Archive pour octobre, 2009

La speranza nella Bibbia (4 punti tra i quali uno su Paolo)

dal sito:

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=5

La speranza nella Bibbia

sintesi della relazione di Giuseppe Barbaglio

Verbania Pallanza, 28 febbraio-1 marzo 1981

Nella relazione ci si sofferma su quattro filoni:
1) sulla fede di Abramo che è speranza;
2) sulla speranza come pianticella esile, ma anche rigogliosa, che cresce lungo i fiumi di Babilonia: l’esperienza dell’esilio per il popolo di Israele;
3) sulla speranza in alcuni testi di Paolo;
4) la speranza di Gesù.

1. la fede di Abramo che è speranza

Il capitolo 15 della Genesi contiene la riflessione del redattore sulla vicenda di Abramo quale fu rivissuta da Israele in tempi molto lontani dall’esistenza di Abramo stesso.
« Abramo credette e gli fu computato a giustizia ».
Nella tradizione biblica, credere significa stare appoggiato. Abramo credette: stette saldamente appoggiato alla Parola di Dio, visse ancorato alla promessa di Dio. La promessa di Dio è promessa di una terra e promessa di una numerosa discendenza. Ma la promessa di una terra è contraddittoria, perché i possessori di questa terra sono altri (i Cananei); anche la promessa di una numerosa discendenza è contraddittoria, perché Abramo non ha discendenti. E’ una promessa in un contesto di deserto di vita. La promessa di Dio si pone perciò in termini alternativi alla storia, alle condizioni obiettive.
Abramo credette, superò la contraddizione tra promessa e realtà attuale e si ancorò alla promessa. La sua fede gli permise di occupare la giusta collocazione nei confronti di Dio. L’appoggiarsi di Abramo alla promessa di Dio (alternativa, contraddittoria rispetto alla situazione attuale) è la speranza.
Scrive Paolo nella lettera ai Romani (4,18): « Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza ». Credette in un Dio « che rende vita ai morti e chiama all’essere le cose che ancora non sono » (versetto 17). La riflessione di Paolo è in chiave cristologica, perché Paolo ha presente la resurrezione di Cristo. Come Dio resuscitò dalla sterilità di Sara e dall’anzianità di Abramo il figlio Isacco, così Dio resuscitò da morte suo figlio Gesù. Dice Paolo: come ad Abramo fu computato a giustizia, così anche per noi. Abramo è il prototipo di colui che crede contro ogni speranza umana.
Alcune riflessioni:
- Questa speranza è speranza in un Dio che resuscita e che chiama all’essere ciò che non esiste; è speranza contro ogni speranza umana. La speranza di Abramo (che rappresenta il tipo di ogni credente) non va confusa con il facile ottimismo. Non è un ottimismo che si basa sull’evoluzione positiva delle situazioni, ma è una speranza che si coniuga in termini di sfida alla situazione attuale. È una speranza nonostante. Questo deve far riflettere noi, che siamo i figli delle speranze facili, ottimistiche, a basso prezzo (quali le speranze del ’68: sembrava che i cambiamenti fossero dietro l’angolo). La speranza di Abramo (e perciò dei credenti) è ad altissimo prezzo.
- La speranza di Abramo è speranza in possibilità prodigiose, le quali sono promesse di vita, di resurrezione (in senso molto vasto). Prendiamo i discorsi sui miracoli della Bibbia: non vanno interpretati secondo la nostra sensibilità positivista. Il metro della realtà è il metro del prodigio, del miracolo, della possibilità di vita dove regna la morte, della resurrezione nella nostra storia nonostante tutto. La speranza è sotto il segno della contraddizione, si lega al prodigio, che è promessa.
- La promessa di Dio (promessa di vita dove c’è morte, di resurrezione, promessa di una terra ad Abramo mentre ci sono altri possessori, di una discendenza dove non ci sono figli), che sfida lo status quo, non va interpretata in chiave trascendentalistica; al contrario, essa è incarnata nella promessa umana, si colloca in un orizzonte in cui giocano le promesse umane. La promessa di Dio, il dono di Dio, lo Spirito di Dio non sono una realtà che ci coglie direttamente: sono mediati (a cominciare da Cristo, che è il solo mediatore). Troviamo la promessa di Dio nelle promesse che ci scambiamo. Essa è lo sfondo della promessa di vita e resurrezione tra noi, la profondità escatologica finale delle promesse tra noi. Le promesse che ci scambiamo sono vere nella misura in cui riflettono la logica della promessa di Dio, che è promessa di vita dove c’è morte, di resurrezione dove c’è cimitero.
- La speranza è affidarsi alla promessa, è appoggiarsi. Ma questo affidarsi alla promessa di Dio, questa fiducia, non vanno interpretate in termini di pigrizia storica. Abramo non si è affidato alla promessa di Dio in termini contemplativi: si è mosso, ha agito, è venuto nella terra che era sua per promessa, ma dei Cananei per titolo storico, giuridico. Affidarsi alla promessa significa uscire dalla situazione, dal passato e dal presente, che possediamo, e camminare verso. E’ un processo di sradicamento. Abramo è stato sradicato dalla sua situazione di possesso (« Esci dalla tua terra, dalla tua famiglia, dalla tua parentela ») per un nuovo radicamento: nella terra promessa.
- La speranza di Abramo è speranza di nomade, di chi perde ciò che possiede. Abramo, ancorandosi alla promessa di Dio, ha abbandonato quello che possedeva. Venendo in Canaan, non ha ancora quello che avrà. La speranza di Abramo è la speranza dei poveri, di quelli senza alcun titolo di possesso, perché sono usciti dalla sicurezza, dal possesso, e non hanno ancora quello che è stato promesso. Possiedono solo la parola promissoria di Dio. In base ad essa si sono mossi, camminano. Il camminare, il muoversi ha valore simbolico. Nella lettera agli Ebrei (cap. 13, versetto 14) si parla dei credenti come di coloro che non hanno qui la loro città, stabile, ma sono in cerca di quella futura. Abramo è in cerca della terra futura.

