Archive pour avril, 2009

Simeone il Nuovo Teologo: « Colui che Dio ha mandato proferisce le parole di Dio »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20090423

Giovedì della II settimana di Pasqua : Jn 3,31-36
Meditazione del giorno
Simeone il Nuovo Teologo (circa 949-1022), monaco greco
Catechesi, 3 ;  SC 96, 305

« Colui che Dio ha mandato proferisce le parole di Dio »

Il Signore ha detto: «Scrutate le Scritture» (Gv 5,39). Scrutatele dunque e ricordate con molta fedeltà e fede quanto esse dicono. Così, conosciuta chiaramente la volontà di Dio… sarete in grado di distinguere senza sbagliarvi, il bene dal male, invece di prestare orecchio a qualsiasi spirito e di essere trascinati da pensieri malsani

Siate certi, fratelli miei, che nulla è favorevole alla nostra salvezza quanto l’osservanza dei divini precetti del Signore… Ci vorrà tuttavia molto timore, molta pazienza e perseveranza nella preghiera perché ci sia rivelato il significato di una sola parola del Maestro, perché conosciamo il gran mistero nascosto in ogni sua minima parola, e occorrerà che siamo pronti a dare la nostra vita per non lasciar cadere un solo segno dei comandamenti di Dio (cfr Mt 5,18).

Infatti la parola di Dio è come una spada a doppio taglio (Eb 4,12) che pota e taglia fuori l’anima da ogni cupidigia e da ogni istinto della carne. Anzi, essa diviene come un fuoco ardente (Ger 20,9) quando ravviva l’ardore della nostra anima, quando ci fa disprezzare ogni tristezza della vita e considerare le prove come perfetta letizia (Gc 1,2), quando, davanti alla morte temuta dagli uomini, ci fa desiderare e abbracciare la vita, donandoci il mezzo di giungervi.

Alla scuola dell’apostolo Paolo per ri-trovare Gesù (biblica)

dal sito:

http://www.duomodimestre.it/index.php?option=com_content&task=view&id=549

Alla scuola dell’apostolo Paolo per ri-trovare Gesù

« E’ un tipo tosto. Per nulla scontato. Credi di conoscerlo perché la domenica, a messa, ti imbatti spesso in qualche sua lettera. E invece, se ti inoltri nella sua vita o nei suoi scritti, scopri una figura potente, nuova e… incontenibile. San Paolo – è di lui che parliamo – si rivela infatti ‘una personalità forte, capace di grandi emozioni e di sentimenti intensi, lucido nel pensiero, intransigente sui principi, remissivo e dolce nelle relazioni con i collaboratori, dotato di un’intelligenza acuta e di grande capacità organizzativa’, per dirlo con le parole del biblista Rinaldo Fabris »… Comincia così l’articolo con cui Alessandro Polet presenta sulla Borromea la conferenza su san Paolo che sarà tenuta martedì 17 febbraio da mons. Rinaldo Fabris al Laurentianum…

« La sua vita da convertito – continua Polet parlando di san Paolo – è un’avventura strepitosa, le sue lettere un tesoro di fede e dottrina. Testimone convincente ed esigente (prima di tutto con se stesso), attento comunicatore, fondatore di comunità, viaggiatore instancabile e continuamente in missione, capace di rivolgersi a tutti senza dimenticare le sue origini ebree, espansivo ed entusiasta ma in grado di vivere serenamente il tempo del nascondimento e del fallimento, franco e schietto nell’affrontare questioni e divergenze nella comunità ma senza mai rompere ed anzi rinsaldando l’appartenenza alla Chiesa. La sua vita ha un centro, un cuore, un motore: è Gesù, il ‘mio Signore’. Tanto da arrivare a dire: ‘Per me il vivere è Cristo’. Un Gesù vivo, reperibile, contemporaneo, che parla e si fa incontrare.

Di fronte a Paolo non si può restare neutrali. Si è costretti a schierarsi pro o contro », scrive ancora mons. Rinaldo Fabris. E tutto perché Gesù, per l’apostolo di Tarso, ‘non è un personaggio del passato da studiare e ricordare’ ma una Persona che ‘si fa presente e opera per mezzo del suo Spirito in ogni persona che lo riconosce e l’accoglie nell’ascolto del Vangelo’.

E’ importante e prezioso mettersi alla scuola di san Paolo: ci condurrà a ri-trovare Gesù e a ri-centrare la vita in Lui. Lo faremo di nuovo in Quaresima, con la lectio divina, ma anche a breve con una speciale opportunità. Martedì 17 febbraio, alle ore 21.00, nell’aula magna del Laurentianum interverrà e dialogherà con noi proprio don Rinaldo Fabris, biblista friulano noto ed apprezzato tra l’altro per i suoi studi ed approfondimenti sul Nuovo Testamento e sui testi paolini.’La croce: scandalo e stoltezza in san Paolo’ sarà il tema della serata. Si affronterà così una delle dimensioni fondamentali e paradossali della fede cristiana. Le nostre croci, quelle che accompagnano la vita e la storia di ogni uomo. E la croce per eccellenza, la morte. Ma soprattutto la croce di Cristo: una ‘follia’, umanamente parlando, divenuta strumento di salvezza e sintesi estrema dell’amore di un Dio creatore e redentore. L’appuntamento – promosso dall’Istituto di cultura Laurentianum – si aggancia al percorso mensile proposto dalla parrocchia di San Lorenzo ai giovani della città (tra cui gli universitari della Casa studentesca San Michele) ma è, ovviamente, aperto e rivolto a tutti. Ad ogni persona curiosa di scoprire, con san Paolo, il differente punto di vista di Dio e il suo particolare stile di entrata nella storia: Cristo crocifisso. E risorto ».

