Archive pour novembre, 2009

Omelia , prima lettura, per il giorno venerdì 6 novembre 2009

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/16573.html

Omelia (06-11-2009) 
Eremo San Biagio

Dalla Parola del giorno
« Mi è stata data da parte di Dio la grazia per essere ministro di Cristo Gesù tra le genti, adempiendo il sacro ministero di annunciare il vangelo di Dio perché le genti divengano un’offerta gradita, santificata dallo Spirito Santo. »

Come vivere questa Parola?
Paolo parla della sua missione apostolica assimilandola alla funzione cultuale. In effetti la Chiesa, come già l’antico Israele è un popolo consacrato al culto di Dio: è un popolo sacerdotale. Annunciare il vangelo, quindi, non è trasmettere una dottrina morale, limitarsi ad indicare un comportamento etico rispettoso delle norme, bensì abilitare a rendere grazie a Dio, a celebrare la liturgia della vita. Ovviamente ciò comporta una conoscenza sempre più intima e approfondita di Colui di cui si celebrano le lodi, e l’assunzione di uno stile di vita improntato all’oblazione di sé. S. Paolo stesso, nel delineare il programma di vita dei credenti si era introdotto con l’esortazione ad offrire se stessi quale sacrificio vivente, santo e gradito a Dio, puntualizzando che: « è questo il vostro culto spirituale » (12,1). Solo dopo, quasi ad esplicitare le modalità di questo culto, era sceso a delucidazioni pratiche: non conformatevi alla mentalità di questo tempo, abilitatevi a discernere la volontà di Dio, siate benevoli verso tutti.
Non è il conseguimento di una giustizia intesa come semplice conformità alla norma, la meta del vivere cristiano, ma il divenire un’offerta gradita a Dio, sull’esempio di Gesù che, « entrando nel mondo dice: Tu non hai gradito né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato […]. Allora ho detto:Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà » (Eb 10,5-7).

Nel mio rientro al cuore, sosterò oggi a considerare l’impegno, legato al mio battesimo, di annunciare il vangelo perché la lode di Dio si estenda su tutta la terra.

Rendimi, Signore, una lode vivente, un rendimento di grazie esteso ad abbracciare ogni istante della mia vita.

La voce di un poeta
O sommo poeta, mi sono seduto ai tuoi piedi. Voglio rendere semplice e schietta tutta la mia vita, come un flauto di canna che tu possa riempire di musica.
Rabindranath Tagore 

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Santa Teresa del Bambin Gesù: Il buon uso del denaro

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20091106

Venerdì della XXXI settimana del Tempo Ordinario : Lc 16,1-8
Meditazione del giorno
Santa Teresa del Bambin Gesù (1873-1897), carmelitana, dottore della Chiesa
Scritto autobiografico B, 4r°

Il buon uso del denaro

Gesù, lo so bene, l’amore si paga soltanto con l’amore, perciò ho cercato, ho trovato sollievo rendendoti amore per amore. «Usate le ricchezze che rendono ingiusti, per farvi degli amici i quali vi ricevano nei tabernacoli eterni» (Lc 16,9). Ecco, Signore, il consiglio che tu dai ai tuoi discepoli dopo aver detto loro che «i figli delle tenebre sono più abili nelle loro faccende che i figli della luce». Figlia della luce, ho capito che i miei desideri di esser tutto, di far mie tutte le vocazioni, sono ricchezze che potrebbero rendermi ingiusta, allora le ho usate per farmi degli amici. Ricordando la preghiera di Eliseo al padre suo Elia quando osò chiedergli « il suo duplice spirito » (2 R 2,9), mi sono presentata dinanzi agli angeli e ai santi, e ho detto loro: «Sono la creatura più piccola, conosco la mia miseria e la mia debolezza, ma so anche quanto piaccia ai cuori nobili, generosi, far del bene, perciò, vi supplico, Beati abitanti del Cielo, vi supplico di adottarmi come figlia; tutta vostra sarà la gloria che mi farete acquistare, ma degnatevi di esaudire la mia preghiera, è temeraria, lo so, tuttavia oso chiedervi di ottenermi il vostro duplice amore. »

PAOLO TRA RELATIVISMO E FONDAMENTALISMO

questo è quanto ho trovato, probabilmente non è tutto, ma vale la pena ugualmente di leggere quanto scritto; io sono passata dal PDF al testo, c’è qualche differenza nell’impostazione grafica, se volete potete leggere dall’originale, naturalmente, dal sito:

http://www.paoline.it/upload/immagini/farfa_relazione_virgili.pdf

Atti del Convegno
PAOLO TRA RELATIVISMO E FONDAMENTALISMO
Figlie di S. Paolo • Provincia italiana • Farfa (RI), 9-13 luglio 2008

ROSANNA VIRGILI

Premesso che i termini “fondamentalismo” e “relativismo” sono moderni e designano, pertanto, delle realtà e delle forme di pensiero che assumono contenuti distanti dalla cultura del tempo di Paolo, ciò non di meno essi possono essere ritrovati nel mondo paolino, sotto forma di atteggiamenti riconducibili all’idea che oggi ne abbiamo. Essi rappresentano due forme di pensiero, ambedue estreme, benché affatto diverse, se non addirittura contrapposte tra loro. Mentre per fondamentalismo si intende un attaccamento alla “lettera” delle Scritture e, in senso più largo, l’illegittimità del concorso della ragione per interpretarle e incarnarle nell’attualità, il relativismo designa lo scetticismo verso tutto ciò che è frutto di una Rivelazione calata dal cielo, poiché – al contrario – ogni conoscenza può e deve passare attraverso la ragione dell’uomo. Quando Paolo parla del Cristo crocifisso e lo definisce “scandalo per i Giudei e follia per i pagani”(1Cor 1,23), denuncia l’incapacità di una visione obiettiva della Croce. Tale incapacità era frutto, in ambedue i casi – quindi non soltanto per quanto riguardava i pagani che erano privi di una Rivelazione, ma anche per coloro che la possedevano – di un pensiero unilaterale, miope e comunque soltanto umano, privo di quell’intelligenza che sorge negli occhi e nella mente dell’uomo, quando questi si incrociano e si allargano sul punto di vista di Dio, nel frutto di una Sapienza che sempre si rinnova nella curiositas, ma anche nella visione dello Spirito e nell’ansia dell’Amore. I punti fondamentali che segneranno le tappe della nostro percorso di riflessione sul pensiero e sul messaggio di Paolo saranno, dunque, i seguenti:
1.
Sapienza e follia, forza e debolezza: il linguaggio nuovo e ‘rovesciato’ di Paolo per spiegare il Vangelo (1Cor 1,17-3,23). Paolo e il suo rapporto dialogico e dialettico con la sapienza umana.
2.
I limiti di una conoscenza a immagine dell’uomo, che si rifrange su quell’immagine ed è incapace di vedere oltre l’orizzonte del suo specchio (Rm 1,18-32).
3.
La legge del cuore e la testimonianza della coscienza: una via d’uscita dal vicolo cieco del relativismo (Rm 2,1-15).
4.
Paolo e la concezione del corpo come luogo di relazione, oltre il relativismo (“tutto mi è lecito!”) e il fondamentalismo etici (un corpo chiuso e da non contaminare) (1Cor 6,12-20; 10,23-33).
5.
“Mi son fatto tutto a tutti, per salvare a tutti i costi qualcuno”. “Non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo nè donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”. Paolo e i suoi sconfinamenti per amore del Vangelo e l’insensatezza di ogni fondamentalismo (1Cor 9,19-23; Gal 3,26-29).

Introduzione

Chiamare Paolo a interpretare la temperie culturale in cui vive oggi l’Occidente, specialmente in ciò che si riflette nell’esperienza della Chiesa cattolica, non è affatto peregrino. Se pure in fenomeni e formulazioni diverse, la cultura degli anni in cui Paolo scrisse, si presentava in molti aspetti simile alla nostra. Il clima culturale del nostro tempo può essere definito in uno schema polare che va dal fondamentalismo al relativismo. Queste due parole hanno, tuttavia, una estensione semantica affatto particolare che si rivolge a situazioni e ambiti molto diversi. Il fondamentalismo è un fenomeno molto specifico che riguarda il modo di leggere i testi sacri: esso pretende un’accoglienza cieca della forma della lettera biblica, che non può essere mutata, né interpretata, ma solo recepita così com’è. Storicamente il fondamentalismo nasce nell’Ottocento in contrapposizione al razionalismo con cui venivano lette e interpretate le Scritture, specialmente quelle del Nuovo Testamento, di cui denunciava l’illegittimità; il fondamentalismo, infatti, non ammette che la Bibbia sia oggetto di un esame critico – condotto al lume della ragione – poiché teme che ciò possa compromettere la sacralità della stessa Scrittura e porre in dubbio la sua matrice divina e ispirata. Pertanto il fondamentalismo irrigidisce la Scrittura nella sua forma letteraria e – ahimé! – storica, non permettendole di essere interpretata né attualizzata nel tempo presente. La stessa cosa che custodire un cadavere, piuttosto che far risorgere ogni volta un corpo morto! Il relativismo è, invece, una complessa corrente di pensiero che abbraccia un vasto campo filosofico e culturale. Esso si radica, innanzitutto, nella concezione della preminenza della ragione umana, considerata come lo strumento con cui l’uomo può conoscere e giudicare ogni cosa, anche Dio stesso.
Da qui l’aggettivo “relativo” che indica che ogni cosa è relativa al modo in cui l’uomo può conoscerla; se questo modo è la ragione, allora la conoscenza e la definizione stessa degli “oggetti”, dipendono dalla ragione. A questo punto scatta, però, la domanda su cosa sia o cosa si debba intendere per ragione e di quali elementi essa si costituisca o di quali contenuti si componga. Si perviene, così ad ammettere che la ragione non sia universale – come la pensava Kant o Cartesio prima di lui – ma che possa configurarsi in maniera diversa a seconda delle basi su cui si radica. Da questa concezione di ragione nasce, allora, il relativismo, che indica una certa soggettività di riferimento per la conoscenza. La ragione, insomma, non è solo formale e quello formale non è solo un metodo (la logica), ma è anche il criterio del giudizio sulla realtà. In questo modo la intende Benedetto XVI quando, proprio difendendo l’uso della ragione, la radica nel logos che è Gesù Cristo, nella concezione cristiana; mentre definisce relativismo un uso della ragione che rifiuta ogni altro criterio di conoscenza oggettiva, se non se stessa.
Il relativismo, dunque, non definisce tanto un criterio esegetico, quanto una prospettiva di pensiero che coinvolge l’intero ambito della conoscenza e quindi la stessa visione del mondo e della società. Il Papa taccia di relativismo la cultura occidentale contemporanea accusandola di avere come unico criterio di riferimento l’uomo e la sua autonomia in ogni campo, da quello scientifico a quello tecnico, da quello etico a quello politico. Di qui emerge un’immagine dell’uomo occidentale monca e negativa: individualista, egoista, edonista e senza limiti. Il relativismo è il clima culturale in cui Dio è tagliato fuori. In relazione alle scritture – che è l’ambito del nostro interesse – il relativismo designa più specificamente lo scetticismo verso tutto ciò che fosse frutto di una Rivelazione calata dal cielo, poiché non spiegabile, né raggiungibile attraverso la ragione dell’uomo. In che modo queste due prospettive culturali – fondamentalismo e relativismo – possono essere accostate e paragonate all’universo paolino, alla realtà delle sue comunità e a quanto emerge dai suoi scritti epistolari? In altre parole: quale aiuto, quali suggerimenti possiamo ricavare dall’esperienza della chiesa nascente che Paolo attesta nelle sue Lettere, che possano illuminarci e sostenerci nella nostra situazione attuale?