2. la speranza durante l’esperienza dell’esilio del popolo di Israele
Nel 586 a.C. Nabucodonosor, re di Babilonia, conquista Gerusalemme e la rade al suolo. Alcune migliaia di abitanti del regno di Giuda (gli strati più elevati) vengono deportati lungo i fiumi di Babilonia. Il salmo 137 è il canto nostalgico degli esuli che, lontani dalla loro patria, hanno appeso le cetre ai salici: non possono cantare un cantico del Signore in terra straniera. « Se io mi dimenticherò di te, o Gerusalemme, sia messa in oblio la mia destra. Si attacchi la mia lingua alle mie fauci, se io non avrò memoria di te, se io non metterò Gerusalemme al di sopra di ogni mia allegrezza ».
C’è una grande nostalgia in questi esuli, anche perché Gerusalemme contava tutto per loro. Su una sponda del fiume di Babilonia cresce la pianta della rassegnazione, del disfattismo, della disperazione, poiché questi esuli sono coscienti di aver perduto tutto: terra, re, tempio, sacerdozio. Pensano che il progetto di Dio su di loro, popolo di Dio, sia finito, che sia la fine della storia dell’Alleanza. Dicono: siamo morti, come ossa aride, sparse nella valle tra i due fiumi; o si considerano dei cadaveri chiusi ermeticamente nei sepolcri. Sull’altra sponda del fiume di Babilonia si fa udire la voce profetica di Geremia e Ezechiele, in contraddizione con il disfattismo degli esuli.
Geremia abitava a Gerusalemme, ma seguiva da vicino gli esuli, col cuore era con loro, ritenendo che la rinascita del popolo di Israele partisse da loro. Quando a Gerusalemme la svalutazione delle proprietà terriere era al culmine, Geremia fece un gesto in contraddizione rispetto al processo inflazionistico, che spingeva tutti a vendere: comprò un campo e pubblicamente stese un atto notarile di compravendita (i profeti annunciavano la Parola di Dio non solo vocalmente, ma anche con azioni simboliche). Davanti alla meraviglia di tutti di fronte al suo gesto, Geremia disse: « Verrà quel giorno in cui si compreranno campi in questo paese, di cui voi dite: « È una desolazione, senza uomini e senza bestiame, abbandonato in potere dei Caldei. Si compreranno campi con denaro, si stenderanno dei contratti e si sigilleranno… » (32-43-44). Geremia annuncia la speranza in un momento di desolazione.
Ezechiele viveva con gli esuli, perché faceva parte della classe sacerdotale di Gerusalemme. La sua parola però risuonava in esilio. Ha una visione di una valle piena di ossa aride; da Dio riceve l’ordine di profetizzare su quelle ossa, cioè di dire la Parola di Dio. Sotto l’effetto della Parola di Dio pronunciata dal profeta, il popolo si rialza, ma non può ancora camminare. Allora Dio dà ad Ezechiele il secondo ordine, di dire a quelle ossa aride: « Io mando il mio Spirito che è soffio di vita ». La parola profetica di Ezechiele annuncia la rianimazione delle ossa aride e lo scoprimento dei sepolcri. Su questa sponda del fiume di Babilonia nasce la pianticella di speranza per bocca di Geremia ed Ezechiele.
Alcune riflessioni:
- Questa speranza è speranza contro ogni motivo di disfattismo, di disperazione. Ancora una volta è una speranza contraddittoria rispetto allo status quo; è speranza di resurrezione di un popolo.
- Mentre la storia di Abramo è la storia di un credente (anche se il prototipo di tutti i credenti) la parola di Geremia ed Ezechiele presenta una speranza comunitaria, di popolo.
- È una speranza sostenuta sia dalla Parola di Dio (che rimette in piedi, ma non fa muovere), sia, in un secondo momento, dallo Spirito di Dio (che è il principio creativo). La speranza presentata dai profeti non equivale ad un programma per il futuro, da realizzare più o meno volontaristicamente, ma nasce in un campo di lotta tra forze di rassegnazione e forze vivificanti, dello Spirito. Speranza, nella bibbia, è sinonimo di dinamismo, di creazione, di movimento. La speranza è una bandiera puntata sul campo di lotta che in noi e intorno a noi. Le forze vivificanti sono forze donate da Dio, che è lo Spirito: perciò sono forze di vita, di resurrezione. La speranza si gioca nella lotta. Non è attendere comodamente che piova la manna dal cielo: è la speranza dei combattenti che si appoggiano alla forza della Parola di Dio. Questa è forza che produce fiducia, che fa passare alla speranza; è energia, è come una pioggia, che risale al cielo non senza aver fecondato il campo; è creatrice, suscitatrice di essere dove non c’è essere. Parola e Spirito di Dio nella bibbia sono sempre coniugate come forze operative, creatrici. Giovanni: la Parola è energia creatrice solo se animata dallo Spirito.
- La speranza, in quanto si appoggia allo Spirito di Dio, alle forze creatrici, è una forza creatrice del nuovo. La storia del popolo di Dio, così come viene interpretata dai profeti, è storia contraddittoria, perché da una parte c’è la speranza di Dio e dall’altra parte c’è la delusione, poiché la storia non realizza mai i grandi sogni di speranza. Tuttavia dalla delusione non nasce la rassegnazione, ma un rilancio di speranza. Poi subentrerà una nuova delusione, ma il rilancio di speranza continua. Isaia, in una situazione di delusione, rilancia la speranza. Promette in nome di Dio la creazione di qualcosa di nuovo. « Non abbiate nostalgia del passato: Io, Dio, sto per creare cose nuove ». Scrive Paolo nella seconda lettera ai Corinzi (1, 20): « Tutte le promesse di Dio in Lui sono diventate ‘sì’ « . Il rilancio della speranza dopo Cristo è un rilancio della speranza per coloro che solidarizzano con Cristo.
- Lo Spirito di Dio sostiene questa speranza che è forza creazionistica. Lo Spirito di Dio non va inteso in termini trascendentalistici: al contrario, è una realtà che ci è donata, che è in noi, che è operante in noi. Dio promette: Io darò il mio Spirito al popolo. La speranza assume il volto della disponibilità allo Spirito, del fare spazio all’azione dello Spirito che è in noi.

