorta di divina “immanenza” epifanica nella creatura umana. L’altro vocabolo, invece, d emût, suggerisce una certa distanza nel rapporto di similitudine, una specie di astrazione che è insita anche nella desinenza –ût propria dei vocaboli ebraici astratti; si vuole, perciò, ribadire la permanenza di una distanza, dovuta alla trascendenza del soggetto rappresentabile. La figura umana, quindi, è un’efficace e reale icona di Dio, ma non ne esaurisce la realtà piena. Si abbozza, così, in modo semplificato ma genuino il concetto di simbolo che l’arte dovrà sempre custodire. È possibile dipingere o scolpire Dio sulla scia del modello che egli ci ha offerto, la creatura umana. Si esclude, allora, una radicale ineffabilità e invisibilità divina e, dunque, ogni iconoclasmo. Ma al tempo stesso si proclama l’irriducibilità della divinità a un modello rappresentativo totalizzante, lasciando sempre aperta la distanza dell’infinito e dell’eterno.

«Quando verrò e vedrò il volto di Dio?»

C’è, però, una seconda via che la Bibbia privilegia nella sua raffigurazione divina ed è quella della Parola. È significativo che l’entrata in scena di Dio in entrambi i Testamenti sia appunto affidata al dabar-logos divino: «In principio Dio disse: Sia la luce!… In principio era il Verbo» (Genesi 1,3; Giovanni 1,1). Ora, la Parola di Dio che si cristallizza nel testo sacro rivela, a sua volta, due modalità iconologiche per dire Dio. Entrambe si sviluppano nella linea della precedente tipologia analogica creaturale. Iniziamo col primo modello che è definibile col termine “antropomorfismo”. Nelle pagine bibliche è tratteggiata l’intera figura divina analogicamente modulata sulla corporeità umana. I vari lineamenti occupano un rilievo enorme nella tessitura simbolica della teologia biblica e in quella giudaica successiva che introdurrà anche stravaganti riflessioni sul “corpo” di Dio in ambito cabbalistico. Proviamo solo ad evocarne i tratti principali che si accompagnano a una serie di metafore di indole più esistenziale e psicologica e che, in ultima analisi, si riconducono al concetto di Dio persona.

Così, il Signore ha un volto che il fedele ansiosamente spera di contemplare: «Quando verrò e vedrò il volto di Dio?» (Salmo 42,3). «Gli uomini retti contempleranno il suo volto… Il tuo volto, Signore, io cerco» (11,7; 27,8). È, però, interessante notare che proprio attorno a questa componente capitale della figuratività di Dio scatta la stessa dialettica registrata per l’“immagine” e la “somiglianza” a cui sopra accennavamo. Infatti, da un lato, c’è il desiderio e la possibilità di “vedere il volto di Dio”, ma d’altra parte si introduce la sua inattingibilità di fondo (e non solo perché egli «nasconde il suo volto», come spesso si dice nel Salterio per indicare il suo sdegno e il suo giudizio). Suggestiva è la scena che ha per protagonista la grande guida dell’Esodo, Mosè, il quale aspira a contemplare la gloria del volto di Dio e che riceve una risposta a prima vista sorprendente: «Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo». Alla fine vedrà Dio ma solo di spalle, mentre s’allontana (33, 18-23). Eppure il Signore stesso ribadisce che «con Mosè egli parla bocca a bocca, in visione e non per enigmi e costui contempla l’immagine (temûnah) del Signore» (Numeri 12,8). Si ha qui la logica della trascendenza-immanenza, della veridicità della rappresentazione divina, ma anche della sua radicale “insufficienza”.

Il “vedere il volto di Dio” trascina, dunque, con sé sempre un’ambiguità che è, però, necessaria, come diceva anche Isaia nel racconto della sua vocazione, quando egli si era sentito “perduto” perché «i suoi occhi avevano visto il re, il Signore degli eserciti». Eppure il profeta non è annientato, ma è purificato per avere una visione mistica del Dio invisibile (6,5-7), un po’ come accadrà a Giobbe che, attraverso la catarsi della sofferenza, approderà alla visione: «Io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono» (42,5). Sta di fatto, comunque, che non solo il volto ma anche il profilo del Signore è integralmente disegnato nella Bibbia. Si ha la sua bocca, dalla quale «escono scienza e prudenza» (Proverbi 2,6) e soprattutto la sua parola vivificante (Deuteronomio 8,3; Matteo 4,4). C’è persino il suo naso che sbuffa nell’ira (l’ebraico ’af che onomatopeicamente incarna questo soffiare sdegnato). Ben noto è il suo braccio liberatore e la sua mano che salva: «con mano potente e braccio teso» è uno stereotipo frequente per designare l’azione divina nell’evento esodico (ad esempio, Deuteronomio 4, 34), allorché «gli ha dato vittoria la sua destra e il suo braccio santo» (Salmo 98,1).

Dio ha un cuore quando proclama: «Ho trovato Davide, figlio di Iesse, uomo secondo il mio cuore» (Atti 13,22). Un cuore che batte d’amore: «Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione; perciò non darò sfogo alla mia ira» (Osea 11, 8-9). Il cuore – che per la Bibbia è sinonimo di coscienza, di interiorità – dà quindi il via all’iridescenza dei sentimenti. Essi vanno dall’affetto all’ira, come si è visto nel testo oseano; comprendono lo sdegno («Signore, non punirmi nella tua collera, non castigarmi nel tuo furore», Salmo 38,2), ma anche la gelosia, come spesso si ripete a partire dal Decalogo: «Io sono un Dio geloso» (Esodo 20,5). Passano dal “pentimento” (Genesi 6,6; Esodo 32,14) e giungono fino all’apice della fedeltà, della grazia (Esodo 34,6-7) e dell’amore che diventa la definizione stessa di Dio (1 Giovanni 4,8.16). A tutto questo poi si dovrebbe allegare anche l’apparato di simboli “psicologici” o esistenziali che sono ampiamente sviluppati nelle Scritture: il Dio padre, madre, sposo, amico, re, Emmanuele…