I. Paolo e la sua battaglia contro il fondamentalismo giudaico

Paolo ebbe a che fare con il fondamentalismo nel suo difficile rapporto con il Giudaismo su due livelli: quello esegetico e quello etico.
Occupiamoci, innanzitutto, del primo: quello dell’esegesi scritturale. Una custodia sacrale e letterale della Legge non permetteva alcuna interpretazione e rilettura che la potesse attualizzare e Paolo combatte con forza contro questa forma giudaica di fondamentalismo. Le sue lettere sono farcite di citazioni bibliche, basti pensare che nella sola lettera ai Romani si trovano ben 58 citazioni dirette dal Primo Testamento (da Isaia, Genesi, Deuteronomio, Osea, Levitico, Proverbi, ecc.), per non parlare di quelle indirette che non è facile quantificare, essendo più fluttuanti. Sul modo di utilizzare le Scritture ebraiche illuminante è quanto dice Antonio Pitta: “Spesso egli compie appropriazioni che possiamo definire indebite, a causa dell’orizzonte evangelico che gli sta principalmente a cuore. Di fatto non si riferisce mai all’AT per semplice erudizione estetica, ma sempre per dimostrare la consistenza del proprio vangelo che trova in Cristo e nell’azione salvifica di Dio il suo punto di arrivo” (Lettera ai Romani, 29).
Non solo l’Apostolo non fossilizza la parola biblica, ma la scava nel suo futuro escatologico che la venuta di Gesù, nell’attualità del suo tempo, ne procura. L’interpretazione attualizzante delle Scritture ebraiche genera, nell’esegesi paolina, perfino dei mutamenti di significato nelle pagine dell’AT. Per un esempio illuminante si consideri il lungo discorso che Paolo fa su Abramo, la sua stirpe, le sue due mogli e le due relative Alleanze, nella Lettera ai Galati (cfr. Gal 3-4).
In ciò Paolo mostra una straordinaria modernità, ma anche la continuità con un metodo di redazione biblica già presente nell’AT. L’uso che Paolo fa della legge e dei profeti rende la Scrittura viva, duttile, attuale, incarnata, capace di dilatare i confini di una lettera morta.
Lo scardinamento del fondamentalismo biblico trova ragioni e sviluppi nello scardinamento del fondamentalismo etnico, politico, sociale, etico, sessuale, religioso, a favore di un messaggio di salvezza universale: Ef 2,11-18: “Ora, invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete divenuti i vicini grazie al sangue di Cristo” 1Cor 9,19-23: “Mi son fatto tutto a tutti, per salvare a tutti i costi qualcuno”. Gal 3,26-29: “Non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. E se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa”.
Paolo manipola la parola (antica e nuova) perché lo accompagni nei suoi sconfinamenti per amore del Vangelo e dimostra, così, l’insensatezza di ogni fondamentalismo.

II. Paolo e la sua battaglia contro la sapienza (relativa alla ragione) della cultura di matrice greca

a. Parola in relazione
Un altro aspetto fondamentale della scrittura di Paolo è il grande impatto con la sapienza greca, anima della cultura del suo tempo e dell’area in cui egli orbitava. La Prima Lettera ai Corinzi ne è una espressione diretta e immediata. La ricchissima (definita: aphneios “opulenta”) e cosmopolita città greca di Corinto era un luogo di alto spessore culturale, pur costituendo – con i suoi due porti – uno dei maggiori centri commerciali dell’epoca. Nonostante quanto scrive Paolo che: “Non ci sono molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili” (1Cor 1,26), le comunità cristiane erano spesso frequentate da persone altolocate e facoltose le quali mettevano a disposizione le loro case per le riunioni comunitarie. Le signore godevano di una certa libertà (cfr. 1Cor 11,2-16) e dilagavano le dottrine filosofiche, specialmente la gnosi. A questa sapienza, corroborata dalla profusione dei carismi, corrispondeva, purtroppo, una profusione di schismata (“divisioni”) nella Chiesa (1Cor 1,10-16). A ciò Paolo contrappone una sapienza rovesciata, folle, debole: la sapienza del Vangelo. E lo fa assumendo il vocabolario della sapienza “del mondo”, ragionando con le sue stesse categorie, per rivelare sì il paradosso, ma anche la ragionevolezza ultima, la forza effettiva della sapienza della Croce. Il suo rapporto con la sapienza razionale del mondo ellenizzato è dialogico e dialettico, allo stesso tempo (cfr. 1Cor 1,17-3,23). In questo linguaggio “razionale” di Paolo rinveniamo ancora il suo rifiuto del fondamentalismo e inoltre il rifiuto di uno spiritualismo vuoto e inutile (cfr. 1Cor 14,1-4 sul carisma della glossolalia). Ciò non toglie che la sua parola fosse quella della fede, esperienza in cui lievita una sapienza capace di dialogare con la ragione umana e nei termini della ragione umana, e anche di aprire visioni e conoscenze ulteriori: Ë la parola della profezia cristiana. Essa è parola in relazione: edifica l’uomo che la pratica, edifica la comunità dei credenti, Ë autentica testimonianza verso la comunità universale.
b.
I limiti alla conoscenza razionale
Paolo opera una critica serrata alla sapienza dei sapienti (sophia): la loro conoscenza è limitata, in quanto è frutto della proiezione che l’uomo fa di se stesso nel mondo, tanto da non riuscire a vedervi che la sua stessa immagine. Finisce, così, che l’uomo non riesca a vedere che se stesso, amplificando la sua presenza nel mondo senza accorgersi che il creato è, invece, frutto, evidenza (doxa) di un Creatore. Una conoscenza siffatta diventa vittima di se stessa e puù essere quindi considerata una forma di relativismo. Il relativismo è, dunque, nella riflessione paolina, un vicolo cieco in cui l’uomo si caccia da solo e dal quale poi non riesce più ad uscire (cfr. Rm 1,18-32).
c.
La testimonianza della coscienza
Paolo, infine, affronta un problema anch’esso di grande attualità, ovviamente mutatis mutandis. Come è possibile che credenti e non credenti possano avere un punto con il quale e sul quale sia possibile un effettivo dialogo, visto che gli uni partono dal presupposto della Rivelazione e gli altri da quello della sola ragione? Questo è forse lo scoglio più grande nel dibattito tra cattolici e laici nel momento presente. A questa distanza che sembra incolmabile e che è concausa del relativismo, il Papa Benedetto XVI ha risposto nei seguenti termini: “Se però la ragione – sollecita della sua presunta purezza – diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita” (Discorso preparato per l’Inaugurazione dell’Anno Accademico dell’Università la Sapienza di Roma, 17 Gennaio 2008). La tesi del Papa è che la ragione trovi le sue radici nella fede, e senza la fede la ragione stessa si scompone e si frantuma. Pertanto i laici debbono attingere alla fede – e quindi alla Rivelazione che la veicola – per poter ricostituire una ragione che sia integra e capace di verità. Paolo interviene su una questione affatto simile a questa, in un modo un po’ diverso e trova, invece, un punto comune tra coloro che hanno il dono di una Rivelazione – dove è descritto il volto di Dio – e coloro che non hanno (o non accettano) un Rivelazione e utilizzano, pertanto, la sola ragione per conseguire la conoscenza che li porta a negare la presenza di Dio. Questo punto comune è la coscienza (suneidesis): siccome ogni uomo possiede la coscienza essa stessa gli sarà giudice dell’autenticità della conoscenza cui ciascuno – per vie diverse – perviene, sia il credente, sia il “sapiente” (Rm 2,12-15).

Conclusione

Oltre il relativismo di una sapienza auto-referenziale e il fondamentalismo di una parola chiusa in se stessa, Paolo propone una stupenda metafora: quella del corpo come luogo di relazione. Esso supera il relativismo etico di chi dice “tutto mi è lecito” e anche il fondamentalismo legalistico che condanna a morte l’uomo in nome della legge (cfr. 1Cor 6,12-20; 10,23-33). Paolo scardina la lettura giudaica della stessa Torah, che fondava sulla “lettera” la salvezza esclusiva dei figli di Abramo in virtù della loro circoncisione e soprattutto la salvezza che derivava dall’osservanza dei precetti stabiliti nella Legge di Mosè. Portando un’interpretazione attuale ed illuminata della Legge di Israele, Paolo apre a tutti, Giudei e Gentili, la porta della salvezza che viene da Dio, attraverso la giustificazione ottenuta per mezzo della fede nella Grazia del Cristo. Questo atto coraggioso di Paolo liberava la religione dei padri e la stessa Scrittura – in cui quella era custodita – dalla deriva dell’irrigidimento “fondamentalista” che avrebbe escluso dall’economia della Grazia la maggior parte dell’umanit‡. La luce che possiamo trovare in questo fondamentale intervento di Paolo è grandissima e preziosa per l’oggi: ci mette in guardia dal ricadere nella tentazione antica di irrigidire le scritture – ora anche quelle cristiane! – non solo assolutizzandone il contenuto letterale e affatto storicizzato, ma soprattutto trasformandole in codici religiosi, normativi ed etici con cui “giudicare” ogni uomo, più per la condanna che per la salvezza…! La Scrittura non deve mai perdere la sua anima: quella di essere una Parola di gioia, di giustizia, di libertà, di carità, di pace verso tutti, quanto corrisponde al suo essere “Vangelo”: la buona notizia della Vita. Su come affrontare, poi, un dialogo con il pensiero moderno Paolo può essere lo stesso di grande aiuto. Egli fu molto critico nei confronti della cultura greca che vedeva l’uomo celebrare ed assolutizzare se stesso, fino ad auto-celebrarsi come un dio, diventando un idolatra della creatura/e (cfr. Rm 1,18-23). Il modo in cui Paolo discuteva coi sapienti del mondo antico non era regolato, tuttavia, su una sorta di scomunica intellettuale fatta a priori, ma su un autentico ed umile confronto condotto in termini e metodi razionali, cioè gli stessi usati dai suoi interlocutori. Paolo mostra di non disprezzare affatto il pensiero greco, al contrario di averne profonda stima, tanto da assumerne il linguaggio e i postulati per poi utilizzarli come canali di dialogo e di traduzione di un Vangelo – il suo! – che egli voleva introdurre con argomenti plausibili e persuasivi. Paolo invita i sophoi a considerare anche i risultati, gli effetti tangibili del loro pensiero sulla società ed i suoi costumi, sullo stile di vita che essi stessi ispiravano e a farne una lettura onesta e disincantata (cfr. Rm 1,24-32). Un atteggiamento che invita i cristiani di oggi a non isolarsi dalla realtà culturale in cui si trovano a vivere, piuttosto a rispettarla e conoscerla a fondo per poterne essere autentici e credibili interlocutori. Per poterne esserne lievito profetico, spinta verso benefici superamenti e intuizioni di migliori orizzonti.