3. Paolo fa della speranza il tema specifico della sua teologia

Prima lettera ai Tessalonicesi (4, 14-18)
Paolo risponde ai quesiti che gli pone la comunità di Tessalonica (che noi dobbiamo ricostruire sulla base della risposta di Paolo). È convinzione comune tra i cristiani, in questi primi anni dalla morte di Gesù (neanche vent’anni dopo la sua morte), che Cristo ritornerà a brevissima distanza di tempo a chiudere la storia. Il suo ritorno provocherà il rapimento dei credenti nel cielo. Questi non passeranno attraverso la morte perché, essendo risorto Cristo, non c’è più morte, si pensa, ma solo un passaggio da questo all’altro mondo. Accade che a Tessalonica avvengano alcuni decessi: si crede allora che queste persone morte siano ormai perdute, non possano essere più salvate. La comunità giace nella desolazione, nell’abbattimento, che nasce appunto dalla perdita di speranza nel destino dei morti. Ma i cristiani di Tessalonica sono nella desolazione anche per se stessi. Si chiedono infatti: « Se morissi anch’io prima del ritorno di Cristo? Anch’io avrei questo destino di perdizione. » Paolo dice loro che si comportano « come coloro che non hanno speranza », cioè come i pagani. Questa è la sua prima risposta: « Come crediamo che Gesù è morto e resuscitato, così anche quelli che si sono addormentati in Gesù, Dio li radunerà con Lui » (versetto 14). Paolo si appella alla fede cristiana nella resurrezione di Cristo: Dio ha resuscitato Cristo, cioè ha vinto la morte a favore di Cristo, ne consegue la speranza nella comunione nostra con Cristo. La speranza, cioè, nasce dalla fede nella resurrezione di Cristo, nell’intervento di Dio che ha vinto la morte in Cristo. È una speranza che poggia sulla solidarietà nostra con Cristo. È Cristo risorto il motivo della nostra speranza. In questo solidarizziamo con Lui nella fede, possiamo sperare. Non più abbattimento, ma consolazione, o meglio incoraggiamento. Paolo entra poi nel problema di quelli che sono morti e di quelli che sono ancora vivi: « … noi, i vivi, non saremo avvantaggiati su quelli che si sono addormentati. Perché il Signore stesso, a un cenno, alla voce di arcangelo e alla tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i rimasti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole… »
Alcune riflessioni:
- Esiste un legame molto stretto tra fede e speranza. La speranza è una possibilità che nasce dalla fede, non da una visione ottimistica delle cose; la speranza cristiana si fonda sull’adesione al Cristo risorto, non su una concezione filosofica o antropologica della realtà. Ciò vuol dire che la speranza cristiana ha una dimensione cristologica, è speranza in Cristo come fonte di aggregazione (Cristo risorto che aggrega a sé i credenti nella resurrezione). La speranza cristiana è quel movimento per cui scopriamo, nella fede, la dimensione di promessa che ha l’Evento (la resurrezione di Cristo). È evento avvenuto, per Cristo e promessa di realizzazione per noi. La speranza scaturisce da un Evento, si compie unicamente nella fede.
- I contenuti obiettivi della speranza (in cosa speriamo). Paolo conclude: « e così saremo sempre con il Signore ». Questo è il contenuto: la comunione con il Signore. La speranza dona a questa comunione il carattere di indefettibilità: sarà comunione per sempre, totale. L’oggetto della speranza è una realtà interpersonale (Gesù). Il soggetto è il noi della comunità cristiana: noi saremo sempre con il Signore.
Prima lettera ai Corinzi (cap. 15).
A Corinto c’era una vivace minoranza di credenti, che interpretava la salvezza di Cristo in termini di attualismo e di spiritualismo. Non credeva nella resurrezione futura e corporea: la resurrezione è già avvenuta (attualismo) e riguarda l’io interiore (spiritualismo). Il legame con la storia, con il mondo, con il tempo, c’è ancora, ma esso non è determinante. Davanti a quest’interpretazione massimalistica, di « fuga in avanti », Paolo dice:
1) la salvezza, la resurrezione, non sono attuali, ma future. Non siamo ancora risorti.
2) la resurrezione che attendiamo è corporea.
Paolo fonda la resurrezione futura e corporea rifacendosi a Cristo: Cristo è risorto (lo crediamo e lo predichiamo), perciò i credenti resusciteranno. Pone un rapporto tra evento e promessa. Se i morti in Cristo non resuscitano, allora neppure Cristo è risuscitato. Perché questo legame tra Cristo e la resurrezione futura dei credenti? Perché Cristo è resuscitato non come caso sporadico ed eccezionale, ma come primizia; come primo, non come unico. Ci sono i secondi, e siamo noi i secondi. Ma l’immagine della primizia fa pensare ad una successione cronologica: al contrario, il legame tra Cristo e noi è più profondo di una successione cronologica. Infatti a questa immagine segue quella del Cristo risorto come nuovo Adamo. Adamo rappresenta un individuo e insieme il genere umano. Tre sono i rapporti tra Cristo (l’Evento) e l’evento promesso per noi:
- prima lui, poi noi;
- come lui, così noi (a sua immagine)
- noi in forza di lui (lui è il resuscitato che resuscita noi).
Cristo è risorto come primizia, immagine esemplare per noi, principio di resurrezione per noi, per cui l’evento della resurrezione di Cristo comporta la promessa di resurrezione per noi. La speranza nasce da questa solidarietà tra Cristo e noi. Da ciò comprendiamo come Cristo sia la nostra salvezza. Cristo è un individuo singolo, ma occupa nella storia della salvezza un posto unico: quella di avere una funzione per gli altri uomini. Cristo è il principio di una nuova umanità. Cristo, il nuovo Adamo, per l’umanità significa speranza. L’evento di Cristo è promessa per noi.
Da questa lettera di Paolo emerge anche il tema della resurrezione corporea. Per corpo qui si intende non la parte materiale contrapposta allo spirito, ma tutto l’uomo in quanto si apre, si relaziona a Dio, agli altri, al mondo. La resurrezione dei corpi interessa l’uomo come soggetto relazionale, comunicativo, in rapporto agli altri, a Dio, al mondo. Paolo declina i contenuti della speranza in chiave personalistica. La speranza riguarda l’uomo come persona, nella sua comunicatività, relazionalità. La solidarietà dell’uomo è il suo rapporto con gli altri, la sua mondanità è il suo rapporto nel mondo.
La speranza cristiana di Paolo è in antitesi con la speranza del mondo greco. Questa si basa sull’abbandono del mondo, sull’esilio dal mondo. In Paolo la mondanità è intensificata, è oggetto di speranza, nel senso della sua piena realizzazione. Dice Paolo che i corpi resuscitati saranno corpi spirituali: è la corporeità invasa e pervasa dallo Spirito di Dio, il principio della creatività. L’uomo spiritualizzato non è l’uomo tolto dalla storicità, ma è l’uomo in cui la mondanità raggiunge la sua pienezza e purezza in forza dello Spirito. L’uomo vive in questo mondo, è persona a questo mondo.
Lettera ai Romani (8, 18-25)
Al presente, l’intero mondo creato è in attesa del riscatto, della redenzione. Al presente, geme nella sofferenza « e soffre nelle doglie del parto »: sono i dolori che preparano una nuova nascita, dolori pieni di vita, di una nuova vita, anche se a caro prezzo. Anche noi credenti gemiamo come il mondo: i cristiani non rappresentano il piccolo numero degli arrivati, ma sono integrati perfettamente nel gemito. Gemono nell’attesa del riscatto della loro corporeità, mondanità. In questo testo c’è la negazione del tentativo di fare della comunità cristiana un luogo a parte, di privilegiati, di esseri in stato di possesso, mentre il resto dell’umanità è in stato di ricerca. I credenti sono solidali con il mondo nel gemito, nella sofferenza, nel dubbio, nella disperazione. Ma sono i dolori della nuova nascita. Allora speranza vuol dire « attendere con costanza ». La « upomoné » (pazienza) significa stare sotto senza piegare le ginocchia, sopportare un peso, ma senza arrendersi. Esige perciò la costanza, il tener duro, il non arrendersi nella lotta delle doglie. La speranza è un tener duro in un contesto di gemiti, di doglie del parto. La costanza è l’agire in condizioni difficilissime, senza cedere, è la resistenza. I credenti che sono quelli che sperano, in opposizione ai pagani, sono i resistenti nella storia, coloro che non si arrendono. Questa è la speranza. La speranza non è semplice: le pianticelle cresciute senza sforzo si rivelano speranze con frutti non buoni. L’unica speranza è la speranza dei crocefissi, la speranza che nasce all’ombra della croce.

