Archive pour novembre, 2009

San Basilio: Non preferire nulla a Cristo

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20091104

Mercoledì della XXXI settimana del Tempo Ordinario : Lc 14,25-33
Meditazione del giorno
San Basilio (circa 330-379), monaco e vescovo di Cesarea in Cappadocia, dottore della Chiesa
Regole più ampie; domanda 8

Non preferire nulla a Cristo

Il nostro Signore Gesù Cristo ha detto a tutti, a più riprese e donando varie prove: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (Lc 9,23); e ancora: “Chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. Sembra esigere la più totale rinuncia… “Dov’è il tuo tesoro, dice altrove, sarà anche il tuo cuore” (Mt 6,21). Se dunque mettiamo da parte dei beni terreni o qualche provvista peritura, il nostro spirito vi rimane sprofondato come nel fango. È allora inevitabile che la nostra anima sia incapace di contemplare Dio e diventa insensibile ai desideri degli splendori del cielo e dei beni a noi promessi. Non possiamo ottenere questi beni se non li chiediamo senza sosta, con un ardente desiderio che, del resto, ci renderà leggero lo sforzo per raggiungerli.

Rinunciare a se stessi, è dunque sciogliere i vincoli che ci legano a questa vita terrena a passeggera, è liberarsi dalle contingenze umane, per essere in grado di camminare sulla via che conduce a Dio. È liberarsi da ciò che intralcia per possedere e usare dei beni che sono “più preziosi dell’oro, di molto oro fino” (Sal 18,11). E, per farla breve, rinunciare a se stessi, è trasferire il cuore umano nella vita del cielo, cosicché si possa dire: “La nostra patria è nei cieli” (Fil 3,20). E innanzitutto, è cominciare a diventare simili a Cristo, che da ricco che era, si è fatto povero per noi (2 Cor 8,9). Dobbiamo assomigliargli se vogliamo vivere conformamente al Vangelo.

La loi du Seigneur est joie pour le coeur

La loi du Seigneur est joie pour le coeur  dans immagini e testi, 20090927_s

http://www.evangile-et-peinture.org/static/dossiers/img_jour/2009-09/20090927_s.jpg 

Psaume (Ps 18, 8, 10, 12-13, 14)

R/ La loi du Seigneur est joie pour le coeur


La loi du Seigneur est parfaite,
qui redonne vie ;
la charte du Seigneur est sûre,
qui rend sages les simples.

La crainte qu’il inspire est pure,
elle est là pour toujours ;
les décisions du Seigneur sont justes
et vraiment équitables :

Aussi ton serviteur en est illuminé ;
à les garder, il trouve son profit.
Qui peut discerner ses erreurs ?
Purifie-moi de celles qui m’échappent.

Publié dans:immagini e testi, |on 3 novembre, 2009 |Pas de commentaires »

di Gianfranco Ravasi : Quella torsione del pensiero chiamata conversione (Paolo, citazioni)

dal sito:

http://www.made-inbet.net/news_services/or/or_quo/cultura/161q05a1.html

OSSERVATORE ROMANO – 16 LUGLIO 2009

Il coraggio di cambiare punto di vista

Quella torsione del pensiero chiamata conversione

Togliti i sandali. Il coraggio di cambiare (Milano, Paoline, 2009, pagine 183, euro 13) è il titolo di un libro scritto damonsignor Fortunatus Nwachukwu, capo del Protocollo della Segreteria di Stato. Pubblichiamo la prefazione del presidente del Pontificio Consiglio della Cultura.