C’è, però, come si diceva, un’altra tipologia rappresentativa che si collega alla qualità basilare della Rivelazione biblica. Essa, infatti, è storica e quindi le teofanie hanno come loro sede privilegiata, più ancora dello spazio sacro del tempio, la sequenza degli eventi che scandiscono il tempo. Si ha, così, “la storia della salvezza” che è una trama di fatti fenomenici al cui interno, però, è in azione anche Dio che ad essi assegna una qualità ulteriore, trascendente. Proprio per questa caratteristica, la Bibbia, sulla quale incombe pur sempre il divieto decalogico iconico, si trasforma nel più vasto repertorio iconografico religioso, ben superiore a quello di altre religioni di forte contenuto immanentistico. Non per nulla la locuzione “grande codice dell’arte”, attribuita alla Sacra Scrittura dal famoso omonimo saggio di Northrop Frye, sulla scia di una frase del poeta William Blake, conferma l’indispensabilità del testo biblico, con la sua simbologia, le sue narrazioni, le sue figure, per l’arte occidentale. Come diceva Chagall, i pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato iconografico che è la Bibbia, proprio attraverso i suoi personaggi e i suoi racconti, le sue storie e vicende umane e divine. Tutto questo raggiunge il suo acme nel Nuovo Testamento che introduce la terza via, la più alta e definitiva, per rappresentare Dio.

«Il Verbo carne divenne»

Alla base c’è la logica dell’Incarnazione che riassume in sé ed esalta tutti i precedenti discorsi che finora abbiamo abbozzato. Il testo che è da considerare come la sigla o la dichiarazione sorgiva è il celebre asserto del prologo di Giovanni (1,14): ho Lógos sàrx eghéneto, «il Verbo carne divenne», ove spicca l’accostamento paradossale della cultura greca tra Lógos e sárx. Come scriveva Borges nella sua poesia, intitolata appunto Giovanni 1,14: «Io che sono l’È, il Fu e il Sarà, / accondiscendo al linguaggio / che è tempo successivo e simbolo». In Gesù Cristo, Figlio di Dio e uomo vero, si condensano e si elevano tutte le forme di rappresentazione finora considerate. Il punto di partenza è appunto la sua umanità reale e piena, che conosce l’arco intero dell’essere e dell’esistere umano, dalla nascita alla morte, inserendosi così pienamente nel tempo e nel limite della creatura per redimerla e trasfigurarla.

Come ricordava Giovanni Paolo II nella sua Lettera agli artisti del 1999, il Secondo Concilio di Nicea del 787, celebrato dopo la bufera dell’iconoclasmo, appellò – considerandolo l’argomento decisivo per ricollocare le immagini nella fede e nella cultura cristiana – al mistero dell’Incarnazione: «Se il figlio di Dio è entrato nel mondo delle realtà visibili, gettando un ponte mediante la sua umanità tra il visibile e l’invisibile, analogamente si può pensare che una rappresentazione del mistero possa essere usata, nella logica del segno, come evocazione sensibile del mistero. L’icona non è venerata per se stessa, ma rinvia al soggetto che rappresenta». Ritorna anche qui il tema dell’“analogia” già prospettato dal citato passo della Sapienza riguardo al creato come riflesso del Creatore (13,5) con una nuova e ben più alta applicazione. Se, dunque, Gesù Cristo è vero uomo, proprio nella sua visibile umanità diventa “immagine-icona” del Dio vivente.

È ciò che è esplicitamente dichiarato dall’inno di apertura della Lettera ai Colossesi ove si presenta Cristo come «immagine (eikôn) del Dio invisibile» (1,15). È ciò che è formulato anche nell’incipit della Lettera agli Ebrei ove – ricorrendo a due metafore (l’irraggiamento e l’incisione o impressione di un sigillo) che la teologia giudaica alessandrina applicava alla Sapienza e al Logos divino (si veda, ad esempio, Sapienza 7, 25-26) – si proclama che Cristo è «irradiazione della gloria di Dio e impronta della sua sostanza» (1,3). L’umanità di Gesù Cristo è, perciò, la via principale per affermare la possibilità di raffigurare Dio. È suggestiva la celebrazione di questo tema che viene fatta nella liturgia cristiana orientale: Cristo è cantato come «il Bellissimo, di bellezza superiore a quella di tutti i mortali», perché è la gloria rivelata del Padre (così nell’Enkomía dell’Orthós del «Santo e Grande Sabato» pasquale).

Oltre che nell’uomo “immagine” divina, è nella Parola che si esprimeva il volto del Dio biblico. Anche questa tipologia è applicabile a Cristo la cui missione è quella di “narrare” il Padre: «Dio nessuno mai l’ha visto: il Figlio unigenito che è Dio e che è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Giovanni 1,18). Quel “rivelare” è in greco exêghéomai, un descrivere, uno spiegare, un mostrare in pienezza. È ciò che Gesù fa attraverso la sua predicazione del Regno di Dio, un concetto dinamico che suppone l’azione regale divina nella storia, un concetto “teologico” che egli rappresenta col ricorso all’analogia simbolica (e quindi figurativa) delle 35 parabole (72 se si allegano anche le metafore espanse e le comparazioni allargate). Esse diventano appunto lo svelamento della mente e dell’agire di Dio, del suo progetto efficace, delle sue attese e dei suoi giudizi, della salvezza offerta e della meta ultima a cui egli orienta la storia. Non per nulla, in sintesi, il quarto evangelista ha adottato la categoria Lógos, “parola, discorso”, per definire Gesù Cristo.

