di Giuseppe Betori – Arcivescovo di Firenze: La figura di San Paolo nel libro degli Atti:

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di Giuseppe Betori – Arcivescovo di Firenze

La figura di San Paolo nel libro degli Atti:
il convertito chiamato, l’evangelizzatore fondatore di Chiese, il testimone perseguitato

Nomadelfia, 21 maggio 2009
Incontro del clero toscano

0. Premessa

Mi è stata chiesta una riflessione su san Paolo e ho voluto limitarla al terreno biblico che ho più frequentato, cercando quindi di delineare la sua figura così come emerge dal libro degli Atti. È infatti ormai assodato che la figura di Paolo a noi consegnata dalla tradizione si compone di tre approcci, che corrispondono probabilmente a tre diverse situazioni ecclesiali legate all’eredità dell’apostolo. La prima linea è quella riflessa nel corpo delle lettere paoline e ci offre i suoi scritti come canone della sua dottrina in rapporto alla vita delle Chiese. La seconda è quella che trae dalla sua dottrina l’alimento per una riflessione teologica che si allarga alle nuove situazioni della Chiesa delle seconda generazione, ed è espressa nelle cosiddette lettere deuteropaoline, La terza linea, che in termine improprio si suole chiamare biografica, è quella attestata dagli Atti, dove è la figura stessa di Paolo che viene celebrata nella sua opera missionaria all’interno di una esposizione narrativa dell’identità della Chiesa che si misura con la sua vocazione evangelizzatrice, anche qui avendo come riferimento la situazione ecclesiale della seconda generazione cristiana.
Su questa terza linea concentreremo la nostra attenzione, nella consapevolezza che essa non esaurisce certamente la personalità di Paolo e il suo ruolo nella Chiesa dei primi tempi e, in secondo luogo, che essa è stata positivamente costruita prescindendo dalle altre due linee, non si sa se non conosciute o volutamente messe da parte in un’ottica alternativa, perché legata a condizioni ecclesiali diverse. La lettura che pertanto faremo del Paolo degli Atti non si avvarrà di quanto potrebbe essere aggiunto dalla letteratura paolina e deuteropaolina, perché così Luca ha voluto, chiedendoci implicitamente di considerare il suo approccio a Paolo nella cornice della sua opera in due volumi.
E qui emerge la necessità di vedere nella figura e nella vicenda di Paolo un tassello di un disegno più vasto che, come Luca stesso ci dice, ha lo scopo di dare « solidità » (asfàleia) – una certezza fidata che dà fondamento – alla fede dei cristiani, mediante un « resoconto ordinato », una narrazione coerente degli eventi riguardanti Gesù di Nazaret, nella sua vita tra noi e poi nella diffusione della Parola che lo testimonia mediante la Chiesa. Il tutto ha lo scopo di contribuire a costruire l’identità cristiana nel passaggio dal giudaismo, da cui la comunità delle origini proviene, al mondo romano in cui si sta creando il suo ambiente futuro. In una prospettiva ancora più interna, potremmo parlare anche del passaggio dalla « traditio apostolica » nel suo instaurarsi al tempo sub-paolino, tra prima e seconda generazione cristiana, a cui il libro di Luca si rivolge. E in questo la persona di Paolo viene assunta come figura emblematica, in quanto vettore attraverso il quale l’identità cristiana giunge al suo compimento.
Per questo l’attenzione di Luca si concentra dapprima sul fondamento della sua missione e cioè sull’evento della sua conversione-chiamata, poi sulla sua attività di fondatore di comunità in quello che potremmo definire il « nuovo mondo » del cristianesimo nascente, infine nella sua vicenda umana di testimone perseguitato, assimilato alla passione del suo Signore. Su questi tre registri in cui si articola la narrazione degli Atti soffermiamo in successione la nostra attenzione.