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BIBLIOGRAFIA
Barbaglio G., Gesù di Nazaret e Paolo di Tarso, Dehoniane, Bologna 2008.
Benedetto XVI, Paolo, l’Apostolo delle genti, Libreria Editrice Vaticana San Paolo, 2008.
Destro A., M. Pesce, Le forme culturali del cristianesimo nascente (Scienze umane, 2), Morcelliana, Brescia 2006.
Fabris R., Prima Lettera ai Corinti. Nuova versione, introduzione e commento, Paoline, Milano 1999.
Fitzmeyer J.A., Lettera ai Romani, Piemme, Casale Monferrato 1999.
Fitzmeyer J.A, Paolo, Queriniana, Brescia 2008.
Murphy-O’Connor J., Vita di Paolo, Paideia, Brescia 2003.
Manzi F., Paolo Apostolo del Risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo 2008.
Pitta A., Lettera ai Romani, Paoline, Milano 2001.
Wright N.T., L’Apostolo Paolo, Claudiana, Torino 2008.
Wright N.T., Che cosa ha veramente detto Paolo, Claudiana, Torino, 1999
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Publié dans:Paolo - oggi, Paolo - temi attuali |on 5 novembre, 2009 |Pas de commentaires »

Il Prigioniero del Signore – dell’Arcivescovo Metropolita dell’Aquila

ancora una presentazione di Paolo, dall’Arcivescovo di una Diocesi, io non mi stanco mai di leggere queste presentazioni proposte dai Pastori delle nostre Diocesi, si coglie in esse, nella loro diversità, nell’unità dell’amore per Paolo, la grande ricchezza dell’Apostolo e della nostra Chiesa, dal sito:

http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it/cci_new/documenti_diocesi/96/2008-07/11-167/Il%20prigioniero%20del%20Signore%20(S.%20Paolo).pdf

Il Prigioniero del Signore 

di Giuseppe Molinari

Arcivescovo Metropolita dell’Aquila

(11 luglio 2008, data presa dall’indirizzo web)

Introduzione
 

Queste brevi riflessioni (fatte soprattutto di citazioni degli Atti degli Apostoli e delle Lettere di S. Paolo) solo dei piccoli squarci sulla straordinaria avventura umana e cristiana di colui che qualcuno ha chiamato il secondo fondatore del Cristianesimo (W. Wrede). Sono anche un invito a riprendere in mano gli Atti degli Apostoli e le Lettere di S. Paolo per entrare sempre di più nel mistero di quest’uomo che ha consegnato tutto se stesso al Signore Gesù Cristo. Fino a diventare “prigioniero del Signore”, come egli stesso si autodefinisce nella lettera ai cristiani di Efeso (Ef, 4,1). S. Bernardino da Siena (il cui corpo riposa nell’omonima Basilica della città dell’Aquila) ha scritto: “Quando la bocca di Paolo predicava ai popoli, come per il fragore di un gran tuono, o per l’avvampare irruente di un incendio o per il sorgere luminoso del sole, l’infedeltà era distrutta, la falsità periva, la verità splendeva, come cera liquefatta dalle fiamme di un fuoco veemente”. Possa l’Anno Paolino (28 giugno 2008-29 giugno 2009) far rinascere in ognuno di noi il desiderio di conoscere sempre meglio l’Apostolo Paolo, per imitarlo, per sentirlo vivo in mezzo a noi, come modello e guida per il cammino della nostra santificazione e per inventare gli itinerari più efficaci per la nuova evangelizzazione. 

+ Giuseppe Molinari

Arcivescovo Metropolita dell’Aquila

1. Il persecutore  

La prima notizia su Paolo nel Nuovo Testamento, la troviamo dopo il racconto della lapidazione di Stefano, il primo martire. Si dice che “i testimoni deposero i loro mantelli ai piedi di un giovane chiamato Saulo” (Atti 7,58). Successivamente si precisa che “Saulo era tra coloro che approvavano l’uccisone (di Stefano)” (Atti 8,1). Così all’inizio della sua storia Paolo viene presentato come il “persecutore”. Saulo (questo il nome con cui Paolo era conosciuto in mezzo agli Ebrei) è uno che ha perseguitato i cristiani. Lo confesserà egli stesso: “Ultimo fra tutti (Gesù) apparve anche a me come ad un aborto. Io infatti sono l’infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa” (1 Cor. 15,9).

Penso al mondo di oggi.

Penso alla gente di oggi.

Papa Benedetto XVI denuncia in modo vigoroso la dittatura del relativismo: non esistono più verità assolute, ogni uomo si crea la sua verità. e la conclusione è che aumentano gli uomini e le donne che non hanno una fede. Dilaga il relativismo e insieme l’indifferentismo. La fede non interessa più, Dio non interessa più; nasce quasi il rimpianto per i tempi in cui esistevano i cosiddetti “nemici della fede”. In verità ci sono ancora, e ci sono pure i persecutori. Ma sembra crescere in modo pauroso il numero di coloro che non si interrogano più sui problemi fondamentali dell’uomo. Sembra non esistano più coloro che combattano Dio e i cristiani, perché l’indifferenza ha bruciato nel cuore di tutti le domande più importanti. Saulo non era un indifferente. Credeva nel Dio d’Israele, nel Dio dei patriarchi e dei profeti. Nel Dio che aveva creato il cielo e la terra. e si era riservato un popolo, il popolo d’Israele, perché annunciasse le sue meraviglie tra le genti. Perché questo piccolo popolo ricordasse agli uomini di tutta la terra chi era il vero Dio. Racconta sempre il libro degli Atti degli Apostoli: “Saulo, frattanto, sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al Sommo Sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne, seguaci della dottrina di Cristo, che avesse trovati” (Atti 9,1-2). Saulo non è un uomo sanguinario, un sadico che gode di vedere i cristiani in galera. E’ un adoratore del vero Dio, il Dio d’Israele, quel Dio che non sopporta idoli. Come recita l’antica preghiera: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore Tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt. 6,4). Saulo, da perfetto israelita, viveva questa fede. Sapeva che il suo Dio era un Dio geloso, che non sopportava dai suoi adoratori altri amori verso altri dei, verso forme non autentiche di religiosità. E i discepoli di Gesù di Nazareth apparivano agli occhi di questo zelante ebreo come una pericolosa setta, che si allontanava dalla religione dei padri. Io credo che la disgrazia più grande dei nostri tempi è la schiera enorme di coloro che non credono più a nulla, non combattono più nessuna battaglia, non sono più capaci di opporsi a Dio, perché Dio per loro, è una parola vuota. Saulo non apparteneva a questa massa amorfa e triste. Egli credeva, amava, adorava il Dio d’Israele. E la sua fede ardente lo portava ad essere persecutore dei cristiani, gli “eretici”. Era un “fondamentalista”. Ma guai a chi non crede più a nulla, non lotta più per nessun ideale, si arrende alla cultura dell’indifferenza che regna nel mondo. Nell’Apocalisse c’è un giudizio terribile per chi è tiepido ed indifferente, per chi non sa decidersi: “All’angelo della Chiesa di Laodicea scrivi: tu non sei né freddo né caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca” (Apocalisse 3,14-16). Saulo non ha mai appartenuto alla categoria dei tiepidi, degli indifferenti. E’ stato un persecutore convinto. Uno zelo indicibile lo spingeva a perseguitare i cristiani. Credeva di essere sulla strada giusta e questa strada la percorreva con una passione ed una dedizione inarrivabili. Ma Qualcuno lo attendeva lungo la via di Damasco. Per rivelargli un’altra verità, un’altra luce, un’altra passione. Una passione che avrebbe trasformato radicalmente e per sempre la sua vita. 

2. Il convertito 

Sentiamo il racconto degli Atti degli Apostoli: «E avvenne che, mentre (Saulo) era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo perché mi perseguiti?” Rispose “chi sei o Signore?” e la voce: “Io sono Gesù che tu perseguiti! Orsù, alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare”» (Atti 9,3-6). Poi si racconta dello stupore dei compagni di viaggio, della cecità che colpisce Saulo, e dell’arrivo a Damasco. Qui c’è l’incontro di Saulo con Anania, che il Signore aveva incaricato di aiutare il persecutore dei cristiani ad aprirsi alla vera fede. Anania, che conosce Saulo e il suo odio verso i cristiani, si mostra perplesso e timoroso. Ma il Signore lo incoraggia: “Va’, perché egli è per me uno strumento eletto, per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele ed io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome” (Atti 9,15-16). Qualcuno ha scritto che dopo la risurrezione di Cristo la conversione di Saulo, che diventerà l’Apostolo Paolo, è il miracolo più grande che viene raccontato nel Nuovo Testamento. Umanamente parlando era impossibile che questo seguace dell’ebraismo diventasse cristiano. Gesù Risorto ha compiuto questo miracolo. Paolo sa che la sua conversione è puro dono di Dio. E lo riconosce chiaramente: “Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è in me” (1 Cor. 15,10). Scrivendo al giovane discepolo e vescovo Timoteo Paolo confessa con stupenda umiltà: “Rendo grazie a colui che mi ha dato la forza, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia, chiamandomi al ministero; io che per l’innanzi ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo senza saperlo, lontano dalla fede; così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù. Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità, ad esempio di quanti avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna” (1 Tm. 1,12-16). E’ bello e commovente sentire Paolo che fa queste confidenze. Ma, soprattutto, le sue parole sono una luce che porta chiarezza alla nostra vita. Il tema della conversione attraversa tutto il libro Sacro, la Bibbia. La conversione interessa ogni discepolo di Gesù. Con l’invito alla conversione si apre la predicazione di Gesù nel Vangelo. E viene spontaneo chiederci: ma noi siamo realmente convertiti? Per Paolo la conversione è stata una rinuncia totale al passato e un consegnarsi senza riserve nelle mani di Gesù Cristo: “Quello che poteva essere per
me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza del mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero una spazzatura, al fine di guadagnare Cristo”. E ancora: “Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione: solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. Fratelli io non ritengo di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù” (Fil. 3,7-13).

Ma neppure per Paolo la conversione è stata facile.

Rileggiamo la Lettera ai Romani : “Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo al peccato (…). Infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto (…). Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene! C’è in me il desiderio del bene; ma non la capacità di attuarlo; infatti non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio (…) io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo alla legge del peccato che è nelle mie membra” (Rm 7,14-23). Ma ormai Paolo non ha più paura di questa lotta contro il male, per continuare a vivere ogni giorno la sua conversione. Infatti conclude con gioia: “Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!” (Rm 7, 24-25). E ancora: “Non c’è più nessuna condanna per quelli che sono di Gesù Cristo. Poiché la legge dello spirito che dà la vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte” (Rm 8,1-2). Paolo ci insegna che il nostro passato, anche se negativo, non può impedirci di aderire completamente a Cristo e al Suo Vangelo. Paolo ci insegna anche che convertirsi non significa essersi sottratti per sempre alla lotta spirituale contro il male. L’importante è credere con tutto il cuore che Gesù Cristo è dalla nostra parte e non ci lascerà soccombere. Soprattutto non permetterà che il nostro peccato ci appaia più importante e decisivo dell’amore di Dio per noi.

Convertirsi è avere trovato ciò che è più importante e decisivo.

Convertirsi è non volgersi più indietro.

Convertirsi è avere imparato ad amare e a sperare.

Convertirsi è sperimentare che ormai la nostra vita non ci appartiene più: dev’essere
donata totalmente a Dio e ai fratelli.