Infine, la rappresentabilità del Dio biblico si era affidata – com’è stato indicato – all’antropomorfismo e in quel processo simbolico aveva espletato una funzione significativa il “volto” divino inaccessibile eppur rivelato. Ora quella fisionomia ha una sua figurazione diretta ed esplicita nel viso di Cristo. È lui stesso a ricordarci che, fissando lo sguardo in lui, è possibile rintracciare i lineamenti del Padre, come accade in ogni figlio: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Giovanni 14,9); «chi vede me, vede Colui che mi ha mandato» (12,45). È per questo che ormai possiamo dire di conoscere Dio, attraverso la mediazione del Figlio, il «Verbo della vita» che «abbiamo veduto coi nostri occhi, abbiamo contemplato e fin toccato con le nostre mani» (1 Giovanni 1,1). Anzi, sulla scia di questa esperienza diretta è possibile ormai superare il limite imposto a Mosè e varcare la dialettica del visibile e invisibile Dio dell’Antico Testamento. La meta ultima della nostra visione del volto divino è, infatti, il «vedere Dio faccia a faccia… così come Egli è» (1 Corinzi 13,12; 1 Giovanni 3,2).

Dio è brutto o è bello?

L’arte è, allora, la narrazione visiva dell’esperienza dell’incontro con un volto, una parola, un’immagine veramente visibile perché incarnata. San Paolo andrà anche oltre, completando cristologicamente e cristianamente la dottrina dell’“immagine-icona” di Dio sviluppata dal passo di Genesi 1,27. Infatti, egli afferma che i cristiani, come figli adottivi di Dio, sono «predestinati ad essere conformi all’immagine (eikôn) del Figlio suo, primogenito tra molti fratelli» (Romani 8,29). Il cristiano è, di conseguenza, immagine dell’immagine di Dio e l’arte è l’icona dell’immagine dell’immagine, perché attraverso i vari volti umani essa ricompone il volto di Cristo che è impronta del volto divino. Alla fine, come affermava Macario il Grande nella sua I Omelia, «l’anima che è stata pienamente illuminata dalla bellezza indicibile della gloria luminosa del volto di Cristo, è ricolma dello Spirito Santo…, è tutta occhio, tutta luce, tutta volto» (Patrologia Graeca XXXIV, 451).

In conclusione vorremmo riservare solo un cenno a una domanda forse ingenua ma affascinante: è possibile dire qualcosa di più sul volto di Dio, attraverso l’Incarnazione, così che l’arte abbia qualche canone figurativo? Il paradosso è nel fatto che i Vangeli non ci hanno lasciato neppure un rigo sul profilo fisico di Gesù di Nazaret, neppure il “pittore” (stando alla tradizione) Luca. Le principali strade imboccate dalla cultura cristiana sono state due e antitetiche. Eppure entrambe hanno una loro verità. Da un lato, a partire dal III secolo i Padri della Chiesa hanno infranto quel silenzio visivo e hanno immaginato un viso sgraziato di Cristo fondandosi sulla sua sofferenza redentrice, sulla sua passione e morte e sulla rilettura cristologica del celebre passo isaiano del quarto canto del Servo del Signore: «Non ha apparenza né bellezza per attrarre il nostro sguardo, non splendore per poterne godere» (53,1). Lapidario era stato Origene: Gesù era piccolo, sgraziato, simile a un uomo da nulla».

È un po’ sorprendente, ma a questo punto dovremmo dire che anche la bruttezza (non la bruttura) può salvare il mondo, capovolgendo il celebre e citatissimo asserto di Dostoevskij. La logica dell’Incarnazione comprende anche la sofferenza di Dio, il corpo martoriato, i posteriora Dei, come Lutero osava definire il profilo del Cristo crocifisso. Un volto, quindi, che riflette i visi rigati di lacrime dei fratelli e delle sorelle del «primogenito tra molti fratelli». In questo senso c’è un “brutto” nobile che parla di Dio e che impedisce ogni kitsch devozionale, ogni estetismo trionfalistico, ogni ottimismo di maniera. Tuttavia, bisogna riconoscere che l’approdo ultimo della vita di Cristo non ha come data il Venerdì Santo, bensì «la domenica della vita», per usare liberamente una locuzione hegeliana, ossia l’alba di Pasqua che è per eccellenza il definitivo «giorno del Signore» (Apocalisse 1,10). Non per nulla la Prima Lettera di Giovanni definisce Dio come Luce (1,5).

Si è, così, aperta un’altra strada figurativa che i Padri della Chiesa, a partire dal IV secolo, hanno esaltato fino a farla prevalere nella tradizione artistica successiva. Sulla base dell’estetismo greco-romano classico, attingendo spesso alla stessa tipologia figurativa delle divinità pagane o dei filosofi dell’antichità, si è proposto un Dio bello e radioso, un Cristo apollineo, irraggiante luce come il sole, incarnazione di un altro passo sottoposto a rilettura allegorico-messianica, il Salmo 45,3: «Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo». E nonostante sant’Agostino ripetesse che «noi ignoriamo totalmente quale fosse il volto» reale di Cristo, fu questa l’immagine divina vincente, ribadita in mille e mille ritratti stupendi dei tanti secoli dell’arte cristiana, ma anche nella pletora delle stucchevoli oleografie.

In realtà, entrambi questi itinerari iconografici hanno un loro valore per raffigurare il Dio biblico che è, sì, trascendente e luce, ma è anche Emmanuele, pronto a incamminarsi sui percorsi della storia e a giungere nel cuore dell’umanità col Figlio suo fatto uomo. In questa prospettiva diventa emblematica la sintesi operata dai vari Pantokrator posti nelle absidi delle grandi basiliche antiche: il Cristo trionfante e glorioso appare in tutto lo splendore della sua bellezza, ma reca ben visibili in sé ancora tutte le stimmate sanguinanti della sua passione. Dio invisibile e visibile, trascendente e vicino, glorioso e sofferente. Ecco, l’arte, che non ha come compito solo di presentare il fenomenico ma il mistero sotteso (l’Inconnu, come diceva il poeta francese Laforgue), quando si fa religiosa, deve sempre cercare di unire in un modo armonico l’Infinito e la carne, l’Eterno e la storia, il Figlio di Dio che è Gesù di Nazaret.

Bruno Forte: Dio, la storia, la politica

dal sito:

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Dio, la storia, la politica

ROMA, sabato, 19 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato l’11 dicembre da mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto, in occasione del convegno “Dio oggi: con lui o senza di lui cambia tutto”, organizzato a Roma dal Comitato per il Progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana.

