Il volto autentico della Chiesa nella comunità cristiana di Gerusalemme
dal sito:
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Il volto autentico della Chiesa nella comunità cristiana di Gerusalemme
Alcune note del cardinale ex presidente del Pontificio Consiglio per l’interpretazione dei testi legislativi su uno studio storico-giuridico di Dante Gemmiti, docente all’Università di Roma Tor Vergata
del cardinale Vincenzo Fagiolo
La Chiesa, che è, in Cristo, «come un sacramento o segno e strumento dell’unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (LG 1), inizialmente la ritroviamo nella prima comunità di Gerusalemme. Storicamente ci si presenta come comunità che vive nella comunione della stessa fede, speranza e carità il mistero di Cristo, celebrandolo nell’Eucaristia, annunziandolo con la Parola di Dio, testimoniandolo comunitariamente come un cuore solo e un’anima sola (cfr. At 4, 32-37). Tutto appare come frutto dell’effusione dello Spirito Santo inviato dal Risorto (cfr. At 2, 42-47).
Il Vaticano II ci ha ricordato che l’unica Chiesa di Cristo è quella che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica e che il Salvatore nostro, dopo la sua resurrezione, diede da pascere a Pietro, affidandone a lui e agli altri apostoli la diffusione e la guida (cfr. LG 8). Come Cristo la volle e la costituì, la Chiesa, nel luogo stesso dove Cristo visse, morì e risorse fu data agli apostoli; ebbe la sua prima storica configurazione nella comunità di Gerusalemme, che divenne modello e fonte d’ispirazione; in essa, le altre comunità si sentirono chiamate a rispecchiarsi. San Paolo resta l’esempio più emblematico di questo riferimento. Nel timore di aver corso invano si recò a Gerusalemme da quelli che erano ritenuti le colonne e si confrontò con loro (cfr. Gal 2, 1-2).
Ma la comunità di Gerusalemme non fu soltanto il modello di ogni altra Chiesa che nelle varie parti del mondo fu fondata dagli apostoli e dai loro successori. Fu altresì modello per ogni comunità più specifica rispetto a quella particolare o – come più comunemente poi si dirà – diocesana. Fu fonte privilegiata di ispirazione anche di tutte quelle comunità di monaci o di religiosi, cioè di uomini e donne convinti di lasciare il mondo (fuga mundi) per andare a cercare Dio nella solitudine, nell’ascesi e rivivere radicalmente la stessa esperienza dei primi cristiani di Gerusalemme. Nascerà così l’anacoresi e l’avvio di quel cammino storico delle comunità di vita consacrata, che ci ha ricordato anche il Vaticano II, introducendo il discorso sul «rinnovamento della vita religiosa» (decreto Perfectae caritatis): «Fin dai primi tempi della Chiesa vi furono uomini e donne che per mezzo della pratica dei consigli evangelici intesero seguire Cristo…» (PC 1).
Mediante una ricerca sistematica delle antiche fonti riguardanti la primitiva comunità cristiana, vista come presenza e come norma di comportamento, il professor Dante Gemmiti, docente all’Università romana di Tor Vergata, ci fa conoscere in qual senso e in quale misura la comunità di Gerusalemme è stata un modello presente nella riflessione dei più antichi scrittori ecclesiastici. La ricerca consente anche di valutare più adeguatamente tutte quelle devianze ecclesiologiche o di comportamento avvenute nei secoli del Medioevo e dell’Età moderna. Lo studio è circoscritto nei limiti dei secoli III, IV e V ed esamina le «testimonianze orientali, soprattutto Origene, Eusebio, Basilio, Crisostomo; e quelle occidentali, con riferimenti a Tertulliano, Cipriano, Ilario di Poitiers, Girolamo, Ambrogio, Agostino». Segue un’appendice sul monachesimo orientale e occidentale, studiato nella problematica di un suo rispettivo modellarsi sulla comunità di Gerusalemme (Dante Gemmiti, La Chiesa nascente ideale di vita cristiana, Napoli-Roma, LER, 1999, pp. 370).