3. L’Apostolo 

Paolo, ormai “ghermito dal Signore” (Fil. 3,12), sente che la sua vita non gli appartiene più. Ma è una vita da donare completamente a Dio e ai fratelli. A questo del resto l’aveva chiaramente destinato lo stesso Gesù Risorto, che gli era apparso sulla via di Damasco. Abbiamo sentito ciò che il Signore risorto dice ad Anania: “Egli (Paolo) è per me uno strumento eletto, per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli d’Israele” (At. 9,15). Tutte le lettere di Paolo sono attraversate da questa ansia missionaria, da questo struggente desiderio di portare a tutti il Vangelo di Gesù Cristo: “Guai a me se non evangelizzo”. Paolo sa, però, che nella sua missione di evangelizzatore non deve e non può confidare in se stesso, ma solo nel Signore. Non può annunciare se stesso, ma solo Gesù Cristo Crocifisso: “Anch’io, fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunciarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di
sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio” (1 Cor. 2,1-5). In una delle sue lettere, per rispondere ad alcune accuse dei suoi aversari, Paolo si vede costretto a….fare il proprio elogio di Apostolo. E’ un piccolo saggio (prezioso) per aprire uno squarcio sulla sua incredibile e multiforme attività missionaria. Scrive Paolo: “Però in quello in cui qualcuno osa vantarsi, lo dico da stolto, oso vantarmi anch’io. Sono Ebrei? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io! sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balia delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli dai falsi fratelli; fatica e travaglio,veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non frema? (…) A Damasco, il governatore del re Areta montava la guardia alla città dei Damasceni per catturarmi, ma da una finestra fui calato per il muro in una cesta e così sfuggii dalle sue mani” (2 Cor. 11, 21-29.32-33). Paolo, malgrado le prove che il Signore permette anche nella sua vita di Apostolo, non si scoraggia. Continua imperterrito la sua corsa per annunciare il Vangelo a tutti. Così scrive infatti ai Corinzi: “Investiti di questo ministero per la misericordia che ci è stata usata, non ci perdiamo d’animo; al contrario, rifiutando le dissimulazioni vergognose, senza comportarci con astuzia né falsificando la parola di Dio, ma annunziando apertamente la verità, ci presentiamo davanti ad ogni coscienza, al cospetto di Dio” (2 Cor. 4,1-2). E ancora: “Noi infatti non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore; quanto a noi siamo i vostri servitori per amore di Gesù. E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo” (2 Cor. 4,5-6). Paolo è consapevole che la missione affidatagli da Cristo è sublime. Ma non dimentica mai la sua piccolezza, il suo niente. E, soprattutto, non dimentica che questa vita sulla terra è solo un prepararci a quella vita che durerà per tutta l’eternità, accanto al Signore Risorto. Ecco perché l’Apostolo riesce a trovare sempre la forza e la gioia per andare avanti: “Però noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi. siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati ma non abbandonati; colpiti ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti noi che siamo vivi veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifestata nella nostra carne mortale. Di modo che in noi opera la morte, ma in voi la vita. Animati, tuttavia, da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: “Ho creduto, perciò ho parlato”, anche noi crediamo e perciò parliamo, convinti che colui ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche voi con Gesù e ci porrà accanto a Lui insieme con voi. Tutto infatti è per voi, perchè la grazia, ancor più abbondante ad opera di un maggior numero, moltiplichi l’inno di lode alla gloria di Dio. Per questo non ci scoraggiamo, ma se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili sono eterne” (2 Cor. 4,7-18). Paolo è l’apostolo che può dichiarare con mite fermezza la sua purissima intenzione di essere al servizio di Dio e dei fratelli, con una dedizione immensa, una passione grande e una tenerezza incredibile: “Da parte nostra non siamo motivo di scandalo a nessuno, perché non venga biasimato il nostro ministero; ma in ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio, con molta fermezza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; con purezza, sapienza, pazienza, benevolenza, spirito di santità, amore sincero; con parole di verità, con la potenza di Dio; con le armi della giustizia a destra e a sinistra; nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama. Siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri; sconosciuti, eppure siamo notissimi; moribondi, ed ecco viviamo; puniti, ma non messi a morte; afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possediamo tutto” (2Cor. 6,3-10). Sono tantissime le testimonianze che ci rivelano la gigantesca statura spirituale e morale dell’Apostolo Paolo. Ma ci piace concludere queste brevissime annotazioni con una scena che desta sempre tanta commozione nel cuore di chi la rilegge nel libro degli Atti degli Apostoli: l’addio agli anziani di Efeso. Sono le pagine che ci mostrano quanto amore e quanta dedizione sincera accompagnavano Polo nei suoi viaggi missionari. E veniamo anche a scoprire quali legami profondi si creavano tra l’apostolo, i responsabili delle varie comunità e i fedeli che aveva incontrati. Paolo, come ogni vero apostolo si rivolgeva alle persone, non alle masse, conosceva i volti dei suoi, non era interessato al numero degli adepti. Ed ecco il racconto degli Atti: «Da Mileto (Paolo) mandò a chiamare subito ad Efeso gli anziani della Chiesa. Quando essi giunsero disse loro: “Voi sapete come mi sono comportato con voi fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia e per tutto questo tempo: ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e tra le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei. Sapete come non mi sono mai sottratto a ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi in pubblico e nelle vostre case, scongiurando Giudei e Greci di convertirsi a Dio e di credere nel Signore nostro Gesù. Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà(…). Ecco, ora so che non vedrete più il mio volto, voi tutti tra i quali sono passato annunziando il regno di Dio. Per questo dichiaro solennemente oggi davanti a voi che io sono senza colpa riguardo a coloro che si perdessero, perché non mi sono sottratto al compito di annunziarvi tutta la volontà di Dio. Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue. Io so che dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino di mezzo a voi sorgeranno alcuni a insegnare dottrine perverse per attirare discepoli dietro di sé. Per questo vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di esortare fra le lacrime ciascuno di voi. Ed ora vi affido al Signore e alla parola della sua grazia che ha il potere di edificare e di concedere l`eredità con tutti i santificati. Non ho desiderato né argento, né oro, né la veste di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: Vi è più gioia nel dare che nel ricevere! ». Detto questo, si inginocchiò con tutti loro e pregò. Tutti scoppiarono in un gran pianto e gettandosi al collo di Paolo lo baciavano, addolorati soprattutto perché aveva detto che non avrebbero più rivisto il suo volto. E lo accompagnarono fino alla nave» (Atti 20,17-37). In quegli abbracci e in quei baci è custodita una ricchezza di incontri, di sentimenti, di legami unici tra l’Apostolo e tutti i fratelli e sorelle della comunità di Efeso. Una storia che possiamo solo intuire ma che, per quel poco che riusciamo ad immaginare, testimonia in modo luminoso l’autenticità, l’intensità, la profonda umanità e l’altissimo profilo spirituale dell’avventura apostolica di Paolo di Tarso.

4. Il Testimone 

Gli Atti degli Apostoli ci presentano almeno tre grandi viaggi missionari di Paolo. Ma è difficile circoscrivere tutta l’attività missionaria dell’Apostolo. Sappiamo che dopo questi viaggi si era recato a Gerusalemme per portare le collette raccolte soprattutto in Macedonia e in Acaia. Sappiamo che in occasione di questa visita a Gerusalemme ci fu un subbuglio provocato contro l’Apostolo da alcuni giudei della provincia d’Asia che accusavano Paolo di aver violato l’area sacra del Tempio e di aver tentato di introdurre nel luogo sacro alcuni gentili. Il tribuno della coorte romana lo sottrasse al linciaggio della folla dei giudei. Paolo si difese sia in pubblico, di fronte ai giudei della città, sia di fronte al Sinedrio. Si difese anche a Cesarea Marittima, di fronte al procuratore romano Antonio Felice e davanti al suo successore Porcio Festo. Fu proprio di fronte a quest’ultimo che Paolo, cittadino romano, si appellò all’Imperatore e fu perciò deferito a Roma. E’ bello rileggere direttamente negli Atti il viaggio di Paolo a Roma, pieno di pericoli e drammatici imprevisti. Un viaggio che fu ugualmente una continua evangelizzazione (Atti 27 e 28). Giunto a Roma, Paolo vi trascorre, sotto custodia militare, due anni, nella casa che aveva preso a pigione: “Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso a pigione e accoglieva tutti quelli che venivano a lui, annunziando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento”. Si conclude così il racconto degli Atti degli Apostoli. Si era negli anni tra il 58 e il 63 (dopo Cristo). Dopo questo momento non abbiamo date e notizie sicure. Sappiamo però che la morte di Paolo avvenne sicuramente a Roma, sotto l’Imperatore Nerone, e fu una morte violenta. Fu un martirio, con l’accusa, forse, di appartenere ad un gruppo sovversivo. Fu la morte di chi fino all’ultimo volle testimoniare la sua fede e il suo amore a Gesù Cristo. “Martirio”, secondo il termine greco da cui questa parola deriva, significa appunto testimonianza. Fino all’ultimo Paolo ha voluto testimoniare che Gesù Cristo è il Figlio di Dio, è il Messia promesso dai Profeti, è l’unico Salvatore del mondo. Ma possiamo meditare su altri aspetti della straordinaria testimonianza dell’Apostolo. Paolo ci testimonia che l’essenza della vita cristiana è aver trovato Gesù, amarlo e vivere di Lui e per Lui. Lo scrive nella lettera ai Galati: “In realtà mediante la legge io sono morto alla legge, per vivere per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal. 2,19-20). Paolo ci testimonia e ci ricorda che la vita cristiana è tutta qui, nel poter ripetere come lui: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”. Tutto il resto viene dopo. E nel resto c’è il cammino verso la santità, l’impegno personale nella vita spirituale, l’impegno sociale e politico, l’impegno per la pace, l’impegno nel custodire la creazione, l’impegno a fare di tutta l’umanità l’unica famiglia dei figlio di Dio. Un grande teologo del nostro tempo (Karl Rahner) ha scritto che il cristiano del futuro o sarà un mistico o non sarà. Paolo lo aveva detto duemila anni fa. Paolo ci testimonia anche una fede rocciosa e sicura nel Cristo Risorto. Rileggiamo la lettera ai Corinzi: “Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti? Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato Cristo, mentre non lo ha risuscitato, se è vero che i morti non risorgono. Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini. Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti” (1 Cor. 15,12-20). Paolo ci testimonia anche la certezza che nel messaggio di Gesù e nella vita cristiana ciò che conta veramente è la carità, l’amore. I cristiani di Corinto, gli stessi a cui Paolo ricorderà che senza la fede nella risurrezione tutto il cristianesimo crolla, non sapevano fare buon uso dei carismi, cioè dei vari doni che lo Spirito dà abbondantemente a ogni membro della Chiesa, per il bene di tutti, l’Apostolo ricorda che c’è una “via migliore di tutte”: “Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova. La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell`ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà” (1Cor. 13,1-10). E Paolo conclude: “Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità” (1Cor. 13,13). Ed infine Paolo ci testimonia che l’amore che Gesù ci ha rivelato è Egli stesso. E’ Cristo l’amore di Dio fattosi carne in mezzo a noi. e chi si affida totalmente a questo amore ha vinto ormai ogni paura. Quante paure, ogni giorno, vengono a turbare la nostra esistenza! Fra tutte la paura più brutta e pericolosa è quella che ci spinge a dubitare dell’amore di Dio. E’ anche la tentazione più terribile del cristiano. Paolo ci racconta come ha vinto questa paura: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi? Chi ci separerà dunque dall`amore di Cristo? Forse la tribolazione, l`angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità,il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun`altra creatura potrà mai separarci dall`amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm. 8,31-35.37-39). Non dimentichiamo mai questo grido gioioso di Paolo. E nessuno potrà mai rubarci la speranza e la salvezza. Nessuno potrà mai separarci da Gesù Cristo Signore nostro, che ci ha amati e ha dato se stesso per noi

L’ESPERIENZA DEL CROCIFISSO IN SAN PAOLO APOSTOLO

dal sito:

http://www.amicidigesucrocifisso.org/home/?p=1026

L’ESPERIENZA DEL CROCIFISSO IN SAN PAOLO APOSTOLO

Pensiero Passionista – Maggio/Giugno 2009
 

Il 29 giungo di quest’anno termina l’Anno Giubilare Paolino indetto dal papa per celebrare il bimillenario della nascita di Paolo apostolo, supposta intorno all’8 d.C. Siccome da diversi mesi stiamo riflettendo sul suo insegnamento circa il Cristo Crocifisso, mi sembra opportuno riflettere per una volta sulla sua esperienza personale del Crocifisso. La teologia di Paolo è frutto delle sue riflessioni illuminate dallo Spirito Santo sul mistero di Gesù di Nazareth, ma nello stesso tempo anche della sua esperienza personale del mistero pasquale.

In Cristo il mistero pasquale consiste nella realtà inscindibile della sua morte e risurrezione. Egli muore in abbandono d’amore al Padre per la salvezza del mondo. Il suo morire è l’atto più vitale immaginabile. La risurrezione lo rivela e lo conferma come tale, perché è un’esigenza e conseguenza di quella morte, e in essa in qualche modo precontenuta, come dimostra il vangelo della passione secondo Giovanni.

A livello teologico possiamo disquisire su che cosa sia più importante o meno importante, sia prima o sia dopo. Sul piano della fede, la risurrezione è più importante della morte, come Paolo stesso spiega nel capitolo 15 della prima lettera ai Corinzi.

Per la vita quotidiana dei cristiani è più importante la passione, perché è questa che noi sperimentiamo in concreto nella nostra situazione terrestre, mentre la risurrezione la sperimentiamo nella fede e nella speranza. Per questo la spiritualità della passione è una dimensione essenziale di ogni spiritualità cristiana.

In ogni caso bisogna affermare che secondo il disegno divino la salvezza umana si realizza nella morte e risurrezione di Cristo, mistero unico e inscindibile. Come tale il mistero si è realizzato in Cristo e tende a riprodursi nei credenti per opera dello Spirito Santo. Il nostro linguaggio teologico dovrebbe usare una terminologia più unificante. Piuttosto che parlare del Crocifisso o del Risorto converrebbe parlare, o comunque avere chiaro nella nostra percezione, il concetto di Crocifisso – Risorto.

