Archive pour mai, 2009

Papa Giovanni Paolo II, udienza 3 ottobre 1990 (tema: Paolo – lo Spirito Santo)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/1990/documents/hf_jp-ii_aud_19901003_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 3 ottobre 1990 

1. È ben noto l’augurio con cui san Paolo conclude la seconda Lettera ai Corinzi: “La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio (Padre) e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi!” (2 Cor 13, 13). È l’augurio che la liturgia pone sulle labbra del sacerdote celebrante all’inizio della Messa. Con questo testo di evidente significato trinitario, ci introduciamo nell’esame di ciò che le Lettere dell’apostolo Paolo ci dicono sullo Spirito Santo come Persona nell’unità trinitaria del Padre e del Figlio. Il testo della Lettera ai Corinzi sembra provenire dal linguaggio delle prime comunità cristiane e forse dalla liturgia delle loro assemblee. Con quelle parole l’apostolo esprime l’unità trinitaria partendo da Cristo, il quale come artefice della grazia salvifica rivela all’umanità l’amore di Dio Padre e lo partecipa ai credenti nella comunione dello Spirito Santo. Così risulta che secondo san Paolo lo Spirito Santo è la Persona che opera la comunione dell’uomo – e della Chiesa – con Dio.

La formula paolina parla chiaramente di Dio Uno e Trino, anche se in termini diversi da quelli della formula battesimale riferita da Matteo: “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (Mt 28, 19). Essa ci fa conoscere lo Spirito Santo quale era presentato nella dottrina degli apostoli e recepito nella vita delle comunità cristiane.

2. Un altro testo di san Paolo prende come base dell’insegnamento sullo Spirito Santo la ricchezza dei carismi elargiti con varietà e unità di ordinamento nelle comunità: “Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti” (1 Cor 12, 4-6). L’apostolo attribuisce allo Spirito Santo i doni della grazia (carismi); al Figlio – come al Signore della Chiesa – i ministeri (“ministeria”); al Padre-Dio, che è l’artefice di tutto in tutti, le “operazioni”.

È molto significativo il parallelismo espresso in questo brano tra lo Spirito, il Signore Gesù e Dio Padre. Esso indica che anche lo Spirito viene riconosciuto come Persona divina. Non sarebbe coerente mettere in parallelismo così stretto due Persone, quelle del Padre e del Figlio, con una forza impersonale. È ugualmente significativo che allo Spirito Santo venga attribuita in modo particolare la gratuità dei carismi e di ogni elargizione divina all’uomo e alla Chiesa.

3. Ciò viene ulteriormente ribadito nell’immediato contesto della prima Lettera ai Corinzi: “Tutte queste cose è l’unico e medesimo Spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole”. Lo Spirito Santo si manifesta dunque come un libero e “spontaneo” Datore del bene nell’ordine dei carismi e della grazia; come una Persona divina che sceglie e benefica i destinatari dei diversi doni: “A uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio della scienza; a uno la fede, per mezzo dello stesso Spirito”. E ancora: “Il dono di far guarigioni . . . il dono della profezia . . . il dono di distinguere gli spiriti . . . il dono di varietà delle lingue e il dono d’interpretazione delle lingue”. Ed ecco: “A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità” (1 Cor 12, 7-11). Proviene, dunque, dallo Spirito Santo la molteplicità dei doni, come anche la loro unità, la loro coesistenza. Tutto ciò indica lo Spirito Santo come una Persona sussistente e operante nell’unità divina: nella comunione del Figlio col Padre.

4. Anche altri passi delle Lettere paoline esprimono la stessa verità dello Spirito Santo come Persona nell’unità trinitaria, partendo dall’economia della salvezza. “Noi però dobbiamo rendere sempre grazie a Dio per voi . . . perché Dio vi ha scelti come primizia della salvezza, attraverso l’opera santificatrice dello Spirito e la fede nella verità . . . per il possesso della gloria del Signore nostro Gesù Cristo”: così scrive l’apostolo nella seconda Lettera ai Tessalonicesi (2 Ts 2, 13-14), per indicar loro il fine del Vangelo da lui annunziato. E ai Corinzi: “Siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio” (1 Cor 6, 11).

Secondo l’apostolo, il Padre è il principio primo della santificazione, la quale viene conferita dallo Spirito Santo a chi crede “nel nome” di Cristo. La santificazione nell’intimità dell’uomo proviene dunque dallo Spirito Santo, persona che vive e opera in unità col Padre e col Figlio.

In un altro passo l’apostolo esprime lo stesso concetto in modo suggestivo: “È Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo, e ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori” (2 Cor 1, 21-22). Le parole “nei nostri cuori” indicano l’intimità dell’azione santificatrice dello Spirito Santo.

La stessa verità, in forma ancor più sviluppata, si trova nella Lettera agli Efesini: “Dio, Padre del Signore Nostro Gesù Cristo . . . ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo”. E poco dopo l’autore dice ai credenti: “Avete ricevuto il suggello dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità” (Ef 1, 3. 13-14).

5. Altra magnifica espressione del pensiero e degli intenti di san Paolo è quella della Lettera ai Romani, dove egli scrive che lo scopo del suo ministero evangelico è che “i pagani divengano un’oblazione gradita, santificata dallo Spirito Santo”. Per questo servizio chiede ai destinatari della lettera la preghiera a Dio, e lo fa per Cristo e per “l’amore dello Spirito”. L’“amore” è un particolare attributo dello Spirito Santo (Rm 15, 16. 30. 5), così come la “comunione” (cf. 2 Cor 13, 13). Da questo amore viene la santità, che rende gradita l’oblazione. E questa è dunque ancora un’opera dello Spirito Santo.

6. Secondo la Lettera ai Galati, lo Spirito Santo trasmette agli uomini il dono dell’adozione a figli di Dio, sollecitandoli alla preghiera propria del Figlio. “E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!” (Gal 4, 6). Lo Spirito “grida” e si manifesta così come una persona che si esprime con grande intensità. Egli fa risonare nei cuori dei cristiani la preghiera che Gesù stesso rivolgeva al Padre (cf. Mc 14, 36) con amore filiale. Lo Spirito Santo è Colui che rende figli adottivi e dà la capacità della preghiera filiale.

7. La dottrina di san Paolo su questo punto è così ricca, che occorrerà riprenderla nella prossima catechesi. Per ora possiamo conchiudere che anche nelle Lettere paoline lo Spirito Santo appare come una Persona divina vivente nell’unità trinitaria col Padre e col Figlio. L’apostolo attribuisce a lui in modo particolare l’opera della santificazione. Lui è il diretto autore della santità delle anime. Lui è la Fonte dell’amore e della preghiera, nella quale si esprime il dono della divina “adozione” dell’uomo. La sua presenza nelle anime è il pegno e l’inizio della vita eterna.

Papa Benedetto: Paolo – Lo Spirito nei nostri cuori (2006) (sullo Spirito Santo)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2006/documents/hf_ben-xvi_aud_20061115_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 15 novembre 2006 
 

Paolo – Lo Spirito nei nostri cuori

Cari fratelli e sorelle,

anche oggi, come già nelle due catechesi precedenti, torniamo a san Paolo e al suo pensiero. Siamo davanti ad un gigante non solo sul piano dell’apostolato concreto, ma anche su quello della dottrina teologica, straordinariamente profonda e stimolante. Dopo aver meditato la volta scorsa su quanto Paolo ha scritto circa il posto centrale che Gesù Cristo occupa nella nostra vita di fede, vediamo oggi ciò che egli dice sullo Spirito Santo e sulla sua presenza in noi, poiché anche qui l’Apostolo ha da insegnarci qualcosa di grande importanza.

