Archive pour octobre, 2009

Carlo Maria Martini: « Santi del nuovo Millennio » (18 agosto 2000)

questa omelia la posto in vista della festa di tutti i Santi, dal sito:

http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/laity/documents/rc_pc_laity_doc_20000818_xv-youth-day_catechesi-martini_it.html

CATECHESI DEL CARDINALE CARLO MARIA MARTINI,

ARCIVESCOVO DI MILANO, NELLA BASILICA DI SAN GIOVANNI IN LATERANO

Venerdì 18 agosto 2000

« Santi del nuovo Millennio »

Giovani di ogni continente, non abbiate paura di essere i santi del Nuovo Millennio! Essere santi vuol dire essere divini, entrare nella sfera del divino.

La santità è una dimensione anzitutto ontologica prima di essere una dimensione morale. Essere in Dio, essere figli, essere in Gesù, ecco ciò che siamo chiamati ad essere, come pure, ad essere immacolati, cioè senza macchia.

San Paolo nel capitolo quinto della Lettera agli Efesini parla della Chiesa e dice che Cristo ha amato la Chiesa, ha dato se stesso per Lei, per renderla santa purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua, accompagnata dalla Parola, al fine di farci comparire davanti alla sua Chiesa tutta gloriosa senza macchia, né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata.

E noi siamo chiamati a essere santi ed immacolati in Gesù; la Chiesa è chiamata ad essere in Gesù santa e immacolata. Ecco, dunque, l’intenzione di Dio nella storia, che traspare da questa pagina di San Paolo.

L’intenzione di Gesù è di fare di ciascuno di voi qui presenti, di me che vi parlo, una sola cosa in Cristo e di fare di noi una sola cosa santa, cioè la Chiesa, di renderci divini, di purificarci da ogni macchia di egoismo, di odio, di amor proprio, di renderci figli nel figlio Gesù, come dice il versetto quinto di questo capitolo primo, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo secondo il beneplacito della Sua volontà.

Ecco l’intenzione di Dio, che appare da questo brano:  essere santi, essere divini, cioè essere in Cristo, essere amati come figli, essere come Gesù, portare nel mondo la presenza e l’irradiazione stessa di Gesù.

Ecco fin qui ho cercato di leggere con voi questi versetti di San Paolo molto ricchi, molto superiori a quanto lui riesca a spiegare, ma ho cercato con voi di rendermi conto della immensità di questa chiamata ad essere santi.

Che cosa dice questa pagina a ciascuno di noi, oggi, che siamo qui in ascolto? e che cosa vuol dire, dunque, secondo la parola di San Paolo essere santi?

Quando noi ascoltiamo questa parola subito proviamo come un brivido di timore che essere santi significa essere molto bravi, fare chissà quali sforzi, ma questa pagina ci dice che tutto è molto più semplice:  essere santi vuol dire lasciarsi amare da Dio, lasciarsi guardare da Dio come Lui stesso guarda Gesù Cristo, significa essere figli in Gesù e con Gesù, vuol dire essere amati, lavati e perdonati da Gesù.

Essere santi, quindi, è un problema di Dio, prima che nostro, è un problema che tocca a Lui risolvere, per noi è importante lasciarci amare, non irrigidirci, non spaventarci, ma meravigliarci, quanto più ci ami o mio Dio e vuoi essere tutto in me, che vuoi fare una cosa sola con me, per insegnarmi a vivere ad amare, a soffrire e a morire come Te.

Ecco cosa vuol dire essere santi:  lasciare che Gesù viva in noi, lasciare che lo Spirito Santo formi l’immagine e la vita di Gesù in noi, così che giorno dopo giorno Gesù ci insegni a vivere, ad amare, a perdonare, a soffrire, a morire come Lui.

Ecco cosa vuol dire essere santi:  lasciare che Dio operi in noi e lasciare che da questa opera di Dio emergano anche poco a poco i passi, le caratteristiche i momenti, che ritmano la nostra santità.
Qui ritorno al messaggio del Santo Padre, di cui ho letto le prime parole:  « Giovani di ogni continente, non abbiate paura di essere i santi del Nuovo Millennio! ». Il Santo Padre descrive concretamente le caratteristiche di questa santità, che sono cinque.

« Siate – Lui dice – contemplativi e amanti della preghiera, coerenti con la vostra fede, generosi nel sevizio dei fratelli, membra attive della Chiesa, artefici di pace ».

Ecco che Egli ci traduce come mettere Gesù al centro del nostro cuore e della nostra vita.
Essere contemplativi si esplica in un qualcosa di molto semplice, per me sarebbe già molto, se ognuno iniziasse col prendersi dieci minuti al giorno di silenzio con il Vangelo, per pregustare la gioia del momento e allargare il tempo secondo le proprie possibilità.

Essere coerenti, cioè dare quello spettacolo che voi tutti date in questi giorni alla città di Roma, dimostrando che siete gente che ha speranza, gente che sorride, gente che affronta i sacrifici con serenità.

Essere generosi nel servizio dei fratelli consiste nei tanti atti di solidarietà. Ecco voi state dando al mondo questa immagine semplice di santità, che viene registrata con sorpresa dai mass-media, ma che eppure è qui ed è possibile. Nell’essere membra attiva della Chiesa volete esprimere la vivacità, la disponibilità, l’amore, la capacità di perdono della Chiesa. Ciascuno di voi, poi, vuole ed è chiamato ad essere artefice di pace, cominciando dalla famiglia, dalla parrocchia, dal proprio gruppo, a portare parole di benevolenza, di comprensione e di accoglienza.

Dopo avere descritto queste caratteristiche della santità, il Santo Padre dice anche come fare concretamente perché esse non siano proprie soltanto di questo giorno, ma diventino vita vissuta nella quotidianità. Dice il Santo Padre:  « Per realizzare questo impegnativo progetto, di vita rimanete nell’ascolto della Sua parola, attingete vigore dai sacramenti, specialmente dalla Eucaristia e dalla Penitenza ». Sono due atteggiamenti fondamentali, che nutrono la nostra santità, anzitutto l’ascolto della Parola. Queste ancora le parole del Santo Padre, che esprimono più concretamente che cosa aspetta da ciascuno di noi:  « Diventi il Vangelo il vostro tesoro più prezioso nello studio attento e nell’accoglienza generosa, nella Parola del Signore troverete alimento e forza per la vita di ogni giorno, troverete le ragioni di un impegno senza soste nell’edificazione della civiltà dell’amore ».

Se essere santi vuol dire essere come Gesù, in Gesù, è il Vangelo meditato e letto ogni giorno, che mette dentro di noi la vita, i sentimenti, i giudizi, i pensieri, le reazioni di Gesù. Rimanere, dunque, nell’ascolto della Parola e attingere vigore dai sacramenti soprattutto della Eucaristia e della Penitenza. Vorrei sottolineare come sia stato notato in questi giorni anche dai mass-media, con sorpresa, il rivivere della Confessione. Queste migliaia di confessioni fatte con fiducia nel Circo Massimo e altrove e qui; vorrei dirvi di non dimenticare questa straordinaria esperienza del sacramento della Penitenza. Portatela con voi, perché è attraverso questo sacramento che noi ritroviamo pur nella nostra debolezza, la forza ogni giorno di essere come Gesù, cioè essere santi.