1. Paolo, il convertito-chiamato

L’importanza che l’evento della conversione-chiamata di Paolo ha per definire la sua identità secondo Luca è evidente fin dal fatto che esso viene narrato negli Atti per ben tre volte (At 9; 22; 26). La ricerca biblica classica era preoccupata essenzialmente di concordare tra loro, dal punto di vista storico, le diversità delle tre narrazioni. Se questo poteva rispondere a preoccupazioni di credibilità del testo scritturistico, di fatto però si impediva di valorizzare il contenuto teologico delle narrazioni. Su questo, per noi più importante, versante ci indirizza invece la recente critica narrativa, a cui ci affidiamo per trarre alcune considerazioni. Suo tramite infatti possiamo meglio cogliere le intenzionalità dell’autore degli Atti alla luce delle diversità delle tre narrazioni e del loro inserimento nella strategia narrativa dell’opera. Il racconto di At 9 presenta la vicenda nella successione di questi elementi: l’azione persecutoria di Saulo (vv. 1-2), la cristofania (vv. 3-9), la visione di Anania (vv. 10-19a), Saulo evangelizzatore perseguitato a Damasco e a Gerusalemme (vv. 19b-30). Rispetto a questa articolazione, la narrazione di At 22 offre queste variazioni: aggiunge l’autopresentazione di Paolo come giudeo (v. 3), si amplifica la sua azione persecutoria (vv. 4-5), la cristofania è ripetuta con leggere variazioni interne (vv. 6-11), è eliminata la visione di Anania, l’incontro di Paolo con Anania è ripetuto ma con significative variazioni (vv. 12-16), è aggiunta la visione di Paolo nel tempio in cui il preannuncio del rifiuto della testimonianza resa da Paolo sostituisce quanto nel primo racconto era detto a riguardo della sua attività di annunciatore perseguitato(vv. 17-21). E giungiamo al racconto di At 26, dove abbiamo nuove variazioni: un’ulteriore amplificazione del passato giudaico di Paolo rispetto a At 22 (vv. 4-6), l’aggiunta del motivo per cui ora Paolo è sottoposto a giudizio (vv. 6-8), l’ulteriore amplificazione della sua attività di persecutore (vv. 9-11), la ripetizione della cristofania con alcune variazioni (vv. 12-15), la cancellazione totale del ruolo di Anania e l’affidamento del mandato missionario direttamente da parte del Risorto (vv. 16-18), l’amplificazione rispetto ad At 9 dell’azione di annunciatore perseguitato (vv. 19-21), l’aggiunta della sua attuale testimonianza in conformità alle profezie messianiche (vv. 22-23). Alla luce di questo confronto è possibile far risaltare l’ottica di ciascuno dei tre racconti. Cominciando da quello di At 9, non è difficile scorgere in esso l’intenzione di presentare un resoconto obiettivo di quanto accaduto, sostenuta dalla posizione del narratore che si esprime in terza persona e si presenta come « onnisciente » a riguardo dei personaggi e delle azioni: egli domina eventi che accadono in luoghi distanti, ne conosce le motivazioni e le finalità, gli antecedenti rispetto agli stessi fatti che avvengono. Egli, pur presentandosi come un cristiano, si presenta al lettore con il massimo grado di credibilità e affidabilità circa ciò che narra, avendo quindi come scopo precipuo che il lettore prenda notizia dell’evento e sia certo che il persecutore è diventato evangelizzatore, ma anche che l’attuale evangelizzatore era prima un persecutore, e che il cambiamento è avvenuto in forza di un intervento divino, in cui però è stata fondamentale anche la mediazione ecclesiale, assicurata prima da Anania e poi da Barnaba. Il processo di conversione non è quindi il frutto della decisione umana di Saulo, ma l’esito di un’agire divino che ha manifestato in lui la sua potenza, capace di rendere nuove tutte le cose, anche di capovolgere il senso della vita di una persona. Altrettanto importante è tuttavia il fatto che quest’azione divina incrocia la collaborazione umana in esponenti rilevanti della comunità credente, per cui il pieno senso del cambiamento-vocazione si rivela a Paolo solo per la mediazione di Anania e giunge alla sua prima realizzazione solo con l’aiuto di Barnaba. Se dunque la chiamata di Paolo avviene per