CREDO LA RISURREZIONE DELLA CARNE (punto 1.3. San Paolo)
dal sito:
http://www.cappellauniss.org/teologia/risurrezione_carne.htm
Aspetto la risurrezione della carne
CREDO LA RISURREZIONE DELLA CARNE
1. Fondamenti biblici
1.1. La disputa di Gesù con i Sadducei (Mc 12,18-27)
Questa disputa è collocata nel contesto delle controversie di Gerusalemme. La risposta elaborata da Gesù in questa controversia offre una puntualizzazione straordinariamente illuminante sull’orientamento da dare all’idea di risurrezione.
Lo sfondo di questa disputa con i Sadducei merita qualche precisazione. Come si configura al tempo di Gesù la fede nella risurrezione? Qual è il suo contenuto e senso più specifico?
Com’è noto, la risurrezione dei morti intesa in senso più stretto ed esplicito, è un articolo molto recente della fede d’Israele, attestato nel Libro di Daniele e nei Libri di 1 e 2 Maccabei. Nasce dall’esperienza del martirio di quanti sacrificarono la loro vita per la fedeltà alla fede e alla legge di Mosè, nella certezza che comunque quella fine cruenta e ingiusta sarebbe stata ricompensata da Dio con una nuova vita (2Mac 7). Questa speranza venne presto molto diffusa, maggioritaria, condivisa da molte correnti del giudaismo (dai rabbini, dagli apocalittici, dai farisei, come pure dai qumraniani), ma non proprio unanimemente (come appunto mostra lo stesso testo evangelico: i sadducei se ne chiamano fuori).
Chi sono i Sadducei? Tradizionalisti aristocratici, benestanti conservatori (clericali e laici), in antitesi ai farisei (questi più univocamente laici, più rigorosi e, in certo qual senso, anche più moderni). Privilegiano più univocamente l’autorità del Pentateuco, anche se probabilmente non è vero (come vorrebbe Girolamo) che rifiutino tout court i libri profetici. Non accettano, in ogni caso, le nuove prospettive apocalittiche (per il canone ebraico Daniele non è un libro inserito tra i profeti, bensì tra gli scritti). E certamente rifiutano tutta la tradizione orale, la ‘tradizione degli anziani’ promossa invece dai farisei. Normativa per loro è sola scriptura. Sono quindi una corrente piuttosto secolarizzata, scarsamente interessata e religiosamente riduzionista: per loro non vi è risurrezione o ricompensa escatologica (cfr. At 23,8), niente angeli o demoni. Inoltre, bene e male stanno in mano all’uomo (niente determinismo), e Dio non interviene più di tanto nella storia: ciascuno è artefice della propria fortuna o sfortuna. Conta l’esistente, il potere, l’istituzione, la sua gestione.
Obiezioni alla risurrezione
Nel nostro episodio i Sadducei si oppongono all’idea stessa di risurrezione in nome di una loro interpretazione della legge mosaica sul levirato (Dt 25,5ss.; Gen 38,8). Con quella legge emanata per garantire una discendenza a chiunque disgraziatamente fosse morto prematuro e per giunta senza figli, Mosè (secondo i Sadducei) avrebbe implicitamente escluso la risurrezione. Nell’eventualità di una risurrezione da morte infatti, la legislazione mosaica risulterebbe di fatto impraticabile (tanto più agli occhi di una cultura patriarcale con tratti maschilisti): come potrebbe una donna essere contemporaneamente moglie di sette uomini?
Il ragionamento dei Sadducei intende ridicolizzare il modo più diffuso in Israele di pensare la risurrezione dei corpi, idea molto semplicistica di risurrezione, intesa come ulteriore riedizione di questa vita, una fotocopia presumibilmente migliore, senz’ombra di dolore, peccato, e ogni sorta di male. Idea che soggiace anche a 2Mac 7, e forse anche a Dan 12, testi universalmente riconosciuti come culla di questa speranza. Niente di strano se questa semplicistica idea risultava inaccettabile agli spiriti più critici (come anche ai meno fantasiosi) quali i Sadducei. Agli occhi di quest’ultimi l’unica risurrezione di cui Israele dispone sta nel futuro che il popolo si può garantire con la discendenza delle generazioni. Questa dei Sadducei è un’antichissima convinzione d’Israele, ma anche un’atavica pulsione della nostra natura: se siamo fecondi di posterità, allora abbiamo la percezione di non morire, e di prolungare la nostra esistenza lungo il fluire del tempo attraverso quella di altri che prendono vita da noi.