A noi sembra molto duro e difficile tendere alla santità ogni giorno, è qualcosa che ci spaventa, eppure noi sperimentiamo continuamente che essere in Gesù e come Gesù, è molto bello ed è molto più bello del contrario, come diceva un autore recente:  « Non c’è che una tristezza, quella di non essere santi, la negligenza, la pigrizia, la svogliatezza, il cercare sempre e soltanto i propri comodi è la cosa più triste che ci sia. La santità, l’essere in Gesù, il cercare di avvicinarci a Lui, è la cosa più bella ». Vale la pena, dunque, provare ed è possibile realizzare questo ideale.

Mi vengono, così, in mente, tanti santi, che ho conosciuto, ammirato, e frequentato personalmente, persone, che hanno operato in più settori, dalla politica all’università, dall’imprenditoria a donne, madre di famiglia che hanno dato la propria vita per quella dei figli.

Tutti loro ci fanno vedere che i santi sono tanti oggi e che quindi la santità è in mezzo a noi. Ci sono nel nostro tempo non solo moltissimi santi, ma anche molti martiri del nostro tempo. Martiri della missione, martiri dell’aiuto agli ebrei, martiri delle stragi di popoli, martiri della dignità della persona umana, martiri della carità e martiri della giustizia. Non c’è stato mai nella storia della Chiesa un secolo così ricco di martiri come il secolo ventesimo, quindi la santità eroica soprattutto in mezzo a noi, da persone deboli, fragili come noi, ma capaci di lasciarsi possedere da Cristo Gesù.

Il 7 maggio scorso il Santo Padre ha voluto ha voluto fare memoria dei martiri ecumenici, cioè di tutte le chiese e confessioni cristiane, che hanno testimoniato la fede sotto un totalitarismo sovietico, ortodossi vittime comunismo, in tante nazioni europee.

Penso, così, all’Albania, alle persone che per decenni hanno vissuto ai lavori forzati o nei carceri, ai confessori della fede, vittime del nazismo e del fascismo, ai confessori che hanno dato la vita per la fede del Vangelo in Asia, in Oceania, fedeli della Spagna e del Messico, del Magadascar e dell’Africa, perseguitati, fedeli in America Latina. Ecco la presenza dei santi, oggi! La forza di Gesù che nessuno di noi ha, che nessuno di noi può pretendere di avere, ma che il Signore ha concesso in abbondanza a questo nostro secolo, che appare così pagano ma che è ricco più di tutti gli altri tempi di martiri e di santi.

Vorrei concludere con una testimonianza, che è forse una delle più sconvolgenti. Scritta qualche anno fa, nel 1994 il 1° dicembre, dal Priore di un monastero algerino, rapito e ucciso con altri sei monaci trappisti il 7 maggio del 1996. Ebbene scriveva, prevedendo cosa stava succedendo attorno a lui:  « Se un giorno mi capitasse, e potrebbe essere oggi, di essere vittima del terrorismo, che sembra voler coinvolgere attualmente tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era stata donata a Dio e a questo popolo. Vorrei che essi accettassero che l’unico Signore di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa brutalità. Vorrei che essi pregassero per me. Come essere degno di una tale offerta! Vorrei che essi sapessero associare questa morte a tante altre, ugualmente, violente, lasciate nell’indifferenza e nell’anonimato. La mia vita non ha più valore di un’altra, non ne ha neanche meno, in ogni caso non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male, che sembra in me prevalere nel mondo e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca. Venuto il momento vorrei avere quell’attimo di lucidità, che mi permettesse di chiedere il perdono di Dio a quello dei miei fratelli, perdonando con tutto cuore, nello stesso momento, a chi mi avesse colpito ed anche tu, amico dell’ultimo istante, che non saprai quello che starai facendo, sì anche per te voglio dire questo grazie a Dio, nel cui volto ti contemplo, e ci sia dato di incontrarci di nuovo ladroni colmati di gioia in paradiso, se piace a Dio Padre nostro, Padre di tutti e due ».

È andato così con i compagni incontro ad una morte violenta, tenendo nel cuore la parola del perdono. Ecco la santità di oggi, quella che Gesù compie, quella che lo Spirito Santo della nostra debolezza esprime e nessuno di noi può presumere di avere questa forza, ma possiamo fidarci di Dio e di Gesù che opera in noi.

Vorrei concludere, proponendovi alcune domande per la vostra riflessione:  mi interrogo, ho voglia di essere santo, oppure ho paura di esserlo? Quale il più grande ostacolo per la santità? Quale, invece, il più grande stimolo, oggi, per la santità?

Publié dans:c.CARDINALI, SANTI |on 27 octobre, 2009 |Pas de commentaires »

Giovanni Paolo II ad Atene: “Quello che voi adorate senza conoscerlo, io ve lo annunzio” (At 17, 23). (5 maggio 2001)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/homilies/2001/documents/hf_jp-ii_hom_20010505_athens_it.html

SANTA MESSA NEL PALAZZO DELLO SPORT
DEL CENTRO OLIMPICO DI ATENE

OMELIA DEL SANTO PADRE

Sabato, 5 maggio 2001

Cari Fratelli e care Sorelle,

1. “Quello che voi adorate senza conoscerlo, io ve lo annunzio” (At 17, 23).

[citazione di altre Lettere: “A coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, chiamati ad essere santi insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo...; grazie a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo (1Cor 1, 2-3)]

Riportate dagli Atti degli Apostoli, queste parole di Paolo pronunciate nell’Areopago di Atene
costituiscono uno dei primi annunci della fede cristiana in Europa. “Se si considera il ruolo avuto
dalla Grecia nella formazione della cultura antica, si comprende come quel discorso di Paolo
possa considerarsi in qualche modo il simbolo stesso dell’incontro del Vangelo con la cultura
umana” (Lettera sul pellegrinaggio ai luoghi legati alla Storia della Salvezza, n. 9).
“A coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, chiamati ad essere santi insieme a tutti quelli
che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo…; grazie a voi e pace da Dio
Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo” (1 Cor 1, 2-3). Con queste parole dell’Apostolo alla
comunità di Corinto, saluto con affetto tutti voi, Vescovi, sacerdoti e laici cattolici che vivete in
Grecia. Ringrazio innanzitutto Monsignor Foscolos, Arcivescovo dei cattolici di Atene e
Presidente della Conferenza Episcopale di Grecia, per la sua accoglienza e per le sue cordiali
parole. Riuniti questa mattina per la Celebrazione Eucaristica, chiediamo all’Apostolo Paolo di
donarci il suo ardore nella fede e nell’annuncio del Vangelo a tutte le nazioni, così come la sua
sollecitudine per l’unità della Chiesa. Sono lieto della presenza alla Liturgia Divina di fedeli di
altre confessioni cristiane, che rendono così testimonianza della loro attenzione verso la vita
della comunità cattolica e della loro comune fraternità in Cristo.

