Archive pour octobre, 2009

San [Padre] Pio di Pietrelcina: « Chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20091031

Sabato della XXX settimana del Tempo Ordinario : Lc 14,1-1#Lc 14,7-11
Meditazione del giorno
San [Padre] Pio di Pietrelcina (1887-1968), cappuccino
Buona giornata 8/8, GB 69

« Chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato »

      L’umiltà è la verità, e la verità è che io sono nulla, e tutto quello che di buono è in me, è di Dio. E spesso noi sciupiamo anche quello che di buono Dio ha messo in noi. Quando vedo che la gente a me chiede qualche cosa, non penso a quello che posso dare, ma a quello che non so dare, e per cui tante anime restano sitibonde, per non avere io saputo dare loro il dono di Dio.

      Pensare che ogni mattina Gesù fa l’innesto di sé in noi, ci pervade tutti, ci dona tutto, dovrebbe dunque spuntare in noi il ramo o il fiore dell’umiltà. Viceversa, il diavolo, che non può innestarsi in noi così profondamente come Gesù, ecco che fa subito germogliare i suoi virgulti di superbia. Questo non ci fa onore. Bisogna dunque combattere e sforzarci di salire… Quando non ne possiamo più, allora, nella fermata, umiliamoci e in questa umiltà ci incontreremo con Dio, perché egli discende nel cuore umile.

Day 3 Earth & sea, plants & fruits / Jour 3 Terre et mer, plantes et fruits

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http://www.artbible.net/1T/Gen0109_3Seaearth,_plantsfruits/index_3.htm

Publié dans:immagini varie |on 30 octobre, 2009 |Pas de commentaires »

Prof. Barbaglio: La laicità del credente, Il rapporto con il mondo nell’evangelo di Gesù e di Paolo (uno studio importante, bellissimo)

dal sito:

http://www.giuseppebarbaglio.it/Articoli/finesettimana14.pdf

La laicità del credente

Il rapporto con il mondo nell’evangelo di Gesù e di Paolo

sintesi della relazione di Giuseppe Barbaglio
Verbania Pallanza, 11 febbraio 2006

Ho scritto vent’anni fa un libretto sulla laicità del credente: se oggi dovessi tornare sull’argomento, eviterei il termine « laicità », troppo polisemico e ambiguo, sostituendolo con un termine più in sintonia con le testimonianze bibliche, quello di « mondanità ». L’esperienza dei credenti, dei cristiani nel mondo, è un’esperienza « mondana ». Il termine « mondanità », più che quello di « laicità » è in sintonia con le testimonianze bibliche. I testi di Paolo su questo tema, sono abbastanza difficili, ma se letti un po’ attentamente, risultano stimolanti anche per noi.

il « mondo » per Paolo

Innanzitutto, Paolo per « mondo » usa due vocaboli che derivano dal giudaismo greco, non dalla
tradizione ebraica più antica, che parla di Mondo come creazione di Dio. Anzitutto « kosmos »: il
mondo come realtà bella e ordinata e poi « aion », cioè « il mondo nella sua durata », noi diremmo « le generazioni del mondo che si succedono ». Soprattutto in Gesù e Paolo, il problema del mondo non è tanto sapere che cos’è il mondo, che cos’è il tempo, ma il rapporto tra noi e mondo. O, in altra prospettiva, che cosa vuol dire il tempo, il mondo per noi. Nel corso di quest’anno voi analizzate soprattutto il versante dei credenti nel mondo, cioè la presenza dei credenti nella politica e nella società. Io ho scelto dei testi un po’ difficili e anche a prima vista ambigui in Paolo, per riuscire a dire qualche cosa su questo argomento così complesso.
Sono testi difficili, ma che bisogna avere il coraggio di affrontare, perché sono anche molto
importanti. Certo, Paolo non è l’unico, ma è una presenza abbastanza significativa delle scritture cristiane.

1 Corinzi 5,9-11: la comunità dei credenti dentro la storia

« Vi scrissi nella mia lettera di non mescolarvi con i debosciati, ma non intendevo in ogni caso
riferirmi ai debosciati di questo mondo o agli avari, ladri, idolatri. Altrimenti dovreste uscire dal
mondo. Vi scrissi invece di non mescolarvi con chi portando il nome di fratello è debosciato o
avaro o idolatra o maldicente o ubriacone o ladro: non mangiate neppure insieme a tale persona. »

1 Corinti è una lettera inviata alla chiesa che Paolo aveva fondato a Corinto. Corinto era una città portuale, allora molto importante. La Corinto greca era stata distrutta dai Romani nel 150 circa prima di Cristo, ma poi nel 49 Giulio Cesare l’aveva rifondata come colonia romana. Corinto rappresentava l’incontro di due culture, la greca e la romana. Qui confluivano vari gruppi sociali. Mentre Atene in quel periodo era in crisi, Corinto era la grande città, dove si tenevano anche i giochi panellenici (non solo ad Olimpia!). In quel mondo culturale molto vivo e variegato assistiamo al primo incontro, o scontro per qualche verso, di una comunità cristiana nel mondo, in una città a cultura metropolitana.
In una prima lettera andata perduta alla comunità di Corinto, che Paolo aveva fondato nel 50 circa, vi era questa sorprendente esortazione: « Voi dovete evitare l’incontro con i pornoi ». I pornoi erano i debosciati. Però la parola pornos non vuol dire solo il debosciato sessuale, ma anche, secondo la polemica giudaica, l’idolatra. Gli Ebrei chiamavano « immorali » i pagani che adoravano le divinità. Poiché però Corinto era anche una città eticamente molto corrotta, il significato di questa parola ondeggia tra « idolatria » e « licenziosità etico-morale, sessuale ».
Allora i credenti di Corinto hanno risposto a Paolo, chiedendogli come fosse possibile per loro, che erano un piccolo gruppo di 40-50 persone al massimo in una città che poteva avere trecento-quattrocentomila abitanti, evitare l’incontro con gli idolatri, con i debosciati, con i pagani. E Paolo nella risposta torna sulla sua esortazione precedente e chiarisce che c’è stato un equivoco, un’incomprensione, affermando che non si riferiva ai debosciati di questo mondo, ma ai debosciati che sono fratelli, che appartengono alla comunità. Se i credenti infatti non dovessero mischiarsi con la società, dovrebbero uscire dal mondo. Paolo afferma quindi chiaramente che l’esistenza della comunità cristiana è un’esistenza « nella » società, « nel » mondo. È un’esperienza di chi « fa parte » di questa società, di questa città, del mondo. L’esistenza cristiana non è un’esistenza che si deve vivere in uno spazio separato, al di sopra della società, ma dentro la società, assumendo la rete dei rapporti, assumendo la mescolanza. In Italia si è discusso e si discute sui « meticci », sul « meticciato ». Appena ne ho sentito parlare, ho pensato che l’esempio più chiaro di meticciato è Gesù! Gesù è un meticcio: figlio di Dio e figlio dell’uomo!

la lettera ai Galati: liberi dal mondo idolatrico
e dalla legge mosaica

Il secondo testo molto più impegnativo e problematico comprende vari brani della lettera ai Galati. Si tratta di una lettera enciclica, perché inviata a diverse comunità della Galazia. La regione galata era stata abitata dal 200 circa a.C. dai Galli, dai Celti, che, venuti dalla Francia, si erano sedentarizzati al centro della penisola anatolica, dando vita ad un regno. Nel 25, con la morte dell’ultimo re dei Galati, Aminta, il regno passò ai Romani, i quali hanno poi costituito con le regioni più vicine la famosa provincia di Galazia, con capitale Ancyra, l’attuale Ankara. Paolo
aveva fondato alcune comunità in questa regione, comunità che poi avevano ricevuto la visita di missionari giudeo-cristiani tradizionalisti, o addirittura reazionari. Questi missionari affermavano che il vangelo della libertà di Paolo era un vangelo annacquato, presentato così per avere più facilmente l’adesione dei Galati, mentre il vangelo vero di Gesù Cristo esigeva anche la circoncisione (si rivolgevano a dei pagani) e quindi l’osservanza della legge mosaica.
Paolo scrive a questi Galati, che godevano della libertà di cristiani, cercando di parare la loro
ricaduta nella religione mosaica, in cui Cristo era soltanto un’aggiunta. Cristo, in questa concezione, veniva inserito dentro uno schema che riservava la salvezza esclusivamente a coloro che avevano la circoncisione, che cioè osservavano la legge mosaica.
All’inizio di questo testo molto difficile, e anche ambiguo, dice:

« Io Paolo… alle chiese della Galazia. Grazie a voi e pace da Dio, nostro Padre, e dal Signore Gesù Cristo, il quale ha dato se stesso per i nostri peccati… » (Gal 1,4). In questa affermazione appare una fede cristiana « prepaolina », propria dei giudeo-cristiani, convinti che i sacrifici di espiazione del tempio di Gerusalemme non fossero più il sacramento del perdono, perché sostituiti dalla morte di Gesù, il nuovo sacramento del perdono. I tradizionalisti giudeo-
cristiani ritenevano però che Gesù dovesse essere coordinato con la religione mosaica, mentre Paolo vedeva in questo coordinamento una diminuzione della forza salvifica di Cristo. Per Paolo la salvezza non sta nel perdono dei peccati, non dipende dalla conversione, ma è qualcosa di molto più radicale. Infatti il perdono dei peccati risolve solo sul momento la situazione. E allora Paolo, iniziando la sua lettera, per persuadere i suoi ascoltatori della propria fedeltà alla tradizione, nonostante tutta la sua radicalità, riporta anzitutto la formula tradizionale protocristiana della morte di Cristo come sacramento del perdono dei peccati al posto dei sacrifici del tempio, ma per dire subito dopo dove sta esattamente l’azione di Cristo:
« affinché Egli ci riscatti da questo mondo malvagio ». La salvezza quindi non sta tanto nel perdono dei peccati ma in un evento di liberazione e di riscatto da « questo mondo malvagio ». L’espressione « questo mondo » è abbastanza ambigua e in Paolo di solito ha valore deteriore, peggiorativo. Non indica il mondo nella sua fisicità, ma nel suo rapporto con gli uomini e quindi si riferisce alla storia, alla società. Che cosa sia questo mondo malvagio Paolo lo precisa nel capitolo quarto della lettera: questo mondo è una realtà negativa anzitutto perché è un mondo idolatrico. Le piccole comunità cristiane come quella di Corinto o come quelle presenti nell’impero romano erano a contatto con un’umanità idolatrica, un’umanità che piegava le ginocchia davanti a realtà create, come se fossero Dio. Allora in Galati 4, riferendosi a questi credenti di Galazia, che si erano convertiti alla sua predicazione, Paolo dice: « Un tempo voi che non conoscevate (qui conoscere significa riconoscere, non è un atto di conoscenza intellettuale) il Dio creatore eravate schiavi di dei che non sono tali per natura » (Gal 4,8)
L’ambiente in cui Paolo comunica con le sue comunità è idolatrico, è un mondo schiavo di queste divinità, che in realtà sono delle nullità, e che hanno consistenza solo per quelli che le riconoscono. Abbiamo un testo parallelo in 1Corinti, 8, 5-6, in cui Paolo dice: « Anche se ci sono dei cosiddetti dei sia in cielo che in terra – come di fatto c’è una quantità di dei e signori -, per noi invece esiste un solo Dio, il Padre… e c’è un solo Signore, Gesù Cristo ». Ci sono molti dei e molti signori riconosciuti, adorati, venerati, a cui si serve, ma noi credenti in Cristo riconosciamo un solo Dio, il Padre, e un solo signore, Gesù Cristo. Allora gli dei erano i capi
delle nazioni, gli imperatori, i signori, che avevano il potere di vita e di morte su tutti.
« Lui ci ha riscattati, liberati da questo mondo malvagio » vuol dire allora che Cristo ci ha liberati da un mondo in quanto espressione idolatrica, in quanto ambiente in cui si piegano le ginocchia
davanti a realtà umane, create come se fossero degli dei, da un mondo schiavizzato.
Oggi il mondo idolatrico si manifesta in forme nuove, per esempio nel grande feticcio del mercato. Si parla delle « leggi del mercato » del « libero mercato » come se fossero il decalogo! È un mondo idolatrico, dove si adora il mondo, dove le persone sono sacrificate al mondo, dove le persone si inginocchiano davanti alle leggi del mondo. E Paolo ci dice: « Cristo ci ha riscattati da questo mondo idolatrico » Questa è la prima caratteristica. Una seconda caratteristica riguarda la circoncisione e la legge mosaica. Paolo scrive ai credenti di Galazia, i quali volevano farsi circoncidere, perché i predicatori giudeo-cristiani avversari di Paolo, dicevano che se non si fossero fatti circoncidere, essi non avrebbero avuto la salvezza. Cristo non basta, si deve osservare anche la legge mosaica. Paolo pone un’equivalenza tra l’idolatria del mondo pagano (« quelli che non conoscono Dio perché sono schiavi di divinità che non sono realmente tali ») e l’adorazione della legge propria del mondo giudaico. La legge mosaica è qui considerata non nella sua derivazione divina, ma in quanto elemento che costituisce il centro dell’esistenza delle persone. I predicatori giudeo-cristiani infatti sostenevano che senza circoncisione, cioè senza l’assunzione della legge mosaica, non c’è salvezza. In questo modo, la legge, e quindi la religione mosaica, viene eretta a dio di questo mondo (gli uomini si definiscono in rapporto al possesso o alla privazione della legge mosaica). La legge mosaica, la circoncisione, era per natura sua un elemento discriminante, perché quelli che avevano la legge e la osservavano, erano accolti da Dio, erano sulla via della salvezza, mentre quelli che non avevano la legge mosaica, i gentili, i pagani, erano ipso facto considerati peccatori. Lo dice Paolo stesso in Galati 2, quando si rivolge a Pietro, in seguito alla scissione della comunità di Antiochia. Antiochia era una comunità mista, dove le regole della dietetica e della tradizione ebraica non erano osservate, e tutti i credenti mangiavano insieme nella libertà cristiana. Poi erano arrivati alcuni da Gerusalemme, mandati da Giacomo, fratello del Signore Gesù, che sostenevano che non si dovesse mangiare insieme, perché c’erano le regole da rispettare. Pietro aveva ceduto e si
era ritirato con quei giudeo-cristiani circoncisi che mangiavano secondo le regole, lasciando soli i poveri pagani convertiti, causando così una scissione nella comunità. Paolo afferma di avere contrastato Pietro a viso aperto, perché il suo comportamento era meritevole di condanna e fonte di scandalo. Così rimprovera Pietro: « Noi giudei che per natura siamo tali e per condizione naturale non siamo dei peccatori provenienti dal mondo dei gentili. » (Gal 2,15)
Mentre i gentili erano nella situazione di essere peccatori (non perché commettessero dei peccati, ne commettevano anche i giudei), i giudei, all’interno del sistema mosaico, avevano i mezzi per ottenere il perdono attraverso il pentimento e i sacrifici espiatori.
Possiamo così comprendere ora pienamente il « Lui ci ha liberati da questo mondo malvagio »:
Cristo ci ha liberato da questo mondo idolatrico, in cui impera l’idolatria, l’adorazione delle cose, delle persone, dei capi, delle creature, Cristo ci ha liberato da questo mondo dove vige la regola della discriminazione prodotta dalla legge mosaica, da questo mondo dove si adora la religione. Altro che la religione civile! Paolo dice che Gesù ci ha riscattati da questo mondo in cui la religione mosaica, (patto sinaitico, riti di espiazione) era discriminante nei confronti di coloro che erano per condizione degli esclusi. L’evento liberante di Cristo è pertanto un evento liberante dal mondo dell’idolatria e dal mondo delle religioni (anche della religione cattolica!), intendendo per religioni un insieme di credenze, un insieme di riti, di espressioni sociali che sono separanti, escludenti.
In realtà, il mondo giudaico aveva un respiro universalista, che implicava però l’assimilazione dei diversi. I giudei cioè non sostenevano che il loro Dio salvasse solo loro. La salvezza riguardava tutti, anche i gentili, a condizione che i gentili si facessero ebrei, cioè accettassero la circoncisione, come dicevano gli avversari di Paolo, perdendo così la propria identità culturale e diventando altri. Paolo rappresenta un universalismo qualitativo, e cioè un universalismo che mette sullo stesso piano gli uni e gli altri, gli ebrei che avevano una tradizione monoteistica, la legge, il patto, la circoncisione, il tempio, il culto, e i gentili che non l’avevano. Davanti al Dio di Gesù Cristo, l’uomo delle religioni e l’uomo che non ha nessuna religione, sono parificati.

Galati 3,27-28: liberi in Cristo dalle diversità identitarie

In Galati 3, 27-28, abbiamo quel testo straordinario di Paolo, che bisognerebbe che fosse
pronunciato ogni giorno, soprattutto oggi: « Sì, quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è giudeo, né greco, non c’è schiavo né libero, non c’è maschio né femmina, perché tutti voi siete un solo essere in Cristo Gesù. »
3,27: « Sì, quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo… »
L’immagine del vestito era un’immagine tradizionale utilizzata anche nei misteri greci dove si
indossava un abito nuovo, come segno di una novità della vita: si chiude una porta alle spalle, al passato, e si apre una porta sul futuro, sulla novità. « Non c’è giudeo né greco » (era la grande divisione del mondo di allora, monoteisti – politeisti), « non c’è schiavo né libero » (era la grande frattura di tipo sociale, di tipo politico: nelle assemblee delle città greche lì dove si decideva della res pubblica, non potevano prender parte tutti coloro che abitavano nella città, ma solo coloro che avevano il diritto di cittadinanza. Le minoranze etniche, per esempio, erano prive di questo diritto), « non c’è maschio né femmina ». Non c’è « poiché tutti voi siete un solo essere in Cristo Gesù », avete ricevuto una nuova identità. Se noi avessimo chiesto a Paolo chi fosse lui, prima di Damasco, avrebbe risposto con molto orgoglio di essere un ebreo, un monoteista, un circonciso, al di dentro del patto di Dio e della sua legge. Se glielo avessimo chiesto dopo, avrebbe risposto di essere « un essere in Cristo ». Paolo è un mistico, non è un moralista. Essere cristiano per Paolo è essere coinvolto dentro il Risorto. Il Risorto è lo Spirito di Dio, è Gesù di Nazareth trasformato, Gesù di Nazareth che ha subito una metamorfosi nella resurrezione, divenendo Spirito che dà la vita. L’identità cristiana si colloca dentro questo spazio nuovo di vita, che è la signoria di Cristo e che è lo Spirito di Dio.
Allora quando Paolo dice che non c’è giudeo, greco, schiavo, libero, maschio femmina, certamente non vuol dire che queste diversità non esistono più, ma che queste diversità non sono più identitarie, cioè non costituiscono più l’identità della persona. La persona non si definisce più in rapporto a Cristo come ebreo o gentile, schiavo, libero, maschio e femmina: si definisce come uno che è in Cristo, che è dentro questo spazio delle forze nuove della vita di Cristo. Noi viviamo oggi in Europa e nel mondo un forte ritorno alle affermazioni delle identità. Dopo la caduta dell’impero sovietico abbiamo assistito ad una moltiplicazione di stati in Europa, anche di piccoli stati: la Cecoslovacchia si è divisa in due stati, e poi la Jugoslavia si è frantumata, con la Bosnia, ecc.. C’è una corsa all’identità nazionale o localistica: nel nord dell’Italia all’identità padana. Cristo ci ha liberato dalle identità culturali, dalle identità religiose, dalle identità sociali, dalle identità di genere. Per Paolo quindi Cristo ci ha liberato dal mondo in quanto idolatrico e da un mondo delle religioni in quanto grandezze separanti e discriminanti. Cristo ci ha liberato dalle diversità identitarie. Le diversità restano, ma non sono più l’identità vera, sono solo delle varianti culturali, religiose, morali, ecc. perché l’identità è un’altra.

Galati 5,1-2;13: chiamati alla libertà

La liberazione da questo mondo idolatrico e delle religioni discriminanti e identitarie, è il vangelo, la lieta novella. Cristo vi ha liberati: il cristianesimo non è un appello all’autoliberazione, ma è un evento di liberazione, un evento di grazia. Però questo evento di liberazione, che è un dono, è anche un compito, affidato alla nostra responsabilità. L’evento di liberazione non è una situazione data una volta per sempre, ma sollecita il nostro impegno responsabile. Abbiamo due testi, sempre in Galati, che ripetono la stessa idea: « Cristo ci ha liberati per una vita di libertà ». (Gal 5,1) E poiché noi siamo stati liberati per la libertà, Paolo esorta: « state saldi dunque ». Ecco la responsabilità: la saldezza nella libertà. Stare saldi vuol dire « non sottoponetevi di nuovo al giogo della schiavitù » (Gal 5,1), che sappiamo essere
la schiavitù del mondo idolatrico e del mondo delle religioni separanti. E in Galati 5, 13 Paolo ripete: « voi infatti, fratelli, siete stati chiamati alla libertà ». Cioè voi siete stati chiamati (da Dio) a poggiare la vostra vita sulla libertà, « soltanto che poi questa libertà non diventi un « aformèn », una base di lancio per la carne. » In questo caso « carne » in Paolo un’esistenza dominata da un dinamismo egocentrico, dall’ego. « Ma al contrario, mediante l’agape, mediante l’amore, siate schiavi gli uni degli altri ». Mediante l’agape, l’amore, che è frutto dello Spirito del Risorto, siamo chiamati e resi capaci di prenderci reciprocamente cura, di farci schiavi gli uni degli altri. La libertà cristiana è una libertà responsabile, solidale, del prendersi reciprocamente cura. È
una libertà che consiste in una reciproca schiavitù. Paolo in questi testi emerge come l’apostolo di un cristianesimo radicale, di un cristianesimo di confine, di un cristianesimo mistico, di un cristianesimo della libertà da un mondo idolatrico, dal mondo delle religioni discriminanti e identitarie.