La comunità cristiana, ogni comunità cristiana nasce, vive, opera e si sviluppa sul modello di quella di Gerusalemme. Gli elementi essenziali, che diedero vita a quella divennero esigenze d’esistenza e di comportamento a quante altre sorsero nei secoli successivi. Ne è prova inconfutabile la norma canonica che definendo l’essenzialità della Chiesa ci ripresenta l’immagine di quella. Infatti «la diocesi è la porzione del popolo di Dio che viene affidata alla cura pastorale di un vescovo con la cooperazione del presbiterio, in modo che, aderendo al suo pastore e da lui riunita nello Spirito Santo mediante il Vangelo e l’Eucaristia, costituisca una Chiesa particolare in cui è veramente presente e operante la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica» (can. 369). Questa configurazione teologica e normativa della comunità ecclesiale è tanto essenziale e autentica che lo stesso Codice, seguendo il Vaticano II (cfr. LG 23), dichiara che «le Chiese particolari, [sono quelle comunità] nelle quali e dalle quali sussiste la sola e unica Chiesa cattolica» (can. 368).
L’immagine della Chiesa universale è un’immagine ideale e storica nello stesso tempo, astratta e concreta. La determinazione o definizione dottrinale è derivata dal modello della prima comunità, nel suo comportamento di assemblea di credenti in Cristo che riuscivano a essere uniti come un solo cuore e una sola anima perché si nutrivano alla stessa tavola (come si esprimeva sant’Agostino spiegando il salmo 132 ai “servi di Dio” che erano a Ippona) con la Parola e l’Eucaristia. E se dalla comunità diocesana scendiamo a quella parrocchiale, che ne è una porzione, la configurazione, con gli elementi che sostanzialmente la costituiscono, è riferibile ugualmente al modello della comunità di Gerusalemme (cfr. cann. 515 §1, 528). Ci spieghiamo così non solo l’origine storica, ma anche l’essenzialità dell’essere e dell’operare di ogni autentica comunità cristiana. Era questo l’impegno già degli antichi Padri, sia orientali sia occidentali. La vita comunitaria istituita dagli stessi apostoli e condotta dai primi cristiani a Gerusalemme aveva la sua fonte biblica nei sommari, il primo grande sommario che abbiamo in Atti 2, 42-47, e il secondo parimenti in Atti 4, 32-37.
Il professor Gemmiti approfondisce le fonti patristiche per mostrarci lo scopo che le ha determinate. I Padri dei secoli III, IV e V guardavano al modello gerosolimitano per individuare in primo luogo il preciso significato di quella meravigliosa esperienza ecclesiale interpretandola nei suoi vari ambiti – teologico, normativo e sociale – ed insieme per vedere come e in quale misura quel modello poteva e doveva essere seguito nello specifico momento storico della Chiesa.
L’analisi dell’autore parte dalla metà del III secolo. Ciò, però, non vuol dire che i precedenti autori cristiani abbiano omesso qualsiasi riferimento alla vita ecclesiale delle origini secondo la descrizione contenuta negli Atti degli apostoli e, in particolare, secondo la fase iniziale della storia della comunità cristiana nata a Gerusalemme (cfr. At 1-5). Bensì nel senso che se si vuole trovare un esplicito e cosciente appello alla primitiva comunità, ci si deve rivolgere al periodo che inizia intorno alla metà del III secolo. Quando, cioè, si ha quell’afflusso di notizie sulla crisi della comunità cristiana al proprio interno, a motivo di conversioni numerose ma inconsistenti, del clero, per quello che solo rappresentava ma non era, e per il diffondersi di vizi e abitudini pagane tra i cristiani (ne abbiamo una denuncia nel Sinodo di Elvira del 305). Fu in quel contesto, cristianamente poco edificante, che il ricorso al testo degli Atti (2, 42-47; 4, 32-37) cominciò ad essere valorizzato in maniera rilevante per ammonire le comunità cristiane sul loro comportamento difforme da quello della comunità di Gerusalemme. Da Origene per l’Oriente e