2. Paolo ricorda chiaramente che non possiamo rinchiudere Dio nei nostri modi di vedere e di
agire del tutto umani. Per accogliere il Signore, siamo chiamati alla conversione. Questo è il
cammino che ci viene proposto, cammino che ci fa seguire Cristo per vivere come Lui, figli nel
Figlio. Possiamo allora rileggere il nostro cammino personale e quello della Chiesa come
un’esperienza pasquale; dobbiamo purificarci per aderire pienamente alla volontà divina,
accettando che Dio, mediante la sua grazia, trasformi il nostro essere e la nostra esistenza,
come avvenne con Paolo che da persecutore si fece missionario (cfr Gal 1, 11-24). Passiamo
così per la prova del Venerdì Santo, con le sue sofferenze, con le notti della fede, con le
incomprensioni reciproche. Ma viviamo anche momenti di luce, simili all’alba di Pasqua, in cui il
Risorto ci comunica la sua gioia e ci fa giungere alla verità completa. Prospettando in tal modo
la nostra storia personale e la storia della Chiesa, non possiamo che perseverare nella speranza,sicuri che il Maestro della storia ci conduce lungo vie che solo Lui conosce. Chiediamo allo Spirito Santo di spingerci a essere, mediante le nostre parole e i nostri atti, testimoni della Buona Novella e della carità di Dio! Poiché lo Spirito suscita l’ardore missionario nella sua Chiesa, è lui a chiamare e a inviare, e il vero apostolo è innanzitutto un uomo “all’ascolto”, un servitore disponibile all’azione di Dio.

3. Ricordare ad Atene la vita e l’operato di Paolo significa essere invitati ad annunciare il
Vangelo fino ai confini della terra, proponendo ai nostri contemporanei la salvezza portata da
Cristo e mostrando loro le vie della santità e della retta vita morale che costituiscono le risposte
all’appello del Signore. Il Vangelo è una buona novella universale, che tutti i popoli possono
udire. Nel rivolgersi agli Ateniesi, San Paolo non vuole nascondere nulla della fede che ha ricevuto; egli deve, come ogni apostolo, custodirne fedelmente il deposito (cfr 2 Tm 1, 14). Se parte dai riferimenti comuni dei suoi ascoltatori e dai loro modi di pensare è per far comprendere meglio il Vangelo che è venuto a portare loro. Paolo si fonda sulla conoscenza naturale di Dio e sul desiderio spirituale profondo che i suoi interlocutori possono avere, per prepararli ad accogliere la rivelazione del Dio unico e vero.
Se ha potuto citare davanti agli Ateniesi autori dell’Antichità classica è perché, in un certo
senso, la sua cultura personale era stata forgiata dall’ellenismo. Si è dunque servito di ciò per
annunciare il Vangelo con parole che possono colpire i suoi interlocutori (cfr At 17, 17). Che
lezione! Per annunciare la Buona Novella agli uomini di questo tempo, la Chiesa deve essere
attenta ai diversi aspetti delle loro culture e ai loro mezzi di comunicazione, senza che ciò porti
ad alterare il suo messaggio o a ridurne il senso e la portata. “Il cristianesimo del terzo millennio dovrà rispondere sempre meglio a questa esigenza di inculturazione” (Novo millennio
ineunte, n. 40). Il discorso magistrale di Paolo invita i discepoli di Cristo a partecipare a un
dialogo veramente missionario con i loro contemporanei, nel rispetto di ciò che sono, ma anche
con una proposta chiara e forte del Vangelo, come pure delle sue implicazioni e delle sue
esigenze nella vita delle persone.

(il punto 4 non c’è)

5. Fratelli e sorelle, il vostro Paese beneficia di una lunga tradizione di saggezza e di umanesimo. Fin dalle origini del cristianesimo, i filosofi si sono impegnati per “far emergere il legame fra la ragione e la religione… Si intraprese, così, una strada che, uscendo dalle tradizioni antiche particolari, si immetteva in uno sviluppo che corrispondeva alle esigenze della ragione
universale” (Fides et ratio, n. 36). Questa opera dei filosofi e dei primi apologisti cristiani
permette di avviare, nella sequela di San Paolo e del suo discorso di Atene, un dialogo fecondo
fra la fede cristiana e la filosofia. Sull’esempio di San Paolo e delle prime comunità, è urgente sviluppare le occasioni di dialogo con i nostri contemporanei, soprattutto nei luoghi in cui è in gioco il futuro dell’uomo e dell’umanità, affinché le decisioni prese non siano guidate unicamente da interessi politici ed economici che disconoscono la dignità delle persone e le esigenze che ne derivano, ma perché vi sia quel supplemento d’anima che ricorda il posto insigne e la dignità dell’uomo. Gli areopaghi che sollecitano oggi la testimonianza dei cristiani sono numerosi (cfr Redemptoris missio, n. 37); vi incoraggio a essere presenti nel mondo; come il profeta Isaia, i cristiani sono posti quali sentinelle in cima alla muraglia (cfr Is 21, 11-12), per discernere le sfide umane delle situazioni presenti, per percepire nella società i germi di speranza e per mostrare al mondo la luce della Pasqua, che illumina di un nuovo giorno tutte le realtà umane.
Cirillo e Metodio, i due fratelli di Salonicco, hanno udito l’appello del Risorto: “Andate in tutto il
mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc 16, 15). Partiti per incontrare i popoli slavi,
hanno saputo portare loro il Vangelo nella loro lingua. Non solo “svolsero la loro missione nel
pieno rispetto della cultura già esistente presso i popoli slavi, ma insieme con la religione
eminentemente e incessantemente la promossero ed accrebbero” (Slavorum Apostoli, n. 26).
Che il loro esempio e la loro preghiera ci aiutino a rispondere sempre meglio all’esigenza di
inculturazione e a rallegrarci della bellezza di questo volto multiforme della Chiesa di Cristo!