di Gianfranco Ravasi

« O Signore, dacci la serenità di accettare quello che non si può cambiare, il coraggio di cambiare quello che va cambiato e la saggezza per distinguere l’uno dall’altro ». Così pregava il teologo americano Reinhold Niebuhr, morto nel 1971, e questa invocazione potrebbe essere l’epigrafe ideale per le pagine che sono ora di fronte a noi. Esse ruotano, infatti, attorno a un verbo essenziale per la vita e per la spiritualità:  cambiare. Pensiamo solo a quanto radicale sia stato il mutamento che abbiamo subito alle origini stesse della nostra esistenza, quando siamo usciti dalla quiete e dall’oscurità del grembo materno per affacciarci alla luce, alla libertà, all’ignoto. Su questo fondamentale cambiamento strutturale la psicologia e la psicanalisi hanno intrecciato quasi l’intera trama delle loro ricerche.
Pensiamo anche al vero e proprio trauma che comporta, a livello spirituale, una conversione:  la « via di Damasco » dell’apostolo Paolo ne è un emblema folgorante, tant’è vero che egli parlava di un « essere afferrato », quasi ghermito e impugnato da Cristo per un’avventura totalmente nuova e inattesa (Filippesi, 3, 12). Sappiamo inoltre quanto forte sia la paura del futuro che si para innanzi agli israeliti, in marcia per quel cambiamento decisivo della loro storia che è stato l’esodo dall’Egitto, e con la loro nostalgia delle pentole di rame e delle cipolle della schiavitù, ne sono la rappresentazione simbolica.
Scritto da un sacerdote che sa unire la finezza dell’analisi esegetica e della riflessione teologica con quella del servizio diplomatico per la Santa Sede, che intreccia l’acutezza e la limpidità del dettato con l’intensità e la profondità della sua proposta spirituale, destinata a tutti, questo suggestivo libro si propone quasi come una guida per il cammino, impegnativo e talora anche lacerante, del cambiamento. Usando una sua immagine, siamo invitati a lavare i piedi impolverati dai sentieri percorsi in passato per inoltrarci, liberi e spediti, sulle vie della trasformazione interiore, lasciando cadere inceppi e remore, catene e abitudini.
Non per nulla la prima « predica » di Gesù, riferita dai Vangeli, è fatta di poche ma incisive parole che si aprono con un imperativo, « convertitevi », che nell’originale greco metanòeite presuppone un « cambiare mente », una vera e propria torsione del pensiero, della visione delle cose e della stessa esistenza per avviarsi su un sentiero d’altura che tende non a una vetta, ma all’infinito del cielo:  « Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste » (Matteo, 5, 48). È un percorso proposto al singolo e all’intera Chiesa, un cammino talora complesso e arduo, un itinerario necessario se non si vuole sentire il monito aspro di Cristo:  « Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo » (Luca, 13, 3).
Monsignor Fortunatus ricorre – anche nello stile comunicativo proprio delle sue origini africane – a un linguaggio di straordinaria efficacia narrativa. Sulla scia della stessa predicazione di Gesù, ama la parabola, il racconto di un evento esemplare, il simbolo, rendendo così le sue pagine particolarmente vivide e fragranti. Ma soprattutto attinge a quel mirabile « grande codice » della nostra fede e della nostra cultura che è la Bibbia. E per questo che il cuore del suo libro è costituito da una sorta di trittico le cui tavole sono dipinte con i colori e con i soggetti desunti dalle Sacre Scritture. Vorremmo ora soltanto evocare queste tre scene di « cambiamento », lasciando poi al lettore di gustarle nella rappresentazione luminosa e intensa del testo. A venirci incontro è innanzitutto Mosè con l’esperienza del roveto ardente che ne trasformerà la vita. Tutto inizia con quella decisione indispensabile:  «  »Voglio avvicinarmi a vedere ». Il Signore vide che si era avvicinato a vedere e Dio lo chiamò dal roveto » (Esodo, 3, 3-4). Nell’originale ebraico c’è un « voltarsi » che evoca la conversione e che sostiene il desiderio di « vedere ». Ma l’attenzione è poi trasferita sul gesto dai tratti metaforici:  « togliersi i sandali ». Scavando all’interno di questo simbolo biblico, monsignor Fortunatus ne svela il significato profondo:  « Dio chiede a Mosè di rinunciare a questo simbolo di possesso materiale, di diritto di proprietà, di dignità, di libertà, di protezione, di generale benessere, così da passare da uno stato di prosperità materiale a uno di povertà innanzi a Lui ». In tal modo, i suoi piedi nudi e spogli, cioè la sua realtà umana purificata, possono entrare in contatto vivo con la « terra santa » dell’epifania divina, ricevendone l’energia vitale e salvifica:  « Attraverso il contatto diretto e senza impedimento tra i suoi piedi e il suolo, Mosè è « caricato » e cambiato dalla corrente di santità proveniente da quella terra santa ».