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1. Il Dio della fede biblica e l’“invenzione” della storia

Il Dio della Bibbia è il Dio della storia: interviene in essa, è riconosciuto ed amato a partire dalle meraviglie che vi compie e dalle parole che vi fa risuonare, esercita la sua signoria sulle vicende umane. “Dove altri percepirono solo un infinito silenzio, Israele udì una voce. Israele poté scoprire che il Dio unico è udibile e interpellabile, che va tra gli uomini dicendo Io e facendosi Tu per loro: un Tu che parla e a cui si può parlare”[1]. Il protagonista umano della storia è il suo interlocutore privilegiato: al vertice dell’opera dei sei giorni Dio crea l’uomo a sua immagine e somiglianza. La storia intera, nel suo sviluppo, non sarà altro che un dialogo – accolto o rifiutato dall’uomo – fra il Signore dell’universo e gli abitatori del tempo. L’iniziativa sarà sempre di Dio: “La Bibbia non è la teologia dell’uomo, ma l’antropologia di Dio che si occupa dell’uomo e di ciò che egli chiede” [2]. Più che dirci ciò che gli uomini pensano del divino, ci testimonia ciò che Dio pensa degli uomini e della loro storia. All’uomo la dignità e l’onere della risposta: nella visione biblica la storia è desiderio e attesa, domanda e ascolto, ma anche bestemmia e scandalo della creatura davanti al suo Creatore e Signore.

Una gustosa leggenda rabbinica ci aiuta a comprendere quest’idea della storia come interrogazione e corrispondenza: essa narra che all’atto di creare il mondo l’Eterno convocò alla sua presenza le lettere dell’alfabeto, chiedendo chi di loro volesse essere la prima lettera del creato. Tutte fecero a gara proporsi, non diverse dagli umani. Sola restò in silenzio l’“aleph”, la più eterea e volatile fra le lettere dell’alfabeto ebraico, la più modesta. L’Eterno fece allora la sua scelta e chiamò la “beth” a iniziare l’opera del mondo, perché è la lettera con cui comincia ogni benedizione del Santo (“berakah”): perciò la prima parola della Torah è “berešit”, “in principio” (Genesi 1,1). La “beth” – inizio del creato – non è, però, che un quadrato aperto sul lato sinistro, nella direzione in cui in ebraico prosegue la scrittura, quasi a dire che l’inizio non è compimento, ma domanda e attesa. Il racconto prosegue, perciò, mostrando come l’Eterno abbia voluto ricompensare la “aleph” per la sua umiltà, dandole il primo posto nel Decalogo: “Io sono il Signore Dio tuo”. La parola dell’eterno fondamento invisibile che viene ad affacciarsi nel tempo con la rivelazione comincia infatti con “io”, “anochì”, la cui iniziale è “aleph”[3]. Se dunque la storia dell’uomo e del mondo inizia con la “beth” ed è perciò sempre aperta in direzione del suo sviluppo, la verità di Dio ci viene offerta solo a partire dall’“aleph”, con cui inizia l’“Io” della Sua sovrana auto-comunicazione. La storia è domanda aperta, a cui l’Eterno offre la misteriosa risposta dell’“aleph”, dell’umiltà della Sua rivelazione, della Sua chiamata e della Sua operosa presenza fra gli uomini[4].

Proprio così, è alla fede biblica che si deve l’“invenzione” della storia: dove altri colsero “l’eterno ritorno” dell’identico[5], i credenti del patto riconobbero un destino, l’appello a una patria intravista, anche se non posseduta. La storia non è l’infinita ripetizione del ciclo dei giorni e delle stagioni, portato a coscienza per esorcizzare il dolore e farne una semplice tappa dell’eterno ritorno, ma la risposta a una chiamata, l’andare verso una meta. L’uomo biblico sa che questo viaggio è suscitato e accompagnato dall’Altro, che non lascia mai solo il Suo interlocutore umano né è indifferente alla sua risposta. Come la sposa del Cantico, Dio è in cerca dell’uomo, lo chiama, percorre le notti per trovarlo e abbracciarlo. Il Dio della storia è un Dio che fa storia: la storia degli uomini è l’altra faccia della storia di Dio. Dio ha bisogno degli uomini e crede in essi, più di quanto essi credano in Lui. Dalla “preistoria della salvezza”, che è l’opera della creazione, all’alleanza con Noè e poi con Abramo, fino all’alleanza del Sinai e alla venuta del Messia, il tempo storico è anche tempo di Dio, spazio del Suo avvento, luogo della Sua promessa e delle Sue sorprese.

Fra queste, la più indeducibile e alta per la fede cristiana è l’incarnazione del Figlio, con la quale il Verbo viene a mettere le sue tende fra gli uomini e a farsi egli stesso protagonista di una storia pienamente umana. Nella vicenda di Gesù di Nazaret si compie così la rivelazione dell’uomo e della storia: “In realtà – afferma la Costituzione Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II – solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo… Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione… Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato”[6]. Nel suo culmine – la Pasqua – la storia del Figlio incarnato si offre come la “storia della storia”, denso compendio del destino di morte e resurrezione di ogni uomo e del mondo. Dio fa Sua la morte per dare a noi la vita: la storia è agli occhi della fede questa unità di morte e di vita a favore della vita.

Anche nella tradizione ebraica l’idea della “shekhinah” divina – il misterioso attendarsi di Dio in mezzo al Suo popolo – mostra come la storia possa essere fatta propria dall’Eterno per amore degli uomini: si tratta di una presenza così profonda e vicina da divenire condivisione del dolore e della gioia. Dice un commovente “midrash” della fine del IV secolo: “In qualunque luogo furono esiliati gli ebrei la Shekhinah andò con loro. Andarono in esilio in Egitto e là andò la Shekhinah… andarono esuli in Babilonia, ed essa andò con loro… furono in Edom ed essa era con loro… ma quando torneranno, la Shekhinah farà ritorno insieme a loro”[7]. Il Dio e Padre d’Israele è, dunque, tutt’altro che il Dio lontano che schiaccia l’uomo: è anzi il Dio di compassione e di tenerezza, che entra nella storia e la fa sua per operarvi le Sue meraviglie a favore degli uomini. Ecco perché l’incontro con questo Dio non si realizzerà mai fuggendo dalla storia, ma impegnandosi in essa: non l’eternizzazione del presente, ma lo storicizzarsi dell’Eterno è per la tradizione ebraico-cristiana la via della salvezza del mondo. Il Dio-con-noi, l’eterno Emanuele, Signore del tempo e della storia, è tale perché aiuta con la Sua grazia l’uomo a far lievitare il tempo verso l’eternità e a trasfigurare dall’interno la storia con l’anticipo della bellezza futura.