Nel corrente anno paolino si è parlato di continuo di Paolo apostolo “conquistato dal Risorto”, del suo incontro col Risorto, di lui come annunciatore del Risorto, eccetera. È invece evidente che nella coscienza e nell’esperienza dell’Apostolo le due dimensioni non solo sono inscindibili, ma la sua passione emotiva parte ed è dinamizzata incessantemente dall’ammirazione sconfinata per il Crocifisso e dall’ansia di conformarsi a lui. Il Crocifisso è vivo, dunque risorto, ma Paolo sente di doverlo assimilare e annunciare come amore che brucia e consuma la vita per realizzare la pienezza della vita. Assimilarlo come crocifisso per sperimentarlo come risorto.

A partire dall’esperienza di Damasco

Da zelante fariseo qual è, impegnato a scovare e fare arrestare i seguaci di Gesù di Nazareth, Saulo riceve dai colleghi farisei il delicato incarico di guidare la spedizione punitiva contro i seguaci di quella setta già insediati anche a Damasco. Per la strada è accecato da una luce misteriosa che lo inchioda a terra e gli fa gridare aiuto, aiuto! Qui la retorica di certi commentatori si scatena: è il Risorto, la luce del Risorto, afferrato dal Risorto.

Certo! Ma il Risorto si presenta come perseguitato e messo in croce da una scelta di vita che si ostina a non aprirsi alla luce della nuova fase del piano divino per la salvezza di Israele e dell’umanità: il mistero pasquale in Gesù di Nazareth. “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Io sono Gesù che tu perseguiti”, At 9,4.5.

Per parlare e intervenire così, questo Gesù dev’essere per forza vivo, ma le sue parole sono il gemito del Crocifisso che soffre ancora nella comunità che è suo corpo. Lo shock emotivo di Saulo è provocato dal grido di dolore del perseguitato e crocifisso, non solo dal potere atterrante del risorto e Signore. “Chi sei, Signore?”

L’esperienza di Damasco non è mai descritta nei dettagli – né in Atti né nell’epistolario paolino – quindi non capiamo sino in fondo in che cosa sia consistita. Tra l’altro, Paolo non ne parla mai in termini di “conversione”, come noi facciamo anche per la sua commemorazione liturgica.

Se fu un’apparizione soprannaturale, com’era il Gesù che si fece vedere? Crocifisso o risorto? Fu solo una locuzione interiore di indole mistica? Quale fu la vera portata degli aspetti psico-fisici? Sappiamo di tre giorni di cecità e digiuno, e delle squame che cadono dagli occhi col recupero della vista, At 9,9.18

Nei seguenti tre misteriosi anni di seminascondimento che Paolo, dopo avere ricevuto il battesimo, trascorse tra il deserto di Arabia, la sua nativa Tarso e il ritorno a Damasco, deve avere ricevuto le illuminazioni necessarie – dal Cristo in persona e dalle diverse comunità contattate – per immergersi talmente a fondo nel mistero, da riemergerne come il più documentato e affascinante annunciatore nella chiesa delle origini.

La sua comprensione del Crocifisso

L’immagine di quel “perseguitato” e crocifisso, ma vivo e “Signore”, domina talmente il suo essere da imprimervi pian piano i tratti della sua fisionomia, fino alla piena identificazione.

Non si limiterà ad annunciare che il Crocifisso è Risorto, secondo il kerigma che ha ricevuto e deve trasmettere con tutta la comunità apostolica, ma più di tutti ne spiegherà la portata e le conseguenze. Gesù di Nazareth è risorto come Capo che più non muore, ma è ancora crocifisso nel suo corpo. Il che significa crocifisso in lui, Paolo, e in ogni credente e in ogni comunità e nell’umanità e nella creazione intera. Il mistero del Crocifisso domina la sua vita, il suo pensiero, le sue parole parlate e scritte, le sue azioni e decisioni, specie quella fondamentale di andare a predicare il vangelo ai pagani.

Non parla mai di Gesù come farebbe uno storico che descrive una biografia, ma come di un contemporaneo più vivo dei vivi, che influisce sulla vita e sulla storia. Il cuore della sua teologia è il mistero del Crocifisso – Risorto e del suo corpo che è la chiesa, anche qui nell’inscindibile unità. Com’è uno il Crocifisso – Risorto, così sono uno il Crocifisso e la Chiesa. Per Paolo il morire e risorgere di Gesù è la realtà che spiega tutte le realtà, rivela il volto e il disegno di Dio, motiva l’esistere, il divenire e il destino di tutto ciò che esiste, nell’eternità e nel tempo.

Dalla croce risplende la rivelazione piena della Trinità, nell’amore del Padre che dona il Figlio, nell’obbedienza d’amore del Figlio che si dona al Padre, nell’opera dello Spirito come amore del Padre e del Figlio. La Trinità si rivela anche nell’Annunciazione, nel Battesimo e nella Trasfigurazione di Gesù. Gesù parla spesso del Padre e dello Spirito, specie nel vangelo di Giovanni, ma è sulla croce, e di conseguenza nella risurrezione, che realizza e manifesta il culmine di attuazione del disegno di salvezza dell’umanità.

La cristologia, pneumatologia e ecclesiologia di Paolo scaturiscono dalla sua comprensione del Crocifisso. La chiesa corpo di Cristo è il prolungamento del Crocifisso – Risorto, come egli spiega parlando del battesimo, dell’Eucaristia e del matrimonio. La contemplazione del Crocifisso non è in Paolo un compiacimento speculativo (c’è il rischio di ridurre il Crocifisso a una bella filosofia, o anche teologia: l’eroe, la vita data per amore), ma confluisce sempre nella concretezza della vita quotidiana: di lui personalmente come apostolo, della comunità nelle debolezze dei rapporti interni o nelle difficoltà di una vita controcorrente, degli sposi, dei battezzati.

“Il cuore della vita cristiana è l’amore, come fu incondizionato amore quello che animò il Cristo crocifisso. L’esperienza del limite e della debolezza, come quella che Paolo stesso provò nel suo corpo, trova significato nel corpo crocifisso di Gesù che si offrì in sacrificio per noi.

Il corpo di Cristo che è la chiesa deve rendere l’onore più alto alle sue membra più deboli e trascurate, perché Dio si è rivelato al mondo attraverso un Messia crocifisso. Così il Corpo di Cristo è un corpo crocifisso, dalle ferite ancora visibili.  Le tribolazioni apostoliche e le laceranti angosce sperimentate da Paolo durante il suo ministero, o dalle sue comunità nelle lotte e difficoltà di ogni genere non sono inutili, perché la croce di Gesù ha affermato una volta per tutte che, per la potenza della grazia divina, dalla morte scaturisce vita abbondante.

E così via. La vita di Paolo fu davvero afferrata dalla memoria della Passione di Gesù” (D. Senior C.P. , Paul, our Brother: Biblical Wisdom for Passionist Apostles, Sinodo Generale dei Passionisti, 8 settembre 2008).

Alla luce della Passione di Cristo, del mistero pasquale, egli ripensa e riscopre il cuore della sua tradizione giudaica. Il Dio di Abramo è anche il Dio delle nazioni e dell’umanità. Il Dio di Gesù crocifisso è rivelato non nei segni del potere e della sapienza umana, ma nello stupore di ciò che gli uomini stimano debolezza e stoltezza: una vita donata per amore, come dichiarerà con fermezza all’inizio della sua prima lettera ai Corinzi, 1,22-25.

Dalla conoscenza all’esperienza

Non è possibile presentare in questa sede le sfaccettature della comprensione paolina del Crocifisso. Dobbiamo però dire che la sua predicazione, teologia e insegnamento sul Crocifisso derivano dalla sua esperienza del Crocifisso, secondo la sequela proposta da Gesù stesso nel vangelo. “Se il seme non muore, non porta frutto”, Gv 12,24. “Chi vuol venire dietro di me prenda la sua croce ogni giorno”, Lc 14,24, e par.

La sua teologia non è solo speculativa, né solo condizionata dalle correnti culturali del momento, ma è incarnata nel corpo vivente della chiesa e nel suo appassionato spendersi per essa. La sua predicazione è radicata nella sua partecipazione alla passione del Crocifisso. In questo egli è di esempio per quanti nella chiesa hanno il compito di studiare, insegnare e predicare. Dovrebbero essere attenti alle occasioni, e magari pregare per ottenerne, di partecipazione alla passione di Cristo, per assicurarsi che ciò che si proclama sia collegato all’impegno di sequela e scaturisca dall’esperienza personale e comunitaria della Passione.

Come la passione di Gesù è passione d’amore e passione di dolore, così il ministero di Paolo suo discepolo fu la passione della sua vita e una sofferenza che lo consumò sino al martirio.

Cominciò con progetti coraggiosi fino al limite della temerarietà. Come appare dal capitolo 15 della sua Lettera ai Romani e da altri accenni epistolari, il suo piano era di muoversi lungo la linea del Mediterraneo fondando chiese in tutte le città e permeare il mondo romano in modo da convertire i pagani a Cristo. Così egli si illudeva di fare ingelosire i suoi colleghi ebrei, che avrebbero a loro volta accettato il vangelo. Alla fine Paolo avrebbe consegnato a Cristo tutto il mondo allora conosciuto. Un bel regalo, da cancellare per sempre la macchia dell’iniziale persecuzione.

Non c’è male come sogno da innamorato.

I giudei si ingelosiranno davvero, ma fino al punto di far fuori anche lui, Paolo, non di consegnarsi a Cristo. Infatti alla fine del suo terzo viaggio apostolico, quando torna a Gerusalemme dopo aver tanto lavorato per fondare comunità cristiane tra i pagani, giudei e cristiani giudaizzanti tenteranno di eliminarlo. Ciò comporterà un suo ennesimo arresto, con conseguente appello a Cesare e partenza dalla culla di tutte le sue comunità e della chiesa intera. Davvero il Crocifisso gli insegnerà “quanto dovrà soffrire per il mio nome”, At 9,16.

La mancata accettazione del Cristo da parte del suo popolo fu per Paolo una sofferenza da spezzare il cuore; come, appunto, per il Crocifisso. Sembra chiaro che egli non s’aspettasse la sopravvivenza di un giudaismo non cristiano. I suoi compagni farisei non ebbero la sua esperienza e quindi non lo seguirono, e questo per lui è restato inspiegabile. In Rm 9,1-5 ne parla con accenti strazianti:

“Dico la verità in Cristo, non mentisco, e la mia coscienza me ne da testimonianza nello Spirito Santo: ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. Vorrei infatti essere io stesso anatema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono Israeliti e possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene il Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto. Amen.”

Sappiamo che cosa significava il Cristo per Paolo. Sentirlo dirsi disposto ad essere “separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli” ci lascia sgomenti e ci fa capire quale fosse l’angoscia che gli strappò quella affermazione. Paolo soffrì non solo per la mancata realizzazione del suo sogno di cristianizzare il mondo, ma anche per le continue critiche contro le cose che aveva realizzato. Non vide mai pacificamente condivisa la sua visione di un vangelo per i pagani liberato dalla soggezione alla legge. Pare che altri leader cristiani e i soliti “guardiani della verità” seguissero furtivamente i suoi passi spargendo dubbi sulla sua ortodossia e sulla sua autorità apostolica, e attirando i neoconvertiti verso una diversa comprensione della chiesa. Alla fine sceglierà di approdare in occidente perché azzittito in oriente, rifiutato e arrestato perché la sua opera è considerata eresia, quindi offesa a Dio. Proprio come il Crocifisso!

In un noto passo di 2Cor egli sfoga la sua esasperazione per questa situazione.

“Sono ebrei? Anch’io! Sono Israeliti? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io! Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. Cinque volte ho ricevuto dai giudei i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balia delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli in mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, le preoccupazione per tutte le chiese. Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che anch’io non frema?”, 2Cor 11,22-29.

 Si vede che la sua pazienza in qualche momento è venuta meno e l’indignazione è straripata non tanto contro i capi della sinagoga o le minacce degli officiali romani, ma verso i suoi compagni apostoli e i dirigenti delle sue comunità.