Conosciamo quanto san Luca ci dice dello Spirito Santo negli Atti degli Apostoli, descrivendo l’evento della Pentecoste. Lo Spirito pentecostale reca con sé una spinta vigorosa ad assumere l’impegno della missione per testimoniare il Vangelo sulle strade del mondo. Di fatto, il Libro degli Atti narra tutta una serie di missioni compiute dagli Apostoli, prima in Samaria, poi sulla fascia costiera della Palestina, poi verso la Siria. Soprattutto vengono raccontati i tre grandi viaggi missionari compiuti da Paolo, come ho già ricordato in un precedente incontro del mercoledì. San Paolo però nelle sue Lettere ci parla dello Spirito anche sotto un’altra angolatura. Egli non si ferma ad illustrare soltanto la dimensione dinamica e operativa della terza Persona della Santissima Trinità, ma ne analizza anche la presenza nella vita del cristiano, la cui identità ne resta contrassegnata. Detto in altre parole, Paolo riflette sullo Spirito esponendone l’influsso non solo sull’agire del cristiano, ma anche sull’essere di lui. Infatti è lui a dire che lo Spirito di Dio abita in noi (cfr Rm 8,9; 1 Cor 3,16) e che “Dio ha inviato lo Spirito del suo Figlio nei nostri cuori” (Gal 4,6). Per Paolo dunque lo Spirito ci connota fin nelle nostre più intime profondità personali. A questo proposito, ecco alcune sue parole di rilevante significato: «La legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte… Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre!» (Rm 8, 2.15), perché figli, possiamo dire “Padre” a Dio. Si vede bene dunque che il cristiano, ancor prima di agire, possiede già un’interiorità ricca e feconda, a lui donata nei sacramenti del Battesimo e della Cresima, un’interiotità che lo stabilisce in un oggettivo e originale rapporto di filiazione nei confronti di Dio.  Ecco la nostra grande dignità: quella di non essere soltanto immagine, ma figli di Dio. E questo è un invito a vivere questa nostra figliolanza, ad essere sempre più consapevoli che siamo figli adottivi nella grande famiglia di Dio. E’ un invito a trasformare questo dono oggettivo in una realtà soggettiva, determinante per il nostro pensare, per il nostro agire, per il nostro essere. Dio ci considera suoi figli, avendoci elevati a una dignità simile, anche se non uguale, a quella di Gesù stesso, l’unico vero Figlio in senso pieno. In lui ci viene donata, o restituita, la condizione filiale e la libertà fiduciosa in rapporto al Padre.

Scopriamo così che per il cristiano lo Spirito non è più soltanto lo «Spirito di Dio», come si dice normalmente nell’Antico Testamento e si continua a ripetere nel linguaggio cristiano (cfr Gn 41,38; Es 31,3; 1 Cor 2,11.12; Fil 3,3; ecc.). E non è neppure soltanto uno «Spirito Santo» genericamente inteso, secondo il modo di esprimersi dell’Antico Testamento (cfr Is 63,10.11; Sal 51,13), e dello stesso Giudaismo nei suoi scritti (Qumràn, rabbinismo). Alla specificità della fede cristiana, infatti, appartiene la confessione di un’originale condivisione di questo Spirito da parte del Signore risorto, il quale è diventato Lui stesso «Spirito vivificante» (1 Cor 15, 45). Proprio per questo san Paolo parla direttamente dello «Spirito di Cristo» (Rm 8,9), dello «Spirito del Figlio» (Gal 4,6) o dello «Spirito di Gesù Cristo» (Fil 1,19). E’ come se  volesse dire che non solo Dio Padre è visibile nel Figlio (cfr Gv 14,9), ma che pure lo Spirito di Dio si esprime nella vita e nell’azione del Signore crocifisso e risorto!

Paolo ci insegna anche un’altra cosa importante: egli dice che non esiste vera preghiera senza la presenza dello Spirito in noi. Scrive infatti: «Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare – quanto è vero che non sappiamo come parlare con Dio! -; ma lo Spirito stesso intercede per noi con insistenza, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio» (Rm 8,26-27). È come dire che lo Spirito Santo, cioè lo Spirito del Padre e del Figlio, è ormai come l’anima della nostra anima, la parte più segreta del nostro essere, da dove sale incessantemente verso Dio un moto di preghiera, di cui non possiamo nemmeno precisare i termini. Lo Spirito, infatti, sempre desto in noi, supplisce alle nostre carenze e offre al Padre la nostra adorazione, insieme con le nostre aspirazioni più profonde. Naturalmente ciò richiede un livello di grande comunione vitale con lo Spirito. E’ un invito ad essere sempre più sensibili, più attenti a questa presenza dello Spirito in noi, a trasformarla in preghiera, a sentire questa presenza e ad imparare così a pregare, a parlare col Padre da figli nello Spirito Santo.

C’è anche un altro aspetto tipico dello Spirito insegnatoci da san Paolo: è la sua connessione con l’amore. Così infatti scrive l’Apostolo: «La speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). Nella mia Lettera enciclica “Deus caritas est” citavo una frase molto eloquente di sant’Agostino: «Se vedi la carità, vedi la Trinità» (n. 19), e continuavo spiegando: «Lo Spirito, infatti, è quella potenza interiore che armonizza il cuore [dei credenti] col cuore di Cristo e li muove ad amare i fratelli come li ha amati lui» (ibid.). Lo Spirito ci immette nel ritmo stesso della vita divina, che è vita di amore, facendoci personalmente partecipi dei rapporti intercorrenti tra il Padre e il Figlio. Non è senza significato che Paolo, quando enumera le varie componenti della fruttificazione dello Spirito, ponga al primo posto l’amore: «Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, ecc.» (Gal 5,22). E, poiché per definizione l’amore unisce, ciò significa anzitutto che lo Spirito è creatore di comunione all’interno della comunità cristiana, come diciamo all’inizio della Santa Messa con un’espressione paolina: «… la comunione dello Spirito Santo [cioè quella che è operata da lui] sia con tutti voi» (2 Cor 13,13). D’altra parte, però, è anche vero che lo Spirito ci stimola a intrecciare rapporti di carità con tutti gli uomini. Sicché, quando noi amiamo diamo spazio allo Spirito, gli permettiamo di esprimersi in pienezza. Si comprende così perché Paolo accosti nella stessa pagina della Lettera ai Romani le due esortazioni: «Siate ferventi nello Spirito» e: «Non rendete a nessuno male per male» (Rm 12,11.17).

Da ultimo, lo Spirito secondo san Paolo è una caparra generosa dataci da Dio stesso come anticipo e insieme come garanzia della nostra eredità futura (cfr 2 Cor 1,22; 5,5; Ef 1,13-14). Impariamo così da Paolo che l’azione dello Spirito orienta la nostra vita verso i grandi valori dell’amore, della gioia, della comunione e della speranza. Spetta a noi farne ogni giorno l’esperienza assecondando gli interiori suggerimenti dello Spirito, aiutati nel discernimento dalla guida illuminante dell’Apostolo.

LETTERA A FILEMONE (presentazione, introduzione)

ho trovato una buona…bella, presentazione della lettera a Filemone (il biglietto), posto la presentazione e l’introduzione, c’è anche la lettura del capitolo I, ossia l’unico ed una conclusione, se volete leggere anche queste due ultime potete andare sul sito dove trovate tutto:

http://www.movimentoapostolico.it/filemone/testi/indicePage.htm

MOVIMENTO APOSTOLICO
CATECHESI

LETTERA A FILEMONE

CATANZARO 2003

PRESENTAZIONE

Il cuore di Paolo, l’immensità del suo amore per Cristo, è tutto rivelato, manifestato in questa Lettera. Paolo è il prigioniero di Cristo, prigioniero del suo amore, ma anche prigioniero a causa del suo amore.
Il suo cuore è prigioniero dell’amore di Cristo, è tutto di Cristo, vive ogni suo respiro per Cristo.
Il suo corpo è prigioniero a causa dell’amore di Cristo, che in lui è divenuto annunzio, evangelizzazione, predicazione del mistero di Cristo Gesù, invito ad ogni uomo a lasciare le vanità e le falsità della sua vita per lasciarsi anche lui rinnovare e santificare dall’amore di Cristo Gesù e dalla sua verità.
Paolo e il suo amore per Cristo Gesù sono una cosa sola. Per amare Cristo vive, in questo amore si consuma, si annienta; per questo amore si rinnega, fino a sopportare ogni cosa. Dall’amore di Cristo egli è stato fatto, nell’amore di Cristo egli ogni giorno si fa.
L’amore che lo fa, lo fa consumandolo, perché da questa consumazione nasca in Paolo un amore che, andando altre il tempo e la storia, diviene amore eterno, immersione totale del suo essere nell’essere di Cristo, in cui i veli della carne non esistono più, perché anche il corpo alla fine parteciperà della spiritualità, diverrà spirito, come spirito è attualmente il corpo del Signore.
Questo amore totalizzante la sua vita per Cristo è la chiave di lettura di ogni evento della sua esistenza terrena. Questo amore deve divenire la chiave di lettura di ogni vita, di quella dei cristiani, perché si annullino anche loro nell’amore di Cristo e da esso si lascino abbracciare e consumare; di quella dei non cristiani, ai quali si annunzia il Vangelo dell’amore, perché anche loro si lascino conquistare dall’amore di Cristo e diventino in Lui, con Lui, per Lui un solo amore, un solo sacrificio, una sola oblazione santa e pura per il nostro Dio e Signore.
È questa la forza travolgente dell’amore di Cristo: la sua capacità di trasformare ogni situazione in cui l’uomo vive, perché la conduce tutta nell’amore crocifisso di Gesù Signore. D’altronde Cristo stesso non è stato colui che ha trasformato il suo strumento di supplizio, cioè la croce, nel più grande “strumento” o sacramento del suo amore di redenzione, di giustificazione, di perdono, di effusione dello Spirito Santo?
Ora se Cristo ha trasformato la croce in un segno di salvezza, se la salvezza del mondo è scaturita dalla croce, perché Lui è stato capace di renderla sacramento di redenzione per il mondo intero, può esserci una “croce” sulla terra che non possa essere trasformato in strumento di amore, di redenzione, di perdono, di preghiera, di santità, di consumazione, anche di sacrificio vicario per la conversione e la giustificazione del mondo intero?
Ci può essere una sola condizione umana che non possa divenire strumento o “sacramento” in Cristo per un amore universale, cosmico, che abbraccia insieme il cielo e la terrà?
La forza travolgente del cristianesimo è proprio questa: trasformare ogni croce in una via di amore, di salvezza, di redenzione, di giustificazione, di donazione e di offerta di se stessi a Dio perché il mondo sia redento, giustificato, salvato, santificato, portato nel Paradiso.
È il fallimento del cristianesimo quando non si trasforma la croce in redenzione, in salvezza. Non ha ragion d’esistere quel cristianesimo che non lavora per trasformare ogni croce in sacramento di verità e di amore per tutto il genere umano.
La sapienza di Paolo, la sua saggezza, l’intelligenza che lui attinge sempre viva nello Spirito Santo ha questa “abilità” santa: risolvere ogni problema partendo proprio dal mistero della croce e cosa è il mistero della croce se non la perdita della propria vita per amore?
Ma se uno è chiamato in Cristo a perdere la propria vita per amore, ci sono cose sulla terra superiori alla propria vita che possano essere conservate, non esposte cioè alla loro perdita, o alla loro rinunzia per amore. Ci può essere un bene terreno che il cristiano può conservare gelosamente per sé dal momento che la sua vocazione è proprio quella di perdere interamente la vita per amore? La perdita della vita di necessità comporta la perdita di ogni altro bene materiale e anche spirituale. Tutto deve essere donato all’amore, per amore.
La forza travolgente del cristianesimo non è solo trasformare ogni croce in “sacramento” di amore e di redenzione, ma anche quella di lasciarsi interamente annullare dall’amore, perché ogni croce di peccato, di ingiustizia sia abolita dalla nostra terra.
In parole assai povere la Lettera a Filemone offre questo insegnamento, indica questa via. Essa la può indicare perché Paolo vive interamente sia la croce come strumento di un amore più grande e universale, ma anche è il prigioniero dell’amore di Cristo, perché l’amore di Cristo diventi la via della vera vita per ogni uomo, per tutti indistintamente.
La Vergine Maria, Madre della Redenzione, ci introduca in questo amore, il solo che sa fare di ogni croce uno strumento di salvezza e dello stesso amore uno strumento perché le croci di peccato siano abolite dalla nostra terra.