Martedì 17 febbraio, alle ore 21.00,

nell’Aula Magna del Laurentianum,

mons. Rinaldo Fabris, biblista,

affronta il tema

La Croce: scandalo e stoltezza in san Paolo
 

E’ un’iniziativa dell’Istituto di Cultura Laurentianum

ECKHOUT ABRAHAM AND THE THREE ANGELS

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ECKHOUT ABRAHAM AND THE THREE ANGELS

http://www.artbible.net/1T/Gen1501_AbrahamCovenant_18/index_2.htm

Publié dans:immagini sacre |on 22 avril, 2009 |Pas de commentaires »

Card. Roger Etchegaray: Perché le fede cristiana ha bisogno del giudaismo

ho molti testi, molto materiale, da postare su questo Blog, tuttavia oggi ho cercato questo « studio » del Card. Etchegaray perché, a causa delle notizie che arrivano dai media su quello che accade in questi giorni, ho desidero rivedere la fede cristiana nella sua relazione con il « giudaismo », il testo è molto bello, certo! ma è anche utile per comprenderci, noi, come cristiani, dal sito:

http://www.nostreradici.it/etchita.htm

« RADICI DELL’ANTIGIUDAISMO IN AMBIENTE CRISTIANO »

Simposio organizzato dalla Commissione teologico-storica
del Grande Giubileo dell’anno 2000

Perché le fede cristiana ha bisogno del giudaismo

Card. Roger Etchegaray

Il cristianesimo ha bisogno del giudaismo? Quando ero ragazzo, una domanda del genere mi sarebbe parsa insolita, forse improponibile. Nel mio piccolo villaggio basco, non ho mai incrociato l’«ebreo errante». Una volta l’anno, la liturgia del Venerdì Santo mi faceva pregare «per gli ebrei infedeli». Quando mia madre mi conduceva nella vicina Bayonne per comprare il vestito buono, da un sarto che mi diceva essere ebreo, ero sorpreso nell’incontrare un uomo come gli altri; e fu lui stesso a confezionare la mia prima tonaca! In Seminario, sull’«insegnamento del disprezzo» prevaleva quello dell’insignificanza: l’ebreo non contava nulla, e io non ho mai avvertito alcun bisogno religioso di Ebraismo.

Ho provato il primo shock l’anno della mia ordinazione sacerdotale, esattamente 50 anni fa, quando non so come mi capitarono sotto gli occhi i «dieci punti di Seelisberg», elaborati in Svizzera da un piccolo gruppo di ebrei e cristiani. Oggi, quel testo che allora era tanto profetico e coraggioso, mi sembra abbastanza banale. Nel 1965, da esperto del Concilio Vaticano II, ammirai la dolce ostinazione dispiegata dal cardinale Bea per far votare la dichiarazione sugli ebrei Nostra Aetate. Otto anni dopo, quando ero arcivescovo di Marsiglia, grande città portuale in cui convivevano pacificamente 80 mila ebrei e 80 mila musulmani, fui, insieme ad altri tre vescovi francesi, cofirmatario di uno dei più aperti orientamenti sulle relazioni con gli ebrei offerto, non senza ripensamenti, da un episcopato. Ma fu soprattutto all’interno del Comitato internazionale di collegamento fra Chiesa cattolica ed Ebraismo mondiale che imparai fino a che punto il dialogo fosse difficile da una parte e dall’altra per via di una profonda asimmetria fra i protagonisti.

Questo preambolo mi consente di entrare senza indugi nel vivo della questione con vigore e con rigore. Il cristianesimo ha bisogno del giudaismo? La risposta spontanea è sì, un sì franco e deciso, un sì che esprime un bisogno vitale e quasi viscerale. Ma, naturalmente, io non posso che rispondere a nome della mia Chiesa, «scrutando» il suo «mistero» secondo la bella espressione della Nostra Aetate, nel pieno rispetto della maniera diversa in cui l’ebraismo vede e definisce se stesso. Per me, il cristianesimo non può pensare se stesso senza l’ebraismo, non può fare a meno dell’ebraismo. Fin dall’inizio del suo pontificato (12 marzo 1979) a Magonza (17 novembre 1980), Papa Giovanni Paolo II osò dichiarare: «Le nostre due comunità religiose sono legate al livello stesso della loro identità». Ricordo ancora (ero presente) le sue parole folgoranti nella grande sinagoga di Roma, il 13 aprile 1986: «La religione ebraica non ci è « estrinseca » ma, in un certo senso, è « intrinseca » alla nostra religione. Noi abbiamo dunque verso di lei dei rapporti che non abbiamo con nessun’altra religione. Voi siete i nostri fratelli preferiti e, in un certo senso, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori».

Queste parole, in fondo, non hanno nulla di nuovo o di audace; si ispirano all’immagine paolina della Lettera ai Romani (11,16-24) dell’ulivo buono che è Israele sul quale sono stati innestati i rami d’ulivo selvatico che sono i pagani. E san Paolo, l’antico fariseo divenuto «l’apostolo delle nazioni» dirà al pagano-cristiano: «Non menar tanto vanto; non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te» (Rom. 11, 18)…è l’ebreo che ti porta. E non è forse nel Vangelo di Giovanni, che si vorrebbe intriso di antigiudaismo, che Gesù proclama solennemente alla Samaritana: «La salvezza viene dai giudei» (Gv. 4,22). Se le cose stanno veramente così, come spiegare il fatto che nel corso dei secoli tanti cristiani abbiano vissuto come se avessero dimenticato le loro radici, o peggio disprezzando il loro fratello maggiore? Comprendo bene la reazione del Rabbi Askenazi che diceva: «Non siamo neppure fratelli separati, perché non ci siamo mai incontrati». Di fatto, avvertiamo tutti la dolorosa ferita di quella che Fadiey Lovosky chiamava significativamente «la lacerazione dell’assenza».