2. La “polis” greca e l’“invenzione” della politica

Nello scenario descritto, trova poco spazio l’agire politico: la mediazione – che di esso è l’anima – non è arte dei Profeti. Essi scelgono piuttosto la denuncia, la critica che scaturisce dalla “riserva escatologica” legata alla fede. L’“invenzione” della politica appartiene ad Atene, non a Gerusalemme: l’idea di una “teologia politica” appare estranea e paradossale a orecchie educate all’ascolto della Parola rivelata. Carl Schmitt, che introdusse questo concetto nel dibattito teologico-filosofico del Novecento, lo fece per veicolare la tesi della corrispondenza strumentale fra il potere politico e le rappresentazioni teologiche nella storia segnata dal credo cristiano[8]. La fede favorirebbe la gestione del potere mondano, perché proietterebbe in avanti, verso il futuro di Dio, la soddisfazione delle inevase esigenze di giustizia e di pace. Fede e potere si dividerebbero le sfide della storia: al potere l’esperienza, alla fede l’attesa. Contro le posizioni di Schmitt, Erik Peterson volle sostenere che ciò può essere vero del monoteismo, non della fede trinitaria[9]. Mentre il monotesimo aveva potuto servire come legittimazione teologica dell’unità dell’impero, la dottrina ortodossa della Trinità avrebbe invece minacciato seriamente quest’ultima. È quanto avrebbe spinto gli imperatori dalla parte degli ariani, teologi della corte bizantina. Solo la fede trinitaria avrebbe garantito la libertà critica rispetto al potere politico, fondando quella capacità di “critica sociale”, che sarebbe il vero apporto del cristianesimo alla ricerca del bene comune.

Pur riconoscendo il valore che questa tesi aveva in relazione all’ora in cui fu espressa, dominata dalla barbarie totalitaria, è innegabile che le cose siano più complesse: non è certo la critica dirompente che manca al monoteismo dei profeti, quanto piuttosto la fatica della mediazione, il senso della politica! La semplice deduzione di un atteggiamento politico dal monoteismo o dalla fede trinitaria non regge. Quel che bisogna riconoscere è che la politica come mediazione fra i diversi appetiti e le possibilità in gioco non nasce a Gerusalemme, ma ad Atene: il termine stesso ci riporta alla Grecia classica, e precisamente a quella città unica dove, per la prima volta, apparve la “democrazia”, il governo popolare della “polis”. È Eschilo a registrare questa genesi nella forma altissima della tragedia: “Il ‘nemico’ è promosso nella scena tragica al rango di protagonista e finge di parlare greco, ma proclama valori opposti a quelli su cui la Grecia sta definendo, per differenza appunto, il proprio profilo politico e culturale. Il numero e l’oro contrapposti alla povertà di risorse riscattata dalla virtù individuale e dalla responsabilità collettiva; l’atteggiamento di subordinazione dei sudditi di fronte a un sovrano assoluto che non deve rispondere a nessuno contrapposto al valore individuale e corale di un popolo che tale si riconosce in quanto è un popolo libero, composto di soggetti tenuti tutti, fino ai più alti ruoli del potere, a dare conto delle proprie scelte, a risponderne alla città e, nel caso, a pagarne il prezzo”[10].

Sta qui la forza di Atene contro i Persiani: è la “pólis”, segnata dai due grandi slarghi dell’“agorá” e del “teatro”, quella che si contrappone al monolitico palazzo del potere persiano. L’“agorá” è il luogo dei dialoghi, dei commerci e delle manifestazioni della volontà popolare; il “teatro” è lo spazio dove si può dare voce al controcanto dell’anima, a tutto ciò che suona come coscienza critica della prassi politica e dell’esercizio del potere. La “pólis” nasce dalla combinazione feconda della pubblica piazza e del teatro, perché quest’ultimo “non risolve, ma contiene e rappresenta i conflitti e le contraddizioni della polis. Nella città il teatro è il luogo in cui viene proiettata l’alta sfida del gioco politico e la tenace professione di fede nella necessità della rappresentazione sulla quale si fonda la greca e occidentale, fin dalle origini secolarizzata, téchne politiké”[11]. Nasce così la “politica”: il suffisso “ikòs” aggiunto a “politéia” – “polítes”, alle figure, cioè, del “cittadino” e della “cittadinanza”, sta a dire che non si fa politica senza il riferimento alla “città” e all’interesse di quanti la costituiscono. Dalle necessità della “pólis” è generata e misurata la mediazione politica; al servizio di essa deve porsi in un continuo, dialettico interscambio con la ricerca del “bene comune”.

Tutto questo non potrà realizzarsi se l’agire politico non saprà fare i conti con le altrui ragioni, e soprattutto con il riferimento al valore ultimo del bene comune e delle esigenze etiche che lo garantiscono. In democrazia la politica ha bisogno dell’etica, che ne misuri costantemente il potere umanizzante al servizio del bene di tutti e l’aiuti ad individuare le priorità e le vie giuste per realizzarle. È qui che la tradizione cristiana ha potuto inserirsi per portare il suo contributo alla politica: e lo ha fatto nella maniera più alta elaborando il concetto di “persona”. Nata nell’ambito del dibattito cristologico e trinitario dei primi secoli, in particolare all’interno del cosiddetto “episodio dogmatico” che sta fra il Concilio di Nicea (325) e quello di Costantinopoli (381), per giungere a maturità col Concilio di Calcedonia (451)[12], l’idea di persona diventa la chiave di volta della concezione teologica della politica, perché assomma in sé due campi in tensione reciproca, quello della singolarità e quello della relazione. Nella dialettica fra l’uno e l’altro, la persona viene a situarsi come soggetto assolutamente unico (esse in se), che può liberamente destinarsi all’altro, stabilendo rapporti di reciprocità solidale (esse ad). È nell’unità di queste relazioni, nella loro reciproca interazione, che la persona si offre come il soggetto libero e consapevole della propria storia, posto sulla frontiera fra esistenza storica e valore morale, in grado di saldare i due campi in un’unità sempre ricca di tensione.