Galati 6,11.14-15: un mondo nuovo

In Galati, 6, 11-15, in conclusione della lettera, Paolo parla in prima persona, scrivendo di proprio pugno. Afferma:
« Guardate con che caratteri grossi io scrivo di mia mano » e tra le cose bellissime che dice, afferma al v. 14: « Per me non avvenga mai che io mi vanti » (per vantarsi non si intende il vantarsi davanti agli uomini ma il vantarsi davanti a Dio, cioè accampare dei diritti, delle pretese, nei confronti di Dio), « io mi posso vantare solo di una cosa: della croce del Signore nostro Gesù Cristo ». La croce per Paolo non è solo la morte, ma è morte e risurrezione. La croce è un simbolo che esprime per un verso il lato tragico e cioè la morte orrenda del crocifisso, la tortura riservata agli schiavi e ai traditori. Il servile supplicium di cui parla Seneca. Per un altro verso la croce è il simbolo della resurrezione dai morti. Dio ha risuscitato non un sant’uomo, ma il crocifisso, cioè il maledetto, « maledetto colui che pende dal legno » (Deut 21, 23). Questa maledizione Paolo la riporta in Galati 3, capovolgendola: il maledetto è la fonte di benedizione per tutte le genti. Paolo dice « mi vanto soltanto della croce di Cristo ». Io direi: mi vanto solo di Dio che ha risuscitato il Crocifisso. Questo è il simbolo della croce. Dice: « Mediante la quale croce, questo evento di Dio che ha risuscitato il crocifisso, il mondo è stato ed è crocefisso per me e io sono morto per il mondo ». Il mondo di cui parla è sempre il mondo idolatrico, di mondo delle religioni discriminanti, dell’adorazione degli idoli. Paolo in questo testo non dice che il mondo idolatrico, delle religioni discriminanti, delle identità separanti, è morto, non conta più, che noi siamo liberi. No, per Paolo il mondo idolatrico e il mondo delle religioni separanti non hanno alcun influsso su di me. Questo testo bellissimo riesce anche a farci capire esattamente in che senso Paolo dice che mediante Cristo siamo stati riscattati da questo mondo. Quello che è riscattato è il rapporto, è la dipendenza: non siamo più dipendenti da questo mondo idolatrico, da questo mondo delle religioni discriminanti.
Al versetto 15 dice: « Infatti né la circoncisione, né l’incirconcisione, che erano i due mondi, vale
qualche cosa. » Paolo riconosce che ci sono i circoncisi, ma questo non ha più valore, non è più l’identità delle persone, perché quello che vale è un mondo nuovo, è una creazione nuova.
La nuova creazione è un mondo in cui non c’è più la dipendenza delle persone dall’idolatria e dalla discriminazione. Là dove le persone si liberano dalla schiavitù degli idoli e si liberano dalle
religioni discriminanti, lì nasce il nuovo mondo. Il profeta Isaia aveva parlato di « cieli nuovi e terra nuova », noi diremmo di una società nuova. Noi siamo nel mondo, dice Paolo, ma non siamo succubi del mondo idolatrico e del mondo delle religioni discriminanti.

2 Corinti 5,14-15: morire con Cristo alla vita egocentrica

Nella seconda lettera ai Corinti, 5,14 Paolo afferma che noi siamo mossi dall’amore di Cristo, cioè che l’amore che Cristo ha per noi ci muove nella vita.
« L’agape di Cristo ci sollecita, ci spinge, spinge noi che giudichiamo questo fatto: uno solo è morto, a favore di tutti. » Nella liturgia eucaristica abbiamo una traduzione che a mio avviso è non solo infelice, ma è un po’ furbastra. Il testo originale è: « Questo è il mio corpo, (vuol dire: questo sono io) « uper umon » c’è nel testo biblico. Nella messa si dice: « questo è il mio corpo dato in sacrificio per voi ». Il significato greco è: questo sono io che ho dato me stesso a favore vostro, per il bene vostro. L’inserimento subdolo della parola « sacrificio » avvalora la tradizionale visione cattolica della messa, della cena del Signore, come sacrificio. Ora Paolo è contrario alla concezione sacrificale ed espiatoria della morte in croce di Gesù, concezione che traspare solo in Romani 3, 24-25, e poi in 1Corinti 5, 7. Paolo qualche volta per ingraziarsi i suoi ascoltatori ripete alcune espressioni tradizionali, per poi però correggerle. La morte di Gesù non è un sacrificio espiatorio, ma un atto di amore per noi: Gesù è morto a favore nostro, per il bene nostro. Poi Paolo prosegue: « uno solo è morto per tutti, dunque tutti sono morti ».
Questa consequenzialità ci sconcerta, perché noi avremmo detto più logicamente che poiché uno è morto per tutti, noi otteniamo la vita attraverso la sua morte, e non che « morto uno, morti tutti! » Alla base del versetto c’è la concezione mistica di Paolo, per il quale l’esperienza cristiana è l’esperienza di chi viene inserito dentro il Cristo risorto, di chi entra in comunione col Cristo risorto. La mistica di Paolo non è teocentrica, ma cristocentrica, cioè riguarda l’unione col Cristo risorto. Allora se uno è morto per tutti, tutti quelli che sono in Cristo sono coinvolti nell’evento della sua morte. Questo è il senso. Cristo non è un individuo isolato, ma ha un valore rappresentativo, che ci coinvolge. Quello che capita a Lui capita ai credenti, perché i credenti sono inseriti in Lui e l’evento suo diventa evento nostro, dei credenti. Lui è morto a favore di tutti, dunque tutti sono morti. In che senso sono morti?
Naturalmente il versetto 15: « Ed egli è morto per tutti, affinché quelli che vivono, i viventi, gli uomini non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto ed è risuscitato per loro ».
La morte di cui si parla è la morte all’ego: non vivono più per se stessi, ma vivono per Cristo e per gli altri. La conseguenza è: « cosicché noi d’ora in poi non conosciamo più nessuno secondo un giudizio umano, carnale, e se anche noi prima avessimo conosciuto Cristo in modo carnale, d’ora in poi non lo conosciamo più così », il rapporto con lui è un nuovo rapporto. « Di conseguenza se uno è in Cristo, è dentro Cristo, è coinvolto dentro la sua vicenda (questa è la
mistica cristocentrica di Paolo), costituisce la cellula del nuovo mondo creato ».
È interessante il parallelismo tra la persona credente che entra nello spazio creato da Cristo e dal suo Spirito e il mondo. « il vecchio se ne è andato, ecco sorto il nuovo ». La novità portata da Cristo è esattamente questa: non vivere più centrati nell’ego (introflessione), ma vivere per colui che è morto e risuscitato per noi (estroflessione). Paolo è partito dalla morte di estroflessione di Cristo: Cristo è morto a favore di tutti, a favore nostro, non a favore di se stesso. E nella sua morte a favore nostro, Lui ha coinvolto noi che moriamo al vivere per noi stessi, in modo da vivere per Lui. Quindi c’è questa partecipazione del credente alla vita di oblatività del Cristo. La novità non sta nell’assetto fisico del mondo, nelle istituzioni, ma la novità concerne l’esistenza, il rapporto.

Romani 8,18-25: solidarietà tra credenti e mondo

In Romani 8, 18-25, Paolo mette in parallelismo noi e il mondo creato: da una parte noi credenti che abbiamo la primizia dello Spirito il cui frutto è l’agape, la forza con cui si diventa schiavi gli uni degli altri, e dall’altra il mondo creato, con tutta probabilità inanimato. Paolo dopo aver detto che il credente è stato riscattato da questo mondo malvagio, che è morto con Cristo alla sua vita egocentrica e quindi ha ricevuto questa vita di altruismo e di amore, che è libera, ecc., alla fine afferma la comunanza di condizione tra noi e il mondo. Noi gemiamo e il mondo geme, noi aspettiamo e il mondo aspetta. « Noi » e il mondo, la totalità, sono accomunati nell’attesa e nel gemito. Il gemito di cui parla Paolo indica i dolori del parto, le sofferenze che preparano la nuova nascita, non i rantoli della morte. La comunità dei credenti non sta al di fuori del gemito del mondo, del gemito che è sofferenza, ed anche strazio, ma che prelude ad una nuova nascita. « Non solo: noi gemiamo in attesa del riscatto del nostro corpo ». Per Paolo noi non abbiamo un corpo, ma siamo un corpo, siamo corporeità. E corporeità significa relazionalità. L’uomo è per essenza relazionalità: relazionalità a Dio, la creatura che riconosce il creatore, e quindi non adora le creature; relazionalità nei confronti degli altri, in questa schiavitù di
amore reciproco; relazionalità verso il mondo, cioè noi siamo esseri essenzialmente mondani, per cui la sorte dei credenti, degli uomini è la sorte del mondo. Allora il mondo geme in attesa di essere liberato dalla vacuità dell’essere. Quando leggo questo testo mi viene in mente la vacuità di molte espressioni della nostra vita, l’inconsistenza, la stupidità, il non essere insomma. Il mondo liberato dalla vacuità è l’uomo liberato nella sua relazionalità essenziale a Dio, agli altri e al mondo. Gemiamo noi, geme il mondo creato e geme lo Spirito, con gemiti, dice, inenarrabili. Lo Spirito di Dio, che per Paolo abita nei credenti, è presente nel mondo, ed è presente come principio della trasformazione, della liberazione. E Lui stesso geme in attesa. È straordinario! La comunità dei credenti non sta sopra, non è in una condizione diversa rispetto agli altri, cioè ai credenti non è risparmiato niente che non sia risparmiato agli altri. L’esistenza dei credenti è un’esistenza nel gemito, nella sofferenza, propria di chi non è arrivato ancora, in un cammino faticoso. In un testo della seconda Corinti Paolo dice: « io porto sempre in giro (Paolo era un missionario) la necrosi di Gesù », il morire di Gesù. Paolo avverte che la sua esistenza di apostolo, ma anche quella dell’insieme di tutti i credenti, è un processo intaccato dalla morte. Per Paolo la morte non è quella che arriva alla fine. La morte è un processo che rende la vita dell’uomo caduca, minacciata, precaria, sofferente, addolorata. Allora ai credenti non è risparmiato niente che non sia risparmiato ad altri. I credenti vivono in questo mondo, i credenti sono stati liberati da Cristo dal mondo idolatrico, dal mondo delle religioni discriminanti. I credenti cioè hanno la primizia dello Spirito ma non sono degli arrivati.