“La preoccupazione per tutte le chiese” è un’altra sua tipica espressione che indica la duplice faccia della sua partecipazione alla passione di Cristo, come coinvolgimento emotivo e sofferenza consumante. Il dolore del non vedere mai del tutto accettata la sua visione della chiesa.

Paolo non era una statua di cartapesta, ma una persona sensibile e ribollente. In certe notti durante i suoi frequenti arresti – a Corinto, a Efeso, a Gerusalemme, a Cesarea Marittima e a Roma – si sarà domandato con angoscia se non avesse per caso sbagliato tutto. Come può accadere in certe situazioni della vita.

Ma egli non si staccò mai dall’esperienza fondante della sua vita: l’amore del Crocifisso Risorto, scoperto nell’incontro-scontro di Damasco. Perciò contro sofferenze e difficoltà di ogni genere egli lancia la sfida di sempre: l’assoluta certezza dell’amore del Crocifisso:

“Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore”, Rm 8,35-39.

A questo punto è chiara in lui l’esperienza unificante del Crocifisso – Risorto.

Ecco dalle sue stesse parole la descrizione lapidaria della sua identità, in questa fase della sua maturità spirituale: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me”, Gal 2,20.

E alla fine della stessa lettera: “D’ora in poi nessuno mi procuri fastidi: difatti io porto le stimmate di Gesù nel mio corpo”, Gal 6,17.

Gabriele Cingolani cp

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« Paolo Diamante di Dio » (è la lettera scritta dal Vescovo Mons. Bregantini agli studenti del Molise) (23 novembre 2008)

dal sito:

http://lascuolacresceconte.myblog.it/media/01/00/634493823.doc

« Paolo Diamante di Dio »

(è la lettera scritta dal Vescovo Mons. Bregantini agli studenti del Molise)

23 novembre 2008

Carissimi,
alcuni giorni fa, lungo le strade di una grande città, ho notato questo messaggio pubblicitario, ben scelto, che mi è subito piaciuto:
la vita ha il sapore che le dai!

Mi è piaciuto perché sento che la vita è il grande talento che la grazia ci ha posto in mano. Che è unico. Che è immenso. Che è tutto.
Un’espressione che mi ha suggerito quanto la vita sia chiamata all’incontro con lo stupore, in quel sapore immenso che abbraccia tutto ciò che è e che sarà.
La vita, che tu hai in mano, questa stessa vita, dipende anche da te, richiede tutto te stesso, coi difetti e virtù. Comprendi allora come il sapore che tu le dai trae origine dai tuoi sogni, dai tuoi aneliti, dalla tua stessa identità, da ciò che conosci, speri, ami, preghi. Proprio come ci ricorda un filosofo: sei ciò che gusti, perché il sapore è sapere.
Assapora la vita. E dalle sapore. Poiché più la assapori, più la conosci; più la gusti e più la ami. Perché il sapore è l’essenza della vita, la sua dolcezza o amarezza.
Il suo cuore.
Per questo, mi sembra di poter dire che la vita va riempita, come un’anfora alla fonte, come un programma di computer. Altrimenti, resta vuoto.
Hai l’hardware, ma non il software.
Hai il cuore, ma non hai l’amore.
Hai la rosa, ma non hai il profumo.
Hai gli occhi, ma non cogli la bellezza!
Così è la vita. Come … Altri esempi, bellissimi, li puoi tu stesso creare.
Magari con una poesia, fatta in classe, sul gusto della vita.
Da gustare poi insieme…
Perché quel sapore dipende da te. Tu le dai il gusto che vuoi.

Proprio per questo, intendo, carissimi,
inviare a ciascuno e a tutti voi,
all’inizio di questo nuovo anno scolastico,
un messaggio di augurio e di riflessione,
tratto dalla sapienza antica per farne spunto
per il cammino di oggi.
E’ infatti bello abituarsi, nella scuola e nella vita, al confronto, a leggere la storia dell’altro, a capire le differenze, sempre però in un clima di grande verità e chiarezza.
Saluto perciò con affetto tutti voi, carissimi bambini, fanciulli, ragazzi e giovani, cioè tutti gli studenti delle quattro fasce della scuola: infanzia, scuola primaria, media e  secondaria.
E con voi, saluto e ringrazio tutti i vostri dirigenti e docenti, con un pensiero di particolare gratitudine al personale ausiliario, preziosissimo.
Ai maestri e docenti, il mio pensiero di santa invidia. Fate un lavoro impegnativo, certo, specie oggi,  ma decisivo, poiché voi non plasmate cose, ma coscienze; non create prodotti, ma costruite uomini e donne nuove, capaci di sfidare il futuro.
Ciò che insegnate e trasmettete oggi, sappiate che la società lo ritroverà germogliato dopo. Seminate quindi con larghezza in queste coscienze che formate, seminatevi ciò che è vero, giusto, amabile, puro, alto e profondo e che può durare anche per il domani, per il bene di tutti. In una responsabilità che coinvolge il presente e il futuro.
Questo che avete in mano è il PRIMO MESSAGGIO che rivolgo alle Scuole dopo il mio arrivo in terra Molisana. E lo faccio con molta gratitudine, perché devo affermare di essere stato invitato con affetto ed accolto con gioia in tante scuole. In tante sono già stato. Nelle altre, attendo il vostro cortese invito e vi verrò con gioia. Come del resto, so che faceva volentieri il mio predecessore, mons. Armando Dini, cui va la mia gratitudine per un mucchio di cose belle che ho trovato e che spero di poter continuare.
Grazie del dialogo che è scaturito nelle classi. Grazie della cordialità manifestata. Ma grazie soprattutto delle incisive domande che mi avete posto,  perché sento che in esse c’è il vostro sogno sul mistero e sul fascino della vita. Sogno e mistero che è sempre bello condividere, perché non è solo vostro. E’ di chi ve l’ha posto nel cuore, quel Padre che nei cieli vi ha pensato e che oggi corre e cammina con voi lungo le strade, spesso incerte e precarie della vita.

Con questo mio messaggio intendo entrare nelle vostre scuole,
affacciarmi nelle aule con molto rispetto e semplicità,
prendere il gesso e scrivere sulla lavagna un titolo:
« a confronto con il giovane Paolo, diamante di Dio… ».

Vorrei infatti che questo mio messaggio non sia solo formale, un semplice augurio. Ma una riflessione fatta insieme, dalla quale poi possiate trarre tutta una serie di indicazioni pratiche, nel cammino educativo che state compiendo, tra gioie e fatiche. Nel cuore vostro e sui banchi di scuola. Nelle vostre famiglie, che saluto rispettosamente, con vera gratitudine e nelle strade e nei luoghi del gioco e dello svago. Ed anche nella vita sociale, alla quale vi state affacciando con molta trepidazione e tenerezza.
In questa dimensione, ecco la figura di san Paolo. Ve lo presento, perché sento che è un personaggio estremamente stimolante e vivace. Non è scontato. Non è uno scocciatore, che sta lì a farvi sbadigliare mentre vi fa una « pesante » lezione di vita. San Paolo viene a scommettere con voi! Viene affettuosamente a colorare i vostri sforzi, a puntare con voi verso l’alto. E a ciascuno chiede un confronto intenso e chiaro.
Così, in quest’anno dedicato a san Paolo, anche noi ci metteremo a leggerne le lettere, a sentirne quasi la voce, a ripercorrere gli itinerari sulle navi romane, a seguirne le orme tra le montagne della attuale Turchia, lungo i fiumi, nelle città greche, fino al martirio, alle porte di Roma, in un giorno di estrema solitudine, verso il 67 dopo Cristo.
Ma con voi, carissimi ragazzi e giovani, vorrei soprattutto dialogare sul come Saulo, un ragazzetto di una bella città antica, Tarso, sia potuto divenire Paolo. Di Paolo giovane, ecco, vorrei parlarvi. Presentarvelo con le sue ansie, le sue fatiche, i suoi sogni, il suo carattere, la sua spinta in avanti, il suo cuore appassionato.
Perché Paolo?
PERCHÉ LUI SÌ CHE HA SAPUTO DARE UN SAPORE PIENO ALLA SUA VITA! Perché l’ha riempita di un volto, di un cuore: il cuore ed il volto di Gesù di Nazaret.
Ed insegnerà anche a noi, perciò, a dare alla nostra vita un sapore vero, una gioia piena, una corsa compiuta, una meta raggiunta. Tutte espressioni che lui stesso ha coniato e sviluppato. Belle perché vere. Vere perché nel cuore mio e tuo.
Non so se ci riuscirò. Se l’intento andrà a buon fine, eccomi a dialogare con voi, per un riscontro nelle aule scolastiche, ogni volta che ne sarò invitato con la già sperimentata cordialità. Potremo così anche chiarire eventuali passaggi difficili o questioni non ben affrontate. E leggeremo insieme altre pagine della sua vita, qui non presenti.
Buon cammino, dunque … per tutti, ragazzi e giovani. Ed anche per i vostri docenti, cui auguro la stessa passione educativa che aveva Paolo. Specie per i docenti di Religione cattolica, che ringrazio di vero cuore e seguo con affetto particolare. E’ in modo speciale a loro che affido questo messaggio, perché con voi, carissimi, lo possano condividere, spiegare, attualizzare dentro il vissuto della classe, sentendone domande e offrendo spiegazioni, in un continuo approfondimento, di lezione in lezione. In simbiosi con gli altri docenti. Magari creando un recital od un momento teatrale, su certi passaggi della vita di questo santo.
  
E comincerei proprio così, come tutte le grandi storie, perchè, nella sua famiglia ebrea, rigidamente osservante della Legge dei padri,  a quel piccolo bimbo viene dato un nome molto bello, tanto amato: Saul, che viene poi reso, familiarmente, Saulo.
E’ un nome che ricorda un grande Re d’Israele, che ha cambiato la storia dei suo popolo. Un uomo forte, vigoroso, deciso. Ma anche interiormente inquieto, alla ricerca di spazi sempre nuovi.
E così sarà Saulo: forte di carattere, non alto di statura come il re antico, ma coraggioso e tenace come lui. Anzi, più ostinato e più deciso ancora. E’ un uomo passionale, dall’indole fiera ed impavida, che non teme di esprimere con tono il suo sentire. E’ un emotivo, che vive ed affronta tutto di petto, un tipo che non si arrende di fronte agli ostacoli. Ama la concretezza e aborrisce tutto ciò che è finto, ambiguo; parla senza mezzi termini, non tentenna, non rifugge. Ama le sfide della vita, fermo, dotato di fantasia accesa, di un’intelligenza acutissima, capace di gesti profondi e coraggiosi, ma bisognoso di comunicare i propri ideali. Un giovane appunto, che dà pieno sapore alla sua vita
Ma tiene nel cuore suo una spina di inquietudine, che lo mette sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, di inedito, di più spazioso. Sperimenta così anche il suo fallimento e con chiarezza lo ammette, perché inconsapevolmente sente che qualcuno lo aspetta, oltre lo steccato della sua intrepidezza. E chiede affetto, comprensione, incoraggiamento; qualcuno che gli dica, anche a lui: non avere paura, vai avanti…! ». Come avviene per noi, grati di ogni gesto di dolcezza e di tenerezza degli amici.