Ignoranza delle scritture ed ignoranza di Dio
Tutta la risposta di Gesù s’inquadra sotto un pesante rimprovero.
« Voi errate, siete fuori strada » (v 24)
« Voi errate molto, siete molto fuori strada » (v. 27).
Per Gesù pensare come loro è deviare dalla via di Dio, il che comporta un errore sostanziale, dalle pesanti implicazioni. In pratica dice: voi, i pretesi conservatori della tradizione più sicura, siete in realtà a un passo dallo svendere la sostanza viva della fede d’Israele, in ragion della meschinità della vostra idea di Dio, che di fatto costituisce un vero attentato alla sua signoria. Ai Sadducei è quindi rinfacciato un doppio deficit, la ragione del quale viene ricondotta a comune radice di ignoranza (e, implicitamente, di incredulità):
Voi non conoscete né le scritture, né la potenza di Dio.
Non conoscere le scritture significa due cose, anzitutto: « voi non leggete bene come invece si dovrebbe, con fede e nel rispetto della tradizione »; in secondo luogo: « nemmeno leggete per intero (nota il plurale: « scritture ») tutte le scritture che sarebbero da leggere! ». In sintesi: « voi leggete ma non capite, e non potete capire, perché leggete male e parzialmente, cioè solo quel che volete ».
In effetti i Sadducei certamente non leggono il Libro di Daniele, cui Gesù è invece tanto legato, soprattutto per il Figlio dell’uomo, quella personalità individuale e corporativa nella quale egli si identifica (Dan 7). Mutilando l’ampiezza della testimonianza biblica, ne mancano il senso.
L’altra ignoranza rimproverata – perfino più grave – svela la ragione ultima e profonda della prima: non conoscere/riconoscere la potenza di Dio che già svariegate volte si è manifestata nell’AT (potenza che si fa conoscere attraverso le meraviglie operate per Israele). L’accusa di Gesù insinua una mancanza di fede. La fede conosce quanta e quale sia la potenza di Dio: « Tutto è possibile a chi crede! » (Mc 9,23), e a chi chiede con fiducia nella preghiera (Mc 11,22-24). « Abba’, Padre, tutto ti è possibile! » (14,36). Non potenza nel senso da noi abitualmente equivocato come onnipotenza-prepotenza. Ma potenza della sua signoria paterna, visibile ovunque e sempre a tutti, senza più ombra di equivoci e tutta trasparente solo in Gesù, nelle sue parole, nelle sue opere (la potenza che usciva da lui solo a toccarlo, cfr. Mc 5,30; 6,2.5), nella sua storia culminante con la risurrezione (2Cor 13,4), segno del regno effettivamente avvicinato con potenza (Mc 9,2). In filigrana forse Gesù sta rimproverando ai Sadducei di non saper vedere ciò che avviene nella sua stessa missione, tutta nel segno della vita e della risurrezione.
« Come » angeli
Gesù dà poi due illustrazioni. Una prima illustrazione è sulla modalità correttamente e sensatamente pensabile della vita dei risorti (Mc 12,25). Una seconda invece verte circa l’effettiva realtà e credibilità della risurrezione, sulla base di una valida ‘prova scritturistica’ (12,26). In entrambi i casi l’ironia è pure sferzante.
Secondo Gesù la risurrezione è tutt’altro che paradossale e opposta all’insegnamento di Mosè. Anzi, essa risulta perfettamente pensabile e ricavabile proprio dalla rivelazione goduta da Mosè. Risurrezione che va intesa come un nuovo ordine di esistenza. Essa è una nuova creazione che ha per supporto (ma non per modello) la prima (che semmai è stata da Dio modellata sulla seconda).
Quando Gesù dice che nella risurrezione saremo tutti « come angeli nei cieli » è per dire che la risurrezione comporta una nuova forma di vita: si tratta di un’esistenza celeste (cioè più vicina a Dio: il cielo è nell’antichità spazio creato più contiguo alla trascendenza di Dio). Gesù non sta quindi certo pensando a una forma immateriale e incorporea di esistenza. Però, più che descrivere, fornisce qui un termine di confronto, un po’ come usa fare nel suo abituale linguaggio parabolico applicato al Regno di Dio (« come »: cfr. Mc 4,26.31). Suggerisce quindi un’analogia in cui la differenza risulta più forte della somiglianza. Paolo (1Cor 15) azzarda una ‘descrizione’ del corpo glorioso dei risorti, cercando di pensarlo più speculativamente (ma non raggiunge risultati migliori…).