Romani 12,1-2: il culto dei credenti

Paolo, dopo aver esposto il suo vangelo ai Romani nei primi undici capitoli, conclude con
un’esortazione: « Io vi esorto ». Paolo, di regola, non comanda, ma esorta. L’esortare è
l’atteggiamento del padre nei confronti dei figli, non di un padre padrone. Paolo sollecita, prega,
esorta, come un padre esorta i figli. Vi prego dunque fratelli (adelfòi in questo caso andrebbe tradotto con « fratelli e sorelle »). Per inciso, Paolo non dice mai « figli miei », o quasi mai. Usa « figli miei » solo in due-tre testi, dove dice: io sono padre in quanto vi ho generati attraverso il vangelo. Quindi è il vangelo l’elemento generativo. Paolo si presenta come un fratello. Quindi, la comunità cristiana per Paolo è una fraternità. Nel mondo greco l’amore tra fratelli era maggiormente considerato, ancor più dell’amore tra marito e moglie. Non è paolina la concezione della chiesa come « popolo di Dio », introdotta dal concilio su sollecitazione soprattutto di Congar e della scuola francese dei domenicani di Le Saulchoir, che
giustamente volevano sottolineare che la comunità dei credenti è in cammino nella storia.
Per Paolo la comunità è una fraternità, una famiglia. Una famiglia non nel suo aspetto di paternità e figliolanza, ma di fraternità. La cosa è talmente interessante, che quando si passa alle lettere pastorali, cioè alle lettere di Tito e di Timoteo, che sono della tradizione paolina, anche lì si trova l’affermazione che la chiesa è famiglia di Dio. Però la famiglia di Dio di cui si parla è costituita dai padri e dai figli, in cui il padre è il grande capo nella famiglia. Tant’è vero che l’autore di queste lettere pastorali sostiene che il presbitero deve saper comandare, tenere sotto controllo i figli e le mogli… La stessa metafora della famiglia viene usata in modo non solo diverso, ma addirittura contrapposto.
Vi esorto dunque fratelli e sorelle mediante i gesti di misericordia di Dio. O ancor più fedelmente: per le viscere materne di Dio. Quello che diventa sollecitante per i credenti sono le viscere materne di Dio, e Paolo è il comunicatore di questi gesti di « visceralità », di « amore viscerale » di Dio. Vi esorto a mettere davanti all’altare, non le offerte sacrificali, ma la vostra esistenza mondana quale vittima sacrificale. Ancora una volta Paolo utilizza in modo non rituale concetti cultuali. Quello che Dio gradisce come offerta viva e santa, come dono è l’esistenza mondana dei credenti, è la loro mondanità, la loro corporeità. E questo è il culto intellettuale. L’offerta che gli uomini fanno a Dio deve essere un’offerta adeguata alla loro natura di esseri intelligenti, di esseri logici, che hanno il logos, la mente, l’intelligenza, il pensiero. Le offerte animali, di esseri che non hanno il pensiero, non sono adeguate alla natura umana. « Non siate conformisti nei confronti di questo mondo (to aiòni) », di questo mondo idolatrico, di questo mondo che adora le religioni discriminanti. Non siate conformisti, ma
dovete operare la metamorfosi che renda nuova la vostra mente, il vostro modo di vedere le cose, in modo che voi possiate discriminare e conoscere quello che è la volontà di Dio, quello che è il bene, quello che piace a Lui ed è perfetto.
È un testo molto pregnante. Essere anticonformisti vuol dire trasformare il modo di guardare il
mondo perché corrisponda al volere di Dio. Paolo non dice che dobbiamo seguire la volontà di Dio comunicataci da qualcuno che ritiene di conoscerla a perfezione al posto nostro, ma che « noi » dobbiamo trasformare il nostro modo di vedere, dobbiamo rinnovare la luce della nostra mente in modo da corrispondere a quello che Dio vuole da noi.

dibattito

Paolo, Gesù e i non credenti

Paolo parla solo dei credenti e probabilmente non si è mai posto il problema dei non credenti. È uno spazio vuoto che lui non ha riempito. Chiediamo a lui solo quello di cui si è interessato.
La seconda osservazione da fare è che Paolo quando dice « il credente in Cristo », il Cristo di cui
parla è il Risorto. Ecco perché Paolo non ha nessuna attenzione per il Gesù di Nazareth, per il Gesù biografico. Il Gesù risorto è il Gesù di Nazareth, non è un altro, però il Gesù biografico non gli interessa minimamente. Tant’è vero che di tutte le parole dette da Gesù secondo la tradizione Paolo ne cita espressamente solo due, che non hanno grande peso: « Quelli che sono ministri dell’annuncio devono vivere secondo l’annuncio », e poi la parola di Gesù sull’indissolubilità matrimoniale. Tutta la teologia di Paolo ruota sulla morte e risurrezione di Gesù. Il resto non gli interessa. Probabilmente Paolo ha trascurato del tutto quello che Gesù ha detto e fatto perché il Gesù delle parole e dei fatti era stato brandito dai suoi avversari, che avevano inserito Gesù dentro il sistema mosaico, come sostenitore dell’osservanza della legge mosaica. C’è qualche cosa di vero in questo. Però il vero problema per Paolo è la liberazione dal mondo idolatrico, per la quale i gesti e le parole di Gesù non sono efficaci. Paolo ritiene che il cuore dell’uomo non cambia sostanzialmente con i buoni esempi, con le buone parole. La schiavitù del mondo idolatrico, del mondo delle religioni discriminanti è qualcosa di così profondo da non essere scalfita dalle parole e dagli esempi. È necessario il grande gesto liberante di Cristo, del Cristo Risorto. Il Cristo Risorto è molto più potente del Gesù di Nazareth, che aveva a disposizione per influire solo le sue parole e il suo esempio. Nient’altro. Invece il Cristo Risorto ha in mano la potenza dello Spirito, lo Spirito di Dio, lo Spirito creatore.
Essere nel Cristo Risorto, è essere nello Spirito. In Paolo c’è questo parallelismo: noi siamo in
Cristo e noi siamo nello Spirito di Cristo, nello Spirito di Dio. Se le cose stanno così, noi potremmo dire allora che per Paolo i credenti non sono quelli che conoscono Gesù di Nazareth, le sue parole, i suoi esempi, ma quelli che sono dentro lo Spirito, quelli che sono animati dallo Spirito. E lo Spirito e il Cristo Risorto non sono una presenza locale, ma universale. Il Gesù di Nazareth poteva influire con la parola e con l’esempio solo su quelli che incontrava in Palestina, mentre per Paolo il Cristo Risorto e lo Spirito possono influire sull’universalità degli uomini. Il Gesù di Nazareth è una grandezza particolare culturalmente situata. Invece il Cristo Risorto che in qualche modo si identifica con lo Spirito è una grandezza universale, è una grandezza che può influire su tutti. Allora, bisogna distinguere tra quello che vuol dire « essere in Cristo » e la confessione cristiana, la credenza cristiana, i sacramenti, la vita associata cristiana. L’essere in Cristo non equivale alla vita associata cristiana. Ecco perché Paolo è radicale, annuncia un cristianesimo di frontiera, un cristianesimo che è possibile anche per quelli che non sono dentro la Chiesa. Così Paolo, che non si è mai posto il problema dei non credenti con la sua concezione dell’essere nel Cristo Risorto, nello Spirito, propugna un cristianesimo che travalica l’aspetto confessionale.

Paolo e la teologia del sacrificio espiatorio

Se noi intendiamo per sacrificio quella oblatività per cui uno dà la sua vita per amore dell’altro, non esistono problemi. Però nella teologia del sacrificio, il sacrificio è un atto religioso, un atto cioè che coinvolge Dio. Finché noi diciamo che Dio ha dato la sua vita a favore nostro per un atto di amore estremo per noi, d’accordo. Ma se usiamo la parola sacrificio, per dire che Gesù offre la sua vita per il perdono dei nostri peccati, facciamo riferimento alla concezione arcaica di un Dio, che ha bisogno del sangue, della vittima sacrificale. Voglio dire che l’Eucarestia, come la morte di Gesù, secondo Paolo, è al di fuori di questo schema vittimario, delle vittime e dei sacrificatori, dei sacrifici nel senso religioso.
Nel brano della lettera ai Romani Paolo esorta ad offrire le nostre esistenze come sacrificio vivo, non ad offrire vittime sacrificali. La nostra vita mondana è quello che Dio vuole da noi, non le vittime. Se ci sono le vittime, ci sono anche i sacrificatori, i sacrificatori provvidenziali.
So che è una battaglia perduta, però… chissà che grazie ad un concilio si possa tradurre
letteralmente durante la Cena del Signore: « Questo sono io che ho dato la mia vita per amore
vostro ». Questa è la traduzione corretta. Ecco perché dico che quella traduzione (« offerto in
sacrificio per voi ») per un verso non è esatta e per un altro verso è un po’ furba, in quanto inserisce la visione sacrificale dentro il testo. La critica al culto sacrificale è presente già nella linea profetica. In Isaia si dice: Quando voi venite al tempio e calpestate i miei pavimenti, io volgo la faccia dall’altra parte. Andate fuori, quello che io voglio è giustizia. Simili i testi di Amos. Qui la critica è alla dissociazione tra culto e vita. Paolo introduce un nuovo elemento: non critica la dissociazione ma vuole una sostituzione: l’unica offerta che piace a Dio è la vita mondana, cioè un culto non rituale. Per culto intendiamo un dono, un atto di benevolenza verso Dio, e allora questo atto di benevolenza non è più costituito da riti, ma è costituito dalla vita mondana, dalla vita profana.

religioni discriminanti e fede universale

Paolo polemizza contro la religione mosaica, perché è discriminante, perché discrimina tra quelli che sono dentro e quelli che sono fuori, tra gli inclusi e gli esclusi. Quando Paolo afferma che dobbiamo uscire dalla religione mosaica, perché la legge, la circoncisione, ecc., sono discriminanti, non vuole rinunciare all’ebraismo e aderire ad un’altra religione. Paolo sostiene che si debba risalire all’indietro, oltre Mosè, perché la vera identità ebraica da mantenere è quella di Abramo, quella di una figura universale: « in te saranno benedette tutte le tribù della terra ». Al tempo di Gesù il giudaismo aveva « mosaizzato » Abramo, sostenendo che Abramo avesse osservato la legge ancora prima che fosse promulgata (ci sono dei testi molto chiari da questo punto di vista), inserendo quindi l’abramismo dentro il mosaismo. Paolo toglie Abramo dal mosaismo, ritornando all’origine, alla figura abramica, che è figura universale. Per cui le promesse abramitiche, patriarcali, per Paolo, mantengono il loro valore, non solo per i discendenti carnali, gli ebrei, ma per tutti, come era originariamente. La legge non può abrogare la promessa. L’immagine che Paolo ha di Dio non è quella del Dio legislatore (quello del Sinai), e quindi del Dio sanzionatore, che sanziona il bene e il male con il premio e il castigo, ma quella del Dio promettente, del Dio che promette. E la promessa, dice Paolo, è come un testamento, che è del tutto gratuito: è il padre che dona al figlio un’eredità. Allora, il Dio che Paolo ha vissuto, alla luce di Cristo naturalmente, (grande convergenza in questo tra Gesù e Paolo) è il Dio della promessa, della promessa unilaterale, della promessa incondizionata, della promessa a tutti, agli Ebrei e ai gentili, agli schiavi e ai liberi, ai maschi e alle femmine, agli omosessuali e agli eterosessuali, agli islamici e ai cattolici…
Qui sta la attualità di Paolo, che ha combattuto una battaglia estrema contro una religione che
discriminava con la legge e con la circoncisione. Oggi le religioni sono discriminanti con altri
fattori. La lotta di Paolo per la liberazione dalla religione mosaica è una lotta di liberazione da tutte le religioni, in quanto e nella misura in cui sono discriminanti. Qui permane l’attualità della
distinzione tra fede e religione: Abramo è il padre dei credenti, non dei religiosi. E la fede, a
differenza della legge, è una grandezza transculturale, cioè potenzialmente aperta a tutti, a tutti che restano diversi perché il giudeo credente resta giudeo, il gentile credente resta gentile, il maschio maschio e la femmina femmina, ecc. Al posto del Dio legislatore e sanzionatore, al posto delle religioni discriminanti, il Dio abramico della promessa.