In famiglia Saulo cresce con la LINGUA E LA CULTURA EBRAICA. E’ una famiglia seria, osservante, molto attenta alla tradizione. Fa circoncidere il piccolino dopo otto giorni, innestandolo così nella tribù di Beniamino, proprio quella di Saul. Era gente impegnata, obbediente alla legge di Mosè con lo scrupolo del fariseo, cioè di chi sa che osservando fedelmente la legge ne ottiene riconoscimenti e gratificazioni. Da Dio e dagli uomini.
Cresce così: chiaro, forte, tenace, deciso e preciso. Di tempra e di cuore.
Dicevamo di Tarso. E’ la città natale, dove Saulo corre lungo le strade e dove va a scuola nei suoi primi anni di vita. Ma Tarso, com’è noto, non è in Palestina. E’ nel sud di quella immensa provincia romana, che allora si chiamava Asia. Per noi, oggi, è il sud della Turchia, che ne conserva gelosamente il ricordo.
Tarso è una cittadina universitaria. Un po’ come tante delle nostre cittadine interne. Le sue scuole rivaleggiano con le grandi accademie di Atene e di Alessandria.
Tarso è un incrocio di civiltà. Vi insegna Atenodoro, il maestro e amico di Augusto e, un secolo prima, Cicerone fu governatore della provincia. Vi scorre il fiume Cnido, che quasi costò la vita al giovane Alessandro Magno, quando, madido di sudore, vi volle fare il bagno.  Il giovane Re rimase a Tarso il tempo necessario per guarire, ma la civiltà ellenica vi si impiantò saldamente.
Vi si parla GRECO come in tutto il Medio Oriente, una lingua che Saulo apprende nelle strade e a scuola e maneggia con facilità. E’ la « koinè », cioè il greco comune, pratico, chiaro, facile e bello. Anche la Bibbia in quel periodo fu tradotta dall’ebraico al greco nella stessa parlata della koinè, per renderla comprensibile a tutti.
Una parola che corre, un cuore che vibra, una mente che guarda lontano.  Così è il giovane Saulo.
Il porto di Tarso, infatti, guarda all’Egitto con Cleopatra, è aperto alla Grecia, a Roma, commercia anche con Marsiglia…
Ma Tarso resta sempre (e non lo dimenticherà mai!) una città semita, segnata da secoli di storia antica. Ruvida ed intensa.

E poi, Saulo entra, progressivamente, anche nella civiltà romana che domina Tarso da diversi decenni. E’ un mondo già globalizzato, quello romano, di forte socializzazione e di intensa urbanizzazione. L’impero romano con le sue agevoli strade terrestri e marine ne dà l’impronta: commercio, incontri, città nuove, scambi di idee, benessere.
E’ la realtà della città che caratterizza l’impero romano.
E per di più, Saulo è cittadino romano già dalla nascita. Per un privilegio molto raro. Che altri dovranno acquistare a caro prezzo. Lui, invece, lo è già nella culla. Mastica così anche una terza lingua: il latino. Forse non come le altre. Ma di certo la capisce. E sa usarla bene, quando occorre difendersi, affermando con fierezza, davanti ai capi militari: « Civis Romanus sum ».
Così Saulo è cittadino di tre mondi, di tre culture: ebraica, greca e romana. Proprio per questo cambierà il suo nome, per renderlo ancora più universale e comprensibile a tutti, DA SAULO A PAOLO. Perchè anche con questo stile, quel ragazzo e quel giovane aveva imparato che bisognava farsi tutto a tutti. (cfr. Atti 21, 37-40).
Potremmo dire, oggi, che veramente è stato preparato dal cielo alla sua nuova grande missione. Si è fatto tutto a tutti, per poter entrare nel cuore di ciascuno di noi, ieri ed oggi…(Cfr l Corinzi 9, 19-23).

Ma intanto, eccolo correre lungo le strade della sua città. Perché sente che la città è tutto: è incrocio di tutte e tre le sue culture. La città, infatti, è greca nella lingua, è ebraica per i suoi abitanti fieri e forti, è romana nelle istituzioni.
Paolo non è un rurale. Lo è invece Gesù, che prenderà tutte le sue immagini proprio dalla vita rurale, dal paese, dalla campagna e ne farà icone di rara bellezza e di immensi, dolcissimi orizzonti.
Saulo invece è figlio della città, dello sport, della lotta. Gesù è nato nell’ambiente dei « poveri ». Paolo è figlio di un rabbino benestante. Il primo era operaio rurale, il secondo teologo. E se lavora anche le tende, tessendole con fatica, lo fa con una dignità particolare. Non da schiavo, ma da artigiano, da maestro…da mastro.
PAOLO È COSÌ FIGLIO DELLA CITTÀ! Egli ne ha lo schema, la replica facile, l’abitudine alle folle. Ne conserva lo spirito disinvolto, aperto, pronto al confronto. Ne osserva abitudini e stile e, passando lungo le larghe vie romane, coglie sempre spunti nuovi, come fece un giorno ad Atene, capitale della cultura antica, dove notò subito un altare dedicato al « Dio Ignoto ». Lo vide, ne trasse ispirazione, ne fece il cuore del suo intervento, proclamando una frase bellissima ed immensa, tanto che nella mia vita di giovane, al Liceo, la scrissi subito sul mio diario e sui testi di filosofia: « Noi cerchiamo Dio e ci sforziamo di trovarlo, anche a tentoni, per poterlo trovare, benché non sia lontano da ciascuno di noi…! ».
La bellezza di Saulo-Paolo è proprio questa: ha sempre cercato, ha sempre amato, ha sempre desiderato.
Potrei ripetere anche a voi, nel leggere san Paolo, quella frase di un grande poeta francese, incisa a caratteri d’oro all’ingresso di un museo: « non entrare qui senza desiderio! ».
Paolo dunque appartiene a tre mondi e a tre culture, come dicevamo: ebraica, greca e romana. Tuttavia emerge da ciascuna di esse con il vigore della sua personalità. Non le cancella, ma le valorizza. Non le elude, ma le perfeziona. Non le racchiude in un livellamento piatto e ottuso. Ma lascia ciascuna con il suo colore, con la sua forza, con la sua ricchezza storica e propositiva.
Tutto questo, non per la sua sola preparazione, ma perché, sulla via di Damasco, ha incontrato il Cristo, luminoso ed esigente. Che lo ha gettato nella polvere, ma insieme lo ha ricostruito dentro.
Così l’incontro diretto con Cristo, oltre a cambiargli la vita, gli ha permesso di uscire dalle culture alle quali apparteneva, ma senza rinnegarle. Anzi, rivalorizzandole. Torneremo sull’incontro di Damasco. Perché quel momento è la strettoia attraverso la quale tutti dobbiamo, prima o dopo, passare.

Per intanto, colgo il primo immediato messaggio che san Paolo ci lascia. Il nostro è, oggi, un mondo che deve fare i conti con una società a più voci, una società dall’evidente pluralismo religioso. Ebbene, in questo contesto culturale e sociale, rischiamo di cadere in due estremismi opposti. Entrambi negativi e dannosi, per il cuore e per la mente.
IL PRIMO INGANNO È L’ESTREMISMO RELIGIOSO, il fondamentalismo, la difesa assoluta delle tradizioni dei padri. Lo stesso errore che ha fatto Saulo quando, furente, camminava verso Damasco per incatenare i suoi nemici religiosi, quella setta dei Cristiani che egli sentiva come una minaccia terribile. Poiché sono diversi – pensava – sono pericolosi e quindi vanno eliminati. Questo è l’estremismo religioso, che oggi serpeggia in molte religioni, anche tra di noi. A tratti, anche nel mondo cattolico…
L’ALTRO ERRORE, opposto, di fronte al pluralismo delle fedi, è quello di cadere in un RELATIVISMO DI PENSIERO E DI SPERANZA. E’ la nebbia dell’indifferenza. E’ il grigiore delle culture. E’ la scelta di eliminare tutti i simboli delle diverse fedi, per costruire un orizzonte senza identità. Tutti ammassati, tutti annullati, tutti omologati. Errore che la Francia ha fatto in diverse scelte, con conseguenze terribili. Perché le mancate identità creano poi rabbia e ribellione.
La sintesi, la via media, sta in un cuore nuovo. Non frutto di compromessi, di mediazioni diplomatiche esterne. No. Ma sta nel saper accogliere tutti e saper valorizzare tutti. E’ proprio quella strada  che san Paolo ci insegna: la strada del dialogo e dell’incontro. E’ di certo una strada difficile, richiede tempo, ha bisogno di molta pazienza, si riveste di attese e di sospiri. Ma crea coscienze vere. Perché non impone, ma propone. Non vince, ma convince. Non giudica, ma analizza.
Tre stili di vita che troviamo ed impariamo proprio dall’Apostolo Paolo, pur dentro un carattere difficile qual era il suo!

- Mi chiedo: siamo capaci oggi di dialogare?
Rispettiamo chi la pensa diversamente da noi?
Sono pronto al confronto?
Valorizzo il dialogo o elimino il mio avversario?

- E la scuola che frequentiamo, ci sta abituando
ad avere questo cuore nuovo?
Ci stimola ad allargare i nostri orizzonti?
Vedo nello studio delle lingue, della geografia e della storia
un prezioso aiuto per questa nuova cultura d’accoglienza?

L’università, Saulo la fa a Gerusalemme. Ritorna così, da Tarso, alle radici del suo popolo, nel cuore della Palestina. E’ quasi un master, un corso di perfezionamento. E gli è maestro un uomo molto saggio, un uomo dalla lunga barba, che tanto ha pregato, tanto ha studiato e tanto ha pensato: Gamaliele.
Sa valutare bene tutte le cose. Non ama prendere decisioni affrettate, sa calcolare con mitezza gli eventi. E lo è ancor di più di fronte ad un discepolo irruente com’era il giovane Saulo…
Rimase celebre la sua riflessione davanti ai discepoli del Cristo, che già operavano cose grandi, prodigi in mezzo al popolo. I capi ebrei li volevano eliminare. Erano troppo pericolosi. Allora Gamaliele si alzò e pronunziò questa sentenza, che resta luminosa ancora oggi, criterio di verità in molte questioni anche per me e per voi.
Disse: « Non occupatevi di questi uomini e lasciateli andare. Se infatti questa teoria o questa attività è di origine solamente umana, verrà distrutta, scomparirà da sè; ma se essa viene da Dio, non riuscirete a sconfiggerla, perché Dio è dalla loro parte. Non correte il rischio di combattere contro Dio! » (Atti 5,34-39).
Con Dio non si scherza. La lezione della storia è chiarissima. Tanti che hanno perseguitato i cristiani o schiacciato i diritti umani, sono finiti nel nulla. Tante dittature che si credevano imbattibili, sono miseramente crollate. Tanti che pensavano di aver ragione e di poter fare i furbi, umiliando i poveri o imbrogliando, sono poi stati smascherati, con vergogna immensa.

Ma Saulo non ascolta molto il suo maestro. Purtroppo. Perché nell’impatto con la nuova fede, la fede dei discepoli di Gesù il Cristo, il Galileo, lui non la pensa come Gamaliele. Non sa aspettare.
Saulo è un fondamentalista. Un irruente. Vuole difendere la verità e la tradizione dei padri. Non sa dialogare. Ha paura. Perciò elimina l’avversario. Non lo vuol incontrare. Ma lo distrugge in modo implacabile.
C’è un episodio che lo definisce bene, nel suo carattere. Ma insieme lo segnerà profondamente. Perché è la storia che ci ammaestra sempre, specie quando non riusciamo ad ascoltare più i nostri maestri…e professori…
Un giorno fu condannato a morte un giovane cristiano, di nome Stefano (Atti 7,54-8,1). Mite e forte nella sua fede. Schietto e leale. Ma la sua luminosità faceva ombra a tanti, in Gerusalemme. Non si riusciva a resistere alla sua sapienza.
E venne condannato a morte, innocente, per lapidazione. I più grandi in età gli tirarono contro tanti di quei sassi da farlo morire. Schiacciato da una violenza inaudita.
Ma per avere le braccia libere, tutti quegli uomini maturi posarono i mantelli ai piedi di Saulo, perché ne facesse buona custodia. Lui non tirò i sassi, ma era complice di quel gesto di morte. Anzi, l’approvava in pieno.
Però restò conquistato dal volto sereno di Stefano, suo coetaneo, giovane come lui. Nel morire, non invocò vendetta. Anzi, chiese a Dio di perdonare i suoi uccisori. Pur morendo ingiustamente, non chiese giustizia contro di loro.
Saulo non capì. Non riuscì a darsi una spiegazione di quell’evidente eroismo.
Ma il volto di quel giovane gli resterà impresso per tutta la vita. La luce del Cristo, vincitore del male e della morte, si era riflessa su Stefano. Da Stefano a Saulo. Passando di volto in volto, di cuore in cuore.
E sarà quel volto a porre nel cuore di Saulo la prima scintilla di luce nuova nel buio della sua vita.