6. Nella sua esperienza personale di credente e nel suo ministero di apostolo, Paolo ha
compreso che solo Cristo è il cammino di salvezza, Lui che, mediante la grazia, riconcilia gli
uomini fra di loro e con Dio. “Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo
solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo” (Ef 2, 14). L’Apostolo si è poi fatto
difensore dell’unità, in seno alle comunità e anche fra di esse, poiché ardeva della
“preoccupazione per tutte le Chiese” (2 Cor 11, 28)!
La passione per l’unità della Chiesa deve essere quella di tutti i discepoli di Cristo. “Purtroppo, le
tristi eredità del passato ci seguono ancora oltre la soglia del nuovo millennio…, ancora tanto
cammino rimane da fare” (Novo millennio ineunte, n. 48). Tuttavia ciò non ci deve
scoraggiare; il nostro amore per il Signore ci spinge a impegnarci sempre più a favore dell’unità.
Per fare nuovi passi in tal senso è importante “ripartire da Cristo” (Ibidem, n. 29).
“È sulla preghiera di Gesù, non sulle nostre capacità, che poggia la fiducia di poter raggiungere
anche nella storia, la comunione piena e visibile di tutti i cristiani… Il ricordo del tempo in cui la
Chiesa respirava con “due polmoni” spinga i cristiani d’Oriente e d’Occidente a camminare
insieme, nell’unità della fede e nel rispetto delle legittime diversità, accogliendosi e
sostenendosi a vicenda come membra dell’unico Corpo di Cristo” (Ibidem, n. 48)!
La Vergine Maria ha accompagnato con la sua preghiera e con la sua presenza materna la vita
e la missione della prima comunità cristiana, attorno agli Apostoli (cfr At 1, 14). Ha ricevuto con
essi lo Spirito di Pentecoste! Che Ella vegli sul cammino che dobbiamo percorrere ora, per
procedere verso la piena unità con i nostri fratelli d’Oriente e per compiere gli uni verso gli altri,
con disponibilità ed entusiasmo, la missione che Cristo Gesù ha affidato alla sua Chiesa! Che la
Vergine Maria, tanto venerata nel vostro Paese e in particolare nei santuari delle isole, come
Vergine dell’Annunciazione nell’isola di Tinos, e con il nome di Nostra Signora della Pietà a
Funeromeni nell’isola di Syros, ci conduca sempre a suo Figlio Gesù (cfr Gv 2, 5)! È lui Cristo, è
lui il Figlio di Dio, “la luce vera, quella che illumina ogni uomo” venuta nel mondo (Gv 1, 9)!
Forti della speranza che proviene da Cristo e sostenuti dalla preghiera fraterna di tutti coloro che ci hanno preceduti nella fede, continuiamo il nostro pellegrinaggio terreno come veri messaggeri della Buona Novella, felici della lode pasquale che dimora nel nostro cuore e desiderosi di condividerla con tutti:

“Lodate il Signore, popoli tutti,
voi tutte, nazioni, dategli gloria;
perché forte è il suo amore per noi
e la fedeltà del Signore dura in eterno” (Sal 116).

GIACOBBE IL VOLTO D’ISRAELE, ovvero IL GUADO (la lotta di Giacobe con l’angelo)

dal sito:

http://www.caionvico.it/archivio/testi/Loewenthal.doc

GIACOBBE IL VOLTO D’ISRAELE
ovvero IL GUADO

di Elena Loewenthal

Ma quella notte si alzò, prese le sue due mogli, le due schiave, e i suoi undici figli e passò il guado dello Yabboq. Li prese e fece loro passare il fiume e fece passare quel che possedeva. Poi Giacobbe rimase solo e lottò un individuo con lui, sino allo spuntar dell’alba. Vide allora che non lo sopraffaceva e colpì all’articolazione della coscia e l’articolazione della coscia di Giacobbe si slogò nella sua lotta con lui. E disse: « Fammi andare, perché è spuntata l’alba! », e Giacobeb rispose, « Non ti lascerò andare se non mi benedirai ». E gli disse: « Qual è il tuo nome? », allora egli rispose « Giacobbe ». E quello disse: « Non più Giacobbe si dirà il tuo nome, bensì Israele, perché hai prevalso sul Signore e sugli uomini, e hai vinto! ». (Genesi 32, 23-29)

Gli occhi passano sul testo. Lo attraversano avanti e indietro in direzione mutevole: l’ebraico scorre in un senso, l’italiano in un altro. Così, a poco a poco la sequenza di versetti diventa un tessuto dove trama e ordito stanno sovrapposti, anzi intrecciati. Agli occhi del corpo s’accostano ora gli occhi della mente (quel secondo paio imprescindibile nella tradizione ebraica  – come se il bulbo fosse bifronte, una pupilla rivolta verso l’esterno, e l’altra verso l’interno). L’impressione è che il senso s’oscuri ogni volta di più che si legge, invece di rischiararsi: ad ogni ritorno, qualcosa di meno s’intende.
Perché la lotta?
E perché una lotta così duratura da occupare lo spazio intero di una notte?
E perché il congedo, insieme all’aurora, quando le sorti dello scontro sono ancora ambigue?
E perché Giacobbe chiede qualche cosa alla creatura che lo ha aggredito?
E una benedizione, per di più!
E il nome dell’uno, e il nome dell’altro?
Perché insomma, la Bibbia registra questo episodio? Qual è il suo posto nella storia sacra, e soprattutto in quel « catalogo » di significati che è la meta  d’ogni indagine sul testo?
Mistero.
L’impressione, quasi sconcertante, è che il passo non nasconda qualcosa che vale la pena di essere cercata, come succede in ogni angolo della Bibbia. No, piuttosto esso è di per sé un mistero, una presenza indecifrabile, dentro il Libro. La fede ebraica non è mistero, è ricerca, sguardo, ascolto, fatica, ma non mistero. E invece, questo racconto  di un incontro – fra cielo e terra, buio e luce, uomo e qualche cosa d’altro, forza e remissione – è e resta mistero ancor di più, ora che la lettura si è fatta tessuto tenace di parole, nessi, pause.
Sod – mistero. Del resto, è piuttosto insolito che sia la notte, e non il giorno, il teatro del racconto. Capiterà in Egitto, in quelle ore fatidiche durante le quali il Signore passerà sull’Egitto e passerà oltre le case dei figli d’Israele – i discendenti di Giacobbe! -: ma è una notte rischiarata dalla libertà vicina come non lo è stata mai, per il popolo. Prima d’allora, i patriarchi e le loro frotte si raccontano dall’alba al tramonto, e non viceversa. La notte, tutt’al più, è fatta per sognare. E per lasciarla alle spalle ogni mattina, benedicendo il Signore che ogni giorno dopo il buio ed il sonno ci riporta alla vita, come per una specie di miracolo.
Eppure, alla fine di questo misterioso racconto, Giacobbe assegna un nome al luogo dove ha lottato e chiamato, e lo chiama Peniel, perché qui – sostiene – ha visto Dio « faccia a faccia ». Dentro il buio della notte. Non c’è luce, in questo episodio. Persino il suono delle parole ha un che di opaco, offuscato. Più volte ricorre una radice ebraica che evoca il suono e la consistenza della « polvere ». Non terra, humus di vita (quello donde Adamo viene e cui tutti siamo condannati a tornare, per l’eternità, in attesa della fine dei tempi). No, è un pulviscolo più impalpabile, capace di restare sospeso nell’aria come una cortina che, quasi non bastasse il buio della notte, accorcia la vista e ottunde i sensi. Polvere e mistero. Avaq.