la morte ultimo nemico

Paolo considera la morte non come un fatto fisico, ma come l’ultimo nemico di Cristo e dell’uomo. Alcuni possono accusare Paolo di essere un uomo che non sa accettare la morte, di avere un atteggiamento un po’ infantile di ribellione di fronte ad un fato ineluttabile. In Paolo la morte non è la morte beata di San Francesco, la morte di chi vuole ricongiungersi col suo Signore, quindi la sorella morte. Neppure è il destino nudo e crudo dell’uomo che non può infantilmente rifiutare. Per Paolo la morte è una violenza all’uomo. La morte per lui non è l’ultimo istante della vita, ma ciò che mortifica la nostra vita. C’è questa spina dentro l’esistenza umana, esposta ogni giorno alla morte: noi portiamo in giro sempre la necrosi di Gesù, e cioè questo processo progressivo che intacca la vita del credente e del non credente, per cui Paolo dice che la morte è il signore del mondo. Questo signore del mondo deve essere detronizzato, in quanto entra in collisione con la signoria di Cristo. È un motivo cristologico. Cristo ha vinto la morte in sé, ma se non vince la morte in noi lui non è più il nostro signore, il nostro signore è la morte. Di fatto in 1 Corinti 15 Paolo riporta l’affermazione dei salmi
« finché lui abbia posto tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi ». L’ultimo nemico, quello più trememdo, quello più spaventoso, è la morte. Paolo ha una concezione alta della vita e del Dio della vita. Questo Dio della vita deve dire l’ultima parola sui viventi, e non la morte. La risurrezione vuol dire proprio questo. Non per niente al cap. 15 di 1Cor Paolo termina con due citazioni dell’antico testamento: Dov’è o morte il tuo pungiglione? Dov’è o morte la tua vittoria? La morte è stata ingoiata dalla vittoria di Cristo. Paolo in Romani 5 afferma: « Mediante un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e tramite il peccato la morte… » Noi dobbiamo essere riscattati dal peccato e dalla morte, che sono i due signori che sono entrati nel mondo. Il riscatto dal peccato, dal male oscuro che è l’idolatria, avviene attraverso la morte e la risurrezione di Cristo. Ma la liberazione dal peccato non è ancora la liberazione dalla morte. Paolo ha collegato peccato e morte, entrati tutti e due nel mondo, ma nella liberazione, allo stato attuale, noi siamo stati liberati solo dal peccato, da questa potenza condizionante a cui possiamo resistere, ma non ancora dalla morte. L’azione liberatrice di Cristo è stata distinta da Paolo in due fasi: la liberazione dal peccato e la liberazione dalla morte. Dal punto di vista antropologico uno può accusare Paolo di un sogno infantile, non tanto di non morire, ma di
ritenere che tutta la vita è sotto il segno tenebroso della morte. La morte minaccia ed estenua la vita nelle sofferenze, nei disagi, ma la speranza è la vittoria sulla morte perché Paolo prende sul serio la risurrezione di Cristo e la solidarietà nostra con Cristo. Non basta la vittoria di Gesù sulla sua morte, ma è necessario la vittoria di Gesù sulla nostra morte, se noi siamo identificati con Lui. È la mistica cristocentrica paolina
.

Omelia per domani 30 ottobre 2009, su Rm 9,1-3

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/16500.html

Omelia (30-10-2009) 
Eremo San Biagio


Dalla Parola del giorno
« Essi sono Israeliti e hanno l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse; a loro appartengono i patriarchi e da loro proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen. »

Come vivere questa Parola?
Nei primi otto capitoli della lettera ai Romani, Paolo aveva presentato il piano della salvezza che riguarda tutti i credenti in Cristo. Qui invece con acuto dolore si sofferma a considerare il fatto che Israele, il popolo eletto da Dio, sembra restare ermeticamente chiuso a Cristo.
Nella nostre pericope, Paolo, egli stesso figlio di Israele e, da buon fariseo preparatissimo nella conoscenza delle Scritture, mette a fuoco le inestimabili ricchezze di questo popolo: l’adozione a figli di Dio anzitutto e poi quell’alleanza (patto di fedeltà nuziale) più volte stretto da Dio col suo popolo, quella legge data a Mosè sul monte Sinai per tutelare il cammino spirituale d’Israele in modo che, fuori da sbandamenti, potesse sapere bene qual è il cammino della vera vita. Anche le accurate indicazioni circa il culto solenne (esteriore nel tempio e interiore nelle profondità del cuore) le radiose promesse circa la venuta del Messia e i Patriarchi che con la loro vita intemerata le hanno tenute accese. Tutta questa ricchezza di storia di memorie e di carismi Paolo ha ben desta in cuore. E il suo dolore è questo: perché quel Cristo Gesù che viene da così sante radici, colui per cui tutto è stato fatto, non è riconosciuto per quello che è, anzi è rifiutato?

Nella mia pausa contemplativa posso dare spazio all’atteggiamento di Paolo. C’è dolore in lui, ma non recriminazione condanna giudizi malevoli critiche amare. Desidera perfino di essere « anatema » per loro. Davvero l’apostolo vive quanto annuncia: la carità copre tutto, sopporta tutto e non cessa di sperare. È così il mio comportamento nei riguardi dei ‘lontani’, di quanti pensano e sentono diversamente da me?

Signore, dammi un cuore largo, profondo e comprensivo. Che io non mi lasci irretire in confusione di idee circa la mia fede cristiana, ma non stia a sparare giudizi e condanne a chi non è sulla mia barca.

La voce del superiore generale dei frati minori
Quello di cui oggi abbiamo maggiormente bisogno è il dialogo (con le altre religioni), nella chiarezza della propria identità.
José Rodriguez Carballo 

Catechismo della Chiesa Cattolica : Il significato del Sabato

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20091030

Venerdì della XXX settimana del Tempo Ordinario : Lc 14,1-6
Meditazione del giorno
Catechismo della Chiesa Cattolica – (trad. © copyright Libreria Editrice Vaticana) 
345-349

Il significato del Sabato

      Il Sabato – fine dell’opera dei « sei giorni ». Il testo sacro dice che « Dio, nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto » e così « furono portati a compimento il cielo e la terra »; Dio « cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro », « benedisse il settimo giorno e lo consacrò » (Gen 2,1-3). Queste parole ispirate sono ricche di insegnamenti salutari.

      Nella creazione Dio ha posto un fondamento e delle leggi che restano stabili, sulle quali il credente potrà appoggiarsi con fiducia, e che saranno per lui il segno e il pegno della incrollabile fedeltà dell’Alleanza di Dio. Da parte sua, l’uomo dovrà rimaner fedele a questo fondamento e rispettare le leggi che il Creatore vi ha inscritte. La creazione è fatta in vista del Sabato e quindi del culto e dell’adorazione di Dio. Il culto è inscritto nell’ordine della creazione. « Nulla si anteponga all’Opera di Dio », dice la Regola di san Benedetto, indicando in tal modo il giusto ordine delle preoccupazioni umane. Il Sabato è al cuore della Legge di Israele. Osservare i comandamenti equivale a corrispondere alla sapienza e alla volontà di Dio espresse nell’opera della creazione.

      L’ottavo giorno. Per noi, però, è sorto un giorno nuovo: quello della Risurrezione di Cristo. Il settimo giorno porta a termine la prima creazione. L’ottavo giorno dà inizio alla nuova creazione. Così, l’opera della creazione culmina nell’opera più grande della Redenzione. La prima creazione trova il suo senso e il suo vertice nella nuova creazione in Cristo, il cui splendore supera quello della prima.

Card. Tettamanzi, Arcivescovo di Genova, Omelia: Commemorazione di tutti i fedeli defunti

dal sito:

http://www.diocesi.genova.it/vescovo/tettamanzi/om981102.htm

Dionigi Card. Tettamanzi, Arcivescovo

OMELIE

Genova. Cimitero di Staglieno. Lunedì 2 novembre ’98

COMMEMORAZIONE DI TUTTI I FEDELI DEFUNTI

S.Messa. Omelia

Ci consola la promessa dell’immortalità futura

Nel giorno dei morti, e dunque della vita che finisce, la Chiesa ci parla con coraggio della vita immortale, ossia della vita che non conosce il tramonto. È una grande lezione per noi, che siamo venuti al cimitero; anzi, è una vera e propria sfida alla nostra fede, a noi che ci riteniamo credenti. In realtà, proprio la fede è la ragione più vera del nostro essere qui: non è in questione oggi semplicemente il ricordo dei nostri cari defunti, un ricordo intessuto di gratitudine, di affetto, di preghiera; è in questione piuttosto la nostra fede, che viene provocata in un suo contenuto essenziale e qualificante.

1. Abbiamo ascoltato alcune affermazioni dell’antico Libro della Sapienza sull’immortalità. Sono affermazioni che lasciano sconcertata la cultura materialista di cui è ampiamente imbevuta la nostra società: nel pensiero di molti, infatti, la morte è considerata la fine di tutto. Ma allora non possiamo sottrarci alla domanda: che significato può avere per tante persone la visita al cimitero? Ma c’è di più, perché le affermazioni del Libro della Sapienza lasciano meravigliato lo stesso pensiero spiritualista, che pure è presente, almeno in parte, nella nostra società e cultura. È questo un pensiero che interpreta e dà voce a quel bisogno profondo di non morire che pervade il cuore di ogni uomo: lo ritroviamo, questo pensiero, nell’antica filosofia greca, come ad esempio in Platone, per il quale l’immortalità è una qualità dell’anima umana che è spirituale e quindi incorruttibile. Ben più alto, addirittura inimmaginabile da mente umana, è il concetto di immortalità di cui ci parla l’autore sacro: l’immortalità consiste nella comunione piena con Dio, e quindi è un dono totalmente libero e gratuito di Dio all’uomo, che viene pertanto chiamato a condividere la vita eterna di Dio stesso.