Tuttavia, poiché i Sadducei non credono all’esistenza di angeli o demoni, la risposta di Gesù risulterebbe inservibile nella spiegazione positiva. Va riconosciuto qui un tratto tipico di Marco, che dipinge un Gesù sferzante nell’ironia con i propri interlocutori. Se non siete capaci di pensare l’esistenza di un altro ordine di creature, se non siete capaci di pensare un creatore di un ordine immortale, non arriverete a pensare la risurrezione. Risorgere significa inaugurare una vita che non muore, collocata alla piena e diretta presenza di Dio, tutta luminosa di questa sua presenza, e quindi svincolarsi dalla legge – meravigliosa e terribile – della riproducibilità. Quest’immaginazione credente manca ai Sadducei.
Promessa e alleanza, fondamento della risurrezione
La seconda argomentazione di Gesù tocca il fatto della risurrezione: non più la sua astratta pensabilità, bensì l’effettiva accertabilità e leggibilità nella Bibbia. Dove può aversene notizia certa, in che passi scritturistici sarà riconoscibile?
Qui il suo tono si fa più solenne, e al tempo stesso perfino sarcastico, con una domanda ovviamente retorica: « Non avete letto nel Libro di Mosè il passo sul roveto…? ». Certo, chissà mai quante volte hanno letto e udito alla sinagoga il passo della vocazione di Mosè (Es 3). Ma l’hanno mai capito?
Invocando addirittura l’autorità di quel Mosè che i Sadducei hanno preteso citargli come voce contraria alla risurrezione dai morti, Gesù stringe i suoi interlocutori alle corde. Rovescia contro di loro l’unica autorità che sono disposti a riconoscere come normativa. Ma qui si tratta non di una delle tanti leggi di Mosè, bensì della vocazione/rivelazione da lui goduta da parte del Dio dei Padri: nientemeno che il fondamento della sua missione di liberatore dall’Egitto e di mediatore dell’alleanza sinaitica. Per ‘dimostrare’ il fatto che si risorge Gesù non si riconduce più alla teologia degli apocalittici, ma direttamente a quella stessa mosaica, in particolare a un contesto in cui la teologia della promessa ai Padri si combina con la rivelazione esodica della liberazione e dell’alleanza sinaitica. Gesù fornisce una chiave di lettura teologica di incredibile portata sintetica, riannodando la risurrezione alla promessa abramitica confermata dall’alleanza (berît). Il Dio che a Mosè dichiara di legarsi personalmente (« Io… ») ai Padri che gli hanno risposto con la fede, sarà certo Dio « non di morti, ma di viventi ». Il Vivente per eccellenza non può che far vivere i suoi eletti, i suoi credenti. Lo statuto della persona investita dalla promessa/alleanza del Signore entra nella memoria di Dio, così che il suo destino si iscrive per sempre in riferimento alla vita e non alla morte. L’uomo è tenuto in vita dal Dio che si ricorda di lui (Sal 8). Così « Io, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe! », vuol dire prima di tutto: « Io, il Dio che benedice Abramo, Isacco, Giacobbe, i quali, proprio in quanto benedetti, non muoiono, ma vivono della mia promessa ». Già con la benedizione abramitica – dice Gesù – Dio si impegna in vista di una risurrezione.
1.2. Io sono la risurrezione e la vita
« Ma c’è di più. Gesù lega la fede nella risurrezione alla sua stessa Persona: “Io sono la Risurrezione e la Vita” (Gv 11,25). Sarà lo stesso Gesù a risuscitare nell’ultimo giorno coloro che avranno creduto in lui e che avranno mangiato il suo Corpo e bevuto il suo Sangue. Egli fin d’ora ne dà un segno e una caparra facendo tornare in vita alcuni morti, annunziando con ciò la sua stessa Risurrezione, la quale però sarà di un altro ordine. Di tale avvenimento senza uguale parla come del “segno di Giona” (Mt 12,39), del segno del tempio (cfr. Gv 2,19-22): annunzia la sua risurrezione al terzo giorno dopo essere stato messo a morte » (CCC 994).
1.3. San Paolo (cfr. CCC 989-991)
Per San Paolo Cristo è primizia del mondo della risurrezione (1Cor 15,20). Egli intende con ciò significare che l’evento della risurrezione della risurrezione di Cristo è da intendersi come modello e causa della risurrezione escatologica dei cristiani. Quest’ultima partecipa della risurrezione del Signore, nel senso che ne è la sua estensione ed insieme il compimento della vita nuova dell’uomo in Cristo, già iniziata sacramentalmente nel battesimo. La ‘rinascita’ del credente dall’ “acqua e dallo Spirito” innesca, infatti, tutto un processo di partecipazione all’evento di Cri9sto morto e risorto, che avrà il suo culmine nella parusia, nella gloria della creazione nuova, e consisterà, per l’opera dello Spirito che darà la vita ai nostri corpi mortali (cfr. Rm 8,11), nella comunione suprema, anche corporale con Gesù Signore. La speranza cristiana assume così una particolarissima struttura: la signoria di Dio sulla storia umana implica la configurazione piena della persona al Crocifisso-Risorto. La persona umana non scompare nell’infinito e nell’eterno Dio come una realtà provvisoria; al contrario proprio il risorgere in Cristo permette a una persona di diventare se stessa. La fedeltà che il Padre ha mostrato nella Pasqua del suo inviato Gesù è la stessa – un unico evento – che trasforma la nostra vita e la colloca nella definitiva, escatologica comunione con lui: « … Colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi » (Rm 8,11).
2. Come risuscitano i morti?
Ma come può venire pensata la trasformazione della vita umana personale in vita radicalmente risorta?
La risurrezione dei cristiani, in quanto partecipazione a quella di Cristo, è un evento che interessa la totalità dell’umano. La centralità che viene riconosciuta al corpo, in questo evento, sostanzia la suddetta affermazione. Il corpo risorto, trasfigurato, cioè, non è altro dal corpo terreno. La risurrezione non è quindi un seguitare a vivere sulla terra reincarnandosi in altri corpi, come dicevano alcuni filosofi greci e come dicono ancora oggi certe religioni orientali. Il corpo risorto è ‘identico’ al corpo che esprime storicamente l’unico e medesimo io personale (identità), anche se trasformato in una nuova condizione. In questo senso, la risurrezione dei corpi non significa la riassunzione del corpo biologico, che ha dato forma fisica all’uomo lungo la sua vicenda terrena; non significa cioè la ripresa di quanto è diventato ‘cadavere’ con la morte, non è un riassemblaggio del nostro corpo, fatto racimolando le sue molecole tra i resti putrefatti, cremati, trapiantati in altri corpi o sparse per il mondo. Siffatta interpretazione materialistica non renderebbe ragione della novità trasformante inclusa nell’evento della risurrezione ed escluderebbe di fatto la compiutezza antropologica. Lo stesso dicasi per una interpretazione spiritualistica che, prevedendo una radicale trasformazione spirituale del corpo (una specie di corpo etereo), renderebbe vano il senso stesso della corporeità, che dice il riferimento essenziale dell’io personale alla sua storia e al suo mondo.
La risurrezione, in altri termini, è l’evento che compie l’uomo nella sua unità sostanziale di corpo e anima che lo identifica personalmente; per cui, quando si afferma la ricongiunzione dell’anima al corpo nella risurrezione non si vuole intendere l’atto di ricomposizione di due entità separate, ma il compimento dell’identità umana nella totalità delle sue espressioni spirituali e corporee. Ciò che permane nel trapasso è l’identità personale nella complessa relazione che intratteniamo con Dio. Dal momento, però, che l’identità personale esiste nella vita storica di una persona, essa è necessariamente anche identità somatica. Ciò che risorgerà nell’ultimo giorno (Gv 6,54) sarà l’uomo intero. Per questo, la risurrezione comporta per l’uomo il recupero di tutta la propria vita e di tutta la propria storia, il compiuto recupero di tutto ciò che ha segnato la sua vicenda umana di persona che si è intrattenuta consapevolmente nelle relazioni con Dio, con i propri simili e con il suo ambiente mondano. La risurrezione corporea dell’io spirituale di ogni uomo è la compiuta maturazione nel corpo di Cristo risorto di tutta la storia personale di ciascuno, il definitivo superamento delle limitazioni antropologiche terrene come integrazione totale di esse e non come abbandono spersonalizzante di quanto, in realtà, costituisce la misteriosità della vicenda umana. Tutti i momenti storici di un uomo che hanno segnato il suo procedere verso la pienezza vengono ora ritrovati trasfigurati, unificati, in Dio, il quale è fedele alla sua creazione e nulla vuole perdere di quanto è uscito dalle sue mani.
