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Paolo, servo di Cristo Gesù (Filippesi 1,1-16)
Pubblicato il aprile 2nd, 2009
di Alessandro Carollo
Paolo «servo»
Le prime righe della Lettera ai Filippesi (1,1-2) contengono — come tutte le altre lettere di Paolo — la presentazione dei mittenti e dei destinatari, assieme al saluto («grazia a voi e pace da parte di Dio Padre nostro e del Signore Gesù Cristo»: v. 2).
Paolo e Timoteo si presentano come «servi di Cristo Gesù»: il termine doulos – servo non deve essere inteso solamente nel senso negativo, come se i due Apostoli si definissero quali schiavi, sottomessi all’autorità di un Dio un po’ padrone e un po’ despota, privi della loro libertà e costretti ai lavori più degradanti. Si deve pensare piuttosto ad alcuni testi dell’Antico Testamento, dove le persone più care a Dio vengono designate con il termine “servo” (‘eved in ebraico): si tratta di un titolo onorifico, che indica non soltanto un rapporto di servizio, ma che designa in particolare la persona che assume una certa carica onorifica, come i funzionari più stretti del re (cfr. 1Sam 29,3). Anche il termine “ministro” deriva dall’equivalente latino che significa “servitore”. «Servo» evidenzia la dimensione relazionale tra chi comanda e chi obbedisce; è il caso di Mosé, che la Scrittura designa come l’amico con cui Dio parla faccia a faccia (cfr. Es 33,11) e ugualmente come «servo di Dio» (Dt 34,5). Anche altri grandi personaggi dell’AT sono detti «servi»: Davide (2Re 7,5), Abramo (Sal 104,42), Giacobbe (Is 48,20) o i profeti (Am 3,7; Ger 25,4).
Ma se quest’ultimi sono detti servi di Jahvé, Paolo e Timoteo si autodefiniscono «servi di Cristo Gesù», cambiando la prospettiva: il “padrone”, il Signore ora è Gesù. Lo stesso Paolo, in Rm 1,1, chiama se stesso «servo di Cristo Gesù», specificando di essere «apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio»: il termine «servo» evidenzia, dunque, la radicale appartenenza a Gesù che si manifesta concretamente in una vita spesa nell’annuncio evangelico. Chiunque si definisce «servo» di Gesù riconosce di essere legato in modo indissolubile a Lui e da questo legame nasce l’esigenza di annunciare la bellezza del volto di Dio Padre, che ama e perdona, che cura e solleva, che accompagna e tiene per mano.
Il termine dolulos – servo è dunque la “controparte” del termine kyrios – Signore, sia in senso umano (Col 4,1: «Voi, padroni, date ai vostri schiavi ciò che è giusto ed equo, sapendo che anche voi avete un padrone in cielo»), sia in senso teologico. In particolare, il termine «servo» viene riservato da Paolo per coloro che, all’interno della comunità cristiana», ha qualche compito specifico, come Epafra in Col 4,12. Per questo, i componenti della comunità di Filippi vengono detti «santi», non «servi».
L’uso del termine doulos anticipa, fin dalle prime battute della lettera, il cosiddetto inno cristologico, dove Paolo, in Fil 2,7, dice che «[Cristo Gesù] svuotò se stesso assumendo una condizione di servo». Se Paolo si può definire servo, è perché Gesù stesso ha agito come servo, svuotandosi completamente, facendosi schiavo dell’uo¬mo: se Gesù-Dio ha voluto servire l’uomo, la prima conseguenza è che l’uomo e tutto ciò che è veramente umano sono, per Dio, molto più importanti della sua stessa divinità!
Paolo prega per la comunità: i suoi sentimenti;
Il testo della lettera continua con un “rendimento di grazie” (v. 3-11), con il quale Paolo ringrazia Dio perché la comunità di Filippi non ha mancato di aiutarlo nell’opera di annuncio del Vangelo (v. 5). Si tratta, dunque di una preghiera dell’A¬postolo per la sua comunità.
La base portante di questi versetti è la preghiera, sia di intercessione sia — e soprattutto — di ringraziamento, che vengono interrotte, per così dire, nei versetti 7-8, da alcune note personali di Paolo, che intende così assicurare la comunità di essere in comunione con lui. I sentimenti che affiorano in queste parole accompagneranno tutto lo svolgimento della lettera ai Filippesi, i quali erano, con ogni probabilità, la comunità più cara all’Apostolo. Paolo scrive “con il cuore in mano”, non tralasciando di parlare dei suoi sentimenti e della sua situazione personale (quando scriveva la lettera, egli si trovava in carcere a Efeso o a Roma, a motivo dell’annuncio di Gesù). Quante espressioni dei sentimenti di Paolo riesci a contare in questi versetti?
