Salvati dalla croce di Cristo?
in questo studio/meditazione Paolo è presente nelle citazioni, lo propongo perché mi sembra comunque vicino al pensiero dell’Apostolo e … perché lo trovo bello:
http://www.taize.fr/IMG/pdf/Cahiers2_IT.pdf
I QUADERNI DI TAIZÉ 2
Frère Pierre-Yves
Salvati dalla croce di Cristo?
Come spiegare oggi il rapporto tra la morte del Cristo e il perdono dei peccati, il ricupero dei peccatori – insomma la “salvezza” come la chiama il Nuovo Testamento? Ci ripromettiamo una trattazione breve, una specie di concentrato essenziale. Faremo ricorso ad ogni tipo di fonti. L’originalità di questo quaderno consisterà nell’approccio, più precisamente nel modo di svolgere il tema, tappa per tappa. Diciamolo subito: la croce del Cristo non è separabile dalla sua risurrezione. Sono le due facce di un unico evento. Se la croce conduce alla liberazione, è a causa della Pasqua. Ma la Pasqua sarebbe un mito se il Risorto non fosse anche il Crocifisso. D’altronde è proprio dalla risurrezione che deve partire la fede, per scoprire in seguito che il cammino passa attraverso la croce; e, in un secondo momento, riconoscere che soltanto accettando nella propria vita la Passione del Crocifisso, si può accedere alla risurrezione. È l’insegnamento di San Paolo nella sua lettera agli Efesini (3,10-11). Ma non possiamo dire tutto in una sola volta, perciò concentreremo la nostra attenzione sulla morte del Cristo in croce. È, infatti, proprio tale morte e le sue conseguenze per noi che pongono tanti problemi a molte persone oggi. Perché ovunque nel Nuovo Testamento viene detto e ridetto che il Cristo muore “per noi”, “per i nostri peccati” e per liberarci da essi? E ancor prima, che cos’è mai il “peccato” per poter essere la causa del dramma della Passione? Ma prima di giungere al centro dell’argomento, occorre affrontare e superare quattro ostacoli.
Primo ostacolo:
Il termine “salvezza”
In effetti, l’annuncio della salvezza, questo termine così frequente nel Nuovo Testamento, sembra strano se non addirittura estraneo alla mentalità odierna. A meno che non ci si trovi dispersi in mare, chi invoca salvezza? Però non solo i Giudei dei tempi di Gesù, né soltanto i pagani divenuti cristiani, ma l’insieme dei popoli circostanti attendevano una salvezza. Il fatto suppone in effetti una certa concezione drammatica dell’esistenza. Che cosa pesava sul cuore della gente? La sensazione di essere in debito vero l’una o l’altra divinità? O l’impressione di essere alla ricerca di una giustizia personale con il timore di non raggiungerla? Oppure ancora il desiderio ardente di una vita che realizzi libertà e felicità, ma con la continua constatazione che esse sono fuori dalla portata umana? Insomma, un senso più o meno diffuso di cattiva coscienza, di infelicità, di fallimento, l’impressione di dover assolvere un compito difficile sotto il quale si ha paura di soccombere. Sì, una concezione drammatica della vita.
Non è vero comunque che nella vita ci auguriamo per forza delle situazioni drammatiche; anzi tentiamo di evitarle. E tuttavia non viviamo forse inevitabilmente una certa dimensione drammatica quando cerchiamo di vivere con verità e di collocarci con un senso profondo di responsabilità nei confronti degli altri? Quanti rapporti umani difficili, quanti conflitti che non riusciamo a sanare e le cui conseguenze ci sfuggono. Senza tenere conto che non esiste alcuna comunione interpersonale, per profonda che sia, che riesca a superare la barriera di una certa opacità. Esiste dunque sempre una qualche dimensione drammatica dell’esistenza che occorre riconoscere e, se possibile, superare.
E oltre alle tribolazioni sempre presenti, o per lo meno incombenti in ogni esistenza, quanti fallimenti personali o collettivi, quanti tentativi abortiti, quante false speranze, dalle quali occorre riprendersi in qualche modo. E ancora, in ogni vita per poco cosciente di sé e poco esigente spiritualmente che sia, quante delusioni nel tentativo di perseguire una perfezione che sempre ci scappa di mano…
Di fronte a tutto questo la fede cristiana non è sprovveduta. La salvezza, per essa, non inizia sopprimendo il dramma interiore, ma con il collocarlo bene sia psicologicamente che spiritualmente. L’evoluzione del bambino può offrircene una parabola: partendo da un egocentrismo originario che afferra tutto per sé, egli è chiamato, tappa per tappa, ad entrare in rapporto con gli altri in maniera sempre meno simbiotica e sempre più gratuita ed a crescere in se stesso, a personalizzarsi, non gli altri malgrado, ma assieme a loro. Programma arduo, infinito…!