Ma allora, per quale miracolo ebrei e cristiani si incontrano dopo duemila anni, o si mettono ad esaminare insieme i rapporti rovesciati che hanno avuto nel corso della storia? Perché c’è stato bisogno della Shoah per aprire l’era del dialogo? A dire il vero, la rottura non era forse cominciata con lo «scandalo» della croce di Cristo? Il passo ispirato di Jules Isaac presso Giovanni XXIII non è certamente estraneo all’avvio di una primavera tardiva e ancora timida. Ora cominciamo a prendere coscienza del fatto che la nostra identità cristiana è una identità ricevuta da altri, e che questo altro è il popolo eletto che esiste solo in quanto derivato da Dio. Il processo in atto va ben oltre la semplice constatazione della ebraicità carnale di Gesù ormai affermata senza difficoltà e da parte di tutti, con tutte le conseguenze culturali e cultuali nella liturgia e nella vita della Chiesa, oggi ammesse abbondantemente e senza imbarazzo da autori sia ebrei che cristiani. Giovanni Paolo II, ancora una volta, ricevendo l’11 aprile scorso la Pontificia Commissione Biblica, ha ricordato che non si può esprimere pienamente il mistero del Cristo senza ricorrere all’Antico Testamento. Fin dal secondo secolo, contro Marcione, la Chiesa dava testimonianza di questo rapporto vitale, in seguito molto oscurato se non camuffato. Da parte mia, amo ricordare che la Chiesa cattolica celebra costantemente la festa della Presentazione di Gesù al Tempio. E non finirò mai di scoprire fino a qual punto la mia preghiera, compresa la preghiera che Cristo insegnò ai suoi discepoli, il «Padre nostro», è impastata di citazioni e salmodie ebraiche. Tutto in me respira la pietà e la saggezza degli «anawim», i poveri del Signore.

Ma questo radicamento, per quanto importante, mi lascia ancora sulla soglia del problema, del vero problema contro il quale mi scontro e per il quale mi batto. Ciò che mi urta, ciò che oggi mi sconvolge, è la perseveranza del popolo ebreo nonostante tutti i pogròm, la sua sopravvivenza dopo i forni crematori. Non c’è, lì, la testimonianza invincibile di una vocazione permanente, di un significato attuale per il mondo, ma soprattutto nel seno stesso della Chiesa? Ciò è molto più che scoprire la ricchezza di un patrimonio comune; è scrutare nel disegno di Dio la missione che il popolo ebreo deve ancora e sempre compiere. Che cosa significa per me, cristiano, questo faccia a faccia permanente che è l’ebreo? Che cosa significa per la mia Chiesa questo popolo ebreo che non cessa di far risaltare il tempo dell’Antico Testamento in un tempo che io credevo esser divenuto una volta per tutte il tempo del Nuovo Testamento? Affermando, con san Paolo, che la seconda Alleanza non ha cancellato la prima, perché «i doni di Dio sono irrevocabili» (Rm. 11,29), la Chiesa arriva al punto di riconoscere all’ebraismo una funzione di salvezza dopo il Cristo? Per la mia coscienza cristiana, il confronto con questo volto ebreo che finora avevamo dissimulato se non sfigurato, con questa Sinagoga davanti alla quale avevamo chiuso gli occhi, comporta al tempo stesso un profondo mistero e una gigantesca sfida.

Parlare di «mistero» alla maniera di san Paolo (Rm. 11,25) vuol dire riconoscere che il significato ultimo della storia della salvezza ci sfugge poiché la sua chiave è in Dio, e ammettere che non tutto è svelato perché non tutto è compiuto. Certo, la Chiesa proclama chiaramente che Gesù Cristo è l’unico Salvatore del mondo; e vive in tutto il suo essere della sua morte e resurrezione. Ma la perennità d’Israele non è il segno di ciò che le manca per la completa realizzazione della sua missione? Di fronte al «già» della Chiesa, Israele è la testimonianza del «non ancora», di un tempo messianico non pienamente concluso. Il popolo ebraico e il popolo cristiano si ritrovano così in una situazione di contestazione o meglio di emulazione reciproca. Quando noi cristiani ci rallegriamo per il «già», gli ebrei ci ricordano il «non ancora», e questa tensione feconda è nel cuore dell’intera vita della Chiesa, fino a raggiungere la liturgia eucaristica, quando la Chiesa ogni volta lancia il suo grido lancinante: «Vieni, Signore Gesù». La Chiesa annuncia, prefigura già il «Regno», la città in cui Dio sarà «tutto in tutti», come dice san Paolo (1 Cor. 15,28). Ci conforta il sapere che questo Regno nascosto, questo spazio infinito di salvezza offerto a tutti, supera di molto i limiti visibili della Chiesa. La quale non è che il «Sacramento», il luogo in cui il Regno è celebrato da coloro che l’hanno già accolto.

Karl Barth diceva: «La questione decisiva non è « che cosa può essere la Sinagoga senza Gesù Cristo? », ma piuttosto « che cosa è la Chiesa se per tanto tempo si trova di fronte ad un Israele che le è estraneo? »». Detto in altro modo, per la Chiesa la perennità d’Israele non è solo un problema di relazioni esterne da sviluppare, ma un problema di relazioni interne da approfondire, un problema che tocca il proprio essere. Il sentiero sul quale ci troviamo corre lungo un crinale ancora poco esplorato dall’esegesi e dalla teologia, ma è su questa strada, mi sembra, che dobbiamo procedere, altrimenti il dialogo ebraico-cristiano resterà superficiale, limitato e pieno di riserve mentali. Questo dialogo, è stato detto, è appena uscito dall’età della pietra e non potrà proseguire se gli interlocutori da una parte e dall’altra non metteranno nel conto la contemporaneità dell’altro. Il cristianesimo è l’albero che cresce dal seme dell’ebraismo e copre tutta la terra con le sue fronde, ma il frutto dell’albero contiene di nuovo lo stesso seme. Nella Divina Commedia, Dante invita gli ebrei ad abbandonare la loro speranza: «Lasciate ogni speranza».