4. la speranza di Gesù

a) nella sua vita, nella sua missione
Un dato certo è che Gesù ha incentrato la sua missione profetica nell’annuncio imminente del Regno di Dio. « Regno di Dio » è un’espressione peculiare della tradizione giudaica per dire che Dio si fa re. Il Regno di Dio è la regalità di Dio, non il territorio in cui Dio regna. L’antico Israele, come altri popoli, aveva una particolare ideologia regale: il re è anche l’istanza suprema di difesa, di giustizia nei confronti di coloro che non ne hanno nella società. La giustizia del re (da distinguere da quella della magistratura) è partigiana, sempre a favore dell’oppresso, del povero, dell’indifeso. La monarchia di Israele non soddisfece le attese dei poveri, perciò essi proiettarono la loro speranza in Dio re, nel Regno di Dio. Gesù si innesta in questo filone di attese dei poveri che Dio si faccia re e ne annuncia l’imminenza. Non è più un’attesa a lunga scadenza, ma ormai Dio bussa alla porta della storia. Gesù ha avuto coscienza di rappresentare nella storia questo momento in cui Dio re sta per entrare nella storia a rendere giustizia. Ma Gesù non si limita a proclamare quest’imminenza: egli proclama beati i beneficiari di Dio re.
« Beati gli umili, perché di loro è il Regno dei Cieli » (Matteo 5, 3). « Beati voi, poveri, perché vostro è il Regno dei Cieli » (Luca, 6,20). La beatitudine è una proclamazione di felicità: fortunati voi. In questa proclamazione, Gesù si felicita con i poveri. È paradossale che Gesù si feliciti con i poveri, cioè con quelli che non hanno potere nella storia, gli emarginati, i disperati. Per quale motivo? Non perché gli emarginati sono i più disponibili al suo annuncio, al Regno di Dio, ma perché Dio sta per diventare re a loro favore. Sta per venire il giorno in cui i poveri non saranno più tali, perché Dio farà giustizia. Dio è a loro favore con la sua giustizia partigiana. Gesù si congratula per questo, c’è la sua partecipazione.
Ma Gesù non si limita a congratularsi, opera per la venuta del Regno, apre la porta attraverso la quale Dio entra nella storia come re. Nella missione di Gesù, una delle caratteristiche peculiari, è la guarigione degli indemoniati. Gli indemoniati erano persone con malattie psichiche, nella cultura di allora attribuite ad un possesso demoniaco, non potendo dare di esse una spiegazione scientifica. Gli avversari di Gesù attribuivano la sua attività sdemonizzatrice in senso malevolo, demoniaco. Rispondeva Gesù: « Ma se io scaccio i demoni per mezzo dello Spirito di Dio, allora il Regno di Dio è già venuto fra voi » (Matteo 12, 28). La versione di Luca è più primitiva: « Ma se io scaccio i demoni col dito di Dio, è dunque venuto tra voi il Regno di Dio ». Il Regno di Dio comincia realmente a germinare nella storia attraverso l’azione di Gesù. Dio si fa re nella storia, è Lui che viene a rendere giustizia, ma non interviene immediatamente, bensì mediante l’azione di un uomo. Il Regno di Dio è una svolta rivoluzionaria come appare nelle parabole di Gesù cosiddette della crisi (le parabole del seminatore, della zizzania, del grano di senape), raccontate da Gesù in un momento in cui la gente, dopo un grande entusiasmo iniziale, iniziò a dubitare della venuta del Regno, non vedendo quel cambiamento in cui aveva sperato. Gesù, con queste parabole, voleva recuperare credibilità nei suoi ascoltatori. La parabola del seminatore ci dice che la missione di Gesù è esposta allo scacco, alla frustrazione, ma alla fine un quarto del suo annuncio porta frutto. Il piccolissimo granello di senape rappresenta il Regno che comincia a germinare nella storia, mentre l’albero derivato da quel granello è il Regno nella sua esplosione ultima.
La speranza di Gesù è operativa. È una speranza che lo fa mediatore di questo anticipo reale, anche se parziale. La speranza di Gesù è una speranza riposta in Dio re. Se Dio è re, Gesù non è ancora quello che sarà, perché non è ancora diventato re, lo sarà alla fine, ma comincia ad essere nella storia quello che sarà rendendo giustizia. La speranza è speranza nella pienezza dell’essere degli uomini, correlativa alla speranza nella pienezza dell’essere di Dio. Speriamo di essere nella pienezza e speriamo che Dio sia anch’egli nella pienezza come re.
La missione di Cristo si prolunga nella missione della comunità dei discepoli di Cristo. La speranza di Dio divenuto re a favore dei poveri dipende da questa mediazione storica. Dio si è legato a Cristo per diventare Lui re a beneficio dei poveri. La speranza è finalizzata alla piena realizzazione della realtà finale, però questa realtà escatologica è connessa con la sua validità per la storia. La speranza nella sua profondità escatologica diventa credibile solo se riesce ad anticipare realmente questa esplosione ultima nella storia, se pure solo parzialmente. È proprio per questa anticipazione che si può sperare nella realtà finale. Bisogna far germinare il Regno, portare nella storia i segni del Regno.

b) nella sua morte in croce.
Gesù si accorse che lo stavano condannando a morte. Pensò anche che il suo destino fosse simile a quello del servo di Dio (Isaia, capitoli 52 e 53), che subisce passione e morte violenta e attraverso essa rende riscatto al popolo e che sarà glorificato da Dio nella morte. Gesù andò incontro alla morte nella speranza che Dio gli avrebbe reso giustizia. Si affidò a Dio (« Nelle tue mani consegno la mia vita »). Gesù morì in croce con la speranza in Dio.
La speranza cristiana è la speranza dei crocifissi, che nasce all’ombra della croce, nascosta nei fori dei chiodi che trafissero Gesù. La speranza dei crocifissi è una speranza nell’impotenza, nella frustrazione estrema. Ma la speranza all’ombra della croce non è la speranza di chi si dimette dai suoi compiti, di chi si rassegna nella storia, di chi si abbandona a Dio. La croce, al contrario, significa lotta, azione nella storia, ma lotta da poveri, da crocifissi. Gesù è morto in piedi sulla croce. Non è sceso a compromessi, ma si è battuto bene, fino alla fine; però si è battuto da povero, da uomo qualunque, non da forte, perché questa sarebbe stata una speranza satanica. Gesù non è venuto meno nel suo battersi, nel senso che è morto in piedi contestando le forze che lo stavano schiacciando. Non scendendo a compromesso, non gettando le armi, ha tolto la maschera a queste forze: sono forze violenti, più forti di Gesù, ma non onnipotenti, perché non riescono a firmare l’atto di resa. Finché ci sono i resistenti, le forze della morte sono battibili, la lotta va avanti. E’ una lotta tra forze non onnipotenti. La speranza è la lotta che continua, è il risorgere della lotta.
La Croce significa morte dei sogni di onnipotenza dell’uomo. Essa annulla la pretesa dell’uomo di giocare nella storia da superuomo. Chi più di Gesù poteva giocare da Figlio di Dio nella storia? C’è un modo demoniaco di confessare Gesù Figlio di Dio: quello che esce dalla bocca dei demoni. Al contrario il centurione confessa questo guardando la Croce. È l’ombra della Croce che rende vera la figliolanza di Dio. Guardando la Croce, non c’è più l’equivoco di costituirsi come comunità messianica potente nella storia. La speranza di Gesù è speranza in un Dio che non risparmia la morte a suo figlio e quindi a noi, suoi figli. È speranza in un Dio neppure Lui onnipotente nella storia. Non è stato potente a liberare Gesù dai suoi nemici. Dio non ha liberato Gesù perché non ha potuto, non perché non ha voluto: sarebbe un Dio malvagio se, potendo liberare suo figlio, non lo facesse.
Gli uomini hanno sempre sognato l’onnipotenza; ma, di fronte alle frustrazioni, ammettono realisticamente di non essere onnipotenti. Tuttavia trasferiscono in Dio questo loro sogno di onnipotenza. « Se non sono io onnipotente, lo sia almeno Dio. Io lo prego e ho a disposizione un Dio onnipotente ». Il Dio di Gesù sconvolge questa immagine di Dio: sulla Croce di Gesù, con il Figlio di Dio che muore crocifisso, muore quest’immagine di Dio onnipotente. Dio si è battuto accanto a suo figlio, non da onnipotente, ma standogli accanto, morendo con Lui. Allo stesso modo, Dio si batte con noi nella storia, ma non ci rende più forti.
Ogni discorso su Dio parte da Gesù. In Gesù leggiamo il volto di Dio. Gesù è crocifisso: allora Dio è crocifisso. Se Dio non ha risparmiato la morte, ciò significa che è incapace di risparmiare la morte ai suoi. Dio è colui che resuscita, non colui che risparmia ai suoi, né colui che fa ai suoi sconti generosi di travaglio storico. La speranza di Gesù è speranza in un Dio che resuscita. Non ha risparmiato la morte a Gesù, ma lo ha resuscitato. Questo Dio che resuscita è il modo di Dio di essere presente nella storia oggi. Dio non è vincente, perché se Cristo è battuto, Dio è battuto in Cristo. Ma Cristo resuscita, Dio resuscita in Cristo: cioè, la sconfitta non è definitiva, non è ultima. La lotta continua. Cristo resuscita, si batte di nuovo, esce vivo, più vivo di prima, anche se la vitalità di Dio nella storia è ancora debole. Quando l’ultimo nemico sarà vinto e anche la morte sarà vinta, allora Gesù sarà diventato re, anche lui si assoggetterà a Dio e Dio sarà il re. Davanti ai fallimenti storici diciamo: questo fallimento è una lotta perduta, ma non perduta totalmente, perché la lotta rinasce di nuovo. Le resurrezioni storiche sono la lotta che non cessa. Finché ci si rialza, nella storia questa è la resurrezione. La speranza nasce dal disfacimento. La vita che si crea nella storia è resurrezione, nasce dalla morte con resurrezione. È una vita a caro prezzo, una vita che scaturisce dalle doglie. I dolori del parto producono vita; ma, in quanto dolori, sono dolori. Cristo ha dato la sua vita perché noi abbiamo la vita. La vita scaturisce da questo dare la vita, non nel senso materiale del morire. Lottare fino all’estremo produce germi di resurrezione. Il Dio di Gesù benedisse « il maledetto » resuscitandolo. Quando gli apostoli si accorsero che Dio aveva resuscitato Gesù, dissero: il Dio di Gesù Cristo è colui che benedice i crocifissi, è il Dio che sale il Golgota insieme con i crocifissi. Dio è il custode, l’alleato dell’uomo, è colui che cammina con l’uomo, non rendendolo per questo più forte, ma stando accanto a lui. L’uomo, cosciente di avere Dio accanto, si batte e Dio si batte con l’uomo. I grandi sogni del ’68, le grandi speranze troppo facili coltivate in certe comunità cristiane, cedono il posto alla speranza all’ombra della Croce, che sta nei fori lasciati dai chiodi di Gesù. Questa speranza lascia un vuoto, ma è proprio in questo vuoto che si annida la speranza. Le altre speranze sono più comode, esaltanti. Il Cristo risorto porta i segni del crocifisso: non è trionfante; sarà vincente alla fine, ma allo stato attuale si batte con i suoi e la lotta si trova nei fori dei chiodi della Croce. 