La lotta fra Giacobbe e l’angelo è in sostanza una sfida. Fra loro, ma soprattutto fra noi e il testo. Che impone di non partire di lì finché non si è raggiunto qualcosa. Inutile provare a divagare in cerca di simboli lontani, di allusioni al prima e dopo: si torna immancabilmente a mani vuote verso quei pochi versetti. Se sono lì, deposti sulla pagina, essi esigono qualcosa. Non ci sono parentesi, nel testo sacro. La lettura è un cammino che non può non lasciare traccia. Il mistero di questa lotta è, paradossalmente, « evidente », eppure non va ignorato. Le domande debbono trovare una risposta, o una domanda di rincalzo che permetta di proseguirlo, il cammino.
Per questa ragione, che è una specie di urgenza, ho scelto, nel mio approssimativo percorso verso il volto di Israele – cioè di Giacobbe – la via dell’aderenza al testo. Non la divagazione, bensì la vicinanza. Come se tutta la storia fosse già scritta lì, e non ancora da costruire.

Giacobbe è il padre di Israele. Abramo è chiamato in ebraico avinu, cioè « padre di noi », di tutti noi. E’ il versante universalistico della tradizione ebraica, il capostipite che racchiude il principio dell’umana parità, così come è stabilito dalla storia delle origini. Una sola è la prima coppia umana, sì che nessuno possa mai, alla fin fine, rivendicare un’ascendenza più illustre di un altro. Il vero miracolo della creazione, dice ancora la Mishnah, è l’evidenza dell’estro di Dio che, con un unico sigillo, il calco cioè del primo uomo, riesce a creare nuovi individui sempre diversi, eppure pari.
Giacobbe è invece il capostipite di un popolo. Di quel popolo che di lì a qualche generazione diventerà il vero protagonista della storia sacra. I patriarchi sono persone. Eroi accampati dentro una solitudine di deserto. Dopo Giacobbe, ecco le schiere. La massa di gente. Egli è padre del popolo, ma prima ancora di una figliolanza inaudita, che sgorga dalla pagina in una sequenza incalzante. In questo ed altro, Giacobbe mi pare il più « mondano » di tutti i patriarchi, colui che più degli altri vive con i piedi sopra la terra.
L’esistenza intera di Abramo si estende sul crinale di una vetta irraggiungibile: quando parte verso l’ignoto, lasciando casa e famiglia verso una destinazione che Dio gli dirà, ma dopo. Ogni volta che Dio gli parla, gli impone sacrifici di sangue, lo spedisce al monte con un fascio di legna e il figlio diletto.
Quest’ultimo è anch’egli più modello che creatura,  come quando s’avvia consapevole (sì o no?) al sacrificio, o ne ritorna (secondo la tradizione) passando per il paradiso dove studia la Torah prima ancora della rivelazione. Isacco è associato a un sentimento apparentemente fuori luogo, in una storia di fede: la paura. Il suo silenzio di bambino e le sue rare parole, una volta adulto, sono la figura di questa paura. In silenzio prende la moglie che il servo Eliezer è andato a raccogliere per lui nel luogo delle origini, e la conduce dentro la tenda ch’era stata di sua madre. 
La vicenda di Giacobbe è invece, almeno sino a quella notte, tutta terrena. Con una perizia  artigianale e non per rivelazione, ottiene la primogenitura in cambio di un piatto di lenticchie. Poi fugge via, per una paura che non è del cielo o dell’ignoto, bensì del fratello più grosso di lui, e più aggressivo.  Lontano da casa, s’innamora. E aspetta, con indicibile pazienza, di ottenere in cambio del suo lavoro (un lavoro materiale, di pastore, di cura  della terra e degli animali) la donna che ama. Ci metterà quattordici anni: di vita e tenacia.
Il suo tratto è dunque quella qualità umana che è insieme consapevolezza dei propri limiti e fiducia nel tempo che passa. Per lui, niente sfide titaniche: « soltanto » fatica di vivere, rimboccarsi le maniche, e pazienza.
Lungo tutto questi anni, Giacobbe ha udito una volta soltanto la voce del cielo. Più che voce, era la luce di un sogno, la notte. E’ la prima volta che Dio si rivolge a lui, e lo fa mentre Giacobbe in fuga dorme, in quel tempo che non è né vita morte. Ad Abramo e Isacco l’Eterno parla a viva voce, per lo più. Con Giacobbe sceglie la notte, e gli regala la scala, con la schiera di angeli che salgono e scendono. Giacobbe si sveglia stordito e  lì per lì esclama un’ammissione d’ignoranza: « il Signore è davvero in questo posto, e io non lo sapevo! » (Genesi 28, 16).
Abramo parte
Isacco teme
Giacobbe non sa…

Ma eccoci sulle rive dello Yabboq, abbozzo di fiume, segno di un confine importante.  Qualcosa di strano succede sin dall’inizio di questo frammento di storia: « ed egli si alzò nella notte… » . E’ un sovvertimento: ci si alza la mattina. Non è soltanto un’ovvietà, è una ricorrenza lessicale nelle vicende dei patriarchi, i quali a dire il vero si alzavano solitamente di buonissima ora, come racconta la Bibbia. Sino allo Yabboq, vige la consueta spartizione del tempo, che è una sorta di refrain nella trama: al versetto 32,22 è detto esplicitamente che « Giacobbe pernottò quella notte nel campo ».
Ma subito dopo è come se qualche cosa si spezzasse:
« Ma quella notte si alzò »: questo dovrebbe essere il ritmo che la frase impone.
Per qualche imperscrutabile ragione, Giacobbe abbandona la notte – o meglio la consueta dimensione della notte – e fa di notte ciò che normalmente  si fa di giorno, appena la notte finisce: si alza. Qualche cosa lo spinge a questo, ma la Bibbia non lo dice: non è una qualsivoglia urgenza, né una minaccia incombente, a indurre il patriarca a prendere « le due mogli e le due serve e i suoi dieci figli », per far passare loro, di notte, il guado dello Yabboq. Insieme ai familiari, Giacobbe trasborda i propri averi. Il testo non dà modo d’intendere se egli abbia semplicemente indicato la via ai persone e cose, o non li abbia invece accompagnati, in un lungo andirivieni sotto le stelle, dentro il buio.
Comunque siano andate le cose, dopo questa fatica, « Giacobbe se ne rimase da solo ».
E’ una frase forte, questa. Proprio perché così rara, nella Genesi, da invocare un senso.
La parola « solo » levadò compare ben poco, nel primo libro della Torah. Adamo è solo e per questo Dio gli foggia una compagna, perché non è bene che stia da solo.
Nella loro solitudine titanica, i patriarchi non sono mai detti « soli ».
Lo sarà Giacobbe, quando decide di separare il proprio gregge da quello del padrone-suocero che lo ha ingannato. La solitudine è il preparativo alla partenza: « Si formò dei greggi da solo e non li unì al gregge di Labano » (30, 40), ed è quasi annuncio di quella battaglia misteriosa che di lì a poco s’ingaggerà presso lo Yabboq. Levadò sarà, significativamente, il penultimo figlio di Giacobbe: Giuseppe consuma in solitudine il proprio pasto, perché « gli Egiziani non possono spartire il pane con gli ebrei, perché per gli egiziani è abominazione » (43 32). A tavola siede Giuseppe, che i fratelli ancora non riconoscono, siedono loro appena scesi in Egitto, e siedono gli egiziani: ognuno di loro è « solo ».
La solitudine è la condizione di Giacobbe in quell’ora notturna. Ed è come se il patriarca l’abbia cercata, questa condizione, nel buio della notte, al di là di quel confine che è il fiume. Sia che resti sulla sponda dov’era, sia che vi torni dopo aver fatto passare tutti gli altri.
Anche il confronto con la pagina è una specie di tuffo nella solitudine. Il dialogo di ricerca viene dopo, prima c’è un a tu per tu con il testo che è un po’ abbandono della realtà, un po’ come alzarsi di notte invece che la mattina quando spunta il sole. Solo così, è dato dire qualche cosa di nuovo, che non sia pura ripetizione del già detto.