iniziativa e opera del Risorto, essa però si concretizza attraverso la mediazione della Chiesa. Potremmo anzi dire che proprio in una manifestazione così carismatica quale quella della conversione-vocazione di Paolo si evidenzia il ruolo insostituibile della Chiesa, come strumento di salvezza e luogo della testimonianza. La prospettiva cambia sensibilmente con At 22, già a partire dal fatto che ora il narratore della vicenda è Paolo stesso, quindi l’evento è proposto in un’ottica autobiografica e in uno sguardo retrospettivo. Non si insegue più l’oggettività del fatto, ma, essendo il narratore un attore dell’evento, qui si vuole comunicare la sua esperienza soggettiva. E, nel caso specifico di At 22, il contesto giudaico del discorso di difesa che Paolo sta facendo nel tempio, dove è stato arrestato, specifica ulteriormente questa soggettività, come il punto di vista di Paolo che vuole mostrarsi quale giudeo fedele, ora perseguitato proprio a causa della sua fedeltà alla religione giudaica. Lo scopo del racconto è presto detto: mostrare che non c’è soluzione di continuità tra il giudeo zelante e il testimone universale di Cristo. Se Saulo aveva potuto interpretare tale zelo come ostilità verso la comunità nata dal Risorto, non venendo meno a tale zelo, ma proprio in fedeltà ad esso, ha potuto cogliere con maggiore chiarezza la volontà di Dio e ora si trova ad annunciare ciò che prima aveva perseguitato. La fedeltà all’Israele biblico, che il Paolo degli Atti rivendica, si inserisce nella visione complessiva del rapporto tra Chiesa e Israele nell’ottica lucana, un rapporto in cui le ragioni della continuità sono fortemente sottolineate, così da escludere una concezione della Chiesa come il « nuovo » Israele che soppianterebbe l’antico, come pure quella della Chiesa come il « vero » Israele che si opporrebbe a un falso o falsificato popolo di Dio. La Chiesa in Luca si colloca piuttosto sulla linea dell’adempimento delle promesse messianiche di cui Israele resta depositario, quelle stesse promesse che preannunciavano l’apertura della salvezza a tutte le genti. La continuità non è ovviamente senza scarti, e lo scarto è costituito dalla persona di Gesù, in cui la Chiesa riconosce l’adempimento delle promesse e che non a caso costituisce la figura centrale della vicenda umana di Paolo, nella sua trasformazione da persecutore a annunciatore perseguitato.  Ancora diverso è l’orizzonte in cui si muove il racconto di At 26, dove pur restando la prospettiva autobiografica, lo sguardo si sposta però dalla radice, cioè dal rapporto di Paolo con quello che resta il suo popolo, al frutto, vale a dire agli esiti della sua missione. L’angolazione infatti in cui l’evento della conversione-chiamata è riletto in At 26 è quello di Paolo testimone universale del Risorto. Dalla strada di Damasco prende avvio, in tale ottica, un percorso che porta Paolo coerentemente verso i confini della terra, in adempimento a una parola del Signore che non solo si era rivelata a lui fin dalla chiamata – anticipando sulla via di Damasco contenuti che la narrazione di At 9 aveva messo in bocca ad Anania e At 22 aveva ribadito e aveva poi ripetuto nella successiva visione nel tempio -, ma che costituiva una parola affidata dallo stesso Risorto già agli apostoli prima della sua ascensione al cielo: « Riceverete la forza dello Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra » (At 1,8), un programma missionario che trova per l’appunto il suo completo adempimento solo nell’azione di Paolo. Vocazione e missione in questo terzo racconto diventano un tutt’uno e il cambiamento della vita di Paolo si mostra proprio nella sua esistenza spesa perché il Vangelo raggiunga tutte le genti. Emerge da questa triplice lettura la ricchezza di significato che l’evento della via di Damasco racchiude in sé, come rivelazione del legame tra agire di Cristo e agire della Chiesa, come unità tra Israele e Chiesa segnata però della novità di Cristo, come proiezione della missionarietà oltre ogni confine umano per raggiungere l’uomo e l’umanità in tutte le sue latitudini.