da Cipriano per l’Occidente il nostro autore raccoglie la prima documentazione che è testimonianza della verità delle sue conclusioni. Così farà per i successivi periodi, fino al secolo V. Qualche riferimento ci farà ben comprendere la realtà storica che l’autore fa emergere dai testi dei principali scrittori ecclesiastici dei secoli III, IV e V. Dalle opere di Origene, ad esempio, emerge un’immagine assai negativa del comportamento cristiano delle comunità in cui Origene vive e opera: Alessandria e Cesarea in Palestina. La condotta del popolo è giudicata negativamente per l’assenza dal culto o per la distrazione dei presenti e per l’interesse verso le cose mondane: «Vanno in chiesa solo qualche giorno per ascoltare la Parola di Dio, ma se ne allontanano subito, né concedono maggior tempo alla meditazione della stessa Parola divina» (In Num. hom. 13, 7: Die griechischen christlichen Schriftsteller 7, Leipzig, pp. 116-117, d’ora in poi abbreviato in GCS). Contro le donne: «Specialmente le donne come si può pensare che concepiscano nel cuore se cianciano e cicalano, tanto da non lasciare alcuno spazio al silenzio» (In Ex. hom. 13, 3: GCS 56, p. 272). Ancora: «…Se tra di voi vi sono alcuni che [...] non s’impegnano a migliorare la propria condotta, a correggere le proprie azioni, ad abbandonare i vizi, a praticare la castità, a mitigare le collere, a reprimere l’avarizia, a frenare l’avidità, a eliminare dalla propria bocca le maldicenze, le sciocchezze o le scurrilità e il veleno delle denigrazioni…» (In Ios. hom.10, 3: GCS 7, p. 360). E prosegue denunciando coloro che non osservano le promesse battesimali. E non risparmia il clero che denuncia per ipocrisia, per superbia e sete di potere, per avidità di ricchezza, per la tendenza a posporre gli interessi della comunità a quelli familiari. Di ciò si rammarica, anche perché vede le sorti del clero legate a quelle del popolo. Da tutte queste amare constatazioni l’appello di Origene al modello insuperabile della Chiesa primitiva. La dice insuperabile in senso assoluto, non storicamente, ma solo perché essa sta a dire il carattere trascendente che ha la vera Chiesa, quella celeste. Quella storica, di Gerusalemme, costituisce un evento piuttosto temporale, che si realizza nell’oggi di ogni comunità cristiana, di ogni vero credente che accoglie l’azione dello Spirito. Pietre sono tutti gli imitatori di Cristo e in ciascuno di essi viene edificata la Chiesa. In ogni Chiesa scopriamo quella primitiva dalle sue relazioni con Dio nella preghiera dei suoi componenti, formanti una vera comunità fraterna. Stupendo il testo che Origene fa seguire, incentrato sulla koinonìa, e che il nostro autore riporta per intero, a dimostrazione di come Origene valutava la primitiva comunità cristiana (cfr. D.Gemmiti, op. cit., pp. 50-117).
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Più che un’appendice, l’attenzione sull’importante fenomeno del monachesimo costituisce una seconda parte dell’unica trattazione sugli elementi costitutivi di una comunità cristiana. Anche con le sue specifiche connotazioni teologiche, normative ed ascetiche, il monachesimo – ed in genere ogni forma di vita consacrata – trova le sue origini e l’essenzialità del suo essere Chiesa in quella comunità cristiana che storicamente fu la prima a seguire Cristo, staccandosi dal modo di vivere del mondo per quello che il mondo aveva di contrario al Vangelo e per la novità della creatura umana inserita con il battesimo nel mistero di Cristo. Dirà, infatti, il Vaticano II (seguito dal Codice di diritto canonico) che lo stato di vita di coloro che professano i consigli evangelici, fondati sulle parole e sugli esempi del Signore e raccomandati dagli apostoli, «pur non concernendo la struttura gerarchica della Chiesa appartiene tuttavia alla sua vita e alla sua santità» (LG 44; cfr. can. 574 §1), cioè alla costituzione divina della Chiesa.