La seconda tavola del trittico ha al centro un cieco, uno dei tanti malati che Gesù incontra nei Vangeli, ma che è qui identificato con un nome proprio:  Bartimeo (Marco, 10, 46). Al suo grido risponde alla fine la voce stessa di Gesù, per tre volte in un solo versetto l’evangelista introduce il verbo « chiamare », fonèin in greco, ossia la voce:  « Gesù si fermò e disse:  « Chiamatelo! ». Chiamarono il cieco dicendogli:  « Coraggio! Alzati, ti chiama! »" (v. 49). A questo appello e alla guarigione subentra il cambiamento di esistenza di quell’uomo che ha ora come simbolo il mantello, segno di possesso, di identità, di personalità.
Scrive don Fortunatus:  « Come Mosè toglie i suoi calzari innanzi al Signore nel roveto ardente, così il nostro mendicante cieco getta ora il suo mantello. È il mantello da lui usato sia per coprirsi sia per ricevere l’elemosina dei passanti. In esso era l’intera sua esistenza concreta, quella per la quale la gente lo conosceva – il cieco, mendicante lungo la strada. Gettandolo via, egli ora abbandona il suo precedente modo di vivere. Non vuole più stare seduto lungo la strada ». E infatti adesso Bartimeo non solo « riacquista la vista », ma anche « prende a seguire Gesù lungo la strada »; una nuova vita per una nuova creatura. E la strada è anche al centro della terza scena del nostro trittico. Essa vede snodarsi la storia di quel figlio difficile e pentito che noi abbiamo tradizionalmente definito come « figlio prodigo ». E la celebre parabola di Luca che ha appunto in filigrana una via, prima di perversione e poi di conversione. Non per nulla nel linguaggio anticotestamentario « convertirsi » è shuv, che letteralmente significa « ritornare » sulla pista che si era abbandonata perdendoci lungo le distese del deserto dell’esistenza.
Commenta così l’autore il cuore della narrazione di Luca con la scelta del figlio di cambiare vita:  « La sua decisione implica tre azioni:  alzarsi, andare dal padre e parlargli. Il suo alzarsi, come quello del mendicante cieco, Bartimeo, nel suo incontro con Gesù, è presentato come una dnàstasis, una risurrezione, un ritorno alla vita. Questo comporta un cambio di posizione, dalla postura orizzontale della morte (disteso, seduto e accovacciato) alla posizione verticale o eretta della vita. Implica anche abbandonare la « tomba », il luogo della morte, con la sua soffocante mancanza di aria e la sua grigia assenza di luce, oltre naturalmente ai primi sintomi di putrefazione. Perciò, appena il giovane rompe con il sepolcro della sua vita passata, prova la sensazione di un’improvvisa corrente di aria nuova, di luce e libertà, di freschezza e di rinascita. Il padre del giovane più tardi avrebbe dichiarato:  « Perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato » (Luca, 15, 24) ». Lasciamo ora ai lettori di percorrere con la guida di monsignor Fortunatus la strada del cambiamento che è conversione. Tanti sono gli squarci che egli aprirà davanti ai nostri occhi per svelare le molteplici iridescenze di questa esperienza spirituale e umana d’importanza capitale, ammonendoci anche sulle fatiche, le lotte, il rigore che la trasformazione interiore esige. Ma, come diceva lo scrittore cattolico francese Julien Green, « finché si è inquieti, si può stare tranquilli ». Finché in noi c’è il fremito del cambiamento, è segno che siamo spiritualmente vivi e vitali. E ciò che alla fine ci attende è un abbraccio di pace e di felicità, come quello che si scambiano il padre e il figlio pentito della parabola di Luca e come quello che fiorisce nella dolce e appassionata preghiera poetica con cui si chiude questo volume.