Franz Rosenzweig, scioccato da quel verso, commentava: «Quando l’ebreo comparirà davanti al trono celeste, gli sarà posta una sola domanda: « hai sperato nella redenzione? »». Tutte le altre domande, aggiungeva Rosenzweig, «sono per voi cristiani. Fin d’ora prepariamoci insieme, nella fedeltà, a comparire davanti al nostro Giudice». Per prepararci insieme, dobbiamo considerarci tutti eredi della Bibbia, ma io credo che per mettere bene a frutto questa eredità i cristiani hanno in modo particolare bisogno degli ebrei perché gli ebrei hanno con la Scrittura una sorta di familiarità carnale, perché al contrario di ogni dualismo che inaridisce essi sono testimoni dell’unità vivente dell’uomo interpellato da Dio, perché restano il popolo che ha distrutto gli idoli e denunciato le ideologie, antiche e moderne.

La Bibbia ebraica fa ascoltare al mondo intero la voce del Dio unico. Anche là dove non vive alcun ebreo ma la Bibbia è proclamata dalla Chiesa, l’ebreo è spiritualmente presente perché è percepito dalle nazioni che ricevono la Parola divina come appartenente al popolo per il quale il Signore si è fatto conoscere sulla terra. Se il bersaglio del neopaganesimo, radice profonda di ogni antisemitismo, è la Bibbia che svela in ogni uomo l’immagine di Dio, dobbiamo oggi più che mai testimoniare la nostra fedeltà comune alla Parola e alla Legge che strutturano ogni coscienza umana. Dobbiamo salire insieme sulla montagna santa del Sinai e lassù tenerci per mano senza batter ciglio davanti al volto di Dio, interamente occupati, come in una notte d’uragano, a ricevere l’acqua e il fuoco dal cielo per lasciarci purificare. Non dobbiamo, noi tutti, essere «grondanti della parola di Dio» come diceva Péguy al suo amico ebreo, Bernard Lazare? Non siamo tutti come quei primitivi che ricevettero il Decalogo divenendo così i veri civilizzatori dell’umanità?

Questa misteriosa differenza e questa incredibile parentela fra ebrei e cristiani ci portano insieme sulla via del pentimento, della teshuva. È l’insegnamento biblico fondamentale, comune a tutti noi. Perché, ebrei e cristiani, siamo tutti peccatori, attraversiamo la storia nel dualismo Chiesa-Sinagoga prodotto dall’indurimento degli uni e degli altri, ciascuno essendo interno all’indurimento dell’altro. E nella mia esperienza spirituale di fronte a Cristo, io cerco di misurare e di comprendere la distanza che mi separa dall’ebreo, senza mai pensare di fare dell’ebreo un «cristiano in potenza».

È vero che Gesù ci divide, che è fra di noi segno di contraddizione, pietra d’inciampo. Mi piace molto la formula sconvolgente di S. Ben Chorin: «La fede di Gesù ci unisce ma la fede in Gesù ci separa». E tuttavia oso dire – è la verità profonda di ogni paradosso – che Gesù ci unisce nel medesimo istante in cui ci divide. Perché questa lacerazione riguarda solo noi. Un buddista, un indù, non ha alcun motivo d’esser chiamato in causa da Gesù Cristo: non lo incontra mai nella sua storia. Anche un musulmano lo sfiora appena. Ma noi, ebrei e cristiani, che lo si voglia o no, prima o poi siamo costretti a chiederci davanti al mondo come assumere insieme questa lacerazione interna che c’è fra di noi, questa lacerazione che è tutta nostra e che ha provocato il primo scisma, quello che un esegeta (Claude Tesmontant) ha chiamato «il prototipo degli scismi» dentro il corpo unico della famiglia di Dio? Perché, gli uni e gli altri, siamo i soli a poter annunciare la Parola divina rivolta a tutti gli uomini, siamo anche sospesi insieme alla stessa Parola e testimoni di una stessa promessa per l’umanità intera.

In questo senso, anche il futuro del movimento ecumenico fra le diverse Chiese cristiane è legato alla consapevolezza che il legame con l’ebraismo è il test della fedeltà del cristianesimo allo stesso Dio. F. Lovsky, nell’ultimo capitolo del suo bel libro, parla dell’incontro ebraico-cristiano nell’intercessione. E constata che le nostre preghiere – quando pensiamo gli uni agli altri – sono le preghiere delle nostre sofferenze comuni e dei nostri risentimenti reciproci, ma deplora che non siano anche le preghiere delle nostre vocazioni complementari. Per quanto diverse siano le nostre preghiere, sono apparentate e devono diventare sorelle.

Per parte mia, non cesso di pregare in vista del giorno in cui Dio sarà «tutto in tutti»(1 Cor. 15,28), ebrei e non ebrei. Tale è la Gerusalemme celeste di cui la nostra preghiera deve affrettare la venuta, la preghiera di noi che siamo in esilio ovunque nel mondo…anche io a Roma! Oh! Gerusalemme, preferita da Dio, di te ognuno può dire: «Ecco mia madre, in te ogni uomo è nato» (Sal. 97), e le nazioni salgono verso la luce. Oh, Gerusalemme, io cammino verso di te. Oh Gerusalemme, «Città salda e compatta» dove si riuniscono tutti i figli di Abramo e in cui si concentra la preghiera per la pace (Sal. 122). Oh Gerusalemme, io cammino verso di te. Oh! Gerusalemme, le cui colline piangono di desolazione e danzano di speranza, monte Moriah e Golgota, muro del Tempio e memoriale Yad Vashem, sepolcro vuoto dove l’angelo invita a non cercare fra i morti Colui che è Vivente (Lc. 24,5). Oh! Gerusalemme, io cammino verso di te. Oh! Nuova Gerusalemme, tu che discendi dal cielo vestita come una sposa nel giorno delle nozze, tu che non hai più tempio, perché il tuo tempio «è il Signore, il Dio onnipotente e l’Agnello» (cf. Ap. 21)! Oh Gerusalemme del cielo, noi camminiamo verso di te.