Così la nostra fede, accogliendo questa rivelazione divina, apre davanti a noi spazi di speranza e di pace, nonostante tutto. Già ora, in questa « valle di lacrime », siamo nelle mani e nel cuore di Dio, che ci è Padre. Certo, ora non mancano prove e sofferenze, difficoltà e paure, oscurità e tragedie: non è questo, forse, il desolante spettacolo che le famiglie, la società e l’umanità intera sono costrette a vedere e a sperimentare ogni giorno? Certo, la morte sembra un fallimento che nulla riesce a scongiurare. Ma non è qui tutta la realtà! Se veramente crediamo, nonostante tutto siamo nella pace, perché la nostra speranza è « piena di immortalità ».

Riascoltiamo ancora una volta, con una grande calma interiore e chiedendo al Signore che ci rafforzi nella fede, le parole del Libro della Sapienza nella consapevolezza che sono state scritte anche per noi, per ciascuno di noi: « Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà. Agli occhi degli stolti parve che morissero; la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace. Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza è piena di immortalità. Per una breve pena riceveranno grandi benefici, perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé; li ha saggiati come oro nel crogiuolo e li ha graditi come un olocausto » (Sap 3, 1-6).

Sono parole, queste, che non possono non confortarci, non possono non rendere più certa la nostra speranza e più piena la pace del nostro cuore. Ma ad una condizione: quella di rinnovare con spirituale energia la nostra fede. Questa è la grazia che oggi dobbiamo chiedere al Padre che nel suo amore misericordioso aspetta l’abbraccio perfetto e definitivo con ciascuno dei suoi figli, questa è la grazia che dobbiamo implorare da Gesù risorto che con la potenza dello Spirito vuole rendere partecipe ogni credente della sua risurrezione. Se è giusto che oggi si intensifichi la preghiera di suffragio per i nostri morti, è anche necessario che si faccia più viva la preghiera di implorazione per noi: per la nostra fede, per la nostra fede nella vita immortale.

2. A sostegno della nostra fede, la Chiesa oggi ci offre una stupenda testimonianza: quella dell’Apocalisse di san Giovanni. In questo libro l’evangelista canta la speranza della Chiesa, che la potenza di Dio rende vittoriosa sulle persecuzioni e sugli incubi della storia. È nella Gerusalemme celeste che la speranza cristiana trova, per così dire, la sua « incarnazione ». Qui Giovanni contempla « un nuovo cielo e una nuova terra »: è questo il luogo del bene, del vero, del giusto, dell’ordine, della vita, della pace. Infatti, annota Giovanni, « il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più » (Ap 21, 1). Il mare non c’era più! Ora il mare è il simbolo tenebroso del male, del caos, del nulla: questo mare è stato definitivamente prosciugato, dunque non c’è più. Al centro di questo nuovo cielo e di questa nuova terra sta la « nuova Gerusalemme », che l’evangelista contempla come una bellissima sposa, preparata con splendidi ornamenti per il suo sposo e ormai finalmente congiunta per sempre con lo Sposo. È « la dimora di Dio con gli uomini » (Ap 21, 3). È lo spazio vivo dell’alleanza d’amore tra Dio e l’umanità.

Sì, con l’evangelista Giovanni noi guardiamo al futuro. Ma guardiamo anche al presente, perché questa dimora e questa alleanza d’amore tra Dio e l’uomo è una realtà che oggi è operante nella storia, è dentro di noi e segna profondamente la nostra vita. Il Battesimo che abbiamo ricevuto, l’Eucaristia che celebriamo, la Parola di Dio che ascoltiamo e alla quale rispondiamo con la nostra preghiera, la vita di grazia che lo Spirito di Gesù accende in noi ci dicono che veramente questa alleanza d’amore tra Dio e l’uomo è stampata nell’intimo del nostro stesso essere e trasforma in profondità la nostra vita: proprio grazie a questa alleanza, la nostra vita, pur svolgendosi ancora nel pellegrinaggio terreno, pregusta e in qualche modo anticipa la vita immortale della Gerusalemme celeste.

È per questo che chi crede può sperimentare una gioia che niente e nessuno riescono a cancellare: è la gioia della comunione intima dell’uomo con Dio, una gioia che già ora è in atto, ma che attende di esplodere in pienezza quando Dio ci introdurrà definitivamente nella vita immortale. È vero: i nostri giorni sono spesso pesantemente segnati dalle lacrime, dall’affanno, dal lamento, dalla morte: questo, infatti, è l’invariato panorama che tutti i giorni ci presenta la nostra società. Ma la fede a questa visione non s’arrende: apre, invece, il cuore alla speranza, ad una speranza che non conosce dubbi e incertezze perché è fondata sul disegno onnipotente di Dio. Ecco che cosa farà egli un giorno, nel suo amore per noi: « Tergerà ogni lacrima dai nostri occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate » (Ap 21, 4). Proprio questo è il traguardo della nostra esistenza: ricevere il dono della vita immortale, secondo l’esplicita promessa di Cristo che fa nuove tutte le cose (cfr Ap 21, 5): « A colui che ha sete darò gratuitamente acqua delle fonte della vita » (Ap 21, 6).

3. Così dunque la pagina del Libro della Sapienza e la visione di Giovanni nell’Apocalisse, che brevemente abbiamo commentato, sono un sostegno e un incoraggiamento alla nostra fede e alla nostra speranza nella vita immortale alla quale il Signore ci chiama. Ma è soprattutto Gesù stesso che, proclamando le Beatitudini, rivolge a noi la « lieta notizia » che la morte non ci distruggerà, ma ci renderà più vivi che mai, riportandoci alla casa del Padre. Gesù parla della « grande ricompensa » e dell’allegria festosa che anima la comunione con il Dio della vita. Così il Signore Gesù inizia il discorso delle Beatitudini. « Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli » (Mt 5, 3); e, dopo aver proclamato le singole beatitudini, conclude: « Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli » (Mt 5, 12).

Sì, Gesù ha parole di verità e di vita, e noi ci fidiamo pienamente di lui. Ma è soprattutto la sua risurrezione da morte la notte di Pasqua a dare fermezza incrollabile alla nostra fede e slancio inarrestabile alla nostra speranza nella vita immortale che Dio ci prepara. Che il Signore ci dia di fare nostra la convinzione assolutamente certa della Chiesa nella risurrezione della carne e nella vita eterna. E con lei preghiamo il Padre: « In Cristo tuo Figlio, nostro salvatore, rifulge a noi la speranza della beata risurrezione, e se ci rattrista la certezza di dover morire, ci consola la promessa dell’immortalità futura. Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata; e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo » (Prefazio dei defunti, I). O Padre, ricco di misericordia e di perdono, in questa tua abitazione serba un posto per ciascuno di noi. Amen.

+ Dionigi Card. Tettamanzi

Arcivescovo

CREDO LA RISURREZIONE DELLA CARNE (punto 1.3. San Paolo)

dal sito:

http://www.cappellauniss.org/teologia/risurrezione_carne.htm

Aspetto la risurrezione della carne
 
CREDO LA RISURREZIONE DELLA CARNE
 
1. Fondamenti biblici

1.1. La disputa di Gesù con i Sadducei (Mc 12,18-27)
Questa disputa è collocata nel contesto delle controversie di Gerusalemme. La risposta elaborata da Gesù in questa controversia offre una puntualizzazione straordinariamente illuminante sull’orientamento da dare all’idea di risurrezione.
Lo sfondo di questa disputa con i Sadducei merita qualche precisazione. Come si configura al tempo di Gesù la fede nella risurrezione? Qual è il suo contenuto e senso più specifico?
Com’è noto, la risurrezione dei morti intesa in senso più stretto ed esplicito, è un articolo molto recente della fede d’Israele, attestato nel Libro di Daniele e nei Libri di 1 e 2 Maccabei. Nasce dall’esperienza del martirio di quanti sacrificarono la loro vita per la fedeltà alla fede e alla legge di Mosè, nella certezza che comunque quella fine cruenta e ingiusta sarebbe stata ricompensata da Dio con una nuova vita (2Mac 7). Questa speranza venne presto molto diffusa, maggioritaria, condivisa da molte correnti del giudaismo (dai rabbini, dagli apocalittici, dai farisei, come pure dai qumraniani), ma non proprio unanimemente (come appunto mostra lo stesso testo evangelico: i sadducei se ne chiamano fuori).
Chi sono i Sadducei? Tradizionalisti aristocratici, benestanti conservatori (clericali e laici), in antitesi ai farisei (questi più univocamente laici, più rigorosi e, in certo qual senso, anche più moderni). Privilegiano più univocamente l’autorità del Pentateuco, anche se probabilmente non è vero (come vorrebbe Girolamo) che rifiutino tout court i libri profetici. Non accettano, in ogni caso, le nuove prospettive apocalittiche (per il canone ebraico Daniele non è un libro inserito tra i profeti, bensì tra gli scritti). E certamente rifiutano tutta la tradizione orale, la ‘tradizione degli anziani’ promossa invece dai farisei. Normativa per loro è sola scriptura. Sono quindi una corrente piuttosto secolarizzata, scarsamente interessata e religiosamente riduzionista: per loro non vi è risurrezione o ricompensa escatologica (cfr. At 23,8), niente angeli o demoni. Inoltre, bene e male stanno in mano all’uomo (niente determinismo), e Dio non interviene più di tanto nella storia: ciascuno è artefice della propria fortuna o sfortuna. Conta l’esistente, il potere, l’istituzione, la sua gestione.
 
Obiezioni alla risurrezione
Nel nostro episodio i Sadducei si oppongono all’idea stessa di risurrezione in nome di una loro interpretazione della legge mosaica sul levirato (Dt 25,5ss.; Gen 38,8). Con quella legge emanata per garantire una discendenza a chiunque disgraziatamente fosse morto prematuro e per giunta senza figli, Mosè (secondo i Sadducei) avrebbe implicitamente escluso la risurrezione. Nell’eventualità di una risurrezione da morte infatti, la legislazione mosaica risulterebbe di fatto impraticabile (tanto più agli occhi di una cultura patriarcale con tratti maschilisti): come potrebbe una donna essere contemporaneamente moglie di sette uomini?
Il ragionamento dei Sadducei intende ridicolizzare il modo più diffuso in Israele di pensare la risurrezione dei corpi, idea molto semplicistica di risurrezione, intesa come ulteriore riedizione di questa vita, una fotocopia presumibilmente migliore, senz’ombra di dolore, peccato, e ogni sorta di male. Idea che soggiace anche a 2Mac 7, e forse anche a Dan 12, testi universalmente riconosciuti come culla di questa speranza. Niente di strano se questa semplicistica idea risultava inaccettabile agli spiriti più critici (come anche ai meno fantasiosi) quali i Sadducei. Agli occhi di quest’ultimi l’unica risurrezione di cui Israele dispone sta nel futuro che il popolo si può garantire con la discendenza delle generazioni. Questa dei Sadducei è un’antichissima convinzione d’Israele, ma anche un’atavica pulsione della nostra natura: se siamo fecondi di posterità, allora abbiamo la percezione di non morire, e di prolungare la nostra esistenza lungo il fluire del tempo attraverso quella di altri che prendono vita da noi.
 
Ignoranza delle scritture ed ignoranza di Dio
Tutta la risposta di Gesù s’inquadra sotto un pesante rimprovero.
« Voi errate, siete fuori strada » (v 24)
« Voi errate molto, siete molto fuori strada » (v. 27).
Per Gesù pensare come loro è deviare dalla via di Dio, il che comporta un errore sostanziale, dalle pesanti implicazioni. In pratica dice: voi, i pretesi conservatori della tradizione più sicura, siete in realtà a un passo dallo svendere la sostanza viva della fede d’Israele, in ragion della meschinità della vostra idea di Dio, che di fatto costituisce un vero attentato alla sua signoria. Ai Sadducei è quindi rinfacciato un doppio deficit, la ragione del quale viene ricondotta a comune radice di ignoranza (e, implicitamente, di incredulità):
Voi non conoscete né le scritture, né la potenza di Dio.
Non conoscere le scritture significa due cose, anzitutto: « voi non leggete bene come invece si dovrebbe, con fede e nel rispetto della tradizione »; in secondo luogo: « nemmeno leggete per intero (nota il plurale: « scritture ») tutte le scritture che sarebbero da leggere! ». In sintesi: « voi leggete ma non capite, e non potete capire, perché leggete male e parzialmente, cioè solo quel che volete ».
In effetti i Sadducei certamente non leggono il Libro di Daniele, cui Gesù è invece tanto legato, soprattutto per il Figlio dell’uomo, quella personalità individuale e corporativa nella quale egli si identifica (Dan 7). Mutilando l’ampiezza della testimonianza biblica, ne mancano il senso.
L’altra ignoranza rimproverata – perfino più grave – svela la ragione ultima e profonda della prima: non conoscere/riconoscere la potenza di Dio che già svariegate volte si è manifestata nell’AT (potenza che si fa conoscere attraverso le meraviglie operate per Israele). L’accusa di Gesù insinua una mancanza di fede. La fede conosce quanta e quale sia la potenza di Dio: « Tutto è possibile a chi crede! » (Mc 9,23), e a chi chiede con fiducia nella preghiera (Mc 11,22-24). « Abba’, Padre, tutto ti è possibile! » (14,36). Non potenza nel senso da noi abitualmente equivocato come onnipotenza-prepotenza. Ma potenza della sua signoria paterna, visibile ovunque e sempre a tutti, senza più ombra di equivoci e tutta trasparente solo in Gesù, nelle sue parole, nelle sue opere (la potenza che usciva da lui solo a toccarlo, cfr. Mc 5,30; 6,2.5), nella sua storia culminante con la risurrezione (2Cor 13,4), segno del regno effettivamente avvicinato con potenza (Mc 9,2). In filigrana forse Gesù sta rimproverando ai Sadducei di non saper vedere ciò che avviene nella sua stessa missione, tutta nel segno della vita e della risurrezione.
 
« Come » angeli
Gesù dà poi due illustrazioni. Una prima illustrazione è sulla modalità correttamente e sensatamente pensabile della vita dei risorti (Mc 12,25). Una seconda invece verte circa l’effettiva realtà e credibilità della risurrezione, sulla base di una valida ‘prova scritturistica’ (12,26). In entrambi i casi l’ironia è pure sferzante.
Secondo Gesù la risurrezione è tutt’altro che paradossale e opposta all’insegnamento di Mosè. Anzi, essa risulta perfettamente pensabile e ricavabile proprio dalla rivelazione goduta da Mosè. Risurrezione che va intesa come un nuovo ordine di esistenza. Essa è una nuova creazione che ha per supporto (ma non per modello) la prima (che semmai è stata da Dio modellata sulla seconda).
Quando Gesù dice che nella risurrezione saremo tutti « come angeli nei cieli » è per dire che la risurrezione comporta una nuova forma di vita: si tratta di un’esistenza celeste (cioè più vicina a Dio: il cielo è nell’antichità spazio creato più contiguo alla trascendenza di Dio). Gesù non sta quindi certo pensando a una forma immateriale e incorporea di esistenza. Però, più che descrivere, fornisce qui un termine di confronto, un po’ come usa fare nel suo abituale linguaggio parabolico applicato al Regno di Dio (« come »: cfr. Mc 4,26.31). Suggerisce quindi un’analogia in cui la differenza risulta più forte della somiglianza. Paolo (1Cor 15) azzarda una ‘descrizione’ del corpo glorioso dei risorti, cercando di pensarlo più speculativamente (ma non raggiunge risultati migliori…).
Tuttavia, poiché i Sadducei non credono all’esistenza di angeli o demoni, la risposta di Gesù risulterebbe inservibile nella spiegazione positiva. Va riconosciuto qui un tratto tipico di Marco, che dipinge un Gesù sferzante nell’ironia con i propri interlocutori. Se non siete capaci di pensare l’esistenza di un altro ordine di creature, se non siete capaci di pensare un creatore di un ordine immortale, non arriverete a pensare la risurrezione. Risorgere significa inaugurare una vita che non muore, collocata alla piena e diretta presenza di Dio, tutta luminosa di questa sua presenza, e quindi svincolarsi dalla legge – meravigliosa e terribile – della riproducibilità. Quest’immaginazione credente manca ai Sadducei.
 
Promessa e alleanza, fondamento della risurrezione
La seconda argomentazione di Gesù tocca il fatto della risurrezione: non più la sua astratta pensabilità, bensì l’effettiva accertabilità e leggibilità nella Bibbia. Dove può aversene notizia certa, in che passi scritturistici sarà riconoscibile?
Qui il suo tono si fa più solenne, e al tempo stesso perfino sarcastico, con una domanda ovviamente retorica: « Non avete letto nel Libro di Mosè il passo sul roveto…? ». Certo, chissà mai quante volte hanno letto e udito alla sinagoga il passo della vocazione di Mosè (Es 3). Ma l’hanno mai capito?
Invocando addirittura l’autorità di quel Mosè che i Sadducei hanno preteso citargli come voce contraria alla risurrezione dai morti, Gesù stringe i suoi interlocutori alle corde. Rovescia contro di loro l’unica autorità che sono disposti a riconoscere come normativa. Ma qui si tratta non di una delle tanti leggi di Mosè, bensì della vocazione/rivelazione da lui goduta da parte del Dio dei Padri: nientemeno che il fondamento della sua missione di liberatore dall’Egitto e di mediatore dell’alleanza sinaitica. Per ‘dimostrare’ il fatto che si risorge Gesù non si riconduce più alla teologia degli apocalittici, ma direttamente a quella stessa mosaica, in particolare a un contesto in cui la teologia della promessa ai Padri si combina con la rivelazione esodica della liberazione e dell’alleanza sinaitica. Gesù fornisce una chiave di lettura teologica di incredibile portata sintetica, riannodando la risurrezione alla promessa abramitica confermata dall’alleanza (berît). Il Dio che a Mosè dichiara di legarsi personalmente (« Io… ») ai Padri che gli hanno risposto con la fede, sarà certo Dio « non di morti, ma di viventi ». Il Vivente per eccellenza non può che far vivere i suoi eletti, i suoi credenti. Lo statuto della persona investita dalla promessa/alleanza del Signore entra nella memoria di Dio, così che il suo destino si iscrive per sempre in riferimento alla vita e non alla morte. L’uomo è tenuto in vita dal Dio che si ricorda di lui (Sal 8).  Così « Io, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe! », vuol dire prima di tutto: « Io, il Dio che benedice Abramo, Isacco, Giacobbe, i quali, proprio in quanto benedetti, non muoiono, ma vivono della mia promessa ». Già con la benedizione abramitica – dice Gesù – Dio si impegna in vista di una risurrezione.
 
1.2. Io sono la risurrezione e la vita
« Ma c’è di più. Gesù lega la fede nella risurrezione alla sua stessa Persona: “Io sono la Risurrezione e la Vita” (Gv 11,25). Sarà lo stesso Gesù a risuscitare nell’ultimo giorno coloro che avranno creduto in lui e che avranno mangiato il suo Corpo e bevuto il suo Sangue. Egli fin d’ora ne dà un segno e una caparra facendo tornare in vita alcuni morti, annunziando con ciò la sua stessa Risurrezione, la quale però sarà di un altro ordine. Di tale avvenimento senza uguale parla come del “segno di Giona” (Mt 12,39), del segno del tempio (cfr. Gv 2,19-22): annunzia la sua risurrezione al terzo giorno dopo essere stato messo a morte » (CCC 994).
 
1.3. San Paolo (cfr. CCC 989-991)
Per San Paolo Cristo è primizia del mondo della risurrezione (1Cor 15,20). Egli intende con ciò significare che l’evento della risurrezione della risurrezione di Cristo è da intendersi come modello e causa della risurrezione escatologica dei cristiani. Quest’ultima partecipa della risurrezione del Signore, nel senso che ne è la sua estensione ed insieme il compimento della vita nuova dell’uomo in Cristo, già iniziata sacramentalmente nel battesimo. La ‘rinascita’ del credente dall’ “acqua e dallo Spirito” innesca, infatti, tutto un processo di partecipazione all’evento di Cri9sto morto e risorto, che avrà il suo culmine nella parusia, nella gloria della creazione nuova, e consisterà, per l’opera dello Spirito che darà la vita ai nostri corpi mortali (cfr. Rm 8,11), nella comunione suprema, anche corporale con Gesù Signore. La speranza cristiana assume così una particolarissima struttura: la signoria di Dio sulla storia umana implica la configurazione piena della persona al Crocifisso-Risorto. La persona umana non scompare nell’infinito e nell’eterno Dio come una realtà provvisoria; al contrario proprio il risorgere in Cristo permette a una persona di diventare se stessa. La fedeltà che il Padre ha mostrato nella Pasqua del suo inviato Gesù è la stessa – un unico evento – che trasforma la nostra vita e la colloca nella definitiva, escatologica comunione con lui: « … Colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi » (Rm 8,11).
 
