“PAOLO, IL MIO FILOSOFO” (John Duns Scoto)

dal sito:

http://www.centrodunsscoto.it/articoli/Articoli_html/Paolo_ilmio_filosofo.htm

CENTRO STUDI PERSONALISTICI « GIOVANNI DUNS SCOTO »

per una biografia di Duns Scoto:

http://www.santiebeati.it/dettaglio/76460

“PAOLO, IL MIO FILOSOFO”

Lauriola Giovanni
 

L’espressione “Paolo è il mio Filosofo”- (“Philosophus noster, Paulus est”) – appartiene a Giovanni Duns Scoto, pensatore francescano del medio evo (1265-1308), con la quale intendeva riaffermare il primato assoluto della carità, non solo a livello morale, ma soprattutto ontologico, come personificazione di Cristo, che rivela la caratteristica propria e unica di Dio Padre, “Dio è Carità”. Il contesto in cui viene usata è quello di dare maggior peso e più valore alla propria opinione sull’essenza della beatitudine, avvalorandola con l’ auctoritas di Paolo ai Corinti , in contrapposizione all’altra opinione avvalorata dall’auctoritas di Aristotele . Il testo di Paolo, com’è noto a tutti, appartiene alla conclusione del famoso inno alla “carità”, che sintetizza i desideri dei fedeli di Corinto che erano bramosi di possedere ardentemente quei carismi con cui Dio aveva favorito la Chiesa delle origini. Paolo, oltre a riconoscere nobile questo desiderio di aspirare “ai carismi più elevati”, aggiungeva subito con la forza della sua esperienza che di tutte le virtù “la più grande è la carità” . Le celebrazioni due volte millenarie in onore della nascita di Paolo e i sette centenari della morte di Duns Scoto sono una buona occasione per riflettere su questi due autori, di cui l’uno si richiama direttamente a Cristo e l’altro a Paolo. Proprio queste dipendenze discendenti – Cristo da Dio Padre, Paolo da Cristo e Duns Scoto da Paolo – sono il fondamento del primato assoluto della carità, meno come virtù morale che come caratteristica esclusiva dell’agire di Dio e di Cristo, che viene proposto come modello al cristiano. L’inno alla carità di Paolo Certamente l’inno alla carità di Paolo è un testo meraviglioso e sublime insieme. A livello di contenuto però si presenta anche molto complesso, perché le interpretazioni che se ne possono dare sono varie, in base al senso che si dà al termine “carità”, se riferito a Dio, a Cristo, al prossimo… Dal contesto immediato sembra debba riferirsi al prossimo, che, comunque, sottende la carità di Dio e di Cristo verso gli uomini. Difatti, Paolo intende proporre al cristiano come modello di comportamento e di vita lo stesso agire di Dio in Cristo sotto l’egida dello Spirito. Come il modello è sempre anteriore alla sua realizzazione concreta, così la carità verso il prossimo scaturisce dalla carità di Dio verso gli uomini. Concetto ben evidenziato nella lettera agli Efesini: “Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi” ; a cui subito dopo aggiunge: “Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatto rivivere con Cristo” . Schema e concetto espressi quasi in tutte le sue lettere come un ritornello, per esprimere al meglio che l’uomo è conosciuto e amato da Dio in Cristo . Poiché tale conoscenza e amore appartengono al disegno di Dio rivelato in Cristo, è logico che l’avventura umana rientra da sempre nel mistero stesso di Dio, sia nella dimensione Trinitaria che dell’Incarnazione. E interpretando tale disegno Paolo associa continuamente la carità del Cristo alla carità del Padre, da cui ha origine a livello storico. Difatti il mistero di Dio si rivela e si manifesta in Cristo Gesù. La carità di Cristo allora dev’essere intesa sia come attività efficiente, in base alla sua caratteristica di unico Mediatore, ma anche come causa strumentale unica in virtù della sua libera azione redentiva, essendo il Redentore che ha voluto morire per noi. Nell’inno alla carità, Paolo si fa guidare dalla logica dell’amore divino: diffusione libera e responsabile. Nella lettera ai Corinzi, infatti, scrive: “l’amore di Cristo ci spinge al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti. Egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro” . In questo testo c’è tutta la forza dirompente dell’amore: amore richiama amore. All’amore di donazione e di schietta amicizia corrisponde come risposta la dinamica dell’amore imitativo, che spiega l’origine della santità partecipata agli amici di Cristo. In questo modo, l’inno alla carità cantato da Paolo sintetizza contemporaneamente, anche se in modo non sempre con uguale chiarezza, le due dimensioni della carità: quella verso Dio e verso Cristo come causa motiva e quella della carità verso il prossimo. L’amore verso il prossimo viene ancorato all’amore verso Dio in Cristo, che, in quanto stabile sicuro e immutabile, può alimentare nell’uomo la speranza di poter amare Dio, perché in Cristo è stato per primo amato da Lui , come viene esplicitamente dichiarato negli inni cristologici delle lettere agli Efesini e ai Colossesi . Ancoraggio necessario per evitare all’amore dell’uomo verso Dio e verso Cristo di cadere in balia della volubilità umana, e di conservare la via sicura verso il porto della salvezza. Nell’inno alla carità, Paolo, dando per scontato i riferimenti al disegno di Dio in Cristo, da cui fa scaturire la risposta morale e teologica dell’amore umano, parla direttamente dell’amore verso il prossimo come partecipazione dell’amore divino. Amore non solo individuale ma anche ecclesiale, perché il singolo mediante il dono dell’amore di Dio, abbondantemente riversato nel suo cuore, diventa o meglio viene costituito “fratello e membro” di tutti coloro che ricevono lo stesso dono, e, quindi parte integrante del “corpo di Cristo” e della sua crescita . Il fine dell’accrescimento del corpo di Cristo è quello di raggiungere la sua “pienezza” . Il mezzo di tale edificazione è certamente la pratica dell’amore del prossimo che i singoli membri attualizzano nella loro vita. L’anima di questo camminare nella carità è rappresentato dall’amore fraterno o del prossimo, come compimento della legge divina . A queste premesse di carattere generali, si può aggiungere anche un altro pensiero di Paolo, desunto dalla lettera agli Efesini, che aiuta ancor più a comprendere la proposizione dell’inno alla carità come modello esemplare di vita cristiana. Il modello è sempre l’amore di Dio manifestato in Cristo: “siate benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo. Fatevi imitatori di Dio… e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore” . E’ semplicemente meraviglioso e sublime insieme l’invito di Paolo a essere imitatori di Dio, attraverso l’imitazione di Cristo e l’esercizio della carità fraterna. E come l’amore di Cristo verso di noi è un atto di assoluta libertà, così l’amore verso il prossimo deve rivestirsi di tutte le caratteristiche personificate da Paolo nell’inno, che si presenta sempre con più evidenza segno e presenza dell’amore ineffabile di Dio in noi . L’esempio dell’amore di Cristo, quindi, costituisce contemporaneamente modello e stimolo di perfezione, cui ogni cristiano è chiamato a raggiungere , perché l’amore di Cristo è il frutto dell’amore di Dio. Viene così rispettata la scala prospettata dallo stesso Paolo quando ai Corinzi scrive: “tutto è dell’uomo, l’uomo è di Cristo e Cristo è di Dio” . La via ascendente riassume il cammino umano e cristiano verso la perfezione, e suppone la via discendente e primaria dell’amore di Dio in Cristo verso l’uomo, ossia all’amore di Dio in Cristo deve corrispondere l’amore del prossimo sul modello esemplare di Cristo. Dall’insieme di queste brevi caratteristiche generali intorno all’inno della carità di Paolo, si ricava a tutto tondo il così detto “primato della carità”, che compendia tutta la legge , ed esprime la partecipazione dell’amore di Dio in Cristo verso l’uomo. Il primato della carità su tutte le altre virtù deriva dal fatto che “non viene mai meno” , nel senso che speranza e fede cesseranno nella gloria, che è regno d’amore, perché in Cristo vedremo Dio così com’è, “a faccia a faccia” . Il primato della carità in Duns Scoto Nel contesto del primato della carità in Paolo, si colloca la questione da sempre dibattuta nel mondo cristiano circa il rapporto tra conoscere e volontà, tra sapienza e amore. Nel pensiero di Duns Scoto costituisce il cuore della sua dottrina in ordine alla relazione che l’uomo può raggiungere con Dio nella sua avventura esistenziale. Dando per scontato l’iter specifico della via Scoti, qui interessa soltanto evidenziare il valore e il significato dell’espressione “Paolo è il mio filosofo”! La questione nella quale viene usata l’espressione ha per titolo “se la beatitudine consiste essenzialmente nell’intelligenza” ed è riportata come auctoritas insieme a quella di Agostino . La risposta positiva alla questione, e cioè che la beatitudine consiste nella conoscenza di Dio, poggia sul testo rivelato di Giovanni e sull’autorità di Aristotele . La risposta di Duns Scoto, invece, afferma che la beatitudine consiste essenzialmente nella volontà o amore, e poggia la sua affermazione sull’autorità di Paolo e di Agostino a differenza dell’altra ipotesi che invece poggiava l’argomento di ragione sul Filosofo. Il termine auctoritas nel medio evo ha consolidato nella sua lunga evoluzione semantica il significato di designare sia la persona che il testo come garanzia di autenticità a quello che si dice o scrive. In questo senso anche gli autori classici vengono utilizzati come auctoritates nella loro materia. Così per es., Aristotele è citato come il Filosofo che esprime la pura razionalità dell’uomo senza alcun ricorso alla fede, per cui la sua “autorità” in campo razionale è massima. L’incontro, però, tra mondo pagano e mondo cristiano pone dei problemi fondamentali circa l’interpretazione dei concetti di Dio, mondo, uomo, natura, ragione, fine ultimo…, perché il cristianesimo ha alle spalle l’autorità della Scrittura che rivela alcune idee essenziali, che la ragione umana da sola non può raggiungere pienamente, come la storia del pensiero documenta, anche dopo la fase aurea del periodo medievale. Fondamentali per questo riferimento sono i concetti di “Dio creatore”, di “peccato originale”, di “necessità della grazia per raggiungere il fine ultimo”, che appartengono all’ambito della fede, dando vita a due interpretazioni antropologiche essenzialmente diverse: quella che, ritenendo perfetta la natura umana, nega o rifiuta l’ordine soprannaturale; l’altra che riconosce la debolezza della natura e la necessità della perfezione soprannaturale. Una qualunque lettura cristiana dei problemi esistenziali fondamentali non può prescindere dal riferimento al dato biblico rivelato. Per alcuni pensatori cristiani il riferimento è di natura morale, per altri è di necessità ontologica, nel senso che i primi pensano che tali problemi appartengono all’ordine razionale dell’uomo, mentre per i secondi all’ordine della fede. Problema sempre aperto e mai chiuso nella storia del pensiero. Duns Scoto è il capostipite di questa seconda interpretazione che pensa i così detti “preamboli della fede” – dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio, dell’anima, della libertà, del diritto naturale, del fine ultimo… – come appartenenti all’ambito della fede e non a quello della ragione. Nel suo pensiero, pertanto, si trova la distinzione della natura umana in “storica o elevata” e “pura o astratta”, a seconda se considerata in ordine al peccato originale o meno, e, quindi, in ordine anche alla grazia per raggiungere il fine ultimo o beatitudine. Pertanto, Duns Scoto afferma che l’uomo non può né conoscere né amare la beatitudine, senza l’aiuto necessario della grazia, che è un dono soprannaturale. La necessità della grazia riguarda sia l’ambito conoscitivo che quello volitivo. Il Maestro francescano, infatti, ritiene che la beatitudine, come partecipazione alla vita del Sommo Bene, implica necessariamente l’elevazione delle due potenze dell’uomo,intelligenza e volontà, con le quali si raggiunge e si gode il Bene Infinito. A riprova della sua interpretazione cita il testo conclusivo dell’inno alla carità di Paolo: “la virtù più grande è la carità”. Conclusione Al termine di questo semplicissimo riferimento di Autori così lontani nel tempo ma così vicini nel pensiero, piace segnalare che tecnicamente la stessa problematica è presente anche in Paolo, specialmente quando considera la “conoscenza di Dio” come “frutto dell’amore”. L’espressione “conoscenza di Dio” ha valore più oggettivo che soggettivo, riguarda cioè il modo come Dio si conosce e si ama in Cristo. Quanta più profonda è tale conoscenza di Dio e di Cristo, tanto più sicuro è lo stimolo a ricambiare tale amore. Perché l’uomo possa conoscere e amare Dio e Cristo in questa dimensione divina è necessario che sia elevato all’ordine soprannaturale con il dono della grazia. Conoscere la conoscenza che Dio in Cristo ha dell’uomo significa conoscere tutti i gradi del disegno divino che Paolo descrive nella lettera agli Efesini: in Cristo ci ha benedetti, ci ha scelti e ci ha predestinati a essere figli adottivi di Dio, ci ha amati da sempre. Conoscere questo amore di Dio e di Cristo è sinonimo di beatitudine, che si realizza alla perfezione solo in cielo nella gloria, dove si conosce come si è conosciuti e si ama come si è amati. Così, tutto viene ricapitolato in Cristo, e la sua carità sorpassa ogni conoscenza. Questo, uno spaccato della vicinanza essenziale tra Duns Scoto e Paolo, rivelatore dell’amore di Cristo, fondamento e perfezione di tutto.

Publié dans : TEOLOGIA, teologia - cristologia |le 3 novembre, 2009 |Pas de Commentaires »

Vous pouvez laisser une réponse.

Laisser un commentaire

Une Paroisse virtuelle en F... |
VIENS ECOUTE ET VOIS |
A TOI DE VOIR ... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | De Heilige Koran ... makkel...
| L'IsLaM pOuR tOuS
| islam01