Al di là di ogni forma di testimonianza personale, resto convinto che la mia fede cristiana per essere fedele a se stessa ha bisogno della fede ebraica. Lungi da ogni teologia cristianizzante del giudaismo e da ogni teologia giudaizzante del cristianesimo, ho cercato di testimoniare ciò che Martin Buber ha espresso così bene: è l’Alleanza dello stesso Dio vivente che ci fa esistere, ebrei e cristiani, e che crea una comunità oltre la rottura. «L’ebraismo e il cristianesimo – scriveva al professor Karl Thieme – sono entrambi escatologici, ma allo stesso tempo hanno un posto nel disegno di Dio. Di qui derivano le differenze che separano ebrei e cristiani e la relazione che li unisce».

Se l’altro è «un mistero e una sfida», la differenza è l’essenza stessa del nostro incontro, ed è anche la possibilità di ascolto reciproco e di mutuo arricchimento. Lungi dall’allontanarci gli uni dagli altri, non cessiamo di incrociarci attorno al Messia. Edmond Fleg ce lo insegna in Ascolta Israele:

«Ed ora entrambi siete in attesa
Tu che Egli venga e tu che Egli ritorni;
Ma a Lui domandate la stessa pace
E le vostre mani, che Egli venga o che Egli ritorni,
a Lui tendete nello stesso amore! E dunque cosa importa?
Dall’una e dall’altra riva
Fate che Egli arrivi
Fate che Egli arrivi!»

Fate che Egli arrivi! Lo stesso Edmond Fleg, in un altro libro (Gesù raccontato dall’ebreo errante), stimola tutti, ebrei e cristiani: «Perché il Messia arrivi, grida con me: felici coloro che getteranno via le armi, perché partoriranno il Messia».

Publié dans:c.CARDINALI, EBRAISMO |on 22 avril, 2009 |Pas de commentaires »

Sant’Ippolito di Roma: « Chi opera la verità viene alla luce »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=readings&localdate=20090422

Mercoledì della II settimana di Pasqua : Jn 3,16-21
Meditazione del giorno
Sant’Ippolito di Roma ( ?-circa 235), sacerdote e martire
La Tradizione apostolica, 25 ; SC 11, 101

« Chi opera la verità viene alla luce »

Venuta la sera, presente il vescovo, il diacono porta la lampada. E in piedi in mezzo a tutti i fedeli, renderà grazie. Saluterà prima dicendo: «Il Signore sia con voi.» E il popolo dirà: «E con il tuo spirito» « – Rendiamo grazie al Signore» E diranno: «È cosa buona e giusta; a lui sia ogni gloria e onore»… E pregherà dicendo:

«Ti ringrazio, o Dio, per il tuo Figlio Gesù Cristo, nostro Signore, di averci illuminati, durante tutto il giorno, rivelandoci la luce incorruttibile. Abbiamo terminata la giornata e siamo giunti sulle soglie della notte. Siamo stati ricolmi della luce del giorno, che tu hai creato per la nostra gioia. Ed ora non ci manca la luce della lampada della sera. Cantiamo dunque la tua santità e la tua gloria per il tuo Figlio unico, nostro Signore Gesù Cristo. Per lui e con lui tu possiedi la gloria, la potenza, l’onore, con lo Spirito Santo, ora e nei secoli dei secoli. Amen

Mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto – Catechesi GMG 2008 (3 catechesi, Gal; 1Cor; Atti)

dal sito:

http://www.gmg2008.it/gmg2008/allegati/212/Catechesi%20Mons.%20Forte%20Sydney%202008.doc

Mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto – Catechesi GMG 2008

Mercoledì 16 luglio:

Chiamati a vivere nello Spirito Santo
«Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito» (Gal 5, 25)

In questa prima catechesi, si tratta di rispondere alla domanda: chi è lo Spirito Santo? L’obiettivo è di aiutare i giovani a scoprire la bellezza della loro vocazione di battezzati e della vita cristiana, che consiste nell’accogliere lo Spirito Santo e lasciarsi guidare da lui. I giovani possono seguire Cristo solo se lo incontrano personalmente, da qui l’importanza di approfondire il rapporto tra Cristo e lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo è la Persona della Santa Trinità che ci permette di incontrare e conoscere Cristo. Cristo si rende presente nella nostra vita mediante lo Spirito Santo.

 L’intera esistenza cristiana può essere considerata l’“Amen” pronunciato con la vita alla duplice confessione di fede nel Dio trinitario, quella espressa nel segno di Croce, memoria del battesimo, e quella veicolata dal rendere gloria alle Tre persone, riassumendo così l’intero orientamento dell’esistenza e della storia alla Trinità e la vocazione ultima di ogni battezzato: “Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo…”. Proprio per questo risulta ancor più dolorosa la costatazione di una sorta di “esilio della Trinità” dalla prassi e dal pensiero dei cristiani: già Karl Rahner aveva osservato che “se si dovesse sopprimere, come falsa, la dottrina della Trinità, pur dopo un tale intervento gran parte della letteratura religiosa potrebbe rimanere quasi inalterata”, e, quel che è peggio, la vita dei credenti non cambierebbe gran che! Negli ultimi decenni la teologia e il vissuto spirituale hanno operato un vero e proprio “ritorno alla patria trinitaria”. Muovendo dall’evento pasquale si è contemplata la Trinità nel suo comunicarsi a noi nella storia della salvezza, fino a riconoscere nella Croce la “narrazione” della Trinità, e nella confessione di fede trinitaria il “concetto” custodito nell’evento dell’abbandono di Gesù in Croce.