INTRODUZIONE

L’episodio che muove Paolo a scrivere questa Lettera è uno dei tanti eventi della vita del tempo. Uno schiavo fugge dal suo padrone e si rifugia presso Paolo. Paolo glielo rimanda indietro, annunziando al padrone, che è un cristiano, la vera via dell’amore, che dovrà percorrere se veramente desidera essere un buon discepolo del Crocifisso e un testimone della forza travolgente che ha in sé la croce di Cristo Gesù.
Anche se la Lettera è cortissima, molti sono gli insegnamenti in essa contenuti. Ne accenniamo alcuni, rimandando alla trattazione teologica.
In sintesi, in questa Lettera, Paolo esprime delle verità di intensissimo valore teologico che dovranno accompagnare la storia del cristianesimo sino alla fine. Eccone alcune di queste verità:
La carità del singolo si fa Vangelo. Gesù lo aveva detto: “da questo vi riconosceranno che siete miei discepoli, se vi amerete gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi voi gli uni gli altri”.
Il cristiano è chiamato, per vocazione eterna, a farsi vittima di amore per i fratelli, imitando in tutto e per tutto Cristo Gesù che si fece vittima di espiazione per i peccati del mondo intero.
Il cristiano che vive in Cristo, lo stesso amore di Cristo, diviene Vangelo vivente, perenne annunzio della verità che Cristo è venuto non solo a portare, ma anche a fare e Gesù fa la verità, trasformando un uomo in un olocausto di amore e di carità a favore dei suoi fratelli.
Come in Cristo, è necessario che il cristiano viva l’amore per rendere testimonianza alla verità che Cristo ha operato e opera nel suo cuore. In tal senso diviene Vangelo.
La carità è Vangelo quando non solo è perfetta imitazione di Cristo in ogni manifestazione del proprio essere, ma è anche testimonianza a Cristo e la testimonianza è una sola: posso amare, amo perché Cristo mi ha creato, mi crea ogni giorno una natura d’amore. È Cristo la fonte perenne del mio amore, perché solo Lui è la salvezza, solo in Lui si può vivere da salvati, solo per Lui, per rendere testimonianza alla sua verità, si può continuare a vivere da salvati, raggiungendo la perfezione nella salvezza.
Quando la carità non è imitazione dell’amore di Cristo, non la si attinge in Cristo, non si rende testimonianza alla verità di Cristo, questa verità non è Vangelo. Che non sia Vangelo lo attesta il fatto che chi la riceve non si apre all’amore di Cristo e non si lascia fare da Cristo vittima di carità per il mondo intero.
Su questo principio di fede è giusto che si abbia la più sicura delle certezze e la più sicura è questa: solo Cristo è la fonte della carità, perché solo Lui è la fonte della nostra verità. Si diviene veri in Cristo, si vive la sua carità in Lui, per Lui, con Lui, per manifestare Lui, perché ogni uomo aderisca a Lui, si faccia fare vero da Lui, in Lui e inizi in Lui a vivere per Lui, per manifestare al mondo che solo Lui e solo in Lui è la salvezza; solo per Lui è possibile vivere da salvati.
La salvezza è una acquisizione quotidiana e quotidianamente si attinge in Cristo Gesù. È questa la carità che diviene Vangelo, perché è la carità che nasce dalla fede, ma anche è la carità che conduce a Cristo e alla sua verità.
La carità del singolo diviene motivo di speranza per i fratelli. Quando un uomo vede che un suo fratello è capace di vera carità, perché è capace di autentica gratuità, misericordia, compassione, pietà, il suo cuore si apre alla speranza.
Non c’è cosa più triste per un uomo che sentirsi abbandonato dai suoi fratelli. Questo abbandono a volte lo può condurre anche alla disperazione, che nasce dal non sapere più a chi rivolgersi per avere sostegno, aiuto, sollievo nei suoi giorni tristi. La visione della vera carità dona pace, conforto, gioia. Questa visione apre il cuore alla speranza. C’è una possibilità di salvezza. Anch’io posso essere salvo, posso continuare a vivere. C’è qualcuno che si prende cura della mia vita.
Questo però non basta perché si entri nella speranza cristiana. La speranza cristiana avviene quando si opera il passaggio dall’uomo a Cristo. Se questo passaggio si compie si esce dalla speranza umana e si entra nella vera speranza, che è solo quella cristiana; se questo passaggio non viene operato, si rimane in una speranza umana, ma questa è sempre effimera, passeggera, di un attimo.
Perché vi sia questo passaggio, è necessario che alla visione della carità segua anche l’annunzio di Cristo e del suo Vangelo. Questo annunzio deve essere operato da chi sta vivendo la carità. Se questo annunzio non viene operato, la salvezza non si compie, perché non sarà mai un gesto di carità, un dono d’amore all’altro che potrà salvarlo.
Se questo fosse possibile, Cristo non sarebbe più Il Salvatore e la salvezza non sarebbe in Lui, con Lui, per Lui, nel suo Corpo che è la Chiesa. Sarebbe un fatto da uomo ad uomo, sarebbe un evento della terra e non più del Cielo.
È cosa giusta allora che chi opera la carità in nome di Cristo, doni Cristo carità dell’uomo, sua speranza eterna di salvezza, suo bene infinito, eterno, nel quale è ogni tesoro di grazia, di verità, di misericordia, di pietà, di compassione, di sollievo sulla terra e nel cielo.
È nel non compimento di questo passaggio il segno che chi opera la carità non vive di Cristo, per Cristo, con Cristo, nel suo Corpo che è la Chiesa. Non vivendo lui, non può portare altri.
È questo il più grande naufragio della fede ed è sempre naufragio della fede quando l’opera di carità non apre il cuore a Cristo e alla sua verità eterna di unico e solo Salvatore di ogni uomo. La carità da donare all’uomo è Cristo, perché Cristo è la carità di Dio per ogni uomo.
Chiedere in nome della libertà che nasce dalla potestà? Paolo è Apostolo di Cristo Gesù. Ha la potestà di chiedere a quanti sono cristiani, rivolgendosi loro nel nome di Cristo, servendosi dell’autorità che Cristo ha conferito loro nel discernere il bene da compiere e nel chiedere che il vero bene sia sempre operato. Questa potestà nel discernimento deve essere sempre vissuta. L’Apostolo del Signore deve operare in ogni istante il discernimento sul bene, sul meglio, su ciò che è in quell’evento verità di Cristo e di Dio, con la sapienza, la saggezza, l’intelligenza dello Spirito Santo che agisce in lui.
Operato il discernimento nel nome e con la potestà di Cristo Gesù, può al singolo chiedere di agire conformemente al discernimento offerto? Lo può e lo deve in materia di fede. La verità della fede obbliga sempre. Alla verità della fede si è sempre obbligati.
La verità della fede ci fa essere del Vangelo. Chi è del Vangelo è anche di Cristo Gesù. Chi non è della verità della fede, non è del Vangelo, non è di Cristo Gesù. Chi è fuori della verità della fede si pone anche fuori della comunione con i fratelli di fede. Per questo l’Apostolo è obbligato a chiedere in nome di Cristo e con la sua autorità che si rientri nella verità, la si abbracci in ogni sua parte, la si professi integralmente, santamente, dinanzi al mondo intero.
Quando non si è dinanzi alla verità della fede, ma di fronte ad un’opera di carità da fare, quando la carità si poggia su dei debiti di giustizia, cosa deve fare l’apostolo?
O chiedere in nome della carità che lascia libera la volontà del fratello? Paolo afferma il principio che anche in questo caso si può chiedere in nome di Cristo e con la sua autorità che si faccia, o non si faccia l’opera di carità, che nel discernimento è stata vista come giusta, santa, lodevole.
Assieme a questo principio, lui ne possiede un altro. Quando si tratta di opera di carità, lui preferisce che si lasci libera la volontà dell’altro, in modo che sia l’altro a volere l’opera e non lui ad imporla.
L’Apostolo deve però indicare i motivi della bontà e della verità dell’opera. Al singolo la libertà di eseguirla, non eseguirla, compierla in un modo, anziché in un altro.
Paolo – lo sappiamo – agisce sempre con la saggezza e l’intelligenza dello Spirito Santo che aleggia su di lui. Perché opta per la libertà della persona e non per l’imposizione dell’opera?
È facile rispondere a questa domanda, è difficile comprenderla in tutto il suo significato di verità evangelica.
Paolo si comporta in tutto e per tutto come si comporta Dio Padre. Questi diede il comando all’uomo, spiego i motivi del comando, lasciò libera la volontà di osservarlo, di non osservarlo.
Nel rapporto dell’uomo con Dio mai si può abolire la relazione di volontà. Dio manifesta la sua volontà all’uomo, all’uomo la libertà di accoglierla, di non accoglierla.
Questo non significa che sia ininfluente accoglierla, o non accoglierla. Se si accoglie si entra nella vita, si progredisce nella vita, si avanza verso la vita eterna. Se non la si accoglie, si esce dalla pienezza della vita, si può anche cadere nell’egoismo e quindi nella morte, si può alla fine precipitare nella dannazione eterna.
Un‘opera di carità imposta, ma non accolta con il cuore, non fatta propria, non è opera evangelica, carità di Cristo in noi, amore misericordioso e compassionevole verso gli altri. È come se l’opera non fosse stata mai fatta.
Paolo vuole che ogni uomo sia sempre trattato da uomo nella sua più pura essenzialità che è quella della libertà. Questa è la via della vera vita, questa è la via più vera e più santa della vita, in quest’opera è il compimento del tuo essere e della tua vocazione: se vuoi, operala. È tua la libertà. È tua la volontà. Mia è la verità e il discernimento.
L’apostolo di Cristo Gesù è obbligato ad annunziare sempre la verità; è chiamato, però, solo a proporre alla coscienza la via migliore di tutte per operare secondo la carità di Cristo. Egli deve trattare sempre l’uomo da uomo. Dio opera così. Cristo ha operato così: se vuoi essere perfetto, se vuoi vivere la tua carità, il tuo amore sino in fondo, va’ vendi quello che hai, dallo ai poveri, poi vieni e seguimi.
Dinanzi alla libertà quest’uomo si è perduto. Fu ingannato dai suoi molti beni. Fu tradito dal suo amore per le cose della terra.
La generazione spirituale. La generazione secondo la carne è il dono della vita, della propria vita, che a sua volta diventa vita personale, autonoma.  Vita da vita, ma che diviene vita di un’altra persona, distinta e separata da chi l’ha posta in essere. La generazione secondo lo Spirito Santo, o generazione spirituale, avviene mediante il dono del Vangelo, della fede. Si annunzia la Parola di Cristo, si crede in essa, ci si lascia battezzare e da acqua e da Spirito Santo siamo generati a figli di Dio. Colui che dona la Parola, comunica la fede, annunzia il Vangelo in certo qual modo partecipa anche lui di questa generazione spirituale e in tal senso è detto anche “Padre nella fede”. La Parola, il Vangelo, la fede generalmente è sempre donata da una persona e questa persona che dona la fede è in certo senso “padre” di colui che è stato generato alla fede. “Padre ministeriale, strumentale”. Paolo crede molto in questa paternità. Ne fa anche un motivo di vanto. Per lui molti possono essere i pedagoghi della fede, ma uno solo è il padre nella fede ed è colui che è all’inizio della predicazione e dell’annunzio del Vangelo. Questa generazione spirituale, anche se strumentale, crea un legame vitale forte tra chi genera e colui che è stato generato. Questo legame è indistruttibile, come indistruttibile è il legame che crea la generazione secondo la carne. Questo legame vuole che il padre consideri vero figlio spirituale colui che ha generato e chi è stato generato veda colui che lo ha generato come un vero padre del suo spirito, della sua nuova creazione, sempre però restando nell’ordine della strumentalità. Da questo legame nasce il rispetto, l’onore, l’ascolto, la devozione, l’aiuto, l’assistenza spirituale perché la fede che è stata generata possa raggiungere la sua più perfetta santificazione. Su questo principio della generazione spirituale ci sarebbe tutta una trattazione da fare. Lo esige la crescita della fede e il suo cammino di maturazione.
L’altro diviene il proprio cuore. Nella fede cristiana si realizza e si vive il mistero della comunione. La comunione ha il suo fondamento nell’unità che si è venuta a creare in Cristo Gesù. In Lui siamo tutti i battezzati un solo corpo. Il solo corpo è dalle molte membra. Ogni membro riceve e dona l’energia vitale; la riceve dagli altri, la fruttifica e la dona come frutti di verità e di grazia, dopo averla rivestita del suo particolare carisma. Questa comunione è così perfetta, così reale, da essere non solo comunione, ma unità, una cosa sola, una sola realtà in Cristo. Questa comunione e questa unità ci fa essere una cosa sola con l’altro, l’altro è noi stessi e noi stessi siamo l’altro. Paolo raggiunge il sommo della manifestazione di questa unità quando dice che l’altro, il servo Onesimo, è il suo proprio cuore. C’è unità, c’è comunione, c’è identificazione. L’altro è il mio cuore. Accettando l’altro si accetta il proprio cuore, si tratta l’altro come se uno ricevesse in dono il cuore dell’apostolo. Ciò significa semplicemente che tutto ciò che si fa all’apostolo, deve essere fatto al proprio cuore. Senza alcuna differenza, o distinzione. È questo il sommo della carità cristiana. È in questa identificazione, per nuova natura, per unità di natura, l’essenza e la specificità del cristianesimo.
Il bene spontaneo, libero. Il bene si propone. Lo si fonda. Lo si lascia alla spontaneità, o libertà del fratello. Lo si è già detto. Questo serve perché sia rispettato l’uomo nella sua essenza più santa e più vera. Il sì al bene è dell’uomo e nessun sì potrà essere proferito, se la volontà non è libera.
L’altro diviene il proprio fratello. La fratellanza cristiana non è solamente di nome. Essa è più forte della stessa fratellanza secondo la carne. Si è fratelli secondo la carne perché si è ricevuta la vita dagli stessi genitori. Ciò che i genitori hanno dato è solo il corpo. L’anima viene da Dio. È Lui che la crea ed è Lui che la infonde. Siamo già fratelli secondo la carne in ragione dell’anima, che è da un unico Creatore e Signore. Questa è la fratellanza universale: perché veniamo all’origine dallo stesso padre e dalla stessa madre, perché il Signore crea la nostra anima al momento del concepimento. Ma c’è un’altra fratellanza, tutta cristiana. Siamo fratelli in ragione della nostra unica nascita da acqua e da Spirito Santo. Siamo fratelli perché il Signore ci ha generati come suoi figli nel suo Figlio Gesù Cristo. Questa parentela spirituale, è vera parentela ed ha un legame più forte che gli stessi vincoli del sangue. Anche questa verità è fortemente vissuta da Paolo.
L’altro diviene se stesso. Paolo ha già detto qual è l’identità che c’è tra lui e Onesimo. Ora dice l’identità che esiste tra Filemone e Onesimo: quella di fratelli in Cristo. Se sono veri fratelli in Cristo, da veri fratelli devono trattarsi. Nessun fratello può tenere in schiavitù un altro fratello, metterebbe in schiavitù il proprio sangue. Questa legge vale anche per la fratellanza spirituale. Un padrone che dovesse tenere sotto di sé degli schiavi cristiani, è il suo stesso “sangue spirituale” che tiene schiavo. La schiavitù è da abolire per molteplici motivi: perché il Signore ha creato l’uomo libero, non asservibile, né schiavizzabile da nessun altro uomo; perché ogni uomo è fratello per creazione di ogni altro uomo; per il cristiano c’è una ragione in più: perché Cristo è morto per l’altro come è morto per me. In Cristo ognuno è chiamato a dare la vita per l’altro.
Per l’altro si paga ogni debito. Se l’altro diviene se stesso, per l’altro si paga ogni debito. Onesimo è divenuto il cuore di Paolo, Paolo per il suo cuore paga il debito, paga cioè il debito di Onesimo. Se lo paga Paolo, può pagarlo anche Filemone, condonandolo, perché anche per lui Onesimo è il suo cuore, è la sua vita. In questa semplice affermazione di Paolo c’è tutta la potenza di verità e di carità di Cristo Gesù, capace di rinnovare il mondo. Questa affermazione è la negazione di ogni egoismo.
La fiducia nella docilità. Agli altri si manifesta la verità, si chiede la carità, la carità anche si fonda nella verità della fede. Degli altri bisogna anche aver fiducia. Se noi fondiamo bene, santamente, secondo verità, la carità che si chiede, nessuno se è nelle condizioni di farlo, si  tirerà indietro. Avere fiducia nella docilità dell’altro all’ascolto della preghiera che gli viene rivolta, anche questa deve essere struttura e forma di vita del cristiano.
Prigioniero di Cristo. Prigioniero per Cristo. Questa duplice verità merita una ulteriore puntualizzazione. La prigionia di Cristo è prigionia di croce per amore. Cristo ha racchiuso la sua vita tutta nell’amore del Padre. Anche il cristiano deve racchiudere tutta la sua vita nell’amore del Padre. Cristo trasformò l’amore del Padre in amore verso l’uomo, perché il Padre ama l’uomo. Per il Padre si lasciò inchiodare sulla croce. Per amore si rese prigioniero degli uomini. Questo secondo passaggio mai potrà essere fatto secondo verità, se non si vive in pienezza di carità la prima prigionia, quella cioè di essere prigionieri del Padre e del suo amore eterno.
Dal cuore di Paolo. La struttura argomentativa di Paolo è assai semplice. Il principio rimane sempre lo stesso. Egli guarda il cuore di Cristo, lo prende, lo mette tutto nel suo e da cuore di Cristo che è diventato il suo cuore egli annunzia le regole della verità che devono portare il cristiano al sommo grado di vivere la carità del Padre e di Cristo nello Spirito Santo. È questo un processo di assimilazione che ognuno di noi deve realizzare, se vuole trovare l’unica soluzione al problema della carità. Non c’è vera carità se non si vive secondo il cuore di Cristo.
La Vergine Maria, Madre della Redenzione, metta il cuore di Suo Figlio Gesù nel nostro, perché vi sia un solo cuore ad amare, il suo nel nostro.