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SABATO 31 OTTOBRE 2009 – XXX SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

SABATO 31 OTTOBRE 2009 – XXX SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

MESSA DEL GIORNO

Prima Lettura  Rm 11,1-2a.11-12.25-29
Se infatti il loro essere rifiutati è stata una riconciliazione del mondo, che cosa sarà la loro riammissione se non una vita dai morti?

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, Dio ha forse ripudiato il suo popolo? Impossibile! Anch’io infatti sono Israelita, della discendenza di Abramo, della tribù di Beniamino. Dio non ha ripudiato il suo popolo, che egli ha scelto fin da principio.
Ora io dico: forse inciamparono per cadere per sempre? Certamente no. Ma a causa della loro caduta la salvezza è giunta alle genti, per suscitare la loro gelosia. Se la loro caduta è stata ricchezza per il mondo e il loro fallimento ricchezza per le genti, quanto più la loro totalità!
Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi: l’ostinazione di una parte d’Israele è in atto fino a quando non saranno entrate tutte quante le genti. Allora tutto Israele sarà salvato, come sta scritto:
«Da Sion uscirà il liberatore,
egli toglierà l’empietà da Giacobbe.
Sarà questa la mia alleanza con loro
quando distruggerò i loro peccati».
Quanto al Vangelo, essi sono nemici, per vostro vantaggio; ma quanto alla scelta di Dio, essi sono amati, a causa dei padri, infatti i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!

Omelia per il 29 ottobre 2009: http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/16499.html

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/16499.html

Omelia (29-10-2009) 
Eremo San Biagio

Dalla Parola del giorno

« Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? »

Come vivere questa Parola?
All’interno della preziosa lettera ai Romani, questa proclamazione di Paolo (un esprimere con forza la sua fede in Cristo Gesù), suona come una certezza di vittoria.
Che Dio sia per tutte le sue creature me lo dice, mentre guardo dalla finestra, lo splendore del sole che bacia le sue creature: il digradare dei monti e, più vicino, il frondeggiare degli aceri dove già canta e biondeggia una quieta chiarità autunnale. Ma se il Signore è col sole e con la terra e con queste dolci creature che io amo, quanto più è con me, con te, con tutti! E se lui è mia difesa, mio baluardo, mia consolazione, mia promessa fulgente di un domani in cui l’amore sarà pienezza di tutto e in tutti, che cosa e chi mai ho da temere?
Le paure sorgono improvvise (fantasmi inconsistenti e pur pericolosi) dai recessi ombrati di incredulità delle nostre profondità inconsce e subconsce. Ebbene, è proprio lì che il nostro credere deve diventare scommessa vincente, proprio giocando tutto su questa verità più chiara del sole: Dio non si è limitato a donarmi la vita; mi ha donato il Figlio della sua vita. Me lo ha donato trafitto in croce per amore, e per amore risorto: Gesù, mia speranza di gioia senz’ombra. Come posso lasciar sedimentare in me la paura? Come posso temere vere opposizioni al trionfo della grazia di Dio in me?
Se Dio mi ha donato Gesù, mi darà, insieme con lui, tutti gli aiuti necessari per vivere questa giornata nella luce, fiduciosamente abbandonato al suo progetto di amore.

O Signore, per crescere ho bisogno di strumenti. Ho bisogno di aiuti. So che me li darai con tutto il tuo amore, tu che ti doni a me nella Parola, nell’Eucaristia, nel prossimo, nel profondo silenzio del mio cuore.

La voce di un padre apostolico
La via nella quale noi troviamo la nostra salvezza è Gesù Cristo, il sommo sacerdote delle nostre offerte, il nostro protettore, l’aiuto per la nostra debolezza. Per lui noi fissiamo lo sguardo nell’alto dei cieli: per lui contempliamo, come in uno specchio, la sembianza immacolata e sublime di Dio; per lui si sono aperti gli occhi del nostro essere; per lui la nostra intelligenza, prima ottusa e ottenebrata, rifiorisce alla sua luce mirabile.
S. Clemente 

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Giovanni Paolo II : « Gerusalemme, … quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20091029

Giovedì della XXX settimana del Tempo Ordinario : Lc 13,31-35
Meditazione del giorno
Giovanni Paolo II
Lettera apostolica « Redemptionis anno », aprile 1984

« Gerusalemme, … quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli »

       Oltre a monumenti famosi ed eminenti Gerusalemme accoglie comunità vive di credenti, la cui presenza è pegno e fonte di speranza per le genti che in tutte le parti del mondo guardano alla città santa come a un proprio patrimonio spirituale e un segno di pace e di armonia. Sì, perché nella sua qualità di patria del cuore di tutti i discendenti spirituali di Abramo, che la sentono immensamente cara, e in quella di punto di incontro, agli occhi della fede, tra la trascendenza infinita di Dio e la realtà dell’essere creato, Gerusalemme assurge a simbolo di incontro, di unione e di pace per tutta la famiglia umana. La Città santa racchiude quindi un profondo invito alla pace rivolto a tutta l’umanità, e in particolare agli adoratori del Dio unico e grande, Padre misericordioso dei popoli. Ma purtroppo si deve riconoscere che Gerusalemme permane motivo di perdurante rivalità, di violenza e di rivendicazioni esclusiviste.