3. Dio, la storia e la politica: l’“invenzione”cristiana della persona

Quanto l’“invenzione” cristiana della persona sia stata gravida di conseguenze per pensare e realizzare correttamente la mediazione politica, vorrei mostrarlo riferendomi ad un caso esemplare: quello della Costituzione della Repubblica Italiana, elaborata sotto la decisiva influenza del pensiero personalista d’ispirazione cristiana, soprattutto a partire dal cosiddetto Codice di Camaldoli, messo a punto durante una settimana di studio tenutasi nel luglio 1943 nel monastero di Camaldoli, presso Arezzo, cui avevano partecipato una cinquantina di giovani dell’Azione Cattolica e della FUCI. Una rapida verifica dei principi personalistici fatti propri dal dettato costituzionale consentirà di percepire come, nell’orizzonte del rapporto fra Dio e la storia proposto dalla rivelazione biblica, il cristianesimo abbia saputo maturare un’idea della mediazione politica tutt’altro che astratta, capace di sviluppare e arricchire il guadagno offerto da Atene al mondo con l’idea di democrazia e di politica, assumendo al contempo l’orizzonte profetico – escatologico offerto da Gerusalemme.

L’idea dell’essere in sé della persona (“esse in”) è alla base del principio della sua singolarità e della sua infinita dignità: “La persona non è un oggetto: essa anzi è proprio ciò che in ogni uomo non può essere trattato come un oggetto…” [13]. Il riconoscimento dell’assoluta originalità dell’essere personale è baluardo contro ogni possibile manipolazione degli esseri umani, garanzia del rispetto incondizionato dovuto a ciascuno. La Costituzione recepisce questo principio quando afferma che “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo” (art. 2). L’uso del verbo “riconoscere” mostra come questi diritti siano considerati preesistenti rispetto alla loro configurazione giuridica, non creati dallo Stato, obbliganti anzi di fronte ad esso. Da una simile impostazione, frutto anche della reazione ai soprusi del totalitarismo, derivò l’esplicitazione del principio di uguaglianza, secondo cui tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni sociali e personali, sono uguali davanti alla legge (uguaglianza formale: art. 3, comma 1) e devono essere in grado di sviluppare pienamente la loro personalità sul piano economico, sociale e culturale (uguaglianza sostanziale: comma 2). L’importanza e l’attualità di queste conseguenze sono facilmente intuibili nel campo della tutela delle minoranze, dei lavoratori, delle donne, dei diversamente abili, ed oggi in modo speciale nel rispetto dovuto alla persona degli immigrati, quale che sia il loro stato giuridico di cittadinanza. Riconoscere e tutelare la dignità di ogni essere personale è il primo impegno cui chiama la nostra Costituzione, in questo eco fedele dell’idea che il cristianesimo offre alla mediazione politica riguardo all’assolutezza, singolarità e pari dignità di ogni uomo o donna davanti a Dio e alla storia.

L’idea dell’essere per sé e per altri della persona (“esse ad”) esprime il movimento di auto-determinazione e di finalizzazione che la caratterizza, e perciò il ruolo determinante che hanno la consapevolezza e la libertà nei suoi atti. Nel conoscere e nel decidersi la persona è responsabile verso se stessa, come verso gli altri. Sta qui il fondamento del principio di responsabilità, formulato da Kant come imperativo pratico in questi termini: “Agisci in modo da trattare l’umanità, così nella tua come nella persona di ogni altro, sempre insieme come fine, mai semplicemente come mezzo”[14]. La Costituzione recepisce questo principio anzitutto affermando il valore del pluralismo: pur se la Repubblica è dichiarata una ed indivisibile, è riconosciuto e tutelato il pluralismo delle formazioni sociali (art. 2), degli enti politici territoriali (art. 5), delle minoranze linguistiche (art. 6), delle confessioni religiose (art. 8), delle idee (art. 21), ecc. Il concetto di responsabilità è parimenti alla base del cosiddetto principio di laicità e di tolleranza, in forza del quale lo Stato e le comunità religiose sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani (art. 7) e tutte le confessioni sono egualmente libere davanti alla legge (art. 8). Il sapersi responsabili verso se stessi e verso altri fonda insomma l’esigenza del rispetto del diverso e del farsi carico – se occorre – del suo bisogno e della tutela dei suoi diritti. Nessun uomo è un isola e a nessuno è lecito disinteressarsi del bene comune. Nella comunione solidale dell’essere personale ciascuno si scopre responsabile di tutti ed insieme si avverte sostenuto dalla corresponsabilità altrui. Questo costitutivo essere relazionale della persona si esprime nel principio di solidarietà, accolto chiaramente nel dettato costituzionale: “La Repubblica… richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2, comma 2). Il valore della solidarietà si estende dalle persone ai gruppi, in primo luogo alla famiglia, fino alla grande comunità dei popoli e alla mondialità. In questa linea il principio di solidarietà esige un impegno prioritario a favore della pace: come viene sancito all’art. 11, la Repubblica ripudia la guerra e promuove gli organismi internazionali atti ad assicurare il mantenimento della pace e della giustizia fra le Nazioni.

I dinamismi della persona e della comunità delle persone, richiamati nella espressione che ad essi ha dato la Costituzione Italiana, si intersecano continuamente fra loro. Nell’unità dell’azione personale il soggetto al tempo stesso modifica la realtà esteriore, si forma, si avvicina agli altri ed arricchisce il proprio universo di valori. Agendo così, la persona si manifesta come l’essere della trascendenza, interiorità continuamente sfidata ed arricchita dall’incontro con gli altri, responsabile verso di sé e verso l’infinita dignità altrui. Tenere insieme questi aspetti è l’esigente dinamismo e il difficile equilibrio, cui deve tendere l’esistenza personale nella visione personalista e al cui servizio deve porsi la mediazione politica. Riappropriarsi continuamente di questi principi, promuoverne la piena realizzazione, è una sfida e un compito, perfino una vocazione, cui dedicarsi con l’impegno di tutta la vita: “Nel raccogliersi per ritrovarsi, nel dispiegarsi per arricchirsi e ancora ritrovarsi, nel raccogliersi di nuovo attraverso la liberazione dal possesso, la vita della persona – sistole e diastole – è la ricerca fino alla morte di una unità presentita, agognata e che mai si realizza… È necessario scoprire in sé, fra il cumulo delle distrazioni, anche il desiderio di cercare quest’unità vivente; ascoltare a lungo le suggestioni ch’essa ci sussurra, avvertirla nella fatica e nell’oscurità senza mai essere certi di possederla. Tutto ciò assomiglia piuttosto a un richiamo silenzioso, in una lingua che richiederebbe tutta la nostra vita per essere tradotta: per questo il termine di vocazione gli conviene meglio di qualunque altro” [15]. Corrispondere a una tale vocazione rende la mediazione politica tanto esigente, quanto necessaria e preziosa: una sfida verso cui tenersi sempre pronti, una forma di carità alta, in cui si prepara l’avvenire di tutti. Sta qui l’accoglienza autentica del grande apporto delle radici cristiane alla convivenza civile, in forza del quale Dio, storia e politica non sono estranei l’uno all’altro, ma si relazionano nella costruzione di un’umanità più vera, buona e felice per tutti. Un apporto che ha dato frutti straordinari nella ricostruzione post-bellica del Paese e di cui mi sembra ci sia urgente bisogno anche di fronte alla crisi in atto del gioco delle maschere di molto attuale agire politico. La storia e la politica nell’orizzonte dell’accoglienza di Dio non sono meno, ma più umane, non meno, ma più giuste e realizzanti per tutti. Anche così Dio è vivo nell’oggi, e con Lui o senza di Lui cambia tutto!

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1 H. Küng, Essere cristiani, Mondadori, Milano 1976, 338.
2 A.J. Heschel, L’uomo non è solo, Rusconi, Milano 1970, 135.
3 Cf. L. Ginzberg, Le leggende degli Ebrei – I: Dalla creazione al diluvio, a cura di E. Loewenthal, Adelphi, Milano 1995, 27s.
4 Cf. C. Vigée, Dans le silence de l’Aleph. Ecriture et Rèvèlation, Éditions Albin Michel, Paris 1992 (tr. it. Alle porte del silenzio. Scrittura e Rivelazione nella tradizione ebraica, Paoline, Milano 2003).
5 Cf. M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Borla, Roma 1968.
6 Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes, n. 22.
7 Mekilta de-rabbi Yishma’e’l, Pisha 14.99-107, citato in G. Busi, Simboli del pensiero ebraico, Einaudi, Torino1999, 345
8 Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna 1972, 27-86 (la prima edizione tedesca è del 1922).
9 Il monoteismo come problema politico, Queriniana, Brescia 1983 (la prima edizione tedesca è del 1935).
10 M. Centanni, Introduzione all’edizione delle opere di Eschilo da lei curata per i Meridiani Mondatori, Milano 2003, XIII.
11 Ib., XXX.
12 Sulla storia del concetto di persona cf. A. Milano, Persona in teologia. Alle origini del significato di persona nel cristianesimo antico, Dehoniane, Napoli 1984.
13 E. Mounier, Il personalismo, AVE, Roma 1964,11s (l’originale francese è del 1949).
14 E. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, Laterza, Roma-Bari 2002, 91.
15 E. Mounier, Il personalismo, o.c., 68.

Jesus born

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Publié dans:immagini sacre |on 23 décembre, 2009 |Pas de commentaires »

Omelia (23-12-2009) : Il Signore aveva esaltato in lei la sua misericordia

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/16919.html

Omelia (23-12-2009) 
Monaci Benedettini Silvestrini

Il Signore aveva esaltato in lei la sua misericordia

Anche Maria, la Vergine Madre, nel suo cantico aveva lodato il Signore per la sua misericordia. Fanno la stessa cosa i vicini e i parenti di Elisabetta alla notizia che si è compiuto per lei il tempo del parto. Questo è sempre motivo di gioia perché una nuova vita viene in questo mondo, nel caso della nascita di Giovanni, così vuole Elisabetta che si chiami il suo bambino, ci sono motivi speciali per rallegrarsi e benedire il Signore. Quel bambino ha una missione davvero speciale da compiere: sarà il precursore del Cristo, colui che ha il compito di preparargli immediatamente la strada. Lo dovrà additare al mondo come l’Agnello che togli i peccati del mondo. Già la sua nascita prodigiosa viene accolta da molti come un’attesa di fausti eventi futuri. La gente si chiedeva: «Che cosa sarà mai questo bambino?». Lo scopriranno dopo non molti anni quando il Precursore sulle rive del Giordano, inizierà la sua vibrante predicazione. Il lieto evento tra l’altro segnerà la fine del mutismo del padre Zaccaria, il che ha un significato che trascende quello letterale. «Aprire la bocca dei muti» è appunto una dei compiti messianici, è quindi normale che tale azione salvifica inizi dal padre del Battista. Sarà poi Gesù a completare quell’opera quando insegnerà ai suoi apostoli e tramite loro ad ognuno di noi, a chiamare Dio con il nome di Padre. 

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 23 décembre, 2009 |Pas de commentaires »

Omelia attribuita a san Gregorio il Taumaturgo: «Parlava benedicendo Dio»

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20091223

Ferie di Avvento dal 17 al 24: 23 dicembre : Lc 1,57-66
Meditazione del giorno
Omelia attribuita a san Gregorio il Taumaturgo (c. 213 – c. 270), vescovo
Omelia sulla santa Teofania, 4 ; PG 10, 1181

«Parlava benedicendo Dio»

      [Giovanni Battista diceva:] Alla tua presenza, Signore Gesù, non posso tacere, perché «Io sono la voce, e la voce di colui che grida nel deserto: preparate la via del Signore. Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e sei tu che vieni da me!» (Mt 3,3.14)

      Io, quando sono nato, ho cancellato la sterilità di colei che mi metteva al mondo; e quando ero appena un neonato, ho portato rimedio al mutismo di mio padre ricevendo da te la grazia di questo miracolo. Ma tu, nato da Maria Vergine nel modo che hai voluto e che sei il solo a conoscere, non hai cancellato la sua verginità, tu l’hai protetta aggiungendole il titolo di madre; né la sua verginità ha impedito la tua nascita, né la tua nascita ha intaccato la sua verginità. Queste due realtà incompatibili, il parto e la verginità, sono state riunite in un’unica armonia, il che è alla portata del Creatore della natura.

      Io, che sono un uomo, non faccio che partecipare alla grazia divina; ma tu, tu sei nello stesso tempo Dio e uomo, perché sei per natura l’amico degli uomini (cfr Sap 1,6).

Omelia per il 22 dicembre 2009

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/8870.html

Omelia (22-12-2006) 
mons. Vincenzo Paglia

Maria appare sin dall’inizio segnata dalla beatitudine di chi ascolta la Parola di Dio. Questa è la prima beatitudine del Vangelo, come scrive Luca: « Beata colei che ha creduto all’adempimento della Parola del Signore ». La felicità di Maria, la prima discepola del Vangelo, si esprime nel canto del Magnificat. Un canto che manifesta la gioia di questa povera ragazza di uno sperduto villaggio della periferia dell’Impero nel vedere che il Signore del cielo e della terra si è chinato su di lei. Maria non si reputa degna di considerazione, come i genere ciascuno di noi reclama per se stesso. Sa che tutto le viene da Dio e da Dio è la sua grandezza e la sua forza; quello stesso Dio che ha liberato Israele, che ha protetto i poveri, che ha umiliato i superbi e che ha ricolmato di beni gli affamati, si è chinato su di lei e l’ha amata. E Lei lo ha accolto nel suo cuore. Da quel giorno, attraverso di lei, Dio ha posto la sua dimora in mezzo agli uomini. Maria appare sin dall’inizio segnata dalla beatitudine di chi ascolta la Parola di Dio. Questa è la prima beatitudine del Vangelo, come scrive Luca: « Beata colei che ha creduto all’adempimento della Parola del Signore ». La felicità di Maria, la prima discepola del Vangelo, si esprime nel canto del Magnificat. Un canto che manifesta la gioia di questa povera ragazza di uno sperduto villaggio della periferia dell’Impero nel vedere che il Signore del cielo e della terra si è chinato su di lei. Maria non si reputa degna di considerazione, come i genere ciascuno di noi reclama per se stesso. Sa che tutto le viene da Dio e da Dio è la sua grandezza e la sua forza; quello stesso Dio che ha liberato Israele, che ha protetto i poveri, che ha umiliato i superbi e che ha ricolmato di beni gli affamati, si è chinato su di lei e l’ha amata. E Lei lo ha accolto nel suo cuore. Da quel giorno, attraverso di lei, Dio ha posto la sua dimora in mezzo agli uomini.

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 22 décembre, 2009 |Pas de commentaires »

San Beda il Venerabile: «Il mio spirito esulta in Dio mio Salvatore»

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20091222

Ferie di Avvento dal 17 al 24: 22 dicembre : Lc 1,46-55
Meditazione del giorno
San Beda il Venerabile (c. 673-735), monaco, dottore della Chiesa
Omelie sul Vangelo, I, 4 ; CCL 122, 25ss

«Il mio spirito esulta in Dio mio Salvatore»

      «L’anima mia magnifica il Signore; il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore». Il significato primo di queste parole è certamente quello di riconoscere i doni che Dio ha concesso a lei, Maria, in particolare; ma ella ricorda poi i benefici universali di cui Dio non cessa di circondare la razza umana.

      L’anima glorifica il Signore quando consacra tutte le sue forze interiori a lodare e a servire Dio; quando, con la sua sottomissione ai precetti divini, mostra di non perdere mai di vista la sua potenza e la sua maestà. Lo spirito esulta in Dio suo Salvatore, quando mette tutta la sua gioia nel ricordarsi del suo Creatore da cui spera la salvezza eterna. Probabilmente queste parole esprimono esattamente quello che pensano tutti i santi, ma era particolarmente appropriato che fossero pronunciate dalla beata Madre di Dio che, ricolmata di un privilegio unico, ardeva di un amore tutto spirituale per colui che lei aveva avuto la gioia di concepire nella sua carne. Lei aveva ben motivo, e più di tutti i santi, di esultare di gioia in Gesù – vale a dire nel suo Salvatore – perché sapeva che colui che lei riconosceva come l’autore eterno della nostra salvezza, sarebbe, nel tempo, nato dalla sua stessa carne, e in modo così vero e autentico che in un’unica persona sarebbero stati realmente presenti suo figlio e il suo Dio…

      Per questo è un uso eccellente e salutare, il cui profumo spande la sua fragranza sulla Santa Chiesa, quello di cantare ogni giorno, ai vespri, il cantico della Vergine. Ci si può aspettare da questo che le anime dei fedeli, facendo così spesso memoria dell’incarnazione del Signore, s’infiammino di un fervore più intenso, e che il ricordo così frequente degli esempi della sua santa Madre li confermi nella virtù. Ed è proprio il momento giusto, ai vespri, per ritornare a questo canto, perché la nostra anima, stanca della giornata e sollecitata in varie direzioni dai pensieri del giorno, ha bisogno, quando si avvicina l’ora del riposo, di raccogliersi per ritrovare l’unità della sua attenzione.

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