“PAOLO, IL MIO FILOSOFO” (John Duns Scoto)

dal sito:

http://www.centrodunsscoto.it/articoli/Articoli_html/Paolo_ilmio_filosofo.htm

CENTRO STUDI PERSONALISTICI « GIOVANNI DUNS SCOTO »

per una biografia di Duns Scoto:

http://www.santiebeati.it/dettaglio/76460

“PAOLO, IL MIO FILOSOFO”

Lauriola Giovanni
 

L’espressione “Paolo è il mio Filosofo”- (“Philosophus noster, Paulus est”) – appartiene a Giovanni Duns Scoto, pensatore francescano del medio evo (1265-1308), con la quale intendeva riaffermare il primato assoluto della carità, non solo a livello morale, ma soprattutto ontologico, come personificazione di Cristo, che rivela la caratteristica propria e unica di Dio Padre, “Dio è Carità”. Il contesto in cui viene usata è quello di dare maggior peso e più valore alla propria opinione sull’essenza della beatitudine, avvalorandola con l’ auctoritas di Paolo ai Corinti , in contrapposizione all’altra opinione avvalorata dall’auctoritas di Aristotele . Il testo di Paolo, com’è noto a tutti, appartiene alla conclusione del famoso inno alla “carità”, che sintetizza i desideri dei fedeli di Corinto che erano bramosi di possedere ardentemente quei carismi con cui Dio aveva favorito la Chiesa delle origini. Paolo, oltre a riconoscere nobile questo desiderio di aspirare “ai carismi più elevati”, aggiungeva subito con la forza della sua esperienza che di tutte le virtù “la più grande è la carità” . Le celebrazioni due volte millenarie in onore della nascita di Paolo e i sette centenari della morte di Duns Scoto sono una buona occasione per riflettere su questi due autori, di cui l’uno si richiama direttamente a Cristo e l’altro a Paolo. Proprio queste dipendenze discendenti – Cristo da Dio Padre, Paolo da Cristo e Duns Scoto da Paolo – sono il fondamento del primato assoluto della carità, meno come virtù morale che come caratteristica esclusiva dell’agire di Dio e di Cristo, che viene proposto come modello al cristiano. L’inno alla carità di Paolo Certamente l’inno alla carità di Paolo è un testo meraviglioso e sublime insieme. A livello di contenuto però si presenta anche molto complesso, perché le interpretazioni che se ne possono dare sono varie, in base al senso che si dà al termine “carità”, se riferito a Dio, a Cristo, al prossimo… Dal contesto immediato sembra debba riferirsi al prossimo, che, comunque, sottende la carità di Dio e di Cristo verso gli uomini. Difatti, Paolo intende proporre al cristiano come modello di comportamento e di vita lo stesso agire di Dio in Cristo sotto l’egida dello Spirito. Come il modello è sempre anteriore alla sua realizzazione concreta, così la carità verso il prossimo scaturisce dalla carità di Dio verso gli uomini. Concetto ben evidenziato nella lettera agli Efesini: “Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi” ; a cui subito dopo aggiunge: “Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatto rivivere con Cristo” . Schema e concetto espressi quasi in tutte le sue lettere come un ritornello, per esprimere al meglio che l’uomo è conosciuto e amato da Dio in Cristo . Poiché tale conoscenza e amore appartengono al disegno di Dio rivelato in Cristo, è logico che l’avventura umana rientra da sempre nel mistero stesso di Dio, sia nella dimensione Trinitaria che dell’Incarnazione. E interpretando tale disegno Paolo associa continuamente la carità del Cristo alla carità del Padre, da cui ha origine a livello storico. Difatti il mistero di Dio si rivela e si manifesta in Cristo Gesù. La carità di Cristo allora dev’essere intesa sia come attività efficiente, in base alla sua caratteristica di unico Mediatore, ma anche come causa strumentale unica in virtù della sua libera azione redentiva, essendo il Redentore che ha voluto morire per noi. Nell’inno alla carità, Paolo si fa guidare dalla logica dell’amore divino: diffusione libera e responsabile. Nella lettera ai Corinzi, infatti, scrive: “l’amore di Cristo ci spinge al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti. Egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro” . In questo testo c’è tutta la forza dirompente dell’amore: amore richiama amore. All’amore di donazione e di schietta amicizia corrisponde come risposta la dinamica dell’amore imitativo, che spiega l’origine della santità partecipata agli amici di Cristo. In questo modo, l’inno alla carità cantato da Paolo sintetizza contemporaneamente, anche se in modo non sempre con uguale chiarezza, le due dimensioni della carità: quella verso Dio e verso