Publié dans:Lettera a Filemone |on 3 mai, 2009 |Pas de commentaires »

Sant’Agostino: «Se uno entra attraverso di me, sarà salvo »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20090504

Lunedì della IV settimana di Pasqua : Jn 10,1-10
Meditazione del giorno
Sant’Agostino (354-430), vescovo d’Ippona (Africa del Nord) e dottore della Chiesa
Trattato sul Vangelo di Giovanni, 45

«Se uno entra attraverso di me, sarà salvo »

«In verità, in verità vi dico: Io sono la porta delle pecore». Ecco che Gesù ci ha aperto quella porta che era chiusa quando ce l’aveva indicata. Egli stesso è la porta. Prendiamone atto, entriamo, e rallegriamoci di essere entrati.

«Tutti coloro che sono venuti sono ladri e predoni»… ; ben inteso «prima di me». Riflettiamo. Prima di lui sono venuti i profeti: forse che erano ladri e predoni? Certamente no; non erano venuti prima di lui, poiché erano venuti con lui. Colui che doveva venire mandava innanzi a sé gli araldi, e possedeva il cuore di coloro che mandava…  «Io sono – ha detto – la via, la verità e la vita» (Gv 14, 6). Se egli è la verità, quelli che sono stati veraci sono venuti con lui. Tutti quelli invece che sono venuti al di fuori di lui sono stati ladri e predoni, cioè sono venuti per rubare e uccidere.  «Ma le pecore non li hanno ascoltati».

Vennero i giusti che credevano in lui venturo, come noi crediamo in lui che è venuto. I tempi sono mutati, ma non è mutata la fede… La stessa fede congiunge gli uni e gli altri: quelli che credevano in lui venturo e quelli che credono in lui che è venuto. Sia pure in diversi tempi, vediamo entrare gli uni e gli altri per la stessa porta della fede, cioè per Cristo… Tutti quelli che allora credettero ad Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, e a tutti gli altri patriarchi e profeti che preannunciavano il Cristo, erano pecore che ascoltavano la voce di Cristo; non hanno ascoltato la voce di estranei, ma la sua.

di Mons. Jean-Marie Lustiger: Ebrei e cristiani un solo destino

vi propongo questa lettura, il riferimento a San Paolo è appena un cenno, tuttavia sembra sottostare, e inevitabilmente, a tutto il pensiero del Cardinale, io ogni tanto cerco di rileggere qualcosa di quello che scrisse Lustiger, mi piace molto questa visione del cristianesimo, dove appare sempre chiaro ed evidente che siamo legati ad una storia, quella che Dio ha fatto con l’uomo, quando - sin dalla creazione – l’Eterno comincia a parlare all’uomo, non slegati o appartati da tutto quanto accade nel mondo e tutto quello che è accaduto nella storia, ma legati alla Parola stessa di Dio, non nati d’improvviso o mescolati alle altre religioni, la storia del cristianesimo è una storia unica, irripetibile, legata all’amore che Dio ha da sempre per noi, così come Gesù che è nato in un popolo, in una storia, in una fede: quella del popolo di Israele; metto anche una biografia di Lustiger, dal sito:

http://www.missionline.org/index.php?l=it&art=203

02/01/2006  

Ebrei e cristiani un solo destino

di Mons. Jean-Marie Lustiger, arcivescovo emerito di Parigi

Ebrei e cristiani esercitano insieme una grande responsabilità nei confronti della civiltà umana e del suo avvenire

Pubblichiamo ampi stralci dell’intervento che il cardinale Jean-Marie Lustiger, arcivescovo emerito di Parigi, ha tenuto il 27 ottobre 2005 a Roma, in occasione dei quarant’anni del documento conciliare Nostra Aetate. Il testo integrale è disponibile (in lingua francese) sul sito della diocesi di Parigi (www.catholique-paris.com).

Oggi è frequente sentir parlare in Occidente di civiltà «giudaico-cristiana», più spesso per criticarla e per liberare gli individui dagli obblighi che questa farebbe pesare sui costumi e sulla società. Così, osservatori che si dicono distanti tanto dal cristianesimo quanto dal giudaismo, li mettono sullo stesso piano. Identificare nel cuore della nostra società una Weltanschaung giudaico-cristiana non soddisferà certo tutti gli ebrei e tutti i cristiani, ma stabilisce dall’esterno due fatti essenziali per il nostro discorso. Primo: ebrei e cristiani esercitano insieme una responsabilità nei confronti della civiltà dell’umanità. Secondo: ebrei e cristiani portano insieme la responsabilità della Rivelazione biblica.
In questo quarantesimo anniversario della Nostra Aetate, vi propongo di lasciarci interrogare da questo sguardo esteriore e di riflettere sulla nostra comune responsabilità: che cosa può e deve apportare al mondo l’incontro di ebrei e cristiani, o piuttosto la loro riconciliazione, o meglio ancora il loro ritrovarsi, nel momento in cui una civiltà planetaria si delinea in mezzo a conflitti e contrasti, convergenze e scambi, ma anche a delle chiusure? (…)

Esiste indubbiamente una convergenza fra ebrei e cristiani, almeno se essi sono coerenti con la loro fede, nel richiamare l’esigenza morale necessaria alla vita della società. Si sono ritrovati accomunati nello scorso secolo nella critica ai poteri totalitari. Questi, poiché «dettavano legge», si sono eretti a signori del bene e del male. Certo, ogni potere subisce la tentazione di fare lo stesso. Ma ebrei e cristiani hanno in comune una visione molto limpida: la legge che si impone alla coscienza umana ha un’origine più alta di qualsiasi uomo, il bene non è stabilito a seconda dei voleri o delle opinioni, ma si impone in questo mondo relativo e si propone come un assoluto nella scelta della libertà. 
Infatti, ogni legge giusta riposa sul segno – invisibile per la maggior parte del tempo e rivelato sul Sinai – della volontà santa di Dio. In un modo o nell’altro, la legge riceve da Dio un certo carattere sacro, che qualifica anche l’uomo al quale si indirizza. Questa convinzione comune agli ebrei e ai cristiani si dispiega in un discorso razionale che ha costituito il corpus del diritto naturale e ha permesso l’affermazione della dignità inalienabile della persona umana sulla quale, in definitiva, si fondono i diritti dell’uomo. La posizione del popolo ebreo e dei cristiani come vedette e testimoni del regno di Dio sfida e relativizza ogni impero umano.
 
Questa convinzione ha origine nella Rivelazione del Sinai. Consideriamo come ebrei e cristiani ricevono il dono della Legge e dei Comandamenti. (…) Mi sembra necessario ricordare continuamente ai cristiani cosa significa l’osservanza dei 613 comandamenti. Codificati dalla tradizione, essi abbracciano la totalità della vita dell’ebreo religioso, dalla preghiera e lo studio personale e comunitario a tutti gli altri aspetti dell’esistenza: la morale, la vita familiare, quella professionale, ecc. Sono tutti recepiti come venuti espressamente dalla volontà divina. (…)
E per un cristiano? Io sorprenderei forse quelli che tra voi non conoscono affatto la dottrina cattolica, sia cristiani che ebrei, ricordando che sostanzialmente questi comandamenti sono ricevuti dai cristiani come rivelazione divina della Bibbia stessa.
Certo, discepoli di Gesù, noi ci differenziamo senza dubbio sul modo di capire e di applicare questi comandamenti. Il commento autorizzato dei comandamenti per un cristiano è la maniera in cui Gesù li ha vissuti e ci domanda di viverli. È un’interpretazione ben determinata del «Shema, Israel: amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze». La prima regola dell’agire riassume la Legge e i Profeti nel comandamento dell’amore di Dio e dell’amore fraterno a immagine e in condivisione dell’amore insegnato da Gesù ai discepoli: «Amatevi l’uno con l’altro come io vi ho amato».
L’universalismo cristiano ha fatto conoscere a tutte le nazioni del mondo, a volte sotto una forma secolarizzata, ciò che è stato dato al Sinai, a Israele. Israele ne rimane il garante e con lui i cristiani, senza dubbio, per il bene comune di tutta l’umanità.

Ora ci si deve interrogare sull’universalismo della Rivelazione. Che significato può avere per l’insieme dell’umanità il riavvicinamento di ebrei e cristiani?
Evidentemente io non risponderò a questa domanda in modo sensazionalistico. Alcuni temono che io risponda in maniera disastrosa, minacciando l’indipendenza e la libertà delle identità particolari, nazionali o religiose. Altri, forse gli stessi, si domanderanno come delle religioni che la storia ha, a questo punto, separato, possano unire le loro forze per contribuire all’incontro delle culture e delle religioni.