2. Paolo, il missionario fondatore di Chiese

La seconda immagine che Luca ci offre di Paolo è quella del missionario, coraggioso annunciatore del Vangelo, fondatore di comunità cristiane nel mondo pagano. Questo volto appare ripartito in tre momenti o viaggi, che percorrono il libro degli Atti dal cap. 13 fino al cap. 19. Ma la predicazione della Chiesa, per gli Atti, non inizia con Paolo e quindi anche il suo ruolo missionario va compreso nella missione globale della Chiesa. Quella missione che inizia per mandato del Risorto ed è da questi affidata ai Dodici, che non a caso nell’opera lucana, assumono in esclusiva, o quasi, il titolo di apostoli. L’invio del Risorto, lo abbiamo già ricordato, specifica modalità ed estensione della missione, caratterizzandola come una testimonianza, affidandola alla potenza dello Spirito, e indicando un percorso che da Gerusalemme va fino ai confini della terra. In una duplice variante, sono parole che chiudono il vangelo di Luca e aprono gli Atti: « Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e la remissione dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto (Lc 24,46-49); « riceverete la forza dello Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra » (At 1,8). Gli Atti sono la documentazione di questa promessa-mandato. Non appena infatti irrompe lo Spirito sulla Chiesa, il gruppo degli apostoli, con a capo Pietro, inizia ad annunciare il vangelo di Gesù, la sua persona e la sua Pasqua salvifica e la destinazione della salvezza a tutte le genti. I contenuti dell’annuncio sono sempre gli stessi, in tutte le pagine degli Atti, chiunque sia l’annunciatore. È qui una prima indicazione sulla fisionomia di Paolo missionario: il vangelo che egli annuncia non è suo, ma è il vangelo della Chiesa, quello che gli apostoli hanno tramandato e consegnato alle generazioni future. La coerenza dei contenuti della fede costituisce nell’ottica di Luca il presupposto imprescindibile dell’ecclesialità della missione paolina e quindi della missione di sempre. Ma questo carattere ecclesiale viene ribadito, nell’ottica di Luca, da un altro dato. Pur essendo il missionario per eccellenza della narrazione, a Paolo non viene riconosciuto il titolo di apostolo. Con questo termine è chiamato, insieme a Barnaba, solo in due passi (At 14,4.14), dove probabilmente Luca, riportando una fonte, usa la denominazione non come un titolo ma come indicazione di una funzione – l’essere inviato a predicare a nome di una Chiesa – secondo un uso più largo attestato anche altrove nel Nuovo Testamento. Gli apostoli – come titolo specifico – per Luca sono invece solo i Dodici, così chiamati da Gesù stesso (Lc 6,13), perché solo loro possono essere testimoni della continuità tra il ministero storico di Gesù e la sua morte e risurrezione e questo non come individui ma come gruppo, come collegio (At 1,21-22). Solo i Dodici, e insieme, possono infatti attestare che il Risorto è colui che è passato per le strade della Palestina ed è morto sulla croce. C’è qui un’esigenza di certezza della fede che non può prescindere dalla dimensione storica, contro ogni riduzione mitologica. Su questa testimonianza originaria si posa ogni annuncio, dai primi giorni fino ad oggi. Anche Paolo deve attingere a questa testimonianza apostolica per non rendere vano il suo vangelo (At 9,26-30; cf. Gal 2,2). E se anche Paolo, come d’altronde Stefano (così qualificato per bocca di Paolo in At 22,20), è definito « testimone » negli Atti (At 22,14-15; 26,16), egli non lo è in rapporto alla identità del Crocifisso-Risorto, bensì in riferimento al Cristo esaltato, colui che gli è apparso e lo ha chiamato alla missione, così come è il Cristo esaltato che appare a Stefano nel suo martirio e ne provoca la testimonianza. Questa testimonianza non è priva di valore e ad essa Paolo si affida per dare ragione della sua missione. Ma essa sarebbe inconsistente se prima e a suo fondamento non ci fosse la testimonianza apostolica a riguardo della identità storica del Cristo risorto, che costituisce pertanto la base di tutta la tradizione della Chiesa. Quanto alla testimonianza di Paolo essa, nel suo riferimento escatologico – egli vede il Signore esaltato, che lo chiama a testimoniare « quello che ha visto » -, illumina anche il senso della testimonianza odierna della Chiesa come un illuminare il presente a partire dal suo compimento ultimo nella parusia del Signore. Ma qualcosa va detto anche a riguardo della specificità dell’annuncio paolino, in quanto in esso Luca vede il compimento della missione che Cristo affida agli apostoli, il cui ministero non supera secondo gli Atti i confini della Palestina e si rivolge ai pagani solo nella forma simbolica del giorno di Pentecoste e in quella anticipatrice del battesimo di Cornelio a Cesarea ad opera di Pietro. Soltanto con Paolo l’annuncio diventa davvero universale, secondo una progressività di incontro con le culture che Luca mostra con attenzione. Paolo è il ponte tra le origini della Chiesa e la sua diffusione nel mondo. Nel cammino della missione Luca si preoccupa anzitutto di mostrare come Paolo non si muova secondo proprie scelte ma seguendo le indicazioni dello Spirito, che risulta così pertanto il vero motore della missione cristiana (dalla chiamata nella liturgia ad Antiochia, At 13,1-3, fino a orientare il tracciato geografico dell’itinerario paolino, At 16,6-10). Questa si sviluppa secondo un percorso che dapprima tocca le regioni orientali dell’Asia Minore, per poi volgersi ad occidente e quindi giungere in Europa, dalla Macedonia all’Acaia, per concludersi con la predicazione di Paolo a Roma. In questo percorso, più che l’articolazione geografica, conta come Paolo entri in contatto con la varietà delle forme culturali e religiose del mondo pagano. Si comincia da Cipro, dove il vangelo deve sfidare le arti divinatorie e magiche, per proseguire in Licaonia, dove la verità del vangelo si misura con le forme della religione politeistica tradizionale e popolare. L’ingresso in Europa comporta il primo confronto con le istituzioni dell’impero romano che ne deve riconoscere la legittimità, proseguendo poi verso Atene dove si entra in dialogo e in disputa con il pensiero filosofico del tempo, a cui ci si avvicina nella critica alla religiosità pagana ma da cui ci si distingue nel riferimento non ideologico ma storico della fede cristiana fondata sulla risurrezione di Cristo. La ammissibilità della fede cristiana per il diritto romano torna alla ribalta nelle due tappe di Corinto e di Efeso, dove riappare anche l’inconciliabilità della nuova fede con le idolatrie e i loro intrecci di affari. Accanto a questa lettura della predicazione paolina in rapporto all’ambiente pagano, occorre però riconoscere come gli Atti diano rilievo anche alle modalità con cui essa si pone di fronte al giudaismo, facendo emergere come la fede cristiana si ponga quale compimento delle promesse divine che il giudaismo ha ricevuto come eredità. Il vertice argomentativo di questo confronto è nella predicazione di Paolo ad Antiochia di Pisidia, (At 13,16-49). Paolo ripercorre la storia della salvezza e mostra come essa culmini in Gesù, sottolineando la tipologia Davide-Gesù al fine di proclamare la messianicità di quest’ultimo. Ma a partire dalla risurrezione di Gesù si apre una prospettiva nuova, che estende l’offerta escatologica della salvezza non solo ai giudei ma anche ai pagani. Ma questo universalismo della salvezza che dà compimento alle promesse fatte a Israele viene rifiutato dagli uditori giudei di Paolo. Sono i giudei che si chiudono all’annuncio e non questo, e Paolo con esso, a loro. Nonostante lo scontro di Antiochia, Paolo non cesserà di rivolgersi ovunque anzitutto ai giudei, possibilmente nelle sinagoghe, rispettando la loro priorità nel disegno storico-salvifico divino. Solo alla fine degli Atti, giunto a Roma e ricevuto l’ennesimo rifiuto, Paolo dichiarerà chiuso il tempo di questa priorità nella destinazione della predicazione, pur ribadendo che l’annuncio continua e continuerà ad essere rivolto anche a loro, sebbene il rifiuto da parte della maggioranza dei giudei oggi veda la Chiesa colmarsi della presenza di coloro che erano un tempo pagani (At 28,17-31). L’universalità della salvezza che la Pasqua di Cristo ha introdotto nel mondo trova quindi la sua attuazione nel tragitto della predicazione di Paolo che, aderendo alla tradizione apostolica, diventa lo « strumento [ che il Signore ha] scelto » (At 9,15) mediante il quale il vangelo raggiunge i confini della terra. Sul legame alla tradizione apostolica, cui abbiamo già accennato, merita tornare, per cogliere nel confronto tra i discorsi missionari di Pietro e di Paolo il nucleo cherygmatico che costituisce l’identità della fede e al quale anche oggi dobbiamo guardare nel compito missionario della Chiesa. Ci colpisce anzitutto che il cherygma viene sempre situato all’esordio dei discorsi in una situazione problematica che fa da contesto alla Parola che viene proclamata: la consapevolezza della situazione è un dato vincolante della missione; e per lo più si tratta di fatti concreti che si prestano a più letture e che il predicatore affronta demolendo le interpretazioni false o inadeguate per fare spazio alla vicenda di Gesù di Nazaret come fonte esplicativa della condizione umana. Di Gesù è illuminata la vicenda, la persona, soprattutto la morte e le responsabilità di quanti lo hanno condotto alla croce, essi però per primi chiamati alla salvezza; l’annuncio non si ferma però alla croce, ma tocca il suo vertice nella risurrezione di Gesù, di cui è esaltato il potere salvifico, in quanto essa ristabilisce la giustizia infranta dalla sua condanna; sarà poi l’ascensione-esaltazione a mostrare come dal Risorto nasce una novità di vita che vuole essere comunicata a tutti, giudei e pagani, ed è proiettata verso il futuro escatologico in cui il Signore tornerà ma di cui è possibile fare già esperienza nella Chiesa. In questa presentazione riassuntiva della predicazione petrina e paolina emerge da una parte il carattere radicalmente storico della fede cristiana, fede in un evento e fondamento di una storia nuova, dall’altra il suo radicamento nelle vicende umane di cui è compimento e interpretazione, eludendo ogni riduzione alienante, ideologica e mitologica. Su questi contenuti tradizionali si fonda poi anche una conduzione pastorale della Chiesa altrettanto ancorata alla tradizione. Ne è testimonianza l’annotazione di cronaca con cui si chiudono le tappe del percorso paolino, tutte culminanti nella creazione di una comunità di fede. Luca ci rende noto anche che Paolo torna a visitare le comunità da lui fondate per rafforzarne la fede, come pure si preoccupa di affidarle a delle guide pastorali. Ma del volto di queste comunità si fa interprete il Paolo di Luca in particolare nel discorso di Paolo agli anziani di Efeso a Mileto (At 20,18-35). La comunità che è sorta dall’annuncio ha bisogno non solo della memoria della Parola, ma anche del servizio di governo, che, nella generazione successiva a quella paolina, è nelle mani dei presbiteri. A loro si rivolge Paolo, non solo proponendo se stesso come modello della cura e della dedizione pastorale, ma anche richiamando al compito della vigilanza davanti ai futuri possibili pericoli per il gregge, quando la comparsa di falsi profeti metterà in pericolo la fedeltà alla dottrina e l’autenticità dell’esperienza cristiana e della comunione ecclesiale. Solo il riferimento all’integralità della tradizione apostolica potrà liberare dalle cadute. La dimensione pastorale diventa così in Paolo la continuità necessaria della dimensione missionaria, così come l’incisività storica della predicazione deve sempre misurarsi con la coerenza rispetto alla tradizione apostolica.

3. Paolo, il testimone perseguitato

La terza immagine che gli Atti ci offrono di Paolo è quella del testimone che soffre la persecuzione per la fedeltà a quel vangelo nel quale egli vede realizzata la « speranza d’Israele » e che, perciò, egli annuncia  come compimento escatologico della storia di salvezza. Questa dimensione di Paolo testimone perseguitato occupa l’ultimo tratto della narrazione degli Atti, a partire dal momento in cui, conclusa la sua attività di missionario, egli si congeda dalle Chiese e decide di avviarsi a Gerusalemme per andare incontro a quella che può essere letta come la sua passione (At 19,21). Di questa parte della vicenda del Paolo lucano, merita di essere sottolineato qualche tratto significativo.  Un aspetto certamente singolare sta nel fatto che Luca si è applicato a modellare questa « passione » di Paolo su quella di Gesù. Come il suo Maestro aveva deciso con coraggio e in libertà di salire a Gerusalemme per portare a compimento gli eventi salvifici (Lc 9,51), così l’apostolo decide, in fedeltà al disegno divino e nella forza dello Spirito, di recarsi nella città santa per affrontare il cammino della sua passione (At 19,21), che lo porterà a dare testimonianza a Roma (At 23,11). Se Gesù aveva predetto la sua morte in conformità alla parola profetica (Lc 18,31-33), anche Paolo viene a conoscere dalla parola dei profeti il suo destino di sofferenza (At 21,10-11): « lo Spirito Santo, di città in città, mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni » (At 20,23). Nella prospettiva della sua imminente dipartita, Gesù aveva lasciato agli apostoli il suo « testamento » donando l’eucarestia (Lc 22,14-20) e proponendo loro come modello la sua pro-esistenza: « io sto in mezzo a voi come colui che serve » (Lc 22,27); anche Paolo, mentre sta per distaccarsi dalle sue Chiese, affida loro il suo testamento lasciando in dono a Troade la sua parola apostolica e la frazione del pane, come realtà capaci di ridonare sempre ai credenti conforto e vita (At 20,7-11) e offrendo, nel discorso di Mileto, ai presbiteri, che guideranno le chiese nel tempo subapostolico, il modello della sua vita e della sua cura pastorale (At 20,18-35). Se nel  Getsemani Gesù aveva dovuto affrontare la sua ultima prova e l’aveva superata affidandosi alla volontà del Padre (Lc 22,42), anche Paolo è sottomesso alla prova dalle sue comunità che lo scongiurano di non salire a Gerusalemme (At 21,4.12), ma la sua fedeltà induce queste comunità ad affidarsi al disegno divino con parole simili a quelle della preghiera del Getsemani: « Sia fatta la volontà del Signore! » (At 21,14). È significativo, infine, che le accuse mosse all’apostolo, durante la fase processuale, siano del tutto simili a quelle formulate nel processo contro Gesù (cf. At 24,5 e Lc 23,2; At 24,5 e Lc 23,5; At 17,7 e Lc 23,2) e che, come era avvenuto per Gesù (Lc 23,4.15.22), anche per Paolo le autorità riconoscano e dichiarino per ben tre volte la sua innocenza (At 23,29; 25,25; 26,32). Ma, come per il giusto Gesù (Lc 23,18.21), anche per l’innocente Paolo la folla chiederà la pena di morte (At 21,36; 22,22). Conformato al suo Maestro nell’ultimo atto della sua passione; Paolo diventa in tal modo il modello del discepolo maturo: « Il discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro » (Lc 6,40). In una Chiesa che non ha più la presenza sensibile di Gesù, il Risorto continua a essere presente e visibile attraverso quei « modelli cristici », che sono i discepoli ben preparati e di cui Paolo è come un prototipo. Sembra di sentir risuonare, in questa visione lucana dell’apostolo, l’eco dell’appello fatto dal Paolo delle lettere autentiche: « Diventate miei imitatori, come io sono lo sono di Cristo » (1Cor 11,1). Sull’esempio di Paolo, i discepoli, conformati al Maestro Gesù nel modo di vivere e di patire, possono continuare a manifestare al mondo intero la presenza salvifica del loro Signore. Se, da una parte, nella sua passione Paolo è presentato come il discepolo « ben preparato », dall’altra, proprio nella difficile fase processuale, egli emerge come coraggioso difensore della legittimità dell’annuncio cristiano e poi testimone di Cristo e della salvezza che in lui è offerta a tutti i popoli. L’apostolo giunge al momento dell’arresto e del processo preceduto da una serie di azioni giudiziarie (Filippi: At 16,19-24.35-39; Tessalonica: 17,5-9; Corinto: 18,12-17) nelle quali la sua attività di evangelizzatore è stata dai pagani interpretata come propaganda di costumi non leciti ai romani (At 16,20-21) e dai giudei astutamente presentata come predicazione di un messianismo politico (At 17,7) e