B. Sesboué suggerisce, in proposito: « Tutto ciò che fa la nostra identità di uomo o di donna, identità modellata dalla nostra storia terrestre, sarà dunque tutto conservato, pur essendo trasfigurato. L’essere personale che noi ci saremo forgiati, la ricchezza delle nostre esperienze, il patrimonio culturale acquisito nella nostra esistenza, tutto questo, che è frutto della grazia e della nostra libertà, si conserverà con tutte le capacità di apertura, di relazione e di comunione così suscitate. Il cielo sarà il luogo in cui si ritroveranno le relazioni umane stabilite in questo mondo. Dio allora potrà prendere in mano questo essere incompiuto per dargli nuove dimensioni di cui noi non abbiamo idea ». Non sappiamo e non possiamo, infatti, rappresentarci adeguatamente la corporeità risorta. Di certo è che « come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste » (1 Cor 15,49).
3. Carattere comunitario della risurrezione dei morti
Tutto ciò dice anche il carattere comunitario della risurrezione dei morti, propriamente anticipato nella glorificazione di Maria in corpo e anima. La risurrezione, infatti, è l’evento in cui la comunione escatologica dei risorti corporalmente in Cristo si manifesta in pienezza e perfezione. Nessun evento storico-salvifico è puramente individualistico; per cui, la risurrezione gloriosa di ciascun uomo sarà l’esito conclusivo di tutto quel processo di incorporazione a Cristo, ecclesialmente formato, che prende l’avvio nel sacramento della rigenerazione battesimale. Lo Spirito di Dio, che permette e qualifica il cammino del cristiano come itinerario di pienezza antropologica in Cristo, conformerà i risorti al corpo stesso di Gesù Cristo (cfr. Rom 8,11) e ciascun redento esprimerà la totale apertura del proprio essere in relazione agli altri. Solo allora la storia di ciascun uomo sarà veramente compiuta, perché escatologicamente legata ai suoi fratelli nel corpo di Cristo e quindi totalmente accogliente l’umanità dei compagni di viaggio.
Inoltre in questa realtà sommamente comunicativa e accogliente trova necessariamente posto il mondo creato, “il quale è intimamente unito con l’uomo e per mezzo di lui arriva al suo fine” (Lg 48). Il compimento definitivo del progetto salvifico di Dio si realizza, infatti, nella perfetta unità dei viventi con la loro storia e con il loro mondo. Per questo, “la creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio [....] e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8,19-21).
MORIRE IN CRISTO GESU’
4. La morte del credente in Cristo
Nella luce di Cristo, morto, disceso agli inferi e risorto, la morte umana assume un significato propriamente pasquale. Per cui, tutti coloro che credono in Cristo e muoiono in lui partecipano dello stesso transito pasquale del Figlio di Dio. La morte non è più il risultato ultimo del peccato, fonte di dolore e sofferenza, ma motivo di « guadagno » (Fil 1,21); essa introduce il credente in una condizione escatologica, che esprime la pienezza di un incontro salvifico (cfr. Lc 23,43). Chi, nella fede, muore dentro la morte di Cristo è destinato ad andare con lui oltre la morte, nello Spirito, verso il Padre.
La decisività della fede nel farsi dell’evento cristiano della morte non è, tuttavia, circoscritta al momento terminale della vita umana. Ciò significa che la morte del credente in Cristo non è altro che la consumazione di quanto egli ha già vissuto sacramentalmente nella propria esistenza teologale. Nella fede, infatti, l’uomo innesta tutta la sua vita nel mistero di Cristo morto e risorto e il suo morire in lui, quindi, non è un atto che avviene unicamente nell’istante della morte fisica, ma è un atto che egli compie di continuo lungo tutto il corso dell’esistenza. L’apostolo Paolo ci ricorda che l’intera vita cristiana è vita pasquale, per il battesimo (cfr. Rom 6,3-6; Col 2,12-13); per cui, il transito mistico dalla morte alla vita caratterizza sempre l’esistenza di coloro che sono « in Cristo ». Il transito pasquale ultimo, nella morte personale, è, pertanto, l’accoglienza nella fede di una particolare pienezza di grazia, che fa del credente un « essere con Cristo » (cfr. Rom 6,8; 2 Cor 4,14; Fil 1,23). In altri termini, la partecipazione alla morte di Cristo Signore, che nel regime sacramentale della vita terrena avviene in modo mistico, nella morte personale fisica accade realmente. In questo momento sommo, l’atto teologale del credente è significato nell’abbandono ultimo all’azione misericordiosa di Dio e la morte stessa diventa un atto teologale supremo. Chi, infatti, muore nella fede, in e con Cristo, nasce alla vita vera (dies natalis), perché incontra pienamente la grazia della salvezza pasquale.
5. La morte del cristiano come compimento dell’esistenza personale
La morte del credente in Cristo necessita di ulteriori approfondimenti, che meglio ne chiariscono il suo essere condizione escatologica.
5.1. La morte come incontro decisivo con Cristo
La grazia della salvezza pasquale che l’uomo credente incontra nella morte è decisiva per il suo destino escatologico. Per chi muore “in Cristo” la relazione con il Signore si fissa definitivamente; da allora vive in un modo qualitativamente nuovo
Tale permanenza nella vita, con Cristo, è garantita unicamente da Dio. Essa non rimanda semplicemente all’idea di una immortalità dell’anima di marca greco-romana, ma ad una verità teologica che richiama, in modo evidente, il dono dello Spirito della vita di Dio, che crea e conserva nell’essere la sua creatura. In questo senso, ciò che vive o sopravvive non è una parte dell’uomo, ma l’intera identità umana nella sua nuova condizione di esistenza, libera da ogni forma di limitazione spazio-temporale, definita nella sua realtà escatologica in Cristo e proiettata dallo Spirito verso la totale rigenerazione gloriosa, che comporterà la compiuta integrazione in Dio dell’uomo, della sua storia e del suo mondo.
5.2. Il giudizio particolare
In questa prospettiva si comprendono meglio le affermazioni dogmatiche circa l’immediata retribuzione per l’uomo che muore in e con Cristo « subito dopo la morte » contenute nella costituzione conciliare Lumen gentium con le seguenti parole:
« Siccome poi non conosciamo né il giorno né l’ora, bisogna, come ci avvisa il Signore, che vegliamo assiduamente, affinché, finito l’unico corso della nostra vita terrena (cfr. Eb 9,27), meritiamo con lui di entrare al banchetto nuziale ed essere annoverati fra i beati (cfr Mt. 25,31-46), né ci si comandi, come a servi cattivi e pigri (cfr. Mt 25,26), di andare al fuoco eterno (cfr. Mt 25,41), nelle tenebre esteriori dove ‘ci sarà pianto e stridore di denti’ (Mt 22,23 e 25,30) » (n. 48).
Il contenuto di queste affermazioni ribadisce chiaramente la decisività dell’evento della morte cristiana. Nell’incontro con il Signore nella morte, al termine del suo peregrinare storico, l’uomo consegue il suo definitivo destino escatologico, in relazione alla sua adesione personale all’offerta di salvezza di Dio in Cristo maturata lungo l’unico corso dell’esistenza terrena e svelata in questo momento ultimo e supremo. Anzi, nell’evento della morte il dono di Dio, cristologicamente connotato, è particolarmente intenso e quindi estremamente esigente la responsabilità dell’uomo nella fede. Tale dinamismo salvifico « fa della morte un giudizio, un giudizio che deve essere inteso anzitutto come la consumazione di tutta l’opera positiva con cui Dio liberamente e amorevolmente conduce, nella sua grazia, l’uomo alla salvezza e quindi come ‘momento critico della libertà’ in quanto ‘nell’ora della morte’ l’appello dell’amore divino che incessantemente si è curvato sulle miserie dell’uomo assume una risonanza complessiva e singolare nel quadro di un’esistenza personale che in essa si conclude in modo definitivo ».
———————————————————-
Cfr. R. VIGNOLO, Risorgere dai morti, in « La rivista del clero italiano » 72 (2001) 6, 419-437.
Cfr. G. ANCONA, Escatologia cristiana, Queriniana, Brescia 2003, pp. 352-356.
B. SESBOÜÉ, Dopo la vita. Il credente e le realtà ultime, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1992, p. 126.
Cfr. G. ANCONA, Escatologia cristiana, cit., pp. 321-329.
Cfr. anche CCC 1022.
M. BORDONI – N. CIOLA, Gesù nostra speranza. Saggio di escatologia in prospettiva trinitaria, Dehoniane, Bologna 20002, p. 217.

Vous pouvez laisser une réponse.
Laisser un commentaire
Vous devez être connecté pour rédiger un commentaire.