 1. La Croce rivelazione della Trinità

 Questo messaggio è espresso dalla tradizione iconografica dell’Occidente allorché la Trinità è rappresentata mediante l’immagine del legno della Croce, dal quale pende il Figlio, abbandonato nell’infinito dolore e nella suprema solitudine della morte, tenuto fra le braccia dal Padre, mentre la colomba dello Spirito unisce e separa l’Abbandonante e l’Abbandonato. Questa scena, di cui la Trinità di Masaccio in Santa Maria Novella a Firenze rappresenta forse la testimonianza più alta, lascia trasparire come la Croce non sia soltanto un evento della storia di questo mondo. Il Crocefisso muore fra le braccia di Dio. La sua morte non è l’atea “morte di Dio”, ma è la “morte in Dio”: la Trinità divina, cioè, è profondamente raggiunta nel suo mistero di Padre, di Figlio e di Spirito, dall’evento che si compie nel silenzio del Venerdì Santo. La fede cristiana non professa un Dio impassibile, spettatore del dolore umano dall’alto della Sua infinita lontananza, ma un Dio “compassionato”, come diceva l’italiano del Trecento, un Dio cioè che, avendo amato la Sua creatura accettandone il rischio della libertà, l’ha amata sino alla fine. È questo amore “sino alla fine” (Gv 13,1) a motivare il dolore infinito della Croce!
 Sulla Croce si offre anzitutto il Figlio di Dio, come dicevano i Concili della Chiesa antica: “Uno della Trinità ha sofferto”, “Unus de Trinitate passus est”! “Deus crucifixus”, “il Dio crocifisso”, affermava Agostino riferendosi a Gesù in Croce. Che cosa significano queste formule paradossali? che vuol dire che sulla Croce la morte tocca il Figlio di Dio? È Paolo a spiegarlo nella Lettera ai Galati: “Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (2,20). La Croce è la rivelazione dell’amore, per il quale il Figlio si è consegnato alla morte per noi. Il Figlio di Dio non è stato “a passeggio” fra gli uomini: Egli è diventato il compagno del nostro dolore, ha condiviso la nostra fatica di vivere, le nostre stanchezze, il pianto dell’amore. “Guardate come l’amava” (Gv 11,36), dicono di Lui, vedendolo piangere di fronte alla morte dell’amico Lazzaro. Egli è morto sulla Croce per amore nostro. La Croce è storia del Figlio eterno che soffrendo ci ha rivelato il Suo infinito amore: è dalla Croce che il Figlio pronuncia con l’eloquenza silenziosa del dono la parola riportata dai mistici: “Non per scherzo ti ho amato” (Angela da Foligno). Se gli uomini pensassero veramente a quelle parole “li amò sino alla fine”, quante resistenze e paure cadrebbero davanti all’Amore, che si è fatto umile, crocefisso, abbandonato nell’infinito dolore della Croce!
 La Croce, certo, non è solo la storia del Figlio: questi viene consegnato alla morte da Dio, Suo Padre. È Lui che tiene fra le braccia il legno della vergogna, l’albero dell’abbandono. È ancora Paolo ad affermarlo nella Lettera ai Romani: “Dio non ha risparmiato suo Figlio ma lo ha consegnato per tutti noi” (8,32). E Giovanni dice: “Dio ha tanto amato il mondo da dare per noi il Suo Figlio Unigenito” (3,16). Dio non è impassibile: Egli soffre per amore nostro. È il Dio che Giovanni Paolo II nell’Enciclica Dominum et vivificantem mostra come Padre capace di infinito amore, proprio perché capace di infinito dolore: “Il ‘convincere del peccato’ non dovrà significare anche il rivelare il dolore, inconcepibile ed inesprimibile, che, a causa del peccato, il Libro sacro… sembra intravvedere nelle ‘profondità di Dio’ e, in un certo senso, nel cuore stesso dell’ineffabile Trinità?… Nelle ‘profondità di Dio’ c’è un amore di Padre che, dinanzi al peccato dell’uomo, secondo il linguaggio biblico, reagisce fino al punto di dire: ‘Sono pentito di aver fatto l’uomo’… Si ha così un paradossale mistero d’amore: in Cristo soffre un Dio rifiutato dalla propria creatura… ma, nello stesso tempo, dal profondo di questa sofferenza lo Spirito trae una nuova misura del dono fatto all’uomo e alla creazione fin dall’inizio. Nel profondo del mistero della Croce agisce l’amore” (nn. 39 e 41).
 Se questo è vero, possiamo essere certi che nessuno è un numero davanti a Dio Padre: Egli ci conosce uno ad uno, e ci ama di un amore eterno, infinito, e soffre per il nostro peccato di una sofferenza, della cui profondità non riusciamo neanche ad intravedere l’abisso. Dio è Amore: è così che ce lo presenta la Prima lettera di Giovanni: “Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1 Gv 4,7-8). Come Giovanni arrivi a dire che Dio, il Padre, è Amore, lo spiegano i versetti che seguono: “In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1 Gv 4,9-10). Ecco la rivelazione dell’infinito Amore: Dio soffre per amore nostro; Dio si compromette col dolore umano e non ci lascia soli nella notte del dolore. “Il Padre stesso non è senza dolore!… Soffre attraverso l’amore” (Origene).
 Anche lo Spirito è presente nell’ora della Croce in un modo misterioso e reale. Dice il quarto Vangelo che Gesù “chinato il capo, consegnò lo Spirito” (19,30). Che cosa significhi questa consegna dello Spirito nel silenzio del Venerdì Santo può essere compreso alla luce dello sfondo vetero-testamentario del Nuovo Testamento. Nei testi dell’attesa c’è un’equazione chiara: quando Israele va in esilio, Dio ritira il Suo Spirito dal popolo eletto; l’esilio equivale all’assenza dello Spirito. Quando Israele tornerà nella terra della promessa di Dio, che è la sua patria, Dio effonderà il Suo Spirito su ogni carne e tutti profeteranno. È l’annuncio delle profezie dello Spirito, che vengono a realizzarsi nel giorno della Pentecoste  (ad esempio Ez 36,26-27 o Gl 3,1-2). Se l’esilio è la dolorosa assenza dello Spirito, la Patria è la nuova effusione di Lui, è la gioia della vita del Consolatore che entra nel nostro cuore e, togliendoci il cuore di pietra, ci dona il cuore di carne. Quando Gesù consegna lo Spirito, Lui, il Figlio di Dio, entra nell’esilio dei “senza Dio”, dei “maledetti da Dio”. Dice Paolo: “Dio lo trattò da peccato in nostro favore” (2  Cor 5,21); “Cristo è diventato maledizione per noi” (Gal 3,13). La Patria è entrata nell’esilio: questa è la buona novella della Croce! Ormai, non ci sarà più situazione umana di dolore, di miseria e di morte, in cui la creatura umana possa sentirsi abbandonata da Dio. Se il Padre ha tenuto fra le Sue braccia l’Abbandonato del Venerdì Santo, terrà fra le Sue braccia tutti noi, qualunque sia la storia di peccato, di dolore e di morte dalla quale noi proveniamo. A chiunque avverta il peso del dolore e della morte, il Vangelo della Croce, “follia” per i Greci e “scandalo” per i Giudei, dice che non è solo. “Ti ho amato di amore eterno” (Ger 31,3). “Ti ho preso fra le mie braccia” (cf. Sal 131,2). “Ti ho disegnato sul palmo delle mie mani” (Is 49,16): e se anche una madre si dimenticasse del suo bambino, “io non mi dimenticherò di Te” (cf. Is 49,15).
 