Perché, anche per noi, oggi, chi sa perdonare diviene un esempio immenso. Decisivo. Conquista, attrae. Non si dimentica mai una parola di scusa…chi chiede perdono ha sempre un volto luminoso. Chi offre le sue scuse, apre sempre feritoie di dolcezza nel nostro cuore. E’ il mite che conquista la terra, come dicono le Beatitudini (Matteo 5, 5).
Saulo si impegna a fondo contro la setta dei cristiani. con una decisione implacabile. Eccolo ora nei pressi di Damasco, pronto a ricondurre a Gerusalemme, in catene, i cristiani di quella città.
Ma è proprio lì che il Cristo l’attende…
Vi invito a leggere il racconto, che Paolo stesso fa di questo evento decisivo, nel capitolo 22 degli Atti. E’ vivacissimo, sembra di esservi presente, camminando con lui, abbagliati anche noi da quella luce immensa che lo fa cadere nella polvere. Lui, il perfetto, lui il sicuro, lui il persecutore, eccolo nella polvere.
Una domanda secca: « Ma chi sei? »
Ed una voce che cambia la sua vita: « Io sono Gesù di Nazaret, quello che tu stai perseguitando! ». E da quel cuore che odiava, ora esce una espressione commovente: « Signore, che vuoi che io faccia? ».
E la risposta, che guida ogni cammino di fede: Alzati, entra in Damasco: là qualcuno di dirà quello che Dio vuole da te! ».

Ecco i TRE PASSAGGI, che anche per me e per voi caratterizzano ogni cambiamento:
scendere da cavallo ed entrare nella polvere:
prendere cioè consapevolezza dei nostri limiti e difetti;
ammettere i nostri fallimenti; riconoscere di essere fragili e limitati…

Chi sei, Signore? cioè interrogarsi con lealtà su quella voce che nel nostro cuore e nella nostra coscienza ci morde, ci inquieta, ci pone domande nuove, ci stringe dentro, non ci lascia in pace, non ti fa dormire la notte…Voce che ti avvolge nei fatti che vivi, nelle parole dei genitori, di un prete, di un docente, o di un amico o di un’amica che ti legge dentro, di una poesia che ti affascina o di un tramonto  o di un bacio che t’incanta…
« Che vuoi che io faccia? »: cioè interrogarsi con chiarezza sulle scelte da fare, scelte tue, non imposte, ma maturate da te, solo da te. Fatte però non in modo capriccioso, ma leggendo nel cuore e nella tua storia, per riuscire a capire il tuo futuro.
E’ l’avventura più bella delle scuole superiori…!

E Saulo diviene Paolo.
Sperimenta vitalmente, a Damasco, la potenza della Parola di Dio. Inizia in città, con Ananìa che lo illumina. Poi, nel deserto, per lunghi anni, proseguirà la sua ricerca della Verità. Vede con chiarezza quanto la Parola di Dio ha compiuto nella sua vita. Era infatti un peccatore ed Essa lo ha purificato; era perduto ed Essa lo ha salvato; era un nemico di Dio ed Essa lo ha riconciliato; era morto nel peccato ed Essa lo ha risvegliato!
Cambia i suoi punti di riferimento. La valutazione delle sue cose. Quello che prima era prezioso, diviene ora vile e disprezzato. Quello invece che era da buttar via, ora si fa oro raffinato.
E’ il risveglio dell’Amore, in un mondo che sta morendo per mancanza d’Amore.
E’ l’incontro con Gesù, l’Amore!
Paolo ci svela così il segreto della vita, di ogni vita: solo nell’amore l’uomo si conquista alla sua piena esistenza personale, solo nell’amore egli attualizza la totale pienezza della sua essenza, della sua dignità. L’uomo è affermato nella sua irriducibilità di persona, interamente, solo se è PERSONALMENTE amato da Dio.
E Paolo lo  è stato! Ha visto e sentito un Dio che lo ama personalmente, che lo salva dalla perdita di se stesso, dalla perdita di ciò che in lui è. Paolo viene afferrato dal Mistero dell’amore che Dio ha mostrato di avere per tutti gli uomini in Cristo Gesù, morto e risorto. La sua fede è amore per Cristo Gesù. E l’amore rafforza la sua fede. Così tutto il suo cammino si farà speranza attualizzata.

 » Il resto della sua vita lo potrete seguire in altri testi.
O nelle lezioni di vita
durante il cammino scolastico….

A me, come vescovo, interessava ora darvi un assaggio. E l’abbiamo fatto, vedendo come Saulo è stato preparato per la sua missione. Come la sua famiglia, la sua città, la sua patria gli siano state cattedre di vita. Nelle tre lingue che lui parlava: ebraico, greco e latino. Nelle culture di cui egli era impregnato.
Ma tutto questo ha avuto in lui pienezza, perché Saulo ha incontrato, sulla via di Damasco, il Cristo Gesù, l’Amore della sua vita.

E la sua esistenza è cambiata. La sua vita ha ora un sapore preciso, inconfondibile: quello della carità e dell’amore gratuito. Le tre culture che lo avvolgevano rifioriscono in una sintesi nuova. Entra in dialogo con Dio e perciò sa amare ed incontrare ogni uomo. Ogni cultura. Non la vede più da fondamentalista, cioè da chi vuole distruggere l’altro, considerato come nemico. Ma nell’avversario riconosce ora un fratello, segno visibile di quel Cristo che egli pensava di perseguitare.
E’ la dolcezza della conquista  e la conquista di sé. E’ la gioia di partire con…e non più contro qualcuno. Grato al Signore, capisce che fin dall’inizio il suo palpito pulsava nel misterioso abisso della Sua presenza!
il diverso è un dono, da valorizzare, non da eliminare. LA DIVERSITÀ È RICCHEZZA. Le lingue nuove sono un mosaico di luce, dai mille colori, come le foglie delle querce in autunno…
Né fondamentalismo né relativismo, ma dialogo e incontro!

ma è questo sole d’autunno, mite e dolce, che rende belli tutti i colori. Non basta l’educazione stradale o civica. Occorre un incontro, una luce superiore. Una Luce nuova fa vedere nuove tutte le cose. E’ il Cristo, che ti auguro di poter incontrare sulla tua strada. Magari anche cadendo da cavallo, cioè dalle tue presunte sicurezze. E’ capitato anche a me, nella mia vita. Quante volte mi sono ritrovato nella polvere, con una spina nel fianco. Ma proprio allora mi sono sentito amato da quell’Amore che fa nuove tutte le cose e ringiovanisce ogni cuore…Rialzato dalla sua mano, ho ripreso a correre.

Ed è proprio la corsa lo stile più bello di san Paolo. Quello più affascinante. Anche per me. In un momento amaro della mia vita, incerto sul mio futuro, aprii a caso le lettere di Paolo e mi capitò proprio questo brano: « Io non sono ancora arrivato al traguardo, non sono ancora perfetto. Continuo però la mia corsa, per tentare di afferrare il premio, PERCHÉ ANCH’IO SONO STATO AFFERRATO DA CRISTO GESÙ…dimentico del passato, proteso verso il futuro, corro verso la meta, per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù » (Filippesi 3,7-14). Capii che non ero io a scegliere. Ma che ero stato già scelto. Che non inseguivo il vuoto, ma ero attratto dietro il profumo di Colui che mi aveva già amato. Che mi afferra quando mi lancio nella vita. Niente paura. Niente rimpianti, niente rimorsi.
Allora, la fatica stessa nel cammino della vita viene valutata in modo diverso. Paolo paragona questa fatica al gemito. Il gemito del nascituro. Perché la vita non è uno sfascio, ma un parto, una rigenerazione. Geme anche la creazione, quando è violata, quando la inquiniamo, quando è bruciata. Avvolti dal fuoco anche i vecchi ulivi pare che emettano un forte gemito! Ma geme anche il tuo cuore, quando non ce la fai ad essere migliore, quando « scopri in te il desiderio del bene, ma non la capacità di compierlo. Perché non compi il bene che vuoi, ma ti ritrovi a fare il male che non vuoi »! (cfr Lettera ai Romani capitoli 7 e 8). Ma tutti e tre i gemiti (della vita, della creazione e del cuore) sono ascoltati dalla voce dello Spirito, che sa leggere nei nostri gemiti e li sa trasformare in poesia, in preghiera, in cuore attento, in fiducia, in Amore.

Ecco perché chiudo con una delle pagine più belle di san Paolo, che ha conquistato il cuore di tutti, lungo la storia. E’ la pagina sull’amore, che egli detta alla chiesa di Corinto (capitolo 13):

Chi ama, è paziente e premuroso.
Chi ama, non è geloso,
non si vanta,
non si gonfia d’orgoglio.

Chi ama, è rispettoso,
non va in cerca del proprio interesse,
non conosce la collera,
dimentica i torti.

Chi ama, rifiuta l’ingiustizia,
la verità è la sua gioia.
Chi ama, tutto scusa,
di tutti ha fiducia, tutto sopporta,
non perde mai la speranza

La scienza ci dice che il carbonio può trasformarsi o nel nero carbone, pesante e rozzo, oppure, per un particolare processo di calore, in un magnifico diamante. Carbone e diamante hanno la stessa composizione chimica. Cambia solo la loro relazione di particelle. La loro finalizzazione.
Così è stato san Paolo: poteva essere un carbone scuro e cattivo, che sporca ed inquina. Ma con il calore dell’Amore di Dio, lui è divenuto un diamante purissimo e luminosissimo.
La vita veramente dipende da te. Ha il sapore che le dai.
Fanne un diamante, che riluce di bellezza immensa, perché anche tu, come Saulo, hai incontrato la Luce… 
Buon cammino, sulle strade del Molise,

tuo affezionatissimo  + padre GianCarlo, Vescovo

Omelia per il 4 novembre 2009, prima lettura Rm 13,8-10.

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/10903.html

Omelia (07-11-2007) 
Eremo San Biagio

Dalla Parola del giorno
Pieno compimento della legge è l’amore.

Come vivere questa Parola?
Nella frase paolina l’eco delle parole di Gesù: « Non sono venuto ad abolire la legge ma a portarla a compimento ».
Gesù non ha mai accennato a un superamento della legge tale da renderla ormai inutile. Il ‘compimento’, di cui parla, è la pienezza della legge stessa, il suo senso, la sua finalità. In una parola, si tratta di riportare la legge alla purezza originaria, di ricollegarla alla sorgente da cui è sgorgata.
Il dono della legge si situa in un contesto relazionale intriso di amore: Dio ha liberato il suo popolo e vuole stringere con lui un’alleanza. Ma l’unica norma dell’amore è l’amore stesso.
Già nell’Antico Testamento, i profeti avevano usato termini severi contro le storture di un’osservanza legalistica, formale: che vale varcare le soglie del tempio, protestare la propria fedeltà a YHWH se il cuore è lontano da lui? Eppure gli scribi si erano dati premura di moltiplicare norme e precetti da osservare rigidamente e in nome dei quali si finiva col sacrificare anche l’uomo. Basti ricordare gli episodi della ‘violazione’ del sabato da parte di Gesù per guarire gli infermi.
Un’osservanza letterale della legge finisce con l’essere la negazione della legge stessa, proprio perché ne uccide l’anima. È a questa realtà che l’operato e la parola di Gesù vuole richiamare. È questa verità che Paolo viene a mettere in luce.
Sull’esempio di Gesù, l’uomo autentico perché libero, il cristiano si distingue non per l’osservanza della legge, ma per l’amore che informa la sua osservanza.

Oggi, nella mia pausa contemplativa, lascerò che la frase di Paolo scavi dentro di me, liberandomi da ogni formalismo perché il mio aderire alla legge sia il libero espandersi di una pienezza di amore.

Aiutami, Signore, ad accogliere il dono della tua legge quale espressione di una amore preveniente e ad aderirvi per rispondere all’amore con l’amore.

La voce di un biblista
Eccoti dunque una brevissima norma che compendia tutto: ama e fa’ quel che vuoi. Se taci, taci per amore; se parli, parla per amore; se correggi, correggi per amore; se perdoni, perdona per amore. L’amore affondi come una radice nel tuo cuore: da questa radice non può nascere se non il bene.

S. Agostino 

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