Cristo come causa motiva e quella della carità verso il prossimo. L’amore verso il prossimo viene ancorato all’amore verso Dio in Cristo, che, in quanto stabile sicuro e immutabile, può alimentare nell’uomo la speranza di poter amare Dio, perché in Cristo è stato per primo amato da Lui , come viene esplicitamente dichiarato negli inni cristologici delle lettere agli Efesini e ai Colossesi . Ancoraggio necessario per evitare all’amore dell’uomo verso Dio e verso Cristo di cadere in balia della volubilità umana, e di conservare la via sicura verso il porto della salvezza. Nell’inno alla carità, Paolo, dando per scontato i riferimenti al disegno di Dio in Cristo, da cui fa scaturire la risposta morale e teologica dell’amore umano, parla direttamente dell’amore verso il prossimo come partecipazione dell’amore divino. Amore non solo individuale ma anche ecclesiale, perché il singolo mediante il dono dell’amore di Dio, abbondantemente riversato nel suo cuore, diventa o meglio viene costituito “fratello e membro” di tutti coloro che ricevono lo stesso dono, e, quindi parte integrante del “corpo di Cristo” e della sua crescita . Il fine dell’accrescimento del corpo di Cristo è quello di raggiungere la sua “pienezza” . Il mezzo di tale edificazione è certamente la pratica dell’amore del prossimo che i singoli membri attualizzano nella loro vita. L’anima di questo camminare nella carità è rappresentato dall’amore fraterno o del prossimo, come compimento della legge divina . A queste premesse di carattere generali, si può aggiungere anche un altro pensiero di Paolo, desunto dalla lettera agli Efesini, che aiuta ancor più a comprendere la proposizione dell’inno alla carità come modello esemplare di vita cristiana. Il modello è sempre l’amore di Dio manifestato in Cristo: “siate benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo. Fatevi imitatori di Dio… e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore” . E’ semplicemente meraviglioso e sublime insieme l’invito di Paolo a essere imitatori di Dio, attraverso l’imitazione di Cristo e l’esercizio della carità fraterna. E come l’amore di Cristo verso di noi è un atto di assoluta libertà, così l’amore verso il prossimo deve rivestirsi di tutte le caratteristiche personificate da Paolo nell’inno, che si presenta sempre con più evidenza segno e presenza dell’amore ineffabile di Dio in noi . L’esempio dell’amore di Cristo, quindi, costituisce contemporaneamente modello e stimolo di perfezione, cui ogni cristiano è chiamato a raggiungere , perché l’amore di Cristo è il frutto dell’amore di Dio. Viene così rispettata la scala prospettata dallo stesso Paolo quando ai Corinzi scrive: “tutto è dell’uomo, l’uomo è di Cristo e Cristo è di Dio” . La via ascendente riassume il cammino umano e cristiano verso la perfezione, e suppone la via discendente e primaria dell’amore di Dio in Cristo verso l’uomo, ossia all’amore di Dio in Cristo deve corrispondere l’amore del prossimo sul modello esemplare di Cristo. Dall’insieme di queste brevi caratteristiche generali intorno all’inno della carità di Paolo, si ricava a tutto tondo il così detto “primato della carità”, che compendia tutta la legge , ed esprime la partecipazione dell’amore di Dio in Cristo verso l’uomo. Il primato della carità su tutte le altre virtù deriva dal fatto che “non viene mai meno” , nel senso che speranza e fede cesseranno nella gloria, che è regno d’amore, perché in Cristo vedremo Dio così com’è, “a faccia a faccia” . Il primato della carità in Duns Scoto Nel contesto del primato della carità in Paolo, si colloca la questione da sempre dibattuta nel mondo cristiano circa il rapporto tra conoscere e volontà, tra sapienza e amore. Nel pensiero di Duns Scoto costituisce il cuore della sua dottrina in ordine alla relazione che l’uomo può raggiungere con Dio nella sua avventura esistenziale. Dando per scontato l’iter specifico della via Scoti, qui interessa soltanto evidenziare il valore e il significato dell’espressione “Paolo è il mio filosofo”! La questione nella quale viene usata l’espressione ha per titolo “se la beatitudine consiste essenzialmente nell’intelligenza” ed è riportata come auctoritas insieme a quella di Agostino . La risposta positiva alla questione, e cioè che la beatitudine consiste nella conoscenza di Dio, poggia sul testo rivelato di Giovanni e sull’autorità di Aristotele . La risposta di Duns Scoto, invece, afferma che la beatitudine consiste essenzialmente nella volontà o amore, e poggia la