C’è pure nell’essere umano un desiderio di autosufficienza che falsa in partenza il suo desiderio di autonomia. Quest’ultima egli la sogna assoluta, come se egli fosse il centro unico dell’universo e come se Dio e gli altri fossero a servizio del suo assoluto, senza dipendenza né obblighi. Essere “come gli dei”, essere Dio in qualche modo (il Dio come ce lo immaginiamo noi, naturalmente). Con nel cuore un senso di rivolta contro ogni idea, essa pure immaginaria, di un Dio che pare voglia sottometterci alla sua onnipotenza. L’“onnipotenza”, ecco ancora un sogno fuori dalla realtà.
La realtà è invece che l’essere umano non diviene se stesso che ricevendosi dagli altri ed essenzialmente da Dio. La sua verità è l’essere in comunione, l’imparare ad amare in un modo che tenda a divenire oblativo. E ancor prima, la sua verità, la sua vocazione essenziale è entrare con Dio in una relazione di alleanza, in quel grande progetto per realizzare il quale ha creato il mondo e suscitato l’umanità e, in essa, ciascuno di noi. Di quell’alleanza siamo ardentemente invitati ad essere i partner felici e a scoprire quel Dio che nella parabola afferma: “Tutto ciò che è mio è tuo” (Luca 15,31).
Dio mi dona a me stesso, precisamente in quel movimento in cui mi offro a lui in risposta. Questa è la reciprocità dell’alleanza, destinata ad approfondirsi all’infinito. Così se la salvezza evoca innanzitutto una liberazione che Dio mi offre dalle forze negative che sono dentro di me, consiste però in ultima istanza in una comunione nuova o rinnovata.
Secondo ostacolo:
Che cos’è il “peccato” e qual è la sua relazione con la morte?
Qui mi esprimerò in prima persona, perché riflettendo sul peccato, posso solo pensare a me stesso. La salvezza degli altri, il loro peccato, il loro livello di responsabilità mi sfuggono e in ogni caso non sono affar mio: sono nascosti nel segreto di Dio. Ed io non vi posso speculare sopra, posso solo pregare per loro.
A proposito di peccato, non pensiamo in primo luogo a tale o tal’altra colpa morale. Il peccato si spiega, su di un piano spirituale, partendo da quella ricerca forsennata ed egoista di se stessi, da quella tendenza fondamentale dell’essere umano alla quale sono spesso incline a consentire: cose di cui abbiamo già parlato prima.
Il mio egocentrismo, dunque. Non quello del neonato, irresponsabile, ma quello che, coscientemente e volontariamente mi riconduce a me stesso e sul quale mi rinchiudo con soddisfazione, a dispetto di tutto quello che posso sapere di Dio, della sua alleanza e di quello che Egli s’aspetta da me per il mio massimo bene. Si tratta del modo con cui concepisco e realizzo il mio piacere a danno degli altri, dei loro diritti e delle loro legittime attese. Ancora: è la maniera con cui surrettiziamente occupo nella mia vita in ogni istante il primo posto, che invece dovrebbe essere il posto di Dio e dell’amore.
In altri termini, il peccato consiste, benché si manifesti in mille forme, in un rifiuto di solidarietà e di comunione, perché ad un certo momento rifiuto deliberatamente di pagarne il prezzo. In questo senso, occorre che mi rammenti che, per la Bibbia, il peccato consiste in primo luogo nel mancare il bersaglio, come fa un cattivo tiratore, dato che l’obiettivo è proprio quello di realizzarsi nella comunione. In rapporto con l’alleanza offertami da Dio, il mio peccato consiste nel tradire tale alleanza rifiutandone le esigenze. E simultaneamente nel tradire me stesso, la mia verità umana, la mia vera libertà et finire per perdermi lontano da Dio. Quale maledizione…
E ora s’impone il problema della morte. Che cos’è per me al di fuori della prospettiva dell’alleanza? Scegliere Dio non è forse per me, in definitiva, scegliere la vita?