Anche… anche l’angelo è solo. L’angelo? Nel racconto è descritto come « un uomo », o più genericamente, un individuo. Non è l’adam venuto e fatto di terra, adamah. E’ piuttosto un pro-nome invece di un nome: ish.  Usato quasi più come negazione, come dettato dell’assenza, per lo meno in ebraico moderno. Nella Bibbia è « uno » più nell’astratto che nel concreto, più nella casistica di legge che nel tessuto del racconto. E’ il certamente più sfuggente (e onnicomprensivo) per definire una presenza. Vediamo gli scarsi connotati di questo avversario di Giacobbe. Fra l’altro, l’avversario è comune ha-satan, il satana.
E’ detto ish una volta soltanto. Poco dopo (vss. 29 e 31) è chiamato per due volte Elohim: la prima da se stesso, per senso traslato: « hai prevalso con Elohim ». La seconda da Giacobbe che, meravigliato da quell’accaduto, impone un nome al luogo dov’è successo, e lo chiama Peniel, « perché ho visto Elohim faccia a faccia ».
Niente è più chiaro di prima. Nella notte che ora trascolora verso l’alba, nelle scarne parole che i due si sono scambiati, durante e dopo la lotta. Chi è questo pro-nome che aggredisce Giacobbe? E lo aggredisce, poi? Nemmeno questo ci dice la Bibbia, se non che il patriarca lottò con lui.
Dio parla ad Abramo e Isacco. Con Giacobbe si nasconde. Dietro il sonno della notte e un sogno che si può contemplare ma non comprendere. Dentro un’altra notte, cioè questa, che è tutta mistero, specie di equivoco.
E com’è vero che la rivelazione è nascondimento – nella storia ebraica. Un popolo di cui è annunziato che sarà numeroso come le stelle del cielo e i grani di sabbia sulla riva del mare – ed è da sempre uno dei meno numerosi al mondo. Cui è prospettata una redenzione – e che ha vissuto dentro il contrario di essa, sopravvissuto in virtù non certo della salvezza, ma soltanto della propria inesausta capacità di attendere. Buio. Contraddizione (ci si alza che è notte? è un uomo o un Dio?… e altro ancora).
Ma forse la parola giusta è quella che meno si addice alla storia sacra: dubbio.
Il dubbio stagna sopra la scena, respira dentro i suoi momenti: perché Giacobbe fa quel che fa? Chi chiama allo scontro, lui o l’altro? Chi sono, l’uno e l’altro, durante la lotta? Perché, al salire dell’alba, tutto deve finire precipitosamente? Non sono domande candide: sanno di non avere risposta.

Non a caso, siamo sulla parte opposta della storia. Giacobbe ha spedito al di là del  fiume tutto ciò che gli appartiene, e cui appartiene. La storia prosegue, e proseguirà, sull’altra sponda. La lotta con l’angelo, o chicchessia, è altrove, su quell’altra faccia oscura della fede che si chiama dubbio. Incertezza. Buio della notte e del non sapere il nome di colui che ti sta « faccia a faccia ».
La tradizione lo chiama angelo, creatura ambigua, cioè a mezza strada fra cielo e terra, spirito e materia. La definizione si addice, effettivamente: l’avversario di Giacobbe è a tratti pro-nome (ish al posto del nome), a tratti decisamente Elohim. Non è la prima volta, come s’è detto, che Giacobbe incontra degli angeli. Sempre nella notte. Abramo li scorgeva nitidi nell’ora più torrida del giorno, in fattezze di viandanti per il deserto; Giacobbe, invece, al buio.
Eppure, forse, l’intrico di arti e membra che ci s’immagina nella lotta durata lo spazio di una notte, i due sono più simili di quanto non sembrino, a prima vista. La tradizione ebraica spiega così: l’uno (Giacobbe) fu sacerdote in terra, l’altro (l’angelo) lo era in cielo. Verso il quale dovette precipitarsi, non appena salì l’alba. E anche la succinta dinamica della lotta, pare dirci che nel contatto i due si confondono, il soggetto delle frasi resta ambiguo, e solo alla fine, quando si separano, viene la certezza che Giacobbe è stato leso sull’articolazione del femore, e da quel giorno in poi zoppicherà. Prima, quasi non è chiaro chi sia il feritore e chi il ferito: potrebbero essere entrambi.
Poi, in quel breve scorcio che divide l’annunzio dell’alba dalla luce del giorno, quando non lottano più, i due individui si parlano. Con urgenza tassativa, come se quello fosse il necessario, e la lotta un preludio trascurabile, ma inevitabile. L’angelo, apparentemente vittorioso, implora Giacobbe di lasciarlo andare, e questi si dice disponibile, a una condizione: quella di essere benedetto. Lo sconosciuto elude ancora una volta la richiesta, o meglio dice qualcosa di inatteso, senza nesso con ciò che lo precede:
« Qual è il tuo nome? »
Giacobbe lo declina, e l’angelo, forse – ma solo forse – a mo’ di benedizione, lo tramuta in qualcosa d’altro.  Poco dopo, risponde con una domanda, quando il patriarca gli chiede il suo, di nome.
« Perché me lo chiedi? »
Perché? Perché tutta la vicenda è una sorta di anagramma esistenziale. Israele, il nuovo nome che l’angelo impone a Giacobbe, è interpretato variamente dalla tradizione: ish rah El – un uomo vide Iddio -,  yashar El – andare dritto a Iddio (benché da quel momento Giacobbe claudicherà per sempre).
Prima ancora, i nomi e le radici dei significati sono come il motivo di quel tessuto che si disegna sotto gli occhi via via, leggendo. Yabboq è il fiume, Yaaqob è Giacobbe: non è un’assonanza, piuttosto un’identità di sostanza. Le consonanti sono le stesse, dunque a entrambi soggiace un significato comune, o un mistero comune. Lo scambio di posto, fra due di esse, è un puro corollario. Il fiume e l’uomo si appartengono a vicenda, sono legati fra loro e l’uno non esiste senza l’altro. Il fiume è da guadare: come il gesto di un passo, dove la gamba prima è indietro e poi avanti, così le consonanti si alternano, nello stesso movimento, quello del passaggio da una sponda all’altra. Lasciarsi alle spalle il passato, badando bene a non abbandonare niente indietro, portando con sé il necessario. La sosta di Giacobbe ancora al di qua del fiume, è come uno scrupolo, prima di un transito donde non tornerà più indietro. Né lui, né la sua famiglia, né i suoi averi. Né la storia sua né quella dei suoi discendenti. La tradizione racconta, del resto, che Giacobbe tornò indietro per controllare di non essersi lasciato nulla, in quel prima che è tempo e spazio, e invita a cogliere il suo esempio, muovendosi per il mondo: tornare puntualmente indietro, per controllare di non abbandonare nulla che non vada abbandonato. O dimenticato.
Solo così, infatti, si può guadare, passare oltre, e cioè cambiare. Ogni pagina nuova poggia su quelle già lette.
Ma le assonanze del passo non sono ancora finite, come a dirci che lo scontro con l’angelo o chi esso sia è uno scambio, un contatto fitto, di sensazioni e significati: il verbo che disegna la lotta è tratto dalla radice avaq, donde è tratta, e chissà perché, anche la parola « polvere ». Ma che, soprattutto, nel suono e nella forma ricorda ancora molto da vicino Yaaboq e Yaaqob. Il racconto è tenuto insieme non dalla sua coerenza – che non risulta affatto, anzi – bensì da una lunga e ricorrente assonanza  che a suo modo figura la scena.
Del resto, la leggenda ci dice che gli angeli nascono e muoiono ogni giorno, grazie a un miracoloso bagno di vita. Quella nostra notte, anche Giacobbe-Israele muore e nasce insieme al suo angelo, e la mattina è diverso – per nome, per andatura, per esperienza.
Finito che hanno di lottare, corpo a corpo, i due si parlano. E’ un fragile momento che sta fra il buio e la prima luce, e tutto ha una consistenza d’ombra pesante. Prima che l’angelo sparisca, Giacobbe pretende da lui una benedizione (e perché mai, da un avversario?). E invece giunge la domanda: « Qual è il tuo nome? ». Dopo la risposta, invece della benedizione, l’angelo gli impartisce un nome che sia segno della lotta tenace e impavida « contro Dio ». Poco dopo, piuttosto che declinare il proprio, di nome, l’angelo « lo benedisse lì ». La fine è quasi più ermetica dell’inizio. L’angelo lascia Giacobbe con una domanda in sospeso. Ma ancora una volta i due si specchiano vicendevolmente, l’uno nel nome dell’altro. Tanto è vero che, in virtù di una reciprocità che lega il cielo e la terra, Giacobbe impone un nome all’angelo, suo malgrado, e chiama Peniel il luogo e il momento di quell’incontro., perché « ho visto Elohim faccia a faccia », panim el panim.

