Archive pour octobre, 2009

LETTERA AGLI EBREI: PERCHÉ LA LITURGIA TOCCHI LA VITA (PDF)

SOTTOTITOLO:

Cristo, l’unico sacerdote e il più grande:

 http://www.sanlorenzomartire.it/docs/catechesi/2007-08/ebrei.pdf

Cardinal Pierre de Bérulle: « Chi cerca trova »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20091008

Giovedì della XXVII settimana del Tempo Ordinario : Lc 11,5-13
Meditazione del giorno
Cardinal Pierre de Bérulle (1575-1629), teologo, fondatore dell’Oratorio
Lettera 143, 1-2 ; Opuscoli di pietà, Grandezza di Gesù  238

« Chi cerca trova »

      Dobbiamo cercare sempre il Figlio di Dio e dobbiamo sempre trovarlo, poiché chi lo cerca lo trova. Ci sono tre dimore principali nelle quali lo dobbiamo cercare e trovare. La prima è nel seno del Padre. Oh ! Quale dimora, quale soggiorno ! La seconda è nell’umanità, nella quale egli ha voluto abitare. La terza è il cuore e il seno della Vergine. Ecco tre dimore molto grandi, molto alte ; ma esse sono completamente interiori, completamente spirituali e completamente divine.

      Ce ne sono altre più sensibili. Infatti il Figlio di Dio, assumendo la nostra umanità, si è reso sensibile ; pertanto egli ha delle dimore sensibili. Tra queste dimore, ce ne sono tre principali e molto particolari : la prima è Betlemme, il luogo della sua nascita ; la seconda è Nàzaret, dove è stato concepito e allevato ; la terza è il Calvario, dove egli è sofferente e morente. Tutta la nostra vita deve essere volta a cercare il Figlio di Dio, tutto l’anno dobbiamo considerarlo, adorarlo e imitarlo in queste tre dimore, nelle quali il Figlio di Dio ha operato la maggior parte dei misteri. In questo mistero, lo devo cercare non nei palazzi, ma in una stalla…

      Poiché Dio cerca la terra, ama la terra, desidero convertirmi ora, non al cielo, ma alla terra, e ivi cercare Gesù Cristo.

“Quando sono debole è allora che sono forte” (2Cor 12,10)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-19781?l=italian

“Quando sono debole è allora che sono forte” (2Cor 12,10)

Suor Elena Bosetti riflette sul paradosso paolino

di Antonio Gaspari

ROMA, mercoledì, 7 ottobre 2009 (ZENIT.org).- In tutta la storia, con particolare rilevanza nei periodi di decadenza, è possibile scorgere una corrente culturale che esalta la perfezione materiale, la forza muscolare, la durezza del cuore.

Per questo suona del tutto paradossale l’affermazione di San Paolo riportata nella lettera ai Corinzi (2Cor 12,10), secondo cui “quando sono debole è allora che sono forte”.

Si tratta di un paradosso che è insito anche nella vicenda di Gesù Cristo, il Figlio di Dio che accetta di farsi uccidere sulla Croce da quegli uomini che è venuto a salvare.

Per cercare di comprendere il significato profondo di questo paradosso, ZENIT ha intervistato suor Elena Bosetti, docente di Sacra Scrittura alla Pontificia Università Gregoriana, che sul tema ha scritto un saggio pubblicato sulla Rivista dell’Istituto Internazionale di teologia Pastorale Sanitaria “Camillianum” (n.25 anno IX, Primo quadrimestre 2009).

Nella lettera ai Corinzi San Paolo ha scritto “quando sono debole è allora che sono forte”. Che cosa intende dire?

Bosetti: Anzitutto mi sembra che Paolo faccia riferimento a una sua esperienza concreta, esistenziale. Evoca una situazione di debolezza fisica o psicologica, quale una infermità o uno stato d’animo provato, depresso. Egli non si vergogna di ricordare ai Corinti la situazione di debolezza, umanamente parlando sfavorevole, che ha caratterizzato la sua opera di evangelizzazione in mezzo a loro. Ma riflettendo su tale situazione egli vi coglie qualcosa di sorprendente: l’energia del Risorto. L’Apostolo ritiene di essere “forte” nella sua debolezza in quanto coinvolto nella dinamica vittoriosa del Crocifisso risorto.

La debolezza che diviene occasione fortezza d’animo non è del tutto estranea all’esperienza umana. Ci sono numerose testimonianze di uomini e donne (anche non credenti) per le quali situazioni disperate e di deriva umana sono diventate momento di grande cambiamento, hanno ricuperato grandi valori che avevano smarrito. In altre parole, attraverso la “debolezza” queste persone sono diventate più uomini e più donne. Nel leggere queste storie il credente non si sconcerta, ma vi legge la mano della Provvidenza.

L’assunto di San Paolo è paradossale, sembra contrario alla logica umana. Che cosa ha sperimentato San Paolo per giungere a tale considerazione?

Bosetti: In effetti Paolo ama il paradosso. Non per fare l’originale ma per quella sua capacità acuta di cogliere le polarità che attraversano la storia e la vicenda umana dentro cui si iscrive l’azione salvifica di Dio che agisce in modo illogico secondo la sapienza del mondo. Il mondo infatti elogia la forza e la potenza, mentre Dio per salvare il mondo ha imboccato e percorso fino in fondo la via della debolezza e della kenosis, ovvero del volontario abbassamento e svuotamento di sé. Non ci ha “usati” per farsi più grande e bello. Al contrario, si è lasciato “ferire” dalla nostra miseria e tristezza e se ne è fatto carico, oltre ogni buon senso, fino all’infamia della croce.

Che tipo di Dio è quello di cui parla San Paolo?

Bosetti: È il Dio dei paradossi! In realtà tutta la storia biblica concorda nel rivelare un Dio che sembra divertirsi a capovolgere le “sorti” (o situazioni) come racconta il libro di Ester e come canta la vergine Maria nel suo Magnificat: “i potenti li ha deposti dai troni, ha innalzato gli umili…” (Luca 1,52). Dio stesso nel suo appassionato amore per l’umanità si avventura nel paradosso più sconcertante che è quello dell’Incarnazione. Nella lettera ai Filippesi Paolo presenta un Dio che si abbassa e si svuota di ogni pretesa divina per farsi in tutto simile all’uomo, anzi si abbassa fino alla terrificante morte di croce per amore della sua creatura.

San Paolo parla del Dio che ha sperimentato personalmente come amore: «Mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Galati 2,20); del Dio che l’ha reso forte nell’amore, niente e nessuno «potrà mai separarci dal’amore di Dio che in Cristo Gesù, nostro Signore» (Romani 8, 39). In questo sta la fortezza di San Paolo che gli permette di uscire da ogni debolezza.

E qual è l’idea di salute e di salvezza dell’apostolo delle genti?

Bosetti: Paolo ha una visione organica e complessiva della salute. Se il piede sta male tutto il corpo soffre. Così la Chiesa, che per Paolo è il corpo di Cristo. Non si tratta quindi di salvare semplicemente la propria anima. È in gioco la salute di tutto il corpo ecclesiale e dell’intera famiglia umana. Anzi occorre avere sensibilità anche per il gemito della creazione, la quale nutre anch’essa il desiderio di essere liberata e di entrare nella salvezza definitiva, nella libertà dei figli di Dio (cf. Romani 8).

Nel corso della storia umana e nel mondo moderno la figura del debole e malato viene mal tollerata. Perchè nella religione cristiana Dio ha scelto ciò che è debole?

Bosetti: Si direbbe per un moto di amore misericordioso e straordinariamente divino. Dio rivela se stesso in coloro che si fidano di lui e gli lasciano spazio di azione. Per la Bibbia sono i poveri e i piccoli, coloro che non strumentalizzano Dio per i propri interessi o progetti di grandezza, ma che al contrario si fidano di Lui in ogni situazione.

La figura del debole e del malato è mal tollerata dove domina la cultura efficientista, utilitarista… Il dolore e la sofferenza bloccano la persona se non ne vede alcun senso, rimane solo la debolezza che schiaccia. Perché la fortezza abbia il sopravvento sulla debolezza, occorre passare e fare propria l’esperienza di San Paolo. Dio ha scelto (e sceglie) ciò che è debole, perché questa è la logica dell’amore, e Dio è specializzato in amore.

E qual è la dimensione antropologica e civile che distingue l’umano nell’aiuto ai deboli?

Bosetti: è la distinzione che passa tra la filantropia e l’amore carità. La filantropia è un sentimento nobile che porta l’individuo o gruppi umani (società filantropiche ) verso i bisognosi per renderli felici. L’amore-carità unisce l’amore di Dio con l’amore del prossimo, anzi si fa prossimo al bisognoso, imita il Buon Samaritano che è Gesù stesso. Ovviamente non c’è contrapposizione, ma la filantropia ha bisogno di immettersi nella forza dell’amore-carità.

Che Dio è quello che manifesta nella debolezza la potenza salvifica del suo amore?

Bosetti: È un Dio umile, che vince dal di dentro le pretese dell’orgoglio satanico condividendo la fatica e il dolore degli umani. È un Dio che non salva se stesso scendendo dalla croce, ma che apre le porte del paradiso al malfattore che si rivolge a lui nell’agonia del suo patibolo.

È un Dio che salva sacrificando se stesso, non gli altri; è il Dio che vince con l’amore: l’unica potenza che trasforma l’umanità se viene accolta pienamente nella Chiesa e nella società.

Publié dans:Lettera ai Corinti - seconda |on 7 octobre, 2009 |Pas de commentaires »

In cammino con Gesù: Perché il sacrificio della Croce? La risposta della lettera agli Ebrei

dal sito:

http://www.romasette.it/modules/news/article.php?storyid=3149

In cammino con Gesù: Perché il sacrificio della Croce? La risposta della lettera agli Ebrei
 
di Andrea Lonardo

«Non è il dolore in quanto tale che conta nel sacrificio della croce, bensì la vastità dell’amore. Se così non fosse, i veri sacerdoti dinanzi all’altare della Croce sarebbero stati i carnefici: proprio essi infatti, che hanno provocato il dolore, sarebbero stati altrimenti i ministri che hanno immolato la vittima sacrificale». Così scriveva già nel 1968 Joseph Ratzinger nelle sue lezioni sul Simbolo apostolico del volume “Introduzione al cristianesimo”.

La domanda sul significato della Croce non cessa di scuotere ogni generazione. Uno dei testi neotestamentari che ne chiarifica il senso è la lettera agli Ebrei. Essa è, in realtà, la trascrizione di un’omelia pronunciata prima dell’anno 70 dopo Cristo, l’anno nel quale il generale Tito, agli ordini del padre Vespasiano, distrusse il Tempio di Gerusalemme, depredandone gli arredi. L’arco di Tito conserva memoria in Roma di quegli antichi avvenimenti: nel suo fornice un pannello rappresenta i soldati romani in trionfo che portano su due portantine il candelabro a sette braccia e la tavola sulla quale erano offerti i pani detti “della proposizione”. Da quell’anno si interruppero le offerte dei sacrifici nel Tempio e la storia dell’ebraismo conobbe una svolta radicale.

Nella lettera agli Ebrei, che confronta il nuovo sacerdozio di Cristo con il sacerdozio levitico che si svolgeva nel Tempio, non è possibile trovare neanche un minimo accenno alla fine dell’antico culto; gli esegeti ne deducono che la lettera è di poco anteriore al 70, poiché se l’autore avesse avuto conoscenza della distruzione del Tempio ne avrebbe certamente inserito la notizia nella sua argomentazione.

L’omelia divenne una lettera, come è facile vedere dagli ultimi versetti. Fu cioè inviata a un altra comunità perché lì fosse letta. Questa comunità è probabilmente Roma, poiché si dice in chiusura del testo: “Vi salutano quelli che provengono dall’Italia” (Eb 13,24). Queste parole sono testimonianza del fatto che alcuni emigrati dall’Italia inviarono insieme alla lettera il saluto ai loro compatrioti; è ovvio che un invio dello scritto in Italia non poteva non comprendere come destinazione anche Roma.

Perché il sacrificio di Cristo è “nuovo” e “definitivo”? Perché la morte in Croce? Perché un sacrificio compiuto una volta per tutte? Queste sono le grandi domande a cui risponde la lettera agli Ebrei. Afferma l’Autore: «La legge non ha portato nulla alla perfezione» (Eb 7,19)! I tanti sacerdoti che avevano offerto sempre nuovi sacrifici a Dio dovevano offrirli sempre di nuovo, perché né loro, né il popolo erano mai senza peccato. I sacrifici rinnovavano sempre il ricordo dei peccati, ma mai rendevano totalmente nuovo il cuore.

Cristo non offrì una vittima per quanto preziosa, ma offrì se stesso (Eb 8,27). A Dio fu gradita non semplicemente la sua morte, non il suo dolore – lungi dal cristianesimo l’idea di un Dio che si compiace del dolore! Dio ha amato, nella Croce, l’amore del Figlio. È questo la novità cristiana, è questa la salvezza del mondo: Cristo ha riempito di amore il dolore fisico della crocifissione, Cristo ha colmato di amore, attraverso il perdono, anche il dolore del rifiuto che gli uomini hanno avuto di lui. Lì dove l’uomo accresce la rabbia o il rifiuto, Egli ha riempito di obbedienza al Padre e di misericordia il male che gli era inflitto.

Ma perché ha potuto farlo? Proprio perché è il Figlio fattosi uomo. I sacrifici delle religioni sono offerte dell’uomo rivolte a Dio; ogni popolo nei secoli ha cercato di prendere quanto di più bello e prezioso aveva per offrirlo a Dio. Nella fede cristiana, invece, l’offerta discende dal Cielo. Il dono giunge da Dio, il sacrificio e il sacerdote provengono da lui. Dio ci ha donato il Cristo perché noi accogliessimo il suo sacrificio per noi. Cristo, dice l’Autore della lettera agli Ebrei, non è solo «misericordioso» verso noi uomini, ma è, insieme, «degno di fede», perché più grande degli angeli, perché, luce della stessa gloria divina, porta impressa in sé tutta la divinità di Dio.

4 marzo 2008

Publié dans:Lettera agli Ebrei, temi - la Croce |on 7 octobre, 2009 |Pas de commentaires »

Il rapimento mistico di san Paolo nell’interpretazione di san Bonaventura e dei suoi maestri

dal sito:

http://www.zammerumaskil.com/rassegna-stampa-cattolica/formazione-e-catechesi/il-rapimento-mistico-di-san-paolo-nella-interpretazione-di-san-bonaventura-e-dei-suoi-maestri.html

Il rapimento mistico di san Paolo nell’interpretazione di san Bonaventura e dei suoi maestri       
 
mercoledì 17 giugno 2009 

Pubblichiamo stralci di una delle relazioni tenute al 57 Convegno di studi bonaventuriani a Bagnoregio.

di Aleksander Horowski
Istituto Storico dei Cappuccini, Roma

Il rapimento di san Paolo al terzo cielo, testimoniato dallo stesso apostolo in modo piuttosto fugace nella Seconda lettera ai Corinzi (12, 1-4), affascinò i Padri della Chiesa e i teologi medievali in modo tale da diventare per loro non solo modello di ogni rapimento mistico, ma in qualche misura anche della visione beatifica e, in generale, della visione di Dio che l’uomo può avere nella vita terrena.
Le basi della riflessione su questo fenomeno furono poste – nell’ambito della teologia latina – da sant’Agostino, che dedicò gran parte del libro xii del De genesi ad litteram alla spiegazione di quelle poche righe in cui san Paolo svela la sua straordinaria esperienza.

Agli albori della grande scolastica medievale il rapimento di Paolo non trova ancora un posto fisso nei trattati di teologia, ma appare piuttosto nei commenti biblici. Tuttavia, all’inizio del xIII secolo appaiono ormai diverse questioni disputate dedicate ex professo a questo tema.
Nei commenti alle Sentenze il tema appare accidentalmente e non in tutti i teologi. Anche nel Commento di Bonaventura i riferimenti al rapimento sono pochissimi. Eppure, per il Dottor Serafico era un tema importantissimo, come dimostrano le Collationes in Hexaëmeron in cui intendeva presentare una visione globale della conoscenza umana, un vero e proprio cammino verso la sapienza cristiana, organizzato in sei gradi ascendenti, costituiti da sei visioni, corrispondenti ai sei giorni della creazione. Secondo il progetto, il rapimento mistico avrebbe costituito l’oggetto della sesta visione, sostenuta dai cinque gradi precedenti, inclusa la profezia (la visione del quinto giorno). Ma, conclusa la quarta visione, quella della contemplazione, Bonaventura – a causa della nomina cardinalizia e dell’incarico di preparare il secondo concilio di Lione – dovette interrompere i suoi discorsi, che rimasero incompiuti. Ciò nonostante le anticipazioni pertinenti il rapimento che il Dottor Serafico disseminò lungo le Collationes in Hexaëmeron sono molto importanti per lo studio di questo argomento, specie se lette alla luce di quanto afferma nelle altre opere mistico-spirituali.
Sembra inoltre che si possa attribuire a Bonaventura anche un documento autografo – conosciuto come manoscritto 186 del Sacro Convento di Assisi, Fondo Antico Comunale – contenente almeno due questioni disputate dal Dottor Serafico:  una De prophetia e un’altra De raptu. Si è pensato così di poter quasi completare o ricostruire la sezione mancante delle Collationes in Hexaëmeron. Un tentativo fu compiuto in parte da Joseph Ratzinger, che si servì della questione  De  prophetia – o piuttosto di ampi brani di essa – nella trascrizione parziale di Bruno Decker. In seguito, però, la paternità bonaventuriana del manoscritto fu contestata.
Uno dei possibili campi di ricerca è quello dell’influsso dei primi maestri francescani sul concetto del raptus Pauli in Bonaventura. L’esplorazione del pensiero di Alessandro di Hales e di Giovanni de La Rochelle apre infatti la strada a una rilettura approfondita dei testi bonaventuriani sul rapimento mistico di Paolo.
Alessandro di Hales dedica alla straordinaria esperienza mistica di Paolo un’apposita questione disputata, anteriore al suo ingresso tra i francescani nel 1236. Altro materiale si trova sparso nella sua Glossa alle sentenze e in diverse questioni disputate (antequam e postquam) e testimonia non solo che tale tema non fu periferico o marginale per Alessandro, ma ci permette inoltre di intravvedere una certa evoluzione di alcuni aspetti del suo pensiero.
Nelle sue analisi il Doctor Irrefragabilis presta molta attenzione all’analisi psicologica del rapimento mistico, cercando di definire precisamente quale sia l’attività delle potenze dell’anima in questo fenomeno. L’argomento viene sviscerato a partire da diverse prospettive:  il legame tra il rapimento e la visione; la relazione tra la visione nel rapimento e la visione beatifica; la distinzione tra la visione nel rapimento e gli altri fenomeni spirituali (la profezia, la contemplazione, il torpore e l’estasi); la sottolineatura dell’aspetto « violento » del raptus; l’inserimento della riflessione sul rapimento paolino nel contesto della storia della salvezza (il progresso della conoscenza); l’analogia tra la visione paolina e quella degli angeli della terza gerarchia; il rapporto tra il rapimento di Paolo e le teofanie concesse a Mosè.
Giovanni de La Rochelle (morto nel 1245) stese un ampio commento a tutto il corpus paulinum, che è conosciuto anche con il titolo:  Summa super epistolas sancti Pauli. Di questa opera esegetica si sa ancora molto poco.
Il commento del rupellense adotta una struttura tipica per l’esegesi scolastica della sua epoca. I suoi elementi fondamentali, nel caso del dodicesimo capitolo della Seconda lettera ai Corinzi, sono:  la divisio textus, la expositio e le quaestiunculae. Queste ultime sono ben diciassette nella parte relativa all’esposizione dei versetti 1-2 e soltanto due per i versetti successivi.
Entrando nel merito, si nota soprattutto che secondo Giovanni de La Rochelle Paolo sperimentò il rapimento per due volte e sulla base di questi due eventi mistici egli stabilì la fondamentale distinzione tra due tipi di rapimento. Il primo, avvenuto sulla via per Damasco (cfr. Atti, 9, 3-9), viene definito come rapimento al terzo cielo, pertinente all’estasi oppure all’eccesso della conoscenza. Esso è anche relazionato alla visione delle cose ignote e all’intelligenza della profondità delle realtà divine. Il secondo rapimento, realizzatosi nel tempio di Gerusalemme (cfr. Atti, 22, 17), viene definito come rapimento al paradiso, e sarebbe relativo a un altro tipo di estasi, ossia all’eccesso di affetto. Questo secondo tipo di rapimento si riferisce ai misteri che vengono svelati mediante le figure. I versetti 1-2 del capitolo XII della Seconda lettera ai Corinzi sarebbero quindi in relazione al primo rapimento di Paolo, mentre i versetti 3-4, al secondo. Il primo rapimento viene descritto, secondo il rupellense, sotto quattro aspetti:  la condizione, il tempo, il modo e il luogo (terminus).
Si può dire che Bonaventura ereditò dai primi maestri della scuola francescana vari elementi della dottrina sul rapimento mistico di san Paolo. Di Alessandro di Hales, per esempio, utilizza gli approfondimenti sull’ancoraggio storico-salvifico della teologia. Nella teologia dell’halensis, infatti, il rapimento paolino viene inserito nel contesto della progressiva crescita della conoscenza umana su Dio, realizzatasi nella storia della salvezza scandita dalle rivelazioni concesse nel rapimento mistico ad Adamo, all’apostolo Paolo e all’evangelista Giovanni, corrispondenti ai tre stadi della Chiesa.
Queste intuizioni trovarono un meraviglioso sviluppo nel pensiero di Bonaventura, specialmente nelle sue successive sintesi sulla conoscenza mistica e spirituale:  nel Breviloquium, nell’Itinerarium mentis in Deum, nelle Collationes in Hexaëmeron, Paolo diventa modello e maestro per eccellenza delle diverse forme della conoscenza di Dio, gerarchizzate come una scala che porta l’uomo verso l’unione con il suo Creatore.
Da Giovanni de La Rochelle il Dottor Serafico attinge alcune intuizioni sui due tipi di rapimento mistico, che gli permettono di elaborare una propria teoria del rapporto tra il raptus e l’extasis, tra l’aspetto intellettuale e affettivo della conoscenze mistica. Alla luce della dottrina dei suoi predecessori, il pensiero di Bonaventura apre di fronte agli studiosi nuove prospettive di lettura e di reinterpretazione.

(L’Osservatore Romano – 18 giugno 2009)

San Cipriano: I suoi figli nel Figlio suo

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20091007

Mercoledì della XXVII settimana del Tempo Ordinario : Lc 11,1-4
Meditazione del giorno
San Cipriano (circa 200-258), vescovo di Cartagine e martire
Dal trattato « Sul Padre nostro », 9-11, PL 4, 520s ; CSEL 3,1

I suoi figli nel Figlio suo

      Quali e quante poi sono, fratelli carissimi, le rivelazioni della preghiera del Signore ! Esse si trovano raccolte in una invocazione brevissima, ma carica di spirituale potenza. Non c’è assolutamente nulla che non si trovi racchiuso in questa nostra preghiera di lode e di domanda. Essa, perciò, forma un vero compendio di dottrina celeste. È detto : «Quando pregate, dite : Padre nostro che sei nei cieli».

      L’uomo nuovo, rinato e restituito, mediante la grazia, al suo Dio, dice innanzi tutto : «Padre», perché è divenuto suo figlio. «Venne fra la sua gente» è scritto, «ma i suoi non l’hanno accolto. A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio : a quelli che credono nel suo nome» (Gv 1,11-12). Dunque, chi ha creduto nel suo nome ed è diventato figlio di Dio, deve cominciare col rendere grazie e riconoscersi figlio suo… Non dobbiamo esser paghi, fratelli carissimi, di considerare e capire perché chiamiamo Padre Colui che è nei cieli ; difatti aggiungiamo : «Padre nostro», cioè Padre di tutti quelli che credono, di tutti quelli che sono stati santificati da lui, e sono stati rigenerati per mezzo della grazia spirituale : questi hanno incominciato ad essere figli di Dio.

      Quanto è preziosa la grazia del Signore, quanto alta la sua degnazione e magnifica la sua bontà verso di noi ! Egli ha voluto che noi celebrassimo la nostra preghiera davanti a lui e lo invocassimo col nome di Padre, e come Cristo è Figlio di Dio, così noi pure ci chiamassimo figli di Dio. Questo nome, nessuno di noi oserebbe pronunziarlo nella preghiera, se egli stesso non ci avesse permesso di pregare così.  
 

Commento su Gn 3,1-2 (omelia per il 6 ottobre 2009)

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/16328.html

Omelia (06-10-2009) 
Eremo San Biagio
Commento su Gn 3,1-2

Dalla Parola del giorno
Fu rivolta a Giona una seconda volta questa parola del Signore: «Alzati, va’ a Ninive, la grande città, e annuncia loro quanto ti dico».

Come vivere questa Parola?
Giona, raggiunto da una chiamata di Dio che lo scomoda, sceglie la via della fuga. Non oppone un rifiuto verbale, ma volta le spalle imbarcandosi per non vedere, chiude l’orecchio rifugiandosi nell’angolo più riparato della nave per non sentire, consegna la mente all’intorpidimento del sonno per non capire. Un atteggiamento che potrebbe far sorridere, ma in cui, se letto in profondità, potremmo riconoscere alcuni comportamenti che, almeno in certe occasioni, si cade anche oggi.
Il nostro Dio è un Dio-Parola, un Dio-dialogo. Così lo presenta la Bibbia fin dalle prime pagine. Egli tratta l’uomo da partner e lo coinvolge nel suo progetto di salvezza, ne vuole fare un corredentore sia per quanto riguarda se stesso, con la corrispondenza alla grazia, sia per quanto riguarda gli altri, con la testimonianza verbale e vitale. Un compito non privo di difficoltà ma che dimostra l’infinita fiducia di Dio che non viene meno neppure di fronte alle nostre cadute e meschinità.
È la Sacra Scrittura stessa a documentarlo, come in questo caso. Dio mette Giona nella condizione di riflettere, di riconoscere il suo sbaglio facendolo passare per la penosa prova del buio, in cui il silenzio di Dio lo getta (di cui è immagine l’episodio del cetaceo che lo ingoia), ma poi rilancia la sua chiamata. È a quel “sì” rifiutato che bisogna tornare per riallacciare il dialogo interrotto. E allora la luce tornerà a inondare il cuore, rischiarando la via, così che si ritrovi il colore della gioia.

Oggi, nel mio rientro al cuore, mi porrò in ascolto del Signore con piena disponibilità, certo che Lui mi contatta quotidianamente e mi chiede di rendermi nelle sue mani strumento di salvezza.

Ti ringrazio, Signore, per l’immensa fiducia che continui a nutrire nei miei riguardi, nonostante la fragilità di cui ho più volte dato prova. Come il “Servo di YHWH”, ti chiedo di fare ogni giorno attento il mio orecchio e di sostenermi perché non opponga mai resistenza.

La voce della santa patrona d’Italia
Ogni gran peso diventa leggero, sotto questo santissimo giogo della volontà di Dio.
S.Caterina da Siena 

1...161718192021

Une Paroisse virtuelle en F... |
VIENS ECOUTE ET VOIS |
A TOI DE VOIR ... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | De Heilige Koran ... makkel...
| L'IsLaM pOuR tOuS
| islam01