Questa situazione e queste considerazioni fanno salire alle labbra le parole del profeta: «Per amore di Sion non mi terrò in silenzio, per amore di Gerusalemme non mi darò pace, finché non sorga come stella la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come lampada» (Is 62,1). Penso e sospiro il giorno nel quale tutti saremo davvero così «ammaestrati da Dio» (Gv 6,45) da ascoltarne il messaggio di riconciliazione e di pace. Penso al giorno nel quale ebrei, cristiani e musulmani potranno scambiarsi a Gerusalemme il saluto di pace che Gesù rivolse ai discepoli, dopo la sua risurrezione dai morti: «Pace a voi!» (Gv 20,19).

Santi Simone e Giuda

Santi Simone e Giuda dans immagini sacre stssimon-jude28-10

http://konicki.com/blog2/2007/10/28/october-28/

Publié dans:immagini sacre |on 28 octobre, 2009 |Pas de commentaires »

Benedetto XVI: l’opera di salvezza di Dio in Cristo (Ef 1, 3-10)

non so se ho controllato bene, ma questa catechesi del Papa mi sembra di non averla messa, dal sito:

http://www.zenit.org/article-2557?l=italian

Benedetto XVI: l’opera di salvezza di Dio in Cristo

Commento al Cantico del primo capitolo della Lettera agli Efesini

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 23 novembre 2005 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito le parole pronunciate questo mercoledì da Benedetto XVI durante l’Udienza generale dedicata al commento al Cantico del primo capitolo della Lettera di San Paolo agli Efesini, Dio Salvatore (3-10).

* * *

Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo,
per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità,
predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo,
secondo il beneplacito della sua volontà.

E questo a lode e gloria della sua grazia,
che ci ha dato nel suo Figlio diletto;
nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue,
la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia.

Egli l’ha abbondantemente riversata su di noi
con ogni sapienza e intelligenza,
poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà,
secondo quanto nella sua benevolenza aveva in lui prestabilito
per realizzarlo nella pienezza dei tempi:
il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose,
quelle del cielo come quelle della terra.

1. Ogni settimana la Liturgia dei Vespri propone alla Chiesa orante il solenne inno di apertura della Lettera agli Efesini, il testo che è stato ora proclamato. Esso appartiene al genere delle berakot, cioè le «benedizioni» che già appaiono nell’Antico Testamento e che avranno un’ulteriore diffusione nella tradizione giudaica. Si tratta, quindi, di un costante filo di lode che sale a Dio, che nella fede cristiana è celebrato come «Padre del Signore nostro Gesù Cristo». È per questo che, nella nostra lode innica, centrale è la figura di Cristo, nella quale si svela e si compie l’opera di Dio Padre. Infatti i tre verbi principali di questo lungo e compatto Cantico ci conducono sempre al Figlio.

2. Dio «ci ha scelti in lui» (Ef 1,4): è la nostra vocazione alla santità e alla figliazione adottiva e quindi alla fraternità col Cristo. Questo dono, che trasforma radicalmente il nostro stato di creature, è a noi offerto «per opera di Gesù Cristo» (v. 5), un’opera che entra nel grande progetto salvifico divino, in quell’amoroso «beneplacito della volontà» (v. 6) del Padre che l’Apostolo con commozione sta contemplando. Il secondo verbo, dopo quello dell’elezione (“ci ha scelti”), designa il dono della grazia: «La grazia che ci ha dato nel suo Figlio diletto» (ibidem). In greco abbiamo per due volte la stessa radice charis e echaritosen, per sottolineare la gratuità dell’iniziativa divina che precede ogni risposta umana. La grazia che il Padre dona a noi nel Figlio unigenito è, quindi, manifestazione del suo amore che ci avvolge e ci trasforma.

3. Ed eccoci al terzo verbo fondamentale del Cantico paolino: esso ha per oggetto sempre la grazia divina che è stata «abbondantemente riversata» in noi (v. 8). Siamo, dunque, davanti a un verbo di pienezza, potremmo dire – stando al suo tenore originario – di eccesso, di donazione senza limiti e riserve. Giungiamo così nella profondità infinita e gloriosa del mistero di Dio, aperto e svelato per grazia a chi è stato chiamato per grazia e per amore, essendo questa rivelazione impossibile a raggiungersi con la sola dotazione dell’intelligenza e delle capacità umane. «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano. Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio» (1Cor 2,9-10).

4. Il «mistero della volontà» divina ha un centro che è destinato a coordinare tutto l’essere e tutta la storia conducendoli alla pienezza voluta da Dio: è «il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose» (Ef 1,10). In questo «disegno», in greco oikonomia, ossia in questo piano armonico dell’architettura dell’essere e dell’esistere, si leva Cristo capo del corpo della Chiesa, ma anche asse che ricapitola in sé «tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra». La dispersione e il limite vengono superati e si configura quella «pienezza» che è la vera meta del progetto che la volontà divina aveva prestabilito fin dalle origini.

Siamo, dunque, di fronte a un grandioso affresco della storia della creazione e della salvezza che vorremmo ora meditare e approfondire attraverso le parole di sant’Ireneo, un grande Dottore della Chiesa del II secolo, il quale, in alcune pagine magistrali del suo trattato Contro le eresie, aveva sviluppato un’articolata riflessione proprio sulla ricapitolazione compiuta da Cristo.