E’ una parola ambivalente, panim: significa viso ma anche « interno ». E’ il volto ma anche il dentro. Un po’ come gli occhi bifronti, rivolti al mondo ma anche  verso l’interiorità, così le facce sono due, opposte ma identiche; come le tavole della legge – quelle spezzate da Mosè e pertanto ormai irraggiungibili per l’eternità – che erano scritte su entrambe le facciate, e si scambiavano significati nella sovrapposizione, nell’incontro dei segni. Non è un’illogica compresenza di opposti,  bensì il richiamo all’inevitabile doppiezza di ciascuno di noi – fuori e dentro, con la parola ed il silenzio, il gesto ed il pensiero. L’intento e la conseguenza. La realtà e l’aspirazione.
E così, a margine di questo guado cruciale non solo per Giacobbe e la sua famiglia, ma anche e soprattutto per i destini futuri di tutta la storia, è dato ricavare qualche riflessione su quel che siamo, panim el panim, faccia a faccia,   non tanto nel privilegio del patriarca che, dentro il buio della notte, dichiara di aver visto il Signore faccia a faccia, quanto in un più umano confronto quale è in fondo ogni esperienza storica.
Giacobbe ci racconta insomma come ci si accinge a un passaggio. In quella notte egli cambia: acquista un nome nuovo – Israele – , e un aspetto nuovo – la claudicanza, lascito della lotta. Una volta cambiato, passa il fiume. Prima di passare, si trattiene sulla vecchia sponda – sulla vecchia « faccia », più del dovuto, sì da essere sicuro di poter continuare il viaggio, ma soprattutto di potere intraprendere quel passo cruciale che è il guado, l’attraversamento.
E’ questo è davvero il volto di Israele – Israele Giacobbe, ma non meno il popolo che ne eredita il nome e la storia: la capacità di cambiare, voltandosi indietro ogni volta, per non lasciare lungo il cammino niente che valga la pena di essere portato con sé. Libri, parole, memorie. La tradizione è in fondo questo: talento tenace nell’innestare il vecchio nel nuovo, accogliendo sempre le sfide del tempo che passa e della storia che cambia. Quando si è persa l’autonomia nazionale, il tempio è stato bruciato, la Diaspora ha sparpagliato ai quattro angoli del mondo. Quando il ghetto chiudeva da dentro e da fuori, e tuttavia ogni spiraglio era respiro di scambio. Quando la modernità ha scaraventato nel mondo. Quando il mondo era costellato di campi di sterminio. Quando il ritorno in Terra Promessa non è più stato remota speranza ai margini dell’illusione, ma una specie di realtà fatta di testa, cuore e mani al lavoro. Mai gettare alle ortiche quello che la storia ha regalato o scagliato sino a questo momento, e tuttavia essere pronti a cambiare, adattarsi, azzardare persino – inventando magari nuove lingue, come l’yiddish, o raccogliendo la sfida della scienza e della musica -. E’ l’istinto ebraico di sopravvivenza: tenacia e duttilità. Disponibilità al passaggio verso un’esperienza nuova, ma senza fare tabula rasa di ciò che è stato. Faccia a faccia – il vecchio e il nuovo, il dolore e la speranza, l’interiorità e l’esperienza.
Ma torniamo ancora un momento alla scena, a ciò che racconta, ciò che nasconde e quel che sottintende, una volta che non ci si è arresi all’oscurità della notte e delle parole che la raccontano. L’angelo, o chiunque sia quell’ish che quando giunge la luce del giorno deve dileguarsi per non lasciarsi vedere né chiamare per nome, resta tal qual è. Creatura misteriosa, un po’ specchio dell’uomo con il quale lotta, un po’ emissario del cielo.  Di Giacobbe, invece, alla fine della storia sappiamo qualche cosa di più.
Che è un po’ solo. Malgrado i tanti figli, le due mogli e due serve, malgrado la schiera di uomini, donne e animali che lo accompagna nel viaggio e circonda la sua vita. Di lui sapevamo che era paziente. Questa virtù appartiene nella Bibbia certamente più a lui che a Giobbe: Giacobbe sa aspettare per quattordici anni la donna che ama – e che ha sotto gli occhi ogni giorno che passa… – eppure dire, con chissà quale sorriso, che per lui quegli anni « furono come pochi giorni ».
Abramo parte
Isacco ubbidisce
Giacobbe aspetta
Questo, soprattutto, sono i patriarchi. E davvero è proprio nell’attesa un po’ solinga di Giacobbe – levadò – che meglio si raffigura l’esperienza del suo popolo, dentro la fede e dentro la storia.