sua affermazione sull’autorità di Paolo e di Agostino a differenza dell’altra ipotesi che invece poggiava l’argomento di ragione sul Filosofo. Il termine auctoritas nel medio evo ha consolidato nella sua lunga evoluzione semantica il significato di designare sia la persona che il testo come garanzia di autenticità a quello che si dice o scrive. In questo senso anche gli autori classici vengono utilizzati come auctoritates nella loro materia. Così per es., Aristotele è citato come il Filosofo che esprime la pura razionalità dell’uomo senza alcun ricorso alla fede, per cui la sua “autorità” in campo razionale è massima. L’incontro, però, tra mondo pagano e mondo cristiano pone dei problemi fondamentali circa l’interpretazione dei concetti di Dio, mondo, uomo, natura, ragione, fine ultimo…, perché il cristianesimo ha alle spalle l’autorità della Scrittura che rivela alcune idee essenziali, che la ragione umana da sola non può raggiungere pienamente, come la storia del pensiero documenta, anche dopo la fase aurea del periodo medievale. Fondamentali per questo riferimento sono i concetti di “Dio creatore”, di “peccato originale”, di “necessità della grazia per raggiungere il fine ultimo”, che appartengono all’ambito della fede, dando vita a due interpretazioni antropologiche essenzialmente diverse: quella che, ritenendo perfetta la natura umana, nega o rifiuta l’ordine soprannaturale; l’altra che riconosce la debolezza della natura e la necessità della perfezione soprannaturale. Una qualunque lettura cristiana dei problemi esistenziali fondamentali non può prescindere dal riferimento al dato biblico rivelato. Per alcuni pensatori cristiani il riferimento è di natura morale, per altri è di necessità ontologica, nel senso che i primi pensano che tali problemi appartengono all’ordine razionale dell’uomo, mentre per i secondi all’ordine della fede. Problema sempre aperto e mai chiuso nella storia del pensiero. Duns Scoto è il capostipite di questa seconda interpretazione che pensa i così detti “preamboli della fede” – dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio, dell’anima, della libertà, del diritto naturale, del fine ultimo… – come appartenenti all’ambito della fede e non a quello della ragione. Nel suo pensiero, pertanto, si trova la distinzione della natura umana in “storica o elevata” e “pura o astratta”, a seconda se considerata in ordine al peccato originale o meno, e, quindi, in ordine anche alla grazia per raggiungere il fine ultimo o beatitudine. Pertanto, Duns Scoto afferma che l’uomo non può né conoscere né amare la beatitudine, senza l’aiuto necessario della grazia, che è un dono soprannaturale. La necessità della grazia riguarda sia l’ambito conoscitivo che quello volitivo. Il Maestro francescano, infatti, ritiene che la beatitudine, come partecipazione alla vita del Sommo Bene, implica necessariamente l’elevazione delle due potenze dell’uomo,intelligenza e volontà, con le quali si raggiunge e si gode il Bene Infinito. A riprova della sua interpretazione cita il testo conclusivo dell’inno alla carità di Paolo: “la virtù più grande è la carità”. Conclusione Al termine di questo semplicissimo riferimento di Autori così lontani nel tempo ma così vicini nel pensiero, piace segnalare che tecnicamente la stessa problematica è presente anche in Paolo, specialmente quando considera la “conoscenza di Dio” come “frutto dell’amore”. L’espressione “conoscenza di Dio” ha valore più oggettivo che soggettivo, riguarda cioè il modo come Dio si conosce e si ama in Cristo. Quanta più profonda è tale conoscenza di Dio e di Cristo, tanto più sicuro è lo stimolo a ricambiare tale amore. Perché l’uomo possa conoscere e amare Dio e Cristo in questa dimensione divina è necessario che sia elevato all’ordine soprannaturale con il dono della grazia. Conoscere la conoscenza che Dio in Cristo ha dell’uomo significa conoscere tutti i gradi del disegno divino che Paolo descrive nella lettera agli Efesini: in Cristo ci ha benedetti, ci ha scelti e ci ha predestinati a essere figli adottivi di Dio, ci ha amati da sempre. Conoscere questo amore di Dio e di Cristo è sinonimo di beatitudine, che si realizza alla perfezione solo in cielo nella gloria, dove si conosce come si è conosciuti e si ama come si è amati. Così, tutto viene ricapitolato in Cristo, e la sua carità sorpassa ogni conoscenza. Questo, uno spaccato della vicinanza essenziale tra Duns Scoto e Paolo, rivelatore dell’amore di Cristo, fondamento e perfezione di tutto.