Affrontando quest’argomento, lo studio in oggetto parte dall’elemento che più immediatamente o, si potrebbe dire, quasi visibilmente, mostra la prima essenziale caratteristica di ogni autentica comunità cristiana, anche se la stessa nel monachesimo – ed in genere in ogni forma di vita consacrata – è vissuta più radicalmente ed unisce in modo speciale a Cristo, alla sua Chiesa e al suo mistero (cfr. LG 44; cann. 573, 607 §1). Mi riferisco alle espressioni: «Lasciare le sostanze», «farne dono», ecc., che il nostro autore cita e di cui ci fa cogliere l’essenzialità riportando un’esegesi di Origene a un testo lucano. «Dopo un tale concepimento e una tale nascita [=vocazione divina], [...] conveniva che [Giovanni] si ritirasse, fuggendo il tumulto delle città e le contese delle masse popolari e che se ne andasse nel deserto […] affinché egli si dedicasse alla preghiera per una crescita sorprendente» (In Luc.hom. 11: GCS 9, p. 80). Quindi non sorprende l’affermazione di alcuni scrittori ecclesiastici che identificano il monachesimo con la Chiesa delle origini (Cassiano, ad esempio), anche quando dello stesso monachesimo vengono evidenziate forme specifiche, quali la egiziana, la basiliana, la occidentale. Comunque, ci si trova sempre di fronte a delle certezze che mentre assicurano il dato legislativo, che regola la vita monastica in genere, garantiscono la santità della stessa vita. Sono infatti certezze della continuità del movimento monastico con la tradizione evangelico-apostolica, della autenticità della koinonìa che proviene da Cristo in quanto dice «comunione con lui», e, perciò, con tutti i fratelli. E ciò è di rilevante valore teologico-giuridico e ascetico, perché tutto viene rapportato «alla disciplina dei Vangeli, racchiusa nella pietra angolare, il Signore Gesù Cristo». E sotto questo profilo anche il monachesimo occidentale non differisce sostanzialmente dalle forme sorte in Oriente e non si può dire che sia nato da questo. Dal fertile terreno delle Chiese locali d’Occidente, infatti, fiorì quel monachesimo che si caratterizza essenzialmente nel vivere esistenzialmente il Vangelo in modo radicale.
Quindi, sant’Agostino indicherà il primo aspetto del monachesimo nella semplicità del cuore in cerca dell’unico Dio e Signore, e nel vivere, in modo tutto particolare, la povertà evangelica, capace, tra l’altro, di aprire alla concretezza della carità fraterna. Da qui il pensiero agostiniano si sviluppa ulteriormente allargando la dimensione dell’ascesi del tutto personale a una spiritualità che investe la forma comunitaria modellata su quella dei primi cristiani nella Chiesa gerosolimitana, con particolare accentuazione di quei valori essenziali che sono carità, fraternità, umanità.
Ne sono testimonianza i frequentissimi riferimenti ai sommari degli Atti, dai quali è partita tutta la ricerca scientifica del nostro autore. Il quale scorge un’originalità nell’esegesi che sant’Agostino fa della frase «anima una et cor unum». A essa sant’Agostino aggiunge «in Deum» per sottolineare la soprannaturalità e lo scopo dell’unione fraterna. Il legame che Agostino fa emergere tra la comunità monastica e quella gerosolimitana gli consentì di evidenziare la vita apostolica della comunità monastica: «Nessuno rivendichi qualcosa come propria, sia nelle vesti come in qualunque altra cosa, poiché noi desideriamo vivere secondo la norma degli apostoli». Il progetto monastico sarà nei desideri di sant’Agostino per tutta la vita; in esso egli lascia intravvedere un’anticipazione della “città celeste”, come in seguito verrà sempre risottolineato dal magistero, e lo ritroviamo nella legislazione della stessa Chiesa sulla vita consacrata definita «segno della vita futura» (can. 607 §1), poiché i religiosi e le religiose, «divenuti nella Chiesa segno luminoso, preannunciano la gloria celeste» (can. 573 §1).
È facile pertanto ravvisare nello studio, di alto profilo scientifico e di seria ricerca storica ed esegetica delle fonti, quella dimensione non solo storica ma anche teologica e canonistica che lo rende prezioso agli esperti in materia, alle comunità ecclesiali sia diocesane e parrocchiali sia di vita consacrata.

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