Il discernimento, ossia il “desiderio” di Paolo
Quindi l’Apostolo dà alcune notizie sulla sua situazione personale, in riferi-mento alla comunità cristiana (Fil 1,12-26). Questi versetti tracciano un primo ritratto di Paolo. Eppure, proprio nel momento in cui parla di se stesso, Paolo non scende in troppi particolari personali, quasi egli volesse legare a sé la comunità di Filippi. Mentre Paolo parla di sé, egli è soprattutto preoccupato per l’annuncio del Vangelo. È il Vangelo, è Gesù il suo più grande e incontenibile desiderio. Egli si trova in prigione, in attesa di giudizio, eppure — constata Paolo — l’annuncio evangelico non si è arrestato: tutti sanno che è incatenato a motivo di Cristo; altri cristiani di Filippi — liberi da qualsiasi impedimento — si sono impegnati a diffondere il Vangelo di Cristo (v. 15-18). Ed è proprio per il fatto che il Vangelo continua ad essere annunciato che sgorga, dal cuore di Paolo, il ringraziamento a Dio.
La situazione, tuttavia, non è per niente rosea; la condanna a morte da parte del tribunale è una prospettiva che Paolo prende seriamente in considerazione, ma questo non lo spaventa, perché — come afferma l’Apostolo — «come sempre, anche ora Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia» (v. 20). Paolo non teme la morte, anzi — dal suo punto di vista personale — egli preferirebbe morire, per poter essere definitivamente con Cristo; ma è altrettanto consapevole che, per il bene della comunità, è più opportuno che egli rimanga in vita:
«Sono messo alle strette infatti tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; d’altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne. Per conto mio, sono convinto che resterò e continuerò a essere d’aiuto a voi tutti, per il progresso e la gioia della vostra fede» (Fil 1,23-25).
Paolo propone, in queste righe, un esempio sublime di discernimento (quali sono i motivi per fare una scelta qualsiasi?): sebbene egli preferisca essere con Cristo, anche se questo significa essere ucciso, tuttavia l’Apostolo ritiene di essere più utile da vivo per la comunità, per incoraggiarla, sostenerla e, soprattutto, per continuare la sua missione di evangelizzatore. Non è ancora giunto il momento, per Paolo, di diventare martire. Il momento arriverà, quando egli, a Roma, offrirà la sua vita per Cristo. Ma ora è necessario rimanere in vita e continuare la missione di annunciare il Vangelo di Dio. Il bene della comunità, degli altri, è dunque il criterio sulla base del quale Paolo decide cosa fare: egli rinuncia al bene migliore per sé (cioè, essere definitivamente con Cristo), per scegliere il bene migliore per gli altri (cioè, rimanere in vita per sostenere la comunità e annunciare il Cristo). È la prima lezione di Paolo: egli, come il Cristo, si fa tutto per gli altri, rinunciando anche ai propri desideri e al proprio bene personale.
In questo contesto è allora necessario comprendere la meravigliosa espressione che si trova al v. 21: «Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno». Non è una frase che viene pronunciata in una situazione di comodo, di serenità, di tranquillità, anzi. Paolo sa perfettamente che potrebbe essere condannato a morte da un mo¬mento all’altro. Paolo è davanti all’alternativa: vita o morte. In questa situazione drammatica, Paolo afferma ciò che per lui è più importante, anzi, chi è più importante, chi è l’unico motivo per vivere. La vita di Paolo è Cristo, cioè l’unico criterio valido di scelta, il punto di orientamento. Il cuore, la vita stessa di Paolo sono solo per Cristo e di Cristo. Cristo è talmente importante e decisivo, che la prospettiva della morte potrebbe sembrare addirittura un «guadagno» (un po’ quello che dice san Francesco nel Cantico di Frate Sole a proposito di «sorella morte»). Paolo trova e contempla Cristo nell’altro, nella comunità: è per questo che Paolo si augura di continuare a vivere, per continuare a «servire» i cristiani mediante l’annuncio del Vangelo. «Che senso ha la vita?» ci chiediamo spesso. Paolo ci dà la risposta: l’unico motivo per vivere, il senso pieno e definitivo dei nostri giorni è Gesù, e Gesù «servo»! Tutto il resto è una perdita, è «spazzatura»…