2. Come risuscitano i morti?

Ma come può venire pensata la trasformazione della vita umana personale in vita radicalmente risorta?
La risurrezione dei cristiani, in quanto partecipazione a quella di Cristo, è un evento che interessa la totalità dell’umano. La centralità che viene riconosciuta al corpo, in questo evento, sostanzia la suddetta affermazione. Il corpo risorto, trasfigurato, cioè, non è altro dal corpo terreno. La risurrezione non è quindi un seguitare a vivere sulla terra reincarnandosi in altri corpi, come dicevano alcuni filosofi greci e come dicono ancora oggi certe religioni orientali. Il corpo risorto è ‘identico’ al corpo che esprime storicamente l’unico e medesimo io personale (identità), anche se trasformato in una nuova condizione. In questo senso, la risurrezione dei corpi non significa la riassunzione del corpo biologico, che ha dato forma fisica all’uomo lungo la sua vicenda terrena; non significa cioè la ripresa di quanto è diventato ‘cadavere’ con la morte, non è un riassemblaggio del nostro corpo, fatto racimolando le sue molecole tra i resti putrefatti, cremati, trapiantati in altri corpi o sparse per il mondo. Siffatta interpretazione materialistica non renderebbe ragione della novità trasformante inclusa nell’evento della risurrezione ed escluderebbe di fatto la compiutezza antropologica. Lo stesso dicasi per una interpretazione spiritualistica che, prevedendo una radicale trasformazione spirituale del corpo (una specie di corpo etereo), renderebbe vano il senso stesso della corporeità, che dice il riferimento essenziale dell’io personale alla sua storia e al suo mondo.
La risurrezione, in altri termini, è l’evento che compie l’uomo nella sua unità sostanziale di corpo e anima che lo identifica personalmente; per cui, quando si afferma la ricongiunzione dell’anima al corpo nella risurrezione non si vuole intendere l’atto di ricomposizione di due entità separate, ma il compimento dell’identità umana nella totalità delle sue espressioni spirituali e corporee. Ciò che permane nel trapasso è l’identità personale nella complessa relazione che intratteniamo con Dio. Dal momento, però, che l’identità personale esiste nella vita storica di una persona, essa è necessariamente anche identità somatica. Ciò che risorgerà nell’ultimo giorno (Gv 6,54) sarà l’uomo intero. Per questo, la risurrezione comporta per l’uomo il recupero di tutta la propria vita e di tutta la propria storia, il compiuto recupero di tutto ciò che ha segnato la sua vicenda umana di persona che si è intrattenuta consapevolmente nelle relazioni con Dio, con i propri simili e con il suo ambiente mondano. La risurrezione corporea dell’io spirituale di ogni uomo è la compiuta maturazione nel corpo di Cristo risorto di tutta la storia personale di ciascuno, il definitivo superamento delle limitazioni antropologiche terrene come integrazione totale di esse e non come abbandono spersonalizzante di quanto, in realtà, costituisce la misteriosità della vicenda umana. Tutti i momenti storici di un uomo che hanno segnato il suo procedere verso la pienezza vengono ora ritrovati trasfigurati, unificati, in Dio, il quale è fedele alla sua creazione e nulla vuole perdere di quanto è uscito dalle sue mani.
B. Sesboué suggerisce, in proposito: « Tutto ciò che fa la nostra identità di uomo o di donna, identità modellata dalla nostra storia terrestre, sarà dunque tutto conservato, pur essendo trasfigurato. L’essere personale che noi ci saremo forgiati, la ricchezza delle nostre esperienze, il patrimonio culturale acquisito nella nostra esistenza, tutto questo, che è frutto della grazia e della nostra libertà, si conserverà con tutte le capacità di apertura, di relazione e di comunione così suscitate. Il cielo sarà il luogo in cui si ritroveranno le relazioni umane stabilite in questo mondo. Dio allora potrà prendere in mano questo essere incompiuto per dargli nuove dimensioni di cui noi non abbiamo idea ». Non sappiamo e non possiamo, infatti, rappresentarci adeguatamente la corporeità risorta. Di certo è che « come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste » (1 Cor 15,49).
 
3. Carattere comunitario della risurrezione dei morti

Tutto ciò dice anche il carattere comunitario della risurrezione dei morti, propriamente anticipato nella glorificazione di Maria in corpo e anima. La risurrezione, infatti, è l’evento in cui la comunione escatologica dei risorti corporalmente in Cristo si manifesta in pienezza e perfezione. Nessun evento storico-salvifico è puramente individualistico; per cui, la risurrezione gloriosa di ciascun uomo sarà l’esito conclusivo di tutto quel processo di incorporazione a Cristo, ecclesialmente formato, che prende l’avvio nel sacramento della rigenerazione battesimale. Lo Spirito di Dio, che permette e qualifica il cammino del cristiano come itinerario di pienezza antropologica in Cristo, conformerà i risorti al corpo stesso di Gesù Cristo (cfr. Rom 8,11) e ciascun redento esprimerà la totale apertura del proprio essere in relazione agli altri. Solo allora la storia di ciascun uomo sarà veramente compiuta, perché escatologicamente legata ai suoi fratelli nel corpo di Cristo e quindi totalmente accogliente l’umanità dei compagni di viaggio.
Inoltre in questa realtà sommamente comunicativa e accogliente trova necessariamente posto il mondo creato, “il quale è intimamente unito con l’uomo e per mezzo di lui arriva al suo fine” (Lg 48). Il compimento definitivo del progetto salvifico di Dio si realizza, infatti, nella perfetta unità dei viventi con la loro storia e con il loro mondo. Per questo, “la creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio [....] e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8,19-21).
 
 
MORIRE IN CRISTO GESU’

4. La morte del credente in Cristo

Nella luce di Cristo, morto, disceso agli inferi e risorto, la morte umana assume un significato propriamente pasquale. Per cui, tutti coloro che credono in Cristo e muoiono in lui partecipano dello stesso transito pasquale del Figlio di Dio. La morte non è più il risultato ultimo del peccato, fonte di dolore e sofferenza, ma motivo di « guadagno » (Fil 1,21); essa introduce il credente in una condizione escatologica, che esprime la pienezza di un incontro salvifico (cfr. Lc 23,43). Chi, nella fede, muore dentro la morte di Cristo è destinato ad andare con lui oltre la morte, nello Spirito, verso il Padre.
La decisività della fede nel farsi dell’evento cristiano della morte non è, tuttavia, circoscritta al momento terminale della vita umana. Ciò significa che la morte del credente in Cristo non è altro che la consumazione di quanto egli ha già vissuto sacramentalmente nella propria esistenza teologale. Nella fede, infatti, l’uomo innesta tutta la sua vita nel mistero di Cristo morto e risorto e il suo morire in lui, quindi, non è un atto che avviene unicamente nell’istante della morte fisica, ma è un atto che egli compie di continuo lungo tutto il corso dell’esistenza. L’apostolo Paolo ci ricorda che l’intera vita cristiana è vita pasquale, per il battesimo (cfr. Rom 6,3-6; Col 2,12-13); per cui, il transito mistico dalla morte alla vita caratterizza sempre l’esistenza di coloro che sono « in Cristo ». Il transito pasquale ultimo, nella morte personale, è, pertanto, l’accoglienza nella fede di una particolare pienezza di grazia, che fa del credente un « essere con Cristo » (cfr. Rom 6,8; 2 Cor 4,14; Fil 1,23). In altri termini, la partecipazione alla morte di Cristo Signore, che nel regime sacramentale della vita terrena avviene in modo mistico, nella morte personale fisica accade realmente. In questo momento sommo, l’atto teologale del credente è significato nell’abbandono ultimo all’azione misericordiosa di Dio e la morte stessa diventa un atto teologale supremo. Chi, infatti, muore nella fede, in e con Cristo, nasce alla vita vera (dies natalis), perché incontra pienamente la grazia della salvezza pasquale.
 
5. La morte del cristiano come compimento dell’esistenza personale
La morte del credente in Cristo necessita di ulteriori approfondimenti, che meglio ne chiariscono il suo essere condizione escatologica.
 
5.1. La morte come incontro decisivo con Cristo
La grazia della salvezza pasquale che l’uomo credente incontra nella morte è decisiva per il suo destino escatologico. Per chi muore “in Cristo” la relazione con il Signore si fissa definitivamente; da allora vive in un modo qualitativamente nuovo
Tale permanenza nella vita, con Cristo, è garantita unicamente da Dio. Essa non rimanda semplicemente all’idea di una immortalità dell’anima di marca greco-romana, ma ad una verità teologica che richiama, in modo evidente, il dono dello Spirito della vita di Dio, che crea e conserva nell’essere la sua creatura. In questo senso, ciò che vive o sopravvive non è una parte dell’uomo, ma l’intera identità umana nella sua nuova condizione di esistenza, libera da ogni forma di limitazione spazio-temporale, definita nella sua realtà escatologica in Cristo e proiettata dallo Spirito verso la totale rigenerazione gloriosa, che comporterà la compiuta integrazione in Dio dell’uomo, della sua storia e del suo mondo.
 
5.2. Il giudizio particolare
In questa prospettiva si comprendono meglio le affermazioni dogmatiche circa l’immediata retribuzione per l’uomo che muore in e con Cristo « subito dopo la morte » contenute nella costituzione conciliare Lumen gentium con le seguenti parole:
« Siccome poi non conosciamo né il giorno né l’ora, bisogna, come ci avvisa il Signore, che vegliamo assiduamente, affinché, finito l’unico corso della nostra vita terrena (cfr. Eb 9,27), meritiamo con lui di entrare al banchetto nuziale ed essere annoverati fra i beati (cfr Mt. 25,31-46), né ci si comandi, come a servi cattivi e pigri (cfr. Mt 25,26), di andare al fuoco eterno (cfr. Mt 25,41), nelle tenebre esteriori dove ‘ci sarà pianto e stridore di denti’ (Mt 22,23 e 25,30) » (n. 48).
Il contenuto di queste affermazioni ribadisce chiaramente la decisività dell’evento della morte cristiana. Nell’incontro con il Signore nella morte, al termine del suo peregrinare storico, l’uomo consegue il suo definitivo destino escatologico, in relazione alla sua adesione personale all’offerta di salvezza di Dio in Cristo maturata lungo l’unico corso dell’esistenza terrena e svelata in questo momento ultimo e supremo. Anzi, nell’evento della morte il dono di Dio, cristologicamente connotato, è particolarmente intenso e quindi estremamente esigente la responsabilità dell’uomo nella fede. Tale dinamismo salvifico « fa della morte un giudizio, un giudizio che deve essere inteso anzitutto come la consumazione di tutta l’opera positiva con cui Dio liberamente e amorevolmente conduce, nella sua grazia, l’uomo alla salvezza e quindi come ‘momento critico della libertà’ in quanto ‘nell’ora della morte’ l’appello dell’amore divino che incessantemente si è curvato sulle miserie dell’uomo assume una risonanza complessiva e singolare nel quadro di un’esistenza personale che in essa si conclude in modo definitivo ».

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Cfr. R. VIGNOLO, Risorgere dai morti, in « La rivista del clero italiano » 72 (2001) 6, 419-437.
Cfr. G. ANCONA, Escatologia cristiana, Queriniana, Brescia 2003, pp. 352-356.
B. SESBOÜÉ, Dopo la vita. Il credente e le realtà ultime, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1992, p. 126.
Cfr. G. ANCONA, Escatologia cristiana, cit., pp. 321-329.
Cfr. anche CCC 1022.
M. BORDONI – N. CIOLA, Gesù nostra speranza. Saggio di escatologia in prospettiva trinitaria, Dehoniane, Bologna 20002, p. 217.

Publié dans:IL "CREDO" |on 29 octobre, 2009 |Pas de commentaires »
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