Publié dans:TEOLOGIA, teologia - cristologia |on 3 novembre, 2009 |Pas de commentaires »

Sal 131 : Custodiscimi, Signore, nella pace.

Sal 131 : Custodiscimi, Signore, nella pace.  dans A. UN PENSIERO DAI SALMI...PRIMA DELLA NOTTE bewhy6

http://www.blogmilano.it/blog/tag/bambini/

Sal 131 (messa del giorno del 3 novembre 2009)
 
 Custodiscimi, Signore, nella pace.

Signore, non si esalta il mio cuore
né i miei occhi guardano in alto;
non vado cercando cose grandi
né meraviglie più alte di me.

Io invece resto quieto e sereno:
come un bimbo svezzato in braccio a sua madre,
come un bimbo svezzato è in me l’anima mia.

Israele attenda il Signore,
da ora e per sempre.

Omelia (06-11-2007) per il giorno 3 novembre 2009

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/Detailed/20091103.shtml

Omelia (06-11-2007)  per il giorno 3 novembre 2009
Eremo San Biagio

Dalla Parola del giorno
Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili.

Come vivere questa Parola?
Per comprendere rettamente la portata di questo versetto è necessario inserirlo nel contesto più ampio, presentatoci dalla liturgia odierna.
Paolo sta parlando della realtà cristiana colta nella sua compagine di ‘corpo di Cristo’. Le diversità di doni e di carismi vengono viste positivamente quali elementi funzionali al benessere dell’intera comunità. Ma il tutto deve essere coordinato dal principio supremo della carità.
Anche l’esortazione a non aspirare a cose troppo alte e a piegarsi a quelle umili, acquista il suo pieno significato in questa luce. L’accento non cade primariamente e principalmente sulla virtù dell’umiltà intesa individualisticamente come un retto sentire di se stessi un ‘fare la verità’ su quello che realmente siamo, bensì sulla sua dimensione comunitaria.
La tendenza a primeggiare a sopraffare l’altro con lo sfoggio delle proprie qualità e competenze mina in radice i rapporti e sfocia in un uso egoistico di quei beni che ci sono stati dati per l’edificazione della comunità umana all’insegna dell’amore, e quindi del dono, reciproco.
L’unica aspirazione che deve essere costantemente alimentata è proprio quella di ‘servire l’unità’, di favorire la comunione. E la via è quella additataci da Gesù con il suo esempio, lui che, « pur essendo di natura divina, [...] spogliò se stesso, [...] umiliò se stesso » per farsi nostro fratello, compagno nel cammino della vita.

Oggi, nella mia pausa contemplativa, chiederò allo Spirito che faccia luce in me, perché io possa assumere i suoi doni mettendoli a servizio della comunione fraterna.

Concedimi, Signore, di non privatizzare i tuoi doni, ma a prendere coscienza che ne sono solo amministratore per il bene comune.

La voce di un biblista
L’umiltà perfetta consiste nel farsi piccoli e nel farsi piccoli, non per qualche necessità o utilità personale, ma per amore, per ‘innalzare’ gli altri!
Raniero Cantalamessa 

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 3 novembre, 2009 |Pas de commentaires »

Baldovino di Ford: « Beato chi mangerà il pane nel Regno di Dio »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20091103

Martedì della XXXI settimana del Tempo Ordinario : Lc 14,15-24
Meditazione del giorno
Baldovino di Ford ( ?-circa 1190), abate cistercense
Sul sacramento dell’altare : PL 204, 691 (trad. Ora dell’Ascolto)

« Beato chi mangerà il pane nel Regno di Dio »

      Il salmista dice: « Il vino allieta il cuore dell’uomo e il pane sostiene il suo vigore » (Sal 103,15). Per quanti credono in lui, il Cristo è cibo e bevanda, pane e vino; è cibo e pane perché irrobustisce e consolida secondo la parola di Pietro: « E il Dio di ogni grazia, il quale vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo, egli stesso vi ristabilirà, dopo una breve sofferenza, vi confermerà e vi renderà forti e saldi » (1 Pt 5,10). È bevanda e vino perché rende lieti, secondo la parola del profeta: « Rallegra la vita del tuo servo, perché a te, Signore, innalzo l’anima mia » (Sal 85,4).

      Quanto vi è in noi di forte, valido e costante, la gioconda letizia con cui osserviamo i comandamenti di Dio, sopportiamo le sofferenze, obbediamo e lottiamo per la giustizia: tanta forza e tanto coraggio ci vengono da quel pane, la gioia da quella bevanda. Beati coloro che agiscono con fortezza e gioia! E poiché nessuno può farlo con le sue sole forze, beati coloro che bramano ardentemente ciò che è giusto e onesto, e di essere in tutto confortati e allietati da colui che dice: « Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia » (Mt 5,6). Che se Cristo è pane e bevanda che fortifica e allieta i giusti nella vita presente, quanto più sarà nel futuro la fonte della loro beatitudine eterna!

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