di una fede contraria all’ordinamento romano (At 18,13). Continuamente si tenta, di fronte alle autorità romane, di far passare il cristianesimo, da Paolo rappresentato, come una realtà che sconvolge l’assetto sociale e che crea turbativa nell’ordine pubblico. Ma il giudizio delle autorità evidenzia che l’evangelizzazione non è né un delitto né un’azione malvagia penalmente perseguibile (At 18,14) e lascia intendere che si può essere credenti ed evangelizzatori e al contempo buoni cittadini romani, a cui vanno riconosciuti i diritti di cittadinanza (vedi le scuse dei magistrati in At 16,39). Il cristianesimo, che Paolo simboleggia, non è dunque un pericoloso elemento di sovversione ma può godere del riconoscimento e della protezione del diritto romano. Durante il processo le accuse a Paolo si rinnovano. Di fronte all’uditorio giudaico (At 21,28) l’apostolo è presentato come trasgressore della legge e del costume giudaico, quindi come un apostata dalla religione giudaica. Di fronte all’autorità romana (At 24,5-6) egli è mostrato nuovamente come un fomentatore di rivolte e quindi come un sovversivo dell’ordine pubblico e della pax romana. Il lettore degli Atti, che ha seguito la vicenda paolina, sa che queste accuse sono false e sente vera l’affermazione di Paolo: « Non ho commesso colpa alcuna, né contro la Legge dei Giudei né contro il tempio né contro Cesare » (At 25,8). Una volta sgomberato il campo dalle accuse di apostasia dal giudaismo e di pericolosità per l’ordine romano, Paolo nell’ultima solenne apologia di fronte ad Agrippa (At 26) risolve la sua difesa in una testimonianza a Cristo. Se egli è sotto processo è perché egli ha visto realizzarsi nell’evento della risurrezione di Cristo la « speranza d’Israele » in quel Dio che risuscita i morti e, sulla base delle profezie messianiche, ha costantemente testimoniato che in lui « la luce » della salvezza doveva essere annunciata a tutti, a Israele ed anche ai pagani (At 26,22-23). La sua esperienza di fariseo persecutore, trasformato dal Risorto e da lui mandato a evangelizzare le genti, è la garanzia della veridicità della sua testimonianza. Il motivo vero per cui Paolo è sotto processo è dunque la sua qualità di testimone del Risorto e dell’offerta universale di salvezza: la sua autentica difesa non può risolversi che in una rinnovata testimonianza a lui e alla « luce » che il Risorto offre ad ogni uomo. L’accusato a motivo di Cristo si difende testimoniando Cristo e trasforma – secondo la parola stessa di Gesù (Lc 21,13) – la difficile situazione giudiziale in « occasione di dare testimonianza ». Ma testimoniando in tal modo, Paolo, l’accusato, rovescia le parti: sono gli accusatori adesso a diventare accusati. Sono essi a essere posti sotto giudizio, perché non hanno riconosciuto e accolto il compimento della loro speranza e la salvezza, che è loro offerta in Cristo. La figura di Paolo perseguitato che si difende argomentando e testimoniando può diventare paradigmatica anche per i credenti di oggi. In condizioni di incomprensione e talora di tacita ostilità, determinate non da loro carenze o da miopie storiche ma dall’annuncio che essi portano, ai credenti non rimane come difesa che il linguaggio della testimonianza, il linguaggio di una vita profondamente trasformata dal vangelo che proclamano e di un’argomentazione che ne fa risplendere le ragioni. È questa esistenza rinnovata, garanzia di credibilità dell’annuncio, che può giungere ad interrogare chi è in ricerca e a fargli dire – come è successo ad Agrippa di fronte a Paolo -: « Ancora un poco e mi convinci a farmi cristiano! » (At 26,28). Essa può anche suscitare atteggiamenti di difesa in chi non vuole assolutamente cambiare fino a fargli pronunciare giudizi simili a quello di Festo: « Sei pazzo Paolo » (At 26,24). In ogni caso l’azione testimoniale, che garantisce con l’autenticità della vita e con la forza della parola, non può lasciare nell’indifferenza: essa edifica, interroga e inquieta anche chi è inizialmente ostile. Su di essa si è incentrata, fin dalle difficili situazioni degli inizi, la parenesi cristiana: « Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli » (Mt 5,16); « Tenete una condotta esemplare fra i pagani perché, mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere, diano gloria a Dio nel giorno della sua visita » (1Pt 2,12), e ancora: « Se poi doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non sgomentatevi per paura di loro e non turbatevi, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo » (1Pt 3,14-16).

+ Giuseppe Betori
Arcivescovo di Firenze

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