Amare, dimenticando un po’ me stesso, non vuol forse dire scoprire la mia vocazione umana e crescere nella mia verità più personale? Fare mie le esigenze dell’amore non è forse trovare la sorgente della vera libertà? Di conseguenza, allontanarmi da Dio, evitare l’amore e le sue conseguenze, non significa proprio decidermi necessariamente e drammaticamente in favore della morte? Essa è, dice san Paolo, “il salario del peccato” (Romani 6,23). Constatiamone la conseguenza logica e necessaria: essa sigilla il fallimento dell’egocentrismo, il sogno dell’uomo di dipendere solo da sé e di avere in sé il suo fine. Essa è percepita come una sanzione, una punizione e, naturalmente, come un’ingiustizia, mentre vi dovremmo riconoscere la logica conseguenza finale della scelta che abbiamo fatto. In definitiva è la maledizione di chi, sapendolo, se ne va lontano da Dio, come Giuda che esce di notte e con un simile progetto nel cuore…E questo nonostante la mano che Gesù gli aveva teso. Il fatto è che Dio non ci rinchiude nella perdizione e non ha nessuna intenzione di trarne un qualche vantaggio. Egli moltiplica piuttosto i suoi appelli e le occasioni per rimetterci in carreggiata.
Al contrario, nella prospettiva dell’alleanza, la morte è da considerarsi come l’ultima tappa sulla terra verso la vittoria del Cristo, la realizzazione definitiva della Pasqua di colui che già s’era incamminato alla sequela del Cristo risorto. Egli lo vede diritto dinanzi a sé mentre gli viene incontro e, morendo grida (o mormora) con Stefano: “Signore Gesù, accogli il mio spirito” (Atti 7,59). Tutto ciò che la morte ha di drammatico, a causa di tutto quello che bisogna lasciare spogliandosi di quello che sostiene la nostra vita quaggiù, è come assorbito dalla vittoria di Cristo. Gesù non s’è rifiutato di affrontare il dramma della morte. Egli, l’uomo libero per
eccellenza sia verso Dio che verso gli uomini, si è reso solidale liberamente con tutti noi
fino ad accettare la maledizione della morte come un peccatore, condannatovi dai suoi
nemici. È stato forse Dio ad infliggergli un simile destino? Il Nuovo Testamento, in qualche frase sintetica, sembra talvolta affermarlo. No, quell’Altro che è il Padre affida all’amatissimo suo Figlio, con fiducia, la missione che soltanto lui avrebbe potuto portare a termine: raggiungere fino in fondo le sue creature sbandate. Ma durante la sua Passione e il suo cammino verso la croce, ben lungi dal subire la morte, Gesù ne fa il modo supremo per lui di riceversi e di donarsi al Padre e agli uomini. In questo consiste il senso della vita umana – riceversi, donarsi – e in questo consiste l’essere stesso del Figlio fin dall’eternità. Così la morte umana, in Gesù, rivela quello che da sempre sarebbe dovuta essere: la piena e definitiva consegna di sé al Creatore per poter accedere alla nuova creazione.
Terzo ostacolo:
Il termine “giustizia”
Siamo in molti ad aver sentito nelle lezioni di catechismo la spiegazione della croce come
giudizio di condanna da parte di Dio sull’umanità peccatrice. La misericordia di Dio sarebbe allora consistita nel far ricadere quel giudizio, ineluttabile e necessario, sul Cristo innocente, per risparmiare i peccatori. Questo sarebbe il prezzo da pagare per la giustizia.
Un teologo ortodosso, di fronte a una simile giustificazione della croce, si chiedeva come l’Occidente avesse potuto trasformare Dio in un padre così sadico. Si tratta proprio di una deriva occidentale. Si è sviluppata a partire dall’XI secolo, forse a causa dell’influenza esercitata dal diritto germanico sulla teologia. È stata ampiamente ripresa e trasmessa sia dalla tradizione cattolica che da quella protestante.
È difficile sapere se si possa trovare qualche indizio di una simile teoria nel Nuovo Testamento. Si sarebbe allora di fronte a un paradosso, e non c’è mai da guadagnarci a trasformare un paradosso in una realtà. Di fatto, la Passione è proprio un processo – un po’ contorto, per la verità – nel quale, per mezzo del suo Inviato, Dio s’impegna e prende posizione. Ma ci si è ampiamente sbagliati comprendendo il termine di “giustizia”, tanto frequente nel Nuovo Testamento, nel senso di una giustizia punitiva e distributiva, che rende colpo su colpo.
Assai vicina ai termini di misericordia, grazia e amore, la giustizia consiste innanzitutto, in tutta la Bibbia, in una correttezza di rapporti, un’armonia. La parola può, secondo i casi, tradursi con “salvezza” o “vittoria”. Nella sua giustizia, Dio, facendo grazia, “giustificando” l’autore del male, intende ristabilire con lui un rapporto felice e armonioso. E si aspetta dall’uomo perdonato un comportamento di giustizia e di santificazione che consisterà nell’armonizzare la sua vita con il progetto di vita che Dio ha per lui, il progetto chiamato alleanza. Dio spera nell’uomo “contro ogni speranza”.
Se la legge e i principi morali che si trovano numerosi nel Nuovo Testamento diventano un modo di giustificare noi stessi dinanzi a Dio, li storniamo dal loro scopo e prendiamo il posto di Dio, il quale è il solo a poter giustificare. L’obiettivo della legge e dei principi morali è quello di indicarci la strada in vista di ricevere la giustizia di Dio, di piacergli e di piacere a noi stessi in lui. Così, il Cristo in croce realizza in pieno la giustizia di Dio e la nostra giustizia. Manifesta quella di Dio giustificando il peccatore che si converte. E quella dell’uomo trascinandolo nella sua risposta perfetta di amore e nella sua entrata nella vita.
Quarto ostacolo:
la rappresentatività di Gesù
Qui ancora una volta, quello che sembrava comunemente accettato nella tradizione ebraica e in quella del Nuovo Testamento, crea problemi in questo tempo di forte individualismo. Al contrario dell’“ognuno per sé”, ogni essere umano era considerato come rappresentativo dell’umanità e l’umanità era intesa come un’unità, non astrattamente, ma secondo una realtà d’ordine spirituale. Oggi ci è difficile immaginarlo. Eppure noi facciamo alcune esperienze di grande solidarietà umana e di profonda comunione, durante le quali abbiamo la sensazione che l’umanità sia una e che ogni essere umano possa esserne un’immagine. Pensiamo a quanto rimaniamo colpiti quando una persona si offre per morire al posto di un’altra (come per esempio il padre Kolbe). Pensiamo a tanti uomini e donne che non esitano a rischiare la vita per gli altri; o più semplicemente che la offrono in servizio, come se appartenesse agli altri. Pensiamo
ancora alla sofferenza di alcune persone che ci tocca nel profondo come se fosse la nostra. Sono tutti casi in cui vediamo come l’umanità non si considera come una giustapposizione d’individui, ma tende verso un’unità di cui ogni essere umano è come il rappresentante. È in questo senso che frère Roger amava parlare della “famiglia umana”.
In questa prospettiva, Gesù, in una maniera unica e assoluta, è da confessarsi come l’Uomo per eccellenza. “Ecco l’uomo” è l’affermazione realissima che fece Pilato senza rendersene conto. Queste parole, in san Giovanni, hanno certamente due significati: Ecco il vostro uomo, l’individuo che mi avete condotto. E: ecco l’immagine dell’Uomo quale il Creatore dall’eternità l’aveva progettato, ecco il vero rappresentante di ogni essere umano agli occhi di Dio.
In effetti, considerando quanto Dio s’è preso a cuore le sorti dell’umanità facendosi vicino ad essa, non si capisce il perché dell’incarnazione e della Passione del Cristo se non si riconosce in lui il Figlio di Dio che si fa fratello di ciascuno di noi. Nostro fratello e, molto di più, nostro rappresentante davanti a Dio; si potrebbe anche dire meglio: la mia presenza quasi personale dinanzi a Dio. Si potrebbe dire che prende il nostro posto per vivere dinanzi a Dio un’esistenza umana che corrisponda in modo perfetto all’amore del Padre e che affronta al posto nostro la maledizione della morte. Ma, paradossalmente, Gesù prende il nostro posto senza togliercelo, anzi creando più spazio per noi.
Con la sua nascita umana, Gesù prende la mia vita su di sé per offrirmi la possibilità di partecipare alla sua: alla sua esistenza terrena fatta di libertà e obbedienza, alla sua croce dolorosa e vittoriosa, alla sua vita nell’eternità. Il dono di sé è in lui così grande di fronte alla maledizione della morte che la trasforma in benedizione per lui e per noi. Ecco che cosa egli è per me, per te, per noi. Ecco perché l’Apostolo parla del battesimo come del modo con cui il Padre, per mezzo dello Spirito Santo, ci aggancia all’esistenza umana di Gesù morto e risorto.
Si può dire che Dio realizzi una doppia identificazione, non psicologica, ma dell’ordine dell’essere. Da un lato il Cristo s’identifica veramente con ciascuno di noi; fa corpo unico col nostro destino al punto che san Paolo osa scrivere: “Il Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge (di una legge impossibile da realizzare) divenendo lui stesso maledizione, come è scritto: Maledetto colui che pende dal legno” (Gal 3,13; Deut 21,23). E ancora: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo ha fatto peccato per noi” (2 Cor 5,21) Un’espressione concisa per dire che si tratta del grande progetto di Dio al quale Gesù aderisce con tutto il suo essere: liberarci dal peccato. Sì, egli è me, è noi fino a quel punto!
Dall’altro lato, la nostra identificazione con lui si riassume forse nell’affermazione dell’Apostolo: “La nostra vita è ormai nascosta col Cristo in Dio” (Col 3,3). Un’anticipazione reale, anche se velata, di cui il cristiano aspetta la rivelazione piena. È come dire che, per la fede e nella speranza, Gesù risorto è il luogo, o meglio, l’essere in cui porre la nostra esistenza, in cui cercare il nostro vero inserimento.
Guardare il Cristo in croce è dunque per me, in verità e realtà, l’occasione di vedermi dinanzi a Dio come peccatore maledetto che merita la condanna, ma anche come figlio (o figlia) liberato e benedetto nel Figlio a causa dell’offerta di sé che egli ha fatto, in cui si esprime già tutto il dinamismo della Pasqua. Essa è l’offerta del Cristo nella quale anch’io sono trascinato ed è espressa in modo così forte nell’Eucaristia.
I quattro evangelisti
Che la Passione e la croce siano “per noi”, tutti i quattro evangelisti lo sanno e lo affermano: è questo ciò che Gesù intende far conoscere quando istituisce l’Eucaristia, profezia degli eventi che seguiranno poco dopo. Ma quel “per noi” ha un significato talmente pregnante che non si riesce a cogliere fino in fondo quando si cerca di chiarirlo.
Per Marco, il più antico dei quattro, sembra che l’essenziale si giochi attorno a due parole. Quella di Gesù: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” Grido terribile di chi affronta la maledizione del peccatore. E quella dell’ufficiale incaricato di assistere all’esecuzione: « Veramente costui era Figlio di Dio”. Veramente la sua maniera di affrontare la morte rivela in lui il mistero del Figlio e la vicinanza del Padre.
In Matteo, si ritrovano le stesse due parole ma meno in rilievo. L’idea dell’evangelista è che nella morte del Crocifisso si compie il giudizio del mondo e si strappa il velo del luogo santissimo. Detto in altro modo, il giudizio finale è in lui anticipato; Gesù realizza nella sua Passione l’apocalisse. La storia è come compiuta e il Regno ha fatto irruzione. Certo, la storia continua, ma agli occhi di Dio essa è giunta al suo atto finale: “Tutto è compiuto”. Questo affinché, da quel momento, la nostra prospettiva (se lo vogliamo veramente) non è più il giudizio, ma la luce del Regno.
In Luca, sono riportate varie parole di Gesù: la sua preghiera per il perdono di coloro che lo crocifiggono (e chi, poco o tanto, non fa parte di quel gruppo?), la sua promessa al buon ladrone di accoglierlo subito in paradiso, la preghiera di affidamento al Padre. Tutto ciò va nella stessa direzione: Gesù fa della sua morte non solo una preghiera per il perdono, ma l’esaudimento stesso di tale preghiera, il perdono stesso di Dio.
In Giovanni, l’accento è posto principalmente sulla vittoria gloriosa e quasi regale dell’amore in Gesù e tale vittoria, benché paradossale, affiora lungo l’intero racconto della Passione. Inoltre Giovanni concepisce la Passione sullo sfondo della Pasqua giudaica e dell’agnello pasquale. Egli pone la crocifissione del Signore, l’Agnello al quale non saranno spezzate le ossa, all’ora stessa in cui i Giudei sacrificano l’agnello (Gv 19,33; Es 12,46). La morte del Cristo significa dunque il sacrifico pasquale definitivo e la nuova alleanza: il compimento di tutto quello che significava per il Giudei l’evento fondatore della loro storia: l’uscita dall’Egitto. Nello stesso senso, san Paolo scrive: “Il Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato” (1 Co 5,7). E tira la conseguenza che la vita cristiana, nella santità, è da considerarsi come una celebrazione di tale Pasqua.
Quanto alla Lettera agli Ebrei, è totalmente dominata dal tema dell’Antico Testamento: il “sacrificio per il peccato”. Questo non ha mai avuto il senso di una punizione che dovrebbe cadere sull’animale sacrificato, ma il senso positivo del perdono ritrovato, di un’alleanza stabilita di nuovo con Dio per mezzo dell’offerta del sangue, cioè della vita, che appartiene a Dio. Il gran sacerdote, per offrirla, entrava una volta all’anno nel Santo dei santi del tempio. Questa figura del sommo sacerdote permette all’epistola di celebrare la croce come il sacrificio definitivo per il peccato, in cui il Gran Sacerdote, il Cristo, una volta per tutte, si presenta a Dio oltre il velo del tempio (cioè al di là delle apparenze del mondo) con l’offerta della sua stessa vita. Il Sacerdote e l’Agnello offerto, in lui, coincidono perfettamente per l’eternità. Il sacrificio è perfetto.
Riusciamo ad immaginare lo scandalo spirituale, la crisi terribile, che la fine drammatica di Gesù ha provocato negli amici di Gesù, i suoi adepti, i credenti? E riusciamo ad immaginare anche lo sforzo di fede e d’intelligenza che è costata loro la necessità di renderne conto, partendo dalla fede nella risurrezione? E tutto questo appoggiandosi alle Scritture che, in quel periodo, altro non erano che l’Antico Testamento. In un certo senso dovevano addirittura giustificare Dio, come dovevano giustificare la loro fede in Cristo, innanzitutto per se stessi e poi in vista della
predicazione.
Il senso della croce
Superati i tre ostacoli e richiamati i punti di vista dei quattro evangelisti, possiamo ora accostarci alla croce con un metodo che vuol essere sistematico e progressivo, dagli aspetti più evidenti a quelli più misteriosi, dai più semplici ai più complessi.
1. Gesù muore, condannato in tutta fretta come malfattore e bestemmiatore ad una morte vergognosa riservata agli schiavi, alla gente che non conta nulla, lui l’inviato di Dio, lui il messia riconosciuto dai suoi discepoli. Così, in nome di Dio, egli raggiunge tanti uomini, donne e bambini, vittime di ingiustizie e schiacciati dalla violenza, senza possibilità di difendersi.
2. La sua morte è la conseguenza diretta del suo messaggio e dunque dell’obbedienza alla missione che il Padre gli affidava. Ciò che scandalizza i notabili giudei è il suo modo nuovo di concepire la legge, di presentare un Dio vicino ai poveri e ai peccatori, un messia senza potere politico, la destinazione universale della salvezza. Si scandalizzano pure dell’autorità della sua parola, specialmente quando perdona in nome di Dio. I Romani lo percepiscono come una minaccia per l’ordine pubblico e per l’autorità dell’imperatore. In lui si concretizza la figura del giusto perseguitato, come era accaduto a Elia e Geremia. La Passione e la croce confermano la sua fedeltà alla missione umana e divina.
3. Egli aveva profetizzato la sua morte nella lavanda dei piedi ai discepoli, lui che era il Signore. Realizza così la figura del servo, dell’uomo per gli altri (come si usa dire oggi), giunge fino all’estremo della solidarietà con ogni essere umano. La sua morte allora viene intesa non solo come causata dagli uomini, ma anche come vissuta per loro. “Crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, soffrì la Passione e fu sepolto”, recita il Simbolo Niceno-Costantinopolitano, mentre la prima formulazione della fede apostolica, trasmessa da san Paolo, si esprime così: “Il Cristo è morto per i nostri peccati secondo le Scritture” (1 Cor 15,3)
4. Da questa giustizia negata, da questo odio, da quest’infamia che è la croce, solo l’amore, che tutto può andando fino all’estremo, poteva far sgorgare dal cuore di Gesù la preghiera per i suoi crocifissori, una preghiera in cui si realizza il perdono di Dio. Ci troviamo qui nella prospettiva tipica di Luca che, forse oggi è la più accessibile, la più convincente per molti. Poiché è necessario ricordare, andando oltre le semplificazioni del passato, che ciò che salva, ciò che offre il perdono, non è il sangue di Gesù, né la sua sofferenza, né la sua morte, ma l’amore in nome del quale egli assume il suo destino tragico, con lo scopo di trasformarlo in misericordia.
5. Una domanda allora s’impone, difficile e angosciante: Perché tutto questo dramma, se si tratta di perdonare? Perché il perdono di Dio costa un prezzo così alto: il Padre consegna il suo amatissimo Figlio e questi si consegna nelle mani dei suoi crocifissori? E nasce la domanda: Che cosa rivela questo dramma del perdono di Dio in Gesù Cristo? Innanzitutto rivela fin dove giunge l’amore di Dio per poter raggiungerci. Poi e allo stesso tempo, fin dove giunge il peccato con tutto il suo corteo di conseguenze. Il perdono potrebbe consistere nel comportarsi come se il male non fosse mai esistito, così come si pulisce con un colpo di spugna una lavagna? Se il peccato, ricordiamolo, è percorrere deliberatamente la strada del proprio attaccamento egoista a se stessi, senza tener conto né di Dio né del prossimo, qual è il male che questo atteggiamento non abbia provocato? Quali diritti non ha calpestato? Quali torti di ogni genere non ha moltiplicato? Una tale responsabilità può semplicemente essere elusa, annullata?
Ecco la ragione per la quale Gesù, affrontando il peccato degli uomini, né affronta pure il suo corteo di conseguenze: infamia, angoscia, sofferenza intensa, che conducono alla morte. Qui il perdono non potrebbe dire: oh, non è nulla! Certamente è offerto senza riserve. Eppure è necessario che io lo accolga, la qual cosa suppone un cambiamento di tutto l’essere, il contrario dell’egocentrismo, una riparazione, per quanto possibile, verso i terzi, un abbandono delle abitudini, una condanna di tutto il negativo. E questo in modo da poter orientare la vergogna e la sofferenza verso il contrario del peccato e cioè verso una vita offerta. In breve, l’accoglienza del perdono suppone da parte mia una conversione e un impegno verso Dio, come pure un’attenzione rinnovata verso il prossimo.
Non è esattamente questo che s’è compiuto con la Passione di Gesù? Prendendo su di sé tutte le conseguenze del peccato, le trasforma: sì, con una sofferenza terribile e con l’infamia di morire su di un patibolo pubblicamente, le trasforma in una marcia vittoriosa verso la vita nuova, la risurrezione.
Parleremo allora a questo proposito di punizione? È possibile. Il Nuovo Testamento lo fa appena, ma Isaia afferma del servo del Signore: “Il Signore ha fatto ricadere su di lui gli errori di noi tutti” (53,6). Qui abbiamo a che fare ancora una volta con una sintesi sbrigativa, se si tratta di Gesù. Non è Dio a punire, sono io che, facendo il male e rifiutandomi di fare il bene che ci si aspetta da me, faccio del male a me stesso e m’incammino vero la perdizione. In tal senso il peccato è autopunizione. E Gesù si prende carico anche di tutto questo. Qui sopra è apparso un altro tema: la sofferenza legata al peccato così come Gesù l’affronta. Il perdono non la sopprime. Da una parte la sofferenza è presente in ogni vita umana: che farne? D’altra parte essa si aggrava, in ogni essere umano toccato dalla visione del Crocifisso, con una viva sofferenza spirituale. Non soltanto il cuore è messo davanti a questo spettacolo e al prezzo del perdono, ma inoltre si pone questa domanda: come essere all’altezza di un tale avvenimento? Come vivere degnamente il perdono? Che ruolo gioca la sofferenza, ogni sofferenza, in ciò che abbiamo chiamato poco sopra un “cambiamento”? Il perdono esige un cambiamento anche per quanto riguarda la sofferenza. Che si tratti di pena, vergogna, disgusto, senso di fallimento conseguente al peccato, essa è chiamata a divenire partecipazione alle sofferenze del Cristo e di conformarci alla sua morte, come lo dice con audacia san Paolo. Senza mai essere un bene in se stessa, il “bene” della sofferenza fisica, morale o spirituale, consisterà, per quanto possibile, nell’essere vissuta come un modo particolarmente stretto di comunione con il risto, una maniera preziosa di offrirsi a lui nell’amore. Così la riconciliazione con Dio non ha nulla di facile, di anodino, di automatico. È attraverso i sacramenti vissuti nella fede e una vita di santificazione che si accoglie il perdono. È offerto a noi con una generosità totale e attende da noi una generosità in contraccambio. Il perdono, in definitiva, è Dio che viene a me; la mia accoglienza del perdono implica che io vada verso Dio. Questa è l’alleanza sigillata in Gesù Cristo.