5. La fede cristiana, egli afferma, riconosce che «vi è un solo Dio Padre e un solo Cristo Gesù, nostro Signore, che è venuto attraverso tutta l’economia e ha ricapitolato in sé tutte le cose. Tra tutte le cose c’è anche l’uomo, plasmazione di Dio. Dunque ha ricapitolato anche l’uomo in se stesso, divenendo visibile, egli che è invisibile, comprensibile egli che è incomprensibile e uomo egli che è Verbo» (3,16,6: Già e non ancora, CCCXX, Milano 1979, p. 268).

Per questo «il Verbo di Dio divenne uomo» realmente, non in apparenza, perché allora «la sua opera non sarebbe stata vera». Invece «egli era ciò che appariva: Dio che ricapitola in sé la sua antica creatura, che è l’uomo, per uccidere il peccato, distruggere la morte e vivificare l’uomo. E per questo le sue opere sono vere» (3,18,7: ibidem, pp. 277-278). Si è costituito Capo della Chiesa per attirare tutti a sé nel momento giusto. Nello spirito di queste parole di sant’Ireneo preghiamo: sì, Signore attiraci a Te, attira il mondo a Te e donaci la pace, la Tua pace.

[Al termine dell’Udienza generale il Papa ha rivolto dei saluti in diverse lingue. In italiano ha detto

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto le delegazioni delle Pro Loco provenienti da tutta Italia, la Federazione italiana Hockey e Pattinaggio, i rappresentanti dell’Università Sperimentale Decentrata, i partecipanti al congresso su « Scienza ed etica per una procreazione responsabile ».

Saluto inoltre le numerose comunità parrocchiali, con un pensiero speciale per quelle di Pescara-sud, di S. Maria Assunta, in Bagno di Romagna; di S. Maria, in Rosciano; di Maria Immacolata, in S. Vito dei Normanni, accompagnate dai loro rispettivi Vescovi; come pure le parrocchie di Sant’Antonio e di Gesù Buon Pastore, in Castellammare di Stabia.

Saluto poi i rappresentanti della Consulta Nazionale Antiusura, che ricordano il 10° anniversario della sua costituzione. Cari amici, la vostra presenza così numerosa mi offre l’opportunità di esprimere il mio vivo apprezzamento per la coraggiosa e generosa opera che svolgete in favore di famiglie e persone colpite dalla deplorevole piaga sociale dell’usura. Auspico che in molti si pongano al vostro fianco per sostenere il vostro encomiabile impegno sul piano della prevenzione, della solidarietà e della educazione alla legalità.

Il mio saluto va, infine, ai malati, agli sposi novelli e ai giovani. Tra i giovani ricordo particolarmente gli studenti dell’Istituto « San Giuseppe del Caburlotto » di Roma, dell’Istituto « Virgo Fidelis » di Grottaferrata, e della Scuola Media « Diamare-Conte » di Cassino. Tutti invito a prepararvi all’Avvento con fervore spirituale, attingendo dalla Parola di Dio e dall’Eucaristia l’energia interiore per accogliere il Signore che viene.

VENERDÌ 30 OTTOBRE 2009 – XXX SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

VENERDÌ 30 OTTOBRE 2009 – XXX SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

MESSA DEL GIORNO

Prima Lettura   Rm 9, 1-5
Vorrei essere io stesso anàtema, separato da Cristo, a vantaggio dei miei fratelli.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, dico la verità in Cristo, non mento, e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo: ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua.
Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono Israeliti e hanno l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse; a loro appartengono i patriarchi e da loro proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen.    

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dalle «Opere» di Baldovino di Canterbury, vescovo
(Tratt. 6; PL 204, 451-453)

La parola di Dio è viva ed efficace
«La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio» (Eb 4, 12). Ecco quanto è grande la potenza e la sapienza racchiusa nella parola di Dio! Il testo è altamente significativo per chi cerca Cristo, che è precisamente la parola, la potenza e la sapienza di Dio. Questa parola, fin dal principio coeterna col Padre, a suo tempo fu rivelata agli apostoli, per mezzo di essi fu annunziata ed accolta con umile fede dai popoli credenti. E’ dunque parola nel Padre, parola nella predicazione, parola nel cuore.
Questa parola di Dio è viva, e ad essa il Padre ha dato il potere di avere la vita in se stessa, né più né meno come il Padre ha la vita in se stesso. Per cui il Verbo non solo è vivo, ma è anche vita, come egli stesso dice: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14, 6).
E’ quindi vita, è vivo, e può dare la vita. Infatti «come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi vuole» (Gv 5, 21). E dà la vita quando chiama il morto dal sepolcro e dice: «Lazzaro, vieni fuori» (Gv 11, 43).
Quando questa parola viene predicata, mediante la voce del predicatore, dona alla sua voce, che si percepisce esteriormente, la virtù di operare interiormente, per cui i morti riacquistano la vita e rinascono nella gioia dei figli di Abramo.
Questa parola è dunque viva nel cuore del Padre, viva sulla bocca del predicatore, viva nel cuore di chi crede e di chi ama. Ed appunto perché questa parola è così viva, non v’è dubbio che sia anche efficace.
E’ efficace nella creazione, è efficace nel governo del mondo, è efficace nella redenzione. Che cosa potrebbe essere più efficace e più potente? «Chi può narrare i prodigi del Signore e far risuonare tutta la sua lode?» (Sal 105, 2). E’ efficace quando opera, è efficace quando viene predicata. Infatti non ritorna indietro vuota, ma produce i suoi frutti dovunque viene annunziata.
E’ efficace e «più affilata di qualunque spada a doppio taglio» (Eb 4, 12) quando viene creduta ed amata. Che cosa infatti è impossibile a chi crede, che cosa è impossibile a chi ama? Quando parla questa parola, le sue parole trapassano il cuore, come gli acuti dardi, scagliati da un eroe. Entrano in profondità come chiodi battuti con forza e penetrano tanto dentro, da raggiungere le intimità segrete dell’anima. Infatti questa parola è più penetrante di qualunque spada a doppio taglio, perché il suo potere d’incisione supera quello della lama più temprata e la sua acutezza quella di qualsiasi ingegno. Nessuna saggezza umana e nessun prodotto d’intelligenza è fine sottile al pari di essa. E’ più appuntita di qualunque sottigliezza della sapienza umana e dei più ingegnosi raziocini.

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