 2. La Trinità del Dio Amore

 La Croce è dunque la buona novella, il Vangelo dell’amore di Dio: è ai piedi della Croce che noi scopriamo che Dio è Amore! Questo è il Vangelo della nostra salvezza: noi abbiamo creduto all’amore. Noi non crediamo solo che Dio esiste: per credere in questo, basta contemplare in profondità il mistero del mondo! Noi crediamo in un Dio personale, in un Dio che è amore e ci ama di un amore sempre nuovo e personalizzato, di un amore spinto fino all’infinito dolore della Croce. È questo il Dio della Croce: il Dio della carità senza fine… È però la resurrezione a illuminare la Croce di eternità, per dirci che la storia che in essa si è consumata non si è chiusa nel passato, ma continuerà a scriversi in tutte le storie del dolore del mondo, che vorranno aprirsi al dono della vita, accogliendo lo Spirito consegnato da Gesù nell’ora della Croce e a Lui restituito nell’ora di Pasqua. Questo Spirito è ormai donato al Risorto (cf. Rom 1,4) e da Lui a noi come Spirito di resurrezione e di vita. Perciò Pasqua è la buona novella del mondo, il fondamento della speranza, che non delude. Nel dono della riconciliazione compiuta a Pasqua lo Spirito è guadagnato per noi: e noi possiamo ormai entrare nel cuore divino della Trinità e il mondo intero è chiamato a divenire la Patria di Dio, quando il Figlio consegnerà ogni cosa al Padre e Dio sarà “tutto in tutti” (1 Cor 15,28)!
 Tre sono dunque le figure dell’Amore eterno, che agiscono nell’ora della Croce e nell’ora di Pasqua, tre divine Persone – come le indicherà la teologia, sia pur balbettando. Esse vanno contemplate nella proprietà specifica di ciascuna, avendo sempre presente che uno e unico è il Dio amore, la Trinità una nell’unica essenza della divinità. Questo Dio, uno e unico, secondo la testimonianza del Nuovo Testamento è amore: per il cristiano credere in Dio significa confessare con le labbra e col cuore che Dio è Amore. Questo vuol dire riconoscere che Dio non è solitudine: per amare bisogna essere almeno in due, in un rapporto così ricco e profondo da essere aperto anche a quanto è altro rispetto ai due. Dio Amore è comunione dei Tre, l’Amante, l’Amato e l’Amore ricevuto e donato, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Credere in questo eterno Amore significa credere che Dio è Uno in Tre Persone, in una comunione così perfetta, che i Tre sono veramente Uno nell’amore, ed insieme secondo relazioni così reali, sussistenti nell’unica essenza divina, che essi sono veramente Tre nel dare e ricevere amore, nell’incontrarsi e nell’aprirsi all’amore: “In verità vedi la Trinità, se vedi l’amo­re” (Agostino, De Trinitate, 8, 8, 12). “Ecco sono tre: l’Amante, l’Amato e l’Amore” (ib., 8, 10, 14).
  Il primo dei Tre, il Padre, è – come afferma la prima lettera di Giovanni – il Dio che è “Amore” (1 Gv 4,8.16). È Lui che ha iniziato da sempre ad amare ed ha consegnato Suo Figlio alla morte per amore nostro: “non ha risparmiato suo Figlio” (Rm 8,32). Il Padre è l’eterna Sorgente dell’Amore, è Colui che inizia da sempre ad amare, il principio senza principio della carità eterna, la gratuità dell’amore senza fine: “Dio non ci ama perché siamo buoni e belli; Dio ci rende buoni e belli perché ci ama” (San Bernardo). Dio Padre è l’Amore che non finirà mai, la gratuità eterna dell’Amore. È Lui che inizia in noi quello che noi non saremmo mai capaci di iniziare da soli. È così che Dio ci ha reso capaci di amare: ci ha amato per primo e non si stancherà mai di amarci. Amati cominciamo ad amare: “Gli uomini nuovi cantano il cantico nuovo” (Agostino). Il Padre è l’eterno Amante, che da sempre ha iniziato ad amare e che suscita in noi la storia dell’amore, contagiandoci la Sua gratuità.
 Se il Padre è l’eterno Amante, il Figlio è l’eterno Amato, Colui che da sempre si è lasciato amare. Il Figlio ci fa capire che non è divino solo l’amore: è divino anche il lasciarsi amare, il ricevere l’amore. Non è divina solo la gratuità: è divina anche la gratitudine. Dio sa dire grazie! Il Figlio, l’Amato, è l’accoglienza eterna, è Colui che da sempre dice sì all’Amore, l’obbedienza vivente dell’Amore. Lo Spirito rende in noi presente il Figlio ogni volta che sappiamo dire grazie, che cioè sappiamo accogliere l’amore altrui. Non basta cominciare ad amare: occorre lasciarsi amare, essere umili di fronte all’amore altrui, fare spazio alla vita, accogliere l’altro. È così che diveniamo icona del Figlio: nell’accoglienza dell’amore. Dove non si accoglie l’altro, soprattutto il diverso, non si accoglie Dio, non si è immagine del Figlio eterno.
  Infine, nel rapporto fra l’Amante e l’Amato si pone lo Spirito Santo. Nella contemplazione del mistero della Terza Persona divina esistono due grandi tradizioni teologiche, quella dell’Oriente e quella dell’Occidente. Nella tradizione occidentale – da Agostino in poi – lo Spirito è contemplato come il vincolo dell’Amore eterno, che unisce l’Amante e l’Amato. Lo Spirito è la pace, l’unità, la comunione, il “noi” dell’Amore divino. Perciò, quando lo Spirito entra in noi ci unisce in noi stessi, riconciliandoci con Dio, e ci unisce agli altri. Lo Spirito dona il linguaggio della comunione, fa tessere patti di pace, rende capaci di unità, perché fra l’Amante e l’Amato è il loro amore personale, il vincolo della carità eterna, donato dall’Uno e ricevuto dall’Altro. Accanto a questa tradizione c’è quella dell’Oriente, dove il Paraclito è chiamato “estasi di Dio”: secondo questa concezione lo Spirito è Colui che spezza il cerchio dell’Amore, e viene a realizzare in Dio la verità che “amare non significa stare a guardarsi negli occhi, ma guardare insieme verso la stessa meta” (A. de Saint-Exupéry).
 Così lo Spirito opera in Dio: Egli non solo unisce l’Amante e l’Amato, ma fa “uscire” Dio da sé, in quanto è il dono divino, l’”estasi”, lo “star fuori” di Dio, l’esodo senza ritorno dell’Amore. Ogni volta che Dio esce da sé lo fa nello Spirito: così è nella creazione (“Lo Spirito si librava sulle acque…”: Gen 1,2); così nella profezia; così nell’Incarnazione (“la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra”: Lc 1,35); così nella Chiesa, su cui si effonde lo Spirito a Pentecoste (cf. At 2,1-13). Lo Spirito è dunque la libertà dell’amore divino, l’esodo e il dono dell’Amore. Quando ci saremo lasciati raggiungere e trasformare dallo Spirito, non potremo più restare a guardarci negli occhi: avremo il bisogno di uscire e di portare agli altri il dono dell’amore con cui siamo stati amati. Solo dove c’è questa urgenza dell’amore, brucia il fuoco dello Spirito: un credente o una comunità che avesse accolto il dono dello Spirito, ma che non vivesse questa estasi dell’amore, questo bisogno incontenibile di portare agli altri il dono di Dio nella testimonianza della parola e nel servizio della carità, non avrebbe realizzato la pienezza dell’amore, non sarebbe pienamente la Chiesa “icona della Trinità”…
  L’unità del Dio vivo non è un freddo dato, ma il reciproco totale inabitarsi delle tre Persone nella carità. È l’unità dell’eterno evento dell’amore, di cui siamo resi partecipi nel dono della rivelazione. È il Loro eterno, reciproco darsi, per cui ciascuno ritrova se stesso “perdendosi” nell’Altro. Un’unità, che è “pericoresi”, per usare il linguaggio dei Padri greci, reciproco stare l’uno nell’altro, reciproco muoversi da sé all’altro, dall’altro restituiti a sé. E questo a un livello così profondo, che l’“essenza” dei Tre, ciò che essi sono nel più profondo, non è che l’unico essere divino. Che cosa possa voler dire alla nostra vita questa contemplazione dell’Amore trinitario si comprende ai piedi della Croce, nella luce di Pasqua. Se la carità nasce da Dio, se è Lui che ci ha amato per primo, occorre sapere che s’impara ad amare soltanto lasciandosi amare, facendo spazio alla vita, ascoltando in profondo il dono di Dio, vivendo la lode dell’Altro. La dimensione contemplativa della vita è quella che anzitutto corrisponde al dono della Trinità, ed è perciò la vera scuola della carità. È questa la via che risplende nella credente esemplare, la Vergine Maria, che si è fatta silenzio, in cui è risuonata la Parola di Dio nel tempo, ed è stata il grembo in cui ha preso corpo la Luce, che illumina ogni essere umano: avvolta da Dio Trinità, è stata il terreno d’avvento della Trinità nella storia. L’amore viene da Dio, e chi ama è nato da Dio e conosce Dio. In chi ama con questo amore si offre l’anticipo dell’eternità nel tempo. E l’orizzonte del Mistero ultimo che ci accoglierà alla fine si rivela per quello che sarà pienamente allora: l’abbraccio del Dio Trinità, la custodia silenziosa e raccolta del Dio, che è Amore…