San Giovanni Crisostomo: « Finché sia tutta fermentata »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20091027

Martedì della XXX settimana del Tempo Ordinario : Lc 13,18-21
Meditazione del giorno
San Giovanni Crisostomo (circa 345-407), vescovo d’Antiochia poi di Costantinopoli, dottore della Chiesa
Omelie sul Vangelo di Matteo, 46, 2

« Finché sia tutta fermentata »

      Il Signore presenta poi l’immagine del lievito… Come il lievito diffonde la sua forza in tutta la pasta, così anche voi trasformerete tutto il mondo. (Considerate la sapienza del Salvatore. Egli vuol far intendere questo: come è impossibile che i fatti naturali non si realizzino, così quanto io ho preannunciato avverrà infallibilmente)… Il lievito fermenta la massa quando lo si accosta alla farina; e non semplicemente lo si accosta, ma lo si mescola. Gesù non dice che la donna mette il lievito nella farina, ma che lo nasconde dentro, impastandolo con essa.

      Così anche voi, quando sarete spinti dentro e vi troverete in mezzo alle folle che da ogni parte vi faranno guerra, allora le vincerete. Il lievito si nasconde nella massa, ma non va perduto; anzi, a poco a poco, le comunica la sua forza: lo stesso avviene per il messaggio evangelico. Non abbiate quindi timore delle numerose difficoltà che vi ho preannunciato: è in questo modo che risplenderà la vostra forza e vincerete

Omelia (30-10-2007) per domani 27 ottobre 2009 su Rm 8

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/10854.html

Omelia (30-10-2007)  per domani 27 ottobre 2009 su Rm 8
Eremo San Biagio

Dalla Parola del giorno

Io ritengo che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi.

Come vivere questa Parola?
Chi ha detto che il cristianesimo è all’insegna della tristezza non ha mai letto, o per lo meno, non ha mai approfondito, questa parola di S. Paolo.
La nostra fede cristiana ci dice che non c’è paragone (tanto è grande il divario!) tra la sofferenza a cui la nostra condizione umana ci costringe e la gloria futura, cioè un’incommensurabile pienezza di vita e di felicità.
Viviamo nel tempo e nello spazio all’insegna di bei doni ma anche di un’imperfezione insita in tutto quello che siamo e in tutto quello che facciamo, imperfezione che ci è causa di dolore. Il creato stesso, in cui siamo inseriti, geme e soffre. Attenzione, però! S. Paolo dice che si tratta di ‘doglie’. Si, ma di ‘parto’! Non è mai dunque dolore opprimente, senza senso, finalizzato alla morte. È piuttosto una sofferenza che, se vissuta insieme a Gesù, diventa il suo mistero pasquale, è generatrice di vita, e vita eterna per giunta!
S. Paolo, parlando del nostro attendere da figli adottivi (fuori dunque dall’avvilente condizione di schiavi) dice che siamo già in possesso delle « primizie dello Spirito ». Per questo già ci percepiamo gente salvata. E proprio questa è la dimensione della nostra speranza teologale.

Oggi, nella mia pausa contemplativa, mi abbandono con gioia ad essere ‘preda’ della primizia dello Spirito e alla promessa di felicità di cui lo Spirito è portatore, se noi gli facciamo spazio nel profondo del cuore.

O Spirito Santo, ti prego perché soprattutto quando soffro io mi ricordi che sono le « doglie del parto », e che per una realtà di dolore che passa avrò una intramontabile felicità nel Tuo Amore. Dammi, o Signore, di non soffrire mai da solo ma unito a Te con Amore nella forza della Fede e della Speranza.

La voce di uno scrittore brasiliano
Dio non ti dà mai una croce così pesante che tu non la possa portare.
Soltanto l’uomo e la donna che sono stati sottoposti alla prova potranno sperimentare la gioia della battaglia vinta.
La tua salvezza passa anch’essa attraverso il modo con cui avrai sopportato il peso della prova su questa terra. Fatti animo con la speranza che, dopo la notte del dolore, viene un nuovo giorno che ha sapore di risurrezione.
Sérgio Jeremias de Souza 

Omelia sulla lettera ai Romani di domani 27 martedì 2009

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/16495.html

Omelia (27-10-2009) 
Eremo San Biagio

Dalla Parola del giorno

« Ciò che si spera, se visto non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza. »

Come vivere questa Parola?
Questa pericope si aggancia a un’affermazione importante. S. Paolo ci assicura che « le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gioia futura che dovrà essere rivelata in noi » (8,18). Viviamo dunque in clima di attesa. Anzi, più precisamente di speranza. Ciò significa che non vediamo il realizzarsi delle promesse, non stringiamo in mano, nelle nostre esperienze di vita, una felicità piena, un bene perfetto. Ma questa nostra condizione che non esula da cammini accidentati, faticosi, a volte anche dolorosi, è pur sempre una condizione lieta nella speranza. Ecco, la speranza teologale, la speranza cristiana è proprio questa. Non ha nulla a che fare con la speranza di vincere un terno al lotto o d’imbattersi nella migliore occasione per l’acquisto di beni terreni.
La speranza non è la dea fortuna dei pagani. La speranza cristiana non si coniuga coi desideri di una vita comoda, facile e lieta al riparo da ogni sfida. Anche se la sua luce piena e gioiosa del Giorno eterno, è consolazione che impregna pure i giorni del nostro cammino di « pellegrini e stranieri » quaggiù.
Perché non ammetterlo? Più di un pensatore denuncia una reale crisi di speranza, oggi. La terapia? Attendere con quella perseveranza di cui dice S. Paolo. Ed è il coraggioso decidersi per una fede che in Gesù è divenuta letizia di speranza nelle sue promesse: « Sarete con me per sempre ». « E ritornerò ». È il Risorto che s’impegna con noi dentro la sua parola: luce di quel gioioso vivere per sempre, affrancata da ogni male che è il frutto eterno della sua redenzione.

Signore, fa’ di me un uomo, una donna di speranza. Dammi occhi in cui l’attesa piena della felicità del dopo diventi pace e gioia di « adesso ».

La voce del Papa Benedetto XVI
Noi abbiamo bisogno delle speranze – più piccole o più grandi – che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa grande speranza può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere.
Dall’enciclica « Spe Salvi » 

Il monte Sinai

Il monte Sinai dans immagini varie sinai
http://www.promotours-eg.com/p_11_10.html

Publié dans:immagini varie |on 26 octobre, 2009 |Pas de commentaires »
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