In effetti, questo riferimento all’insieme dell’umanità è scritto nella stessa origine del giudaismo. Ricordatevi della benedizione data ad Abramo: «In te saranno benedette tutte le nazioni della Terra». Ricordate anche l’annuncio profetico secondo cui tutte le nazioni verranno ad adorare nel suo tempio l’Unico Signore del cielo e della terra. Presso i cristiani, gli ebrei apostoli di Gesù hanno obbedito, non senza grande pena a questo oracolo profetico, scoprendo quasi involontariamente e con stupore che il dono dello Spirito era egualmente concesso ai pagani. Il comando di Gesù dato ai suoi di andare a insegnare a tutte le nazioni (i goim) per formare in mezzo a queste dei discepoli che riceveranno il battesimo (Mt 28,19) fa raggiungere ai cristiani la speranza ebrea per il mondo. Anche se le attitudini spirituali e l’esperienza degli uni e degli altri risiedono in posizioni differenti su questo punto.
Perché il popolo ebreo vive in una situazione paradossale. È un popolo, continua a rivendicare questo nome. La questione se è un popolo simile agli altri o differente è stata posta dalle origini: siamo un popolo differente dalle nazioni, perché formato da Dio per servirlo, e una nazione simile alle altre quando reclama re e potere come gli altri popoli. È indubbio che nella mondializzazione attuale, ebrei e comunità ebree sparse nel mondo intero sono, in ogni caso, parte integrante delle avversità delle culture e delle nazioni, senza che venga sfumata l’appartenenza al popolo ebreo. Allo stesso modo si può dire che il fatto di essere cristiano incorpora ogni persona o ogni comunità nell’esistenza comune della Chiesa del Messia, presente attraverso le epoche storiche in tutte le nazioni e in ogni cultura.
Il problema che tento di delimitare è quello sollevato dalla mondializzazione. Una solidarietà riunisce l’umanità intera? Il prezzo di ciò è la negazione o l’oblio di particolarità considerate sino ad oggi delle ricchezze, ma che possono apparire ormai come dei rimasugli e degli ostacoli? No, certamente.
Ma la responsabilità, trasmessa dalla Parola di Dio, a ebrei e cristiani, ciascuno secondo la propria chiamata e la propria tradizione, è di condurre l’umanità alla consapevolezza della propria unità e della sua unica vocazione. Che si riferisce alla propria origine. L’umanità, come dicono le prime pagine della Genesi, è stata creata da Dio «a mia immagine e somiglianza». Esiste all’interno della diversità umana delle sentinelle e dei testimoni della luce dell’origine, non per imporla ma per aiutare l’umanità a decifrare il suo destino.
Gli ebrei hanno coscienza della loro particolarità storica poiché questa Rivelazione è stata loro conferita per primi, una volta per tutte in maniera irrevocabile. È nell’esperienza di un popolo plasmato da questa elezione che la storia santa si è incarnata nella storia umana. La tentazione per il popolo ebreo è, evidentemente, di rinchiudersi in questa particolarità e, da allora in poi, di svuotarla della sua portata salutare universale.
I cristiani sono diventati essi stessi beneficiari di questa prima benedizione perché, dal momento che la Chiesa nasce dagli ebrei, ecco che anche dei pagani ottengono di far parte con essi di questa benedizione e della sua Promessa. Nel corso dei secoli, i cristiani saranno tentati essi stessi di crearsi dei particolarismi di tipo nazionale o religioso; essi rischiano di perdere sia il senso delle loro radici, dell’origine garante della loro speranza.
Ma ebrei e cristiani, incontrandosi e misurando le loro differenze, possono meglio comprendere ciò che viene dato loro come evidenza fondatrice e compito primordiale: rivelare a una «umanità frazionata» l’appello all’unità più forte e più grande della sua immensa diversità.

Evocare queste prospettive non è minacciare né l’originalità ebrea né l’identità cristiana. Spieghiamolo. «La salvezza viene dagli ebrei» insegna Gesù a una donna di Samaria nel Vangelo secondo san Giovanni (Gv 4,22).
Senza gli ebrei, l’universalità cristiana potrebbe dissolversi in un umanitarismo astratto. L’esperienza cristiana dimostra che la diversità delle culture, al prezzo di ostacoli e ambiguità talvolta considerevoli, può essere rispettata, e ciascuna d’esse magnificata, dalla riconosciuta unità, figlia dell’Unico.
Senza i cristiani, il giudaismo, portatore della benedizione promessa a tutte le nazioni, può realizzare il proprio compito senza riassorbirsi nella razionalità universale dei Lumi e senza vuotare della sua sostanza la storia che l’ha generato? Dalle riflessioni su queste aporie noi possiamo trarne una lezione: l’incontro fra ebrei e cristiani è necessario a ciascuno per comprendere ciò che, forse, Dio esige da lui.
Per la fede cattolica, l’identità ebrea è fondata sul dono di Dio, dono irrevocabile secondo l’espressione di san Paolo, dono che precede nella storia ogni altra determinazione sociologica, culturale o politica. Questo dono di Dio costituisce in qualche maniera la vocazione del popolo ebreo di rivelare al mondo la Benedizione divina.
Per ciò che riguarda i cristiani, il loro messaggio universalista non è che una maschera dell’imperialismo romano e poi occidentale? Come può diffondersi nelle culture del mondo senza perdere contemporaneamente le sue forze e i suoi contenuti? Il problema si pone in modo acuto quando i cristiani portano il messaggio biblico, compresa la Torah, a nazioni come quelle asiatiche e queste, alla maniera di Gandhi, sono pronte ad accogliere i valori di Gesù Cristo come un messaggio di liberazione, ma dichiarano di non aver niente a che fare con la Bibbia poiché possiedono già le loro scritture e le loro storie sacre. A rischio di perdere la propria universalità, il cristianesimo non può accettare questo sradicamento fuori da Israele, cioè fuori dall’Alleanza, della scelta originaria di Dio. L’incontro-legame degli ebrei e dei cristiani, nella ricerca di un continuo rispetto, offre all’intera umanità il suo volto originale e conforta la sua speranza di unità pacifica.

Qual è dunque il fondamento dell’avvicinamento di ebrei e cristiani? Cos’hanno in comune per giustificare un’alleanza? La risposta è scritta nella prima pagina del Nuovo Testamento. Se l’aprite voi cominciate con una genealogia della quale eccovi le prime righe: «Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli…». Queste parole introducono, come disse il primo evangelista «la genealogia di Gesù Messia, figlio di David, figlio di Abramo» (Mt 1,1). Il cristiano riceve dal popolo ebreo la totalità della Scrittura: la Legge, i Profeti e gli altri scritti. Noi la riceviamo per ciò che è: Parola di Dio. E ciò è vero per tutti i cristiani, protestanti, cattolici o ortodossi, qualunque siano stati i crimini commessi e le vicissitudini della storia. Questa Scrittura santa è inseparabile da quelli a cui è stata indirizzata e dalle lingue con le quali all’inizio è stata formulata. La Chiesa riceve tutte e ciascuna di queste parole come ispirate dallo Spirito di Dio. Vuol esservi fedele. Molto di più, essa non può farne a meno – come alcuni, ad esempio Marcione, i quali avrebbero voluto una rottura radicale che avrebbe eliminato dalla fede dei discepoli di Gesù, la Scrittura biblica, la storia, l’alleanza e l’elezione. Ebrei e cristiani o cattolici condividono nello stesso tempo una radice comune e un conflitto. Ma questo conflitto, agli occhi degli stessi cristiani, si iscrive nell’attesa che la storia si compia secondo la volontà di Dio; ciò che è anche l’orizzonte famigliare del pensiero ebreo.
Gli ebrei come i cristiani sono sostenuti da una speranza. Essi hanno in comune la Rivelazione ricevuta e tramandata, che porta il loro sguardo verso questo compimento i cui tratti sono ciascuno marcati dall’esperienza dei secoli, delle culture e dei popoli, affinché ciascuno accetti o rifiuti l’altro.
Chi non avverte qui che le tensioni possono essere tanto più forti e dolorose quanto i punti d’accordo e di comunione sono più solidi? Dal momento che noi siamo della stessa origine, ogni tensione è vissuta come la nascita di una ferita, di un rifiuto; ma può anche essere vissuta nella speranza di una luce sempre più grande.
Oggi, vista dalla storia, senza che il riavvicinamento possa rendere meno acute le divergenze, l’urgenza dell’appello ricevuto alle origini obbliga i fratelli separati, i fratelli anziani e il secondogenito, a rispondere, ciascuno per la propria parte, alla missione che gli è assegnata. Nessuno può compierla senza l’altro, senza tuttavia fare violenza all’altro né sminuirlo.
L’attuale configurazione dell’umanità anticipa, in maniera ancora oscura e talvolta contrastata, la speranza portata dai profeti e proclamata dal Nuovo Testamento. Sarebbe illusorio e menzognero trascurare le nostre differenze e la nostra fede personale per realizzare questa speranza comune. Sarebbe un errore mortale e, in definitiva, una dimissione. Ma ognuno di noi è chiamato a progredire nel compito di giustizia e di pace che gli è stato assegnato dalla Provvidenza.

Il legame comune a ebrei e cristiani fonda il loro ritrovarsi in questo secolo, garantendo l’opera che devono compiere, altrimenti farebbero torto all’umanità. L’equilibrio e la pace nel mondo ne vanno di mezzo. L’avvenire comune fra ebrei e cattolici non si riduce a limitare il possibile contenzioso. Non può accontentarsi d’una pacifica e reciproca comprensione e neppure di una solidarietà al servizio dell’umanità. Questo avvenire richiede un lavoro su ciò che è comune, come su ciò che separa, lavoro ormai possibile perché fondato sulla certezza di un’amicizia voluta da Dio. Che le differenze e le tensioni divengano uno stimolo per un approfondimento, sempre più attento e docile al mistero di cui la storia ci designa eredi indivisi.

(traduzione dal francese di Daniele Parolini e Gabriele Ripamonti)

Card. Jean-Marie Lustiger (1926-2007) biografia

dal sito:

http://www.santiebeati.it/dettaglio/88049

Card. Jean-Marie Lustiger

deceduto il 5 agosto 2007.

(sul sito è ancora: Cardinale elettore, le ultime righe le ho aggiunte io)
 
1926 – 2007

Arcivescovo emerito di Parigi, il cardinale Jean Marie Lustiger (Francia), nacque a Parigi il 16 settembre del 1926 da genitori polacchi di religione ebraica. Proprio in quanto ebrei entrambi vennero deportati, e la madre morì nel 1943 nel campo di sterminio di Auschwitz. Venne ordinato sacerdote il 17 aprile 1954. Da quella data fino al 1969 fu cappellano della parrocchia universitaria di Parigi, quindi Direttore del « Centre Etudiants Paris », poi parroco per 10 anni della parrocchia di Sainte-Jeanne de Chantal, sempre a Parigi, fin quando, il 10 novembre 1979, Giovanni Paolo II lo nominò vescovo di Orléans. Il 31 gennaio 1981 veniva promosso arcivescovo di Parigi. È stato presidente alla prima Assemblea speciale per l’Europa del Sinodo dei Vescovi (1991). Creato cardinale da Giovanni Paolo II nel Concistoro del 2 febbraio 1983.

Il Card. Jean-Marie Lustiger, Arcivescovo emerito di Paris (Francia), nacque a Parigi il 16 settembre del 1926 da genitori polacchi di religione ebraica emigrati all’inizio del secolo. Proprio in quanto ebrei entrambi vennero deportati durante l’occupazione nazista, e la madre morì nel 1943 nel famigerato campo di sterminio di Auschwitz, lo stesso che fu testimone dell’eroico sacrificio di San Massimiliano Kolbe, martire, canonizzato da Giovanni Paolo II nell’ottobre 1982.

Il piccolo Jean-Marie ebbe salva la vita perché poté trovare rifugio presso una famiglia di Orléans, a contatto con la quale si convertì al cattolicesimo. A quel tempo aveva 14 anni. Studiò quindi al Liceo di Montaigne di Parigi, poi a Orléans, e quindi al seminario minore di Parigi. Dopo aver lavorato per un anno in una officina di Decanzeville, nel sud-ovest della Francia, e conseguito la licenza in lettere, si presentò al seminario dei Carmelitani di Parigi chiedendo di poter divenire sacerdote.

Ottenuta la licenza in teologia presso l’Institut Catholique e in lettere e filosofia presso la Sorbona, venne ordinato sacerdote il 17 aprile 1954, all’età di 28 anni. Da quella data fino al 1969 fu cappellano della parrocchia universitaria di Parigi, quindi Direttore del « Centre Etudiants Paris », poi parroco per 10 anni della parrocchia di Sainte-Jeanne de Chantal, sempre a Parigi, fin quando, il 10 novembre 1979, Giovanni Paolo II lo nominò Vescovo di Orléans; una diocesi che aveva per lui tanti ricordi.

L’ordinazione episcopale gli venne conferita l’8 dicembre successivo dal Cardinale Marty, presenti il Nunzio Apostolico Mons. Angelo Felici e 17 vescovi. Poco più di un anno dopo, il 31 gennaio 1981, lo stesso Giovanni Paolo II lo promuoveva arcivescovo di Parigi, chiamandolo a succedere al Cardinale Marty, dimissionario per ragioni di età. Nello stesso tempo diventava anche Ordinario per i fedeli di rito orientale residenti in Francia e sprovvisti di Ordinario del proprio rito.

È stato Presidente delegato alla prima Assemblea speciale per l‚Europa del Sinodo dei Vescovi (1991).

Arcivescovo emerito di Paris dall’11 febbraio 2005, dopo oltre 24 anni di servizio alla Chiesa parigina.

Creato e pubblicato Cardinale da Giovanni Paolo II nel Concistoro del 2 febbraio 1983, del Titolo di San Luigi dei Francesi.

È membro:
- del Consiglio della II Sezione della Segreteria di Stato;
- delle Congregazione: per i Vescovi, per le Chiese Orientali, per il Clero, per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica.

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Ordinario emerito per i fedeli di rito orientale residenti in Francia e sprovvisti di Ordinario del proprio rito (14 marzo 2005).

Presidente delegato alla prima Assemblea speciale per l’Europa del Sinodo dei Vescovi (1991).

Creato e pubblicato Cardinale da Giovanni Paolo II nel Concistoro del 2 febbraio 1983, del Titolo di San Luigi dei Francesi.

Il Card. Jean-Marie Lustiger è deceduto il 5 agosto 2007.

Giovanni Paolo II : Il buon Pastore

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20090503

IV Domenica di Pasqua – Anno B : Jn 10,11-18
Meditazione del giorno
Giovanni Paolo II
Omelia per il XXV anniversario di pontificato (16 ottobre 2003)

Il buon Pastore

« Il buon pastore offre la vita per le pecore » (Gv 10,11). Mentre Gesù pronunciava queste parole, gli Apostoli non sapevano che parlava di se stesso. Non lo sapeva nemmeno Giovanni, l’apostolo prediletto. Lo comprese sul Calvario, ai piedi della Croce, vedendolo offrire silenziosamente la vita per « le sue pecore ». Quando venne per lui e per gli altri Apostoli il tempo di assumere questa stessa missione, allora si ricordarono delle sue parole. Si resero conto che, soltanto perché aveva assicurato che sarebbe stato lui stesso ad operare per mezzo loro, essi sarebbero stati in grado di portare a compimento la missione. Ne fu ben consapevole in particolare Pietro, « testimone delle sofferenze di Cristo » (1 Pt 5,1), che ammoniva gli anziani della Chiesa: « Pascete il gregge di Dio che vi è affidato » (1 Pt 5, 2).

Nel corso dei secoli i successori degli Apostoli, guidati dallo Spirito Santo, hanno continuato a radunare il gregge di Cristo e a guidarlo verso il Regno dei cieli, consapevoli di poter assumere una così grande responsabilità soltanto « per Cristo, con Cristo e in Cristo ».

Questa medesima consapevolezza ho avuto io quando il Signore mi chiamò a svolgere la missione di Pietro in questa amata città di Roma e al servizio del mondo intero. Sin dall’inizio del pontificato, i miei pensieri, le mie preghiere e le mie azioni sono state animate da un unico desiderio: testimoniare che Cristo, il Buon Pastore, è presente e opera nella sua Chiesa. Egli è in continua ricerca di ogni pecora smarrita, la riconduce all’ovile, ne fascia le ferite; cura la pecora debole e malata e protegge quella forte (Ez 34,16). Ecco perché, sin dal primo giorno, non ho mai cessato di esortare: « Non abbiate paura di accogliere Cristo e di accettare la sua potestà! ». Ripeto oggi con forza: « Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! » Lasciatevi guidare da læui! Fidatevi del suo amore!

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