Vieni, Spirito Santo!
Vincolo dell’amore eterno
vieni ad unirci nella pace:
rinnovaci nell’intimo,
fa’ di noi i testimoni dell’unità
che viene dall’alto.
Tu che sei l’estasi del Dio vivente,
dono perfetto dell’Amante e dell’Amato
nel loro amore creatore e redentore,
vieni ad aprirci alle sorprese dell’Eterno,
anticipando in noi, poveri e pellegrini,
la gloria della patria, intravista nella speranza della fede,
ma non ancora posseduta nella gioia piena del Regno.
Padre dei poveri, ospite dolce dell’anima,
dolcissimo sollievo,
Sii in noi la libertà e la pace,
la novità e il vincolo dell’amore
che vince l’ultimo silenzio della morte
e fa sempre di nuovo sprigionare la vita. Amen! Alleluia!

Mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto – Catechesi
Giovedì 17 luglio:
Lo Spirito Santo, anima della Chiesa
«E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito» (1 Cor 12, 13)

In questa seconda catechesi, l’obiettivo è di aiutare i giovani a scoprire la Chiesa, Corpo di Cristo, organismo vivo, animato e arricchito dai molteplici doni e carismi dello Spirito Santo. Oggi molti giovani sono attratti da Cristo e dal messaggio del Vangelo, ma stentano a riconoscere che Egli è presente nella Chiesa e agisce attraverso di essa: da qui l’importanza di approfondire il loro rapporto con la Chiesa, Corpo di Cristo e mistero di comunione. Sarà opportuno in particolare spiegare ai giovani la necessità di ricevere i sacramenti dell’iniziazione cristