dipinto di Adam Elsheimer
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Autore: Riva, Sr. Maria Gloria Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
Questo dipinto di Adam Elsheimer è piccolissimo.
Misura poco più del palmo di una mano d’uomo (17 x 21) è un dipinto a olio realizzato su rame.
Elsheimer maturò la sua formazione dapprima in patria, in Germania e poi in Italia, a Venezia. Con Elsheimer la natura e il paesaggio, normalmente promessi al decorativo, iniziarono ad essere protagonisti e ad assumere un ruolo predominante nell’opera.
Questo quadretto raffigura due episodi narrati negli Atti degli Apostoli. L’opera benché di carattere miniaturistico lascia emergere a tutto tondo la vita di Paolo, Apostolo delle genti.
Egli, in un brano memorabile rivolto ai Corinti (2 Cor 11, 24-28), confessa il suo assillo per le chiese vissuto dentro a peripezie di ogni genere: Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese.
Tutto questo è rappresentato da Adam nell’incerta luce di un notturno in cui le forze della natura sembrano essersi scatenate contro la Chiesa di Dio e i suoi apostoli. È noto che l’Apostolo nel 60 d. C salpò con altre 275 persone per recarsi a Roma, ma l’imbarcazione fu sorpresa da una tempesta che obbligò Paolo e i suoi compagni a riparare su un isola, l’isola di Malta dove vi rimase per 3 mesi (Atti cap 27-28).
Il naufragio avvenne di giorno, ma l’artista tedesco lo rilegge, appunto, dentro un suggestivo notturno che non è pura (ed oltre a tutto erronea) annotazione cronologica, bensì evocazione del dramma che visse Paolo come Apostolo ed evangelizzatore delle genti.
Cielo e paesaggio occupano la parte maggiore del dipinto. Nell’oscurità della notte, bagliori di luce lasciano intravedere il dramma. Flutti minacciosi si abbattono sulla costa e un pino sulla destra, scosso dal vento rivela un tronco a forma di croce.
Si annuncia così la natura pasquale dell’evento: nulla è casuale per chi crede, ma ogni evento è permesso o predisposto dalla provvidenza divina per la nostra e altrui salvezza.
Sull’estrema destra della tavoletta si vedono i superstiti appendere abiti inzuppati d’acqua a un filo e quindi, asciugarsi al fuoco.
Dentro a questo gesto apparentemente naturale si legge la necessità per l’apostolo di spogliarsi del proprio habitus, del proprio costume, per testimoniare Cristo là dove viene mandato aderendo pienamente alla realtà del luogo senza precomprensioni o schemi devianti.
Fu questa una delle esperienze di Paolo, specialmente in Grecia, laddove pensò di citare i poeti locali per entrare in dialogo con le persone, accorgendosi poi che quegli stessi versi da Lui evocati venivano compresi dagli uditori in modo diverso e lontano dalla verità per la quale Paolo citava e interpretava quegli autori.
Da quel momento Paolo si radicò in una sola cosa: Cristo e questi crocifisso. Paolo comprese cioè che la sofferenza, accanto all’amore, è quel linguaggio universale che tutti possono intendere al di là e al di sopra di ogni lingua, religione e cultura.
La croce e la nudità sono perciò gli elementi predominanti nella parte destra dell’opera di Elsheimer Una catena di macchie di colore rosso, il colore appunto dell’amore, collegano la donna che stende i panni ad asciugare, al fuoco di sinistra dove troviamo finalmente l’apostolo Paolo.
Con l’unico ausilio del bagliore del falò scorgiamo Paolo mentre si scrolla dal dito un serpente che sta cadendo nel fuoco.
L’episodio è narrato dagli Atti: Una volta in salvo, venimmo a sapere che l’isola si chiamava Malta. Gli indigeni ci trattarono con rara umanità; ci accolsero tutti attorno a un gran fuoco, che avevano acceso perché era sopraggiunta la pioggia ed era freddo. Mentre Paolo raccoglieva un fascio di sarmenti e lo gettava sul fuoco, una vipera, risvegliata dal calore, lo morse a una mano. Al vedere la serpe pendergli dalla mano, gli indigeni dicevano tra loro: “Certamente costui è un assassino, se, anche scampato dal mare, la Giustizia non lo lascia vivere”. Ma egli scosse la serpe nel fuoco e non ne patì alcun male. Quella gente si aspettava di vederlo gonfiare e cadere morto sul colpo, ma, dopo avere molto atteso senza vedere succedergli nulla di straordinario, cambiò parere e diceva che era un dio (Atti 28,1-6).
Siamo ricondotti anche qui all’ambiguità del segno. La vipera fu in un primo tempo, per quegli isolani, il segno di un destino schiacciante che condannava Paolo alla morte a causa di una colpevolezza certa. Colui che era scampato al naufragio non poté scampare alla morte a causa del morso di un rettile velenoso.
Ma Paolo non morì ed ecco che la vipera divenne ulteriore prova dell’innocenza dell’apostolo.
La fede, ci insegna Elsheimer, vince ogni tribolazione: i flutti del mare, ancora ingombri dei resti della nave allo sfascio, s’infrangono come d’incanto davanti a questa piccola folla di uomini rischiarata da un fuoco che non è più semplicemente il fuoco del bivacco, ma è la fiamma della fede che contagia.
Gli abitanti di fronte al “segno della vipera” credettero che Paolo fosse un dio. Non pervennero alla conoscenza del vero senso del segno, cioè la vittoria di Cristo sulle forze del male e della morte, se non in virtù della testimonianza di Paolo. Il segno è, per sua natura, debole perchè il segno chiede la nostra libertà. Don Giussani diceva che la nostra libertà si gioca nell’interpretazione del segno.
Il segno della vipera ha rimandato ad altro, per i maltesi ha rimandato a Paolo, e Paolo è stato pienamente apostolo, cioè inviato, per non aver trattenuto costoso a sé ma per averli rimandati a quell’Unico, a quell’Altro che solo è Signore della vita e della morte.
Rimanendo presso quegli uomini tre mesi egli dimostrò che la testimonianza è il compito della vita e che la missione è annuncio di un Altro. Senza questo, anche il miracolo sarebbe rimasto lettera morta.
Chi lo crederà – scriverà Paolo nelle sue lettere – senza che nessuno ascolti? E chi potrà ascoltare senza che alcuno lo annunci? E chi lo annuncerà senza la grazia della predicazione?
A noi- diceva don Giussani – è stata data la grazia di credere. Il nostro compito è testimoniare quello che ci è stato dato, perchè questa é la carità più grande che possiamo avere con tutti i nostri amici e con coloro che incontriamo sulla strada del vivere (cfr Carron Esercizi Spirituali alla Fraternità 2008 pag 40).
Anche per Paolo questa fu la carità più grande: la missione, l’urgenza di rendere evidente la Presenza di Cristo che libera e salva in tutte le circostanze affinché l’uomo creda.
Bagliori di luce, simili a quelli del falò sulla spiaggia, si ritrovano all’Orizzonte proprio laddove le nubi lasciano trapelare raggi di luce, essi vanno a illuminare la croce. Proprio sotto, flutti minacciosi lambiscono la riva dove uomini stanno mettendo in salvo i pochi resti della nave. È la croce ad essere segno di questa carità più grande, quella che ha spinto Gesù a dare la vita. Ma senza qualcuno che lo testimoni, senza il piccolo giudeo calvo persecutore ed ora Apostolo del Cristo crocifisso, anche la croce resterebbe un segno incomprensibile.
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