6. E giungiamo al tema del sacrificio. Una parola che molti oggi detestano per il fatto che nelle nostre lingue e nella nostra mentalità ha completamente cambiato il suo significato. Nel linguaggio corrente è diventata sinonimo di disgrazia, d’incidente, con un certo sapore di punizione. Oppure di un’azione per la quale si è costretti, vissuta senza amore, con l’idea che più è pesante, più è preziosa. O ancora come qualcosa che si mette ai margini, senza valore. E inoltre questa parola evoca per la mentalità attuale un’idea insopportabile di violenza, a causa del sangue versato che comporta la morte dell’animale, che sembra essere il nocciolo del sacrificio dell’Antico Testamento. Occorre rinunciare al termine e sostituirlo con un altro che conserva la sua bellezza: offerta? Oppure cambiare mentalità, risalire all’origine ricostruendo il significato vero del sacrificio? Ciascuno, per quanto riguarda se stesso, è libero di fare quello che vuole. Ma il Nuovo Testamento sta lì di fronte a noi, citato spessissimo nelle liturgie eucaristiche; ed esso parla tranquillamente di sacrificio sullo sfondo del Vecchio Testamento.
Ora, per quest’ultimo, il sacrificio, in stretto rapporto con l’alleanza, ha il significato fondamentale di unirmi a Dio, di raggiungere la sua grazia. Il sangue è molto prezioso perché rappresenta la vita che proviene da Dio e che gli si offre in un rito di riconoscenza. Nell’esperienza umana il sacrificio è una legge di vita secondo la quale si deve rinunciare a qualche cosa per “guadagnare” qualcos’altro o, detto altrimenti, per poter crescere su di un altro piano. E dinanzi a Dio, sacrificare vuol dire prelevare una parte di quello che s’è ricevuto per presentargliela in azione di grazie. Ma, in fin dei conti, si offre se stessi e, per mezzo del sacrificio, ci si riceve in contraccambio. Non è forse questo che si realizza nell’eucaristia?
Nell’Antico Testamento, il racconto che evidenzia nel miglior modo il senso del sacrificio, in quanto rito di alleanza, è quello in cui si vede raccolto in una bacinella il sangue (la vita!) dei tori immolati. Mosè sigilla l’alleanza tra Dio e il popolo aspergendo con quel sangue successivamente l’altare, simbolo della presenza di Dio, e il popolo. Una parola sacramentale accompagna il rito e ne spiega il senso: “Questo è il sangue dell’alleanza” (Es 24,8). Ora, le stesse parole sono riprese da Gesù per l’istituzione della Cena. Gesù dunque considera la sua persona e il dono della sua vita, alla vigilia della Passione, come l’alleanza stabilita definitivamente tra il Padre al quale si offre e gli uomini per i quali si offre. Inoltre, in quella profezia di Pasqua che è la Cena del Giovedì santo, si profila l’intero evento pasquale della liberazione dall’Egitto, del pasto rituale ebraico e della traversata del Mar Rosso. Gesù ne è il compimento nuovo ed eterno. Egli è, come abbiamo visto, la “nostra Pasqua”, la nostra liberazione, il nostro passaggio alla luce. Di tutti i sacrifici dell’antica legge, i primi cristiani non hanno conservato nulla, come simbolo della Passione, se non il “sacrificio di espiazione”. Qui ancora, senza alcuna idea di punizione, si tratta dell’alleanza stabilita di nuovo per mezzo dell’offerta del sangue, della vita in cui si esprime la riconciliazione con Dio. Ma non vi torniamo sopra: ne abbiamo già parlato a proposito della Lettera agli Ebrei.
7. In un antichissimo inno della Chiesa, san Paolo ha trovato l’espressione più forte per esprimere l’umiltà dell’incarnazione e della croce: “Egli si è annientato (non quanto alla sua persona, ma quanto alla sua condizione di Figlio di Dio) assumendo la condizione di servo… E si è umiliato ancora di più, obbedendo fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,7-8).
Così la croce è il momento culminante di quel movimento di amore in cui l’abbassamento e l’esaltazione del Cristo sono una cosa solo. Poiché la risurrezione non può considerarsi come la rivincita, in un certo senso, della vita sulla morte, della gloria sull’abbassamento. Non la rivincita, non il contrario, ma la rivelazione di quello che è stata veramente la Passione. Questa è l’audacia di Dio, la sua potenza, realissima, la sua sovranità: la morte di Gesù in croce si rivela come la vittoria della vita, la riuscita del disegno eterno di Dio, il modo estremo che l’amore trova per offrirsi. Così la potenza di Dio, attraverso la Passione, si rivela come la capacità che egli ha di ricavare il meglio dal peggio, la più grande vittoria dalla più grande sconfitta, la
risurrezione dalla morte. Sì: sulla croce. Spetta a noi allora cercare il modo di far rivivere
tutto ciò nella nostra esistenza, se abbiamo intenzione di “conoscere il Cristo nella potenza della sua risurrezione e la comunione alle sue sofferenze” (Fil 3,10).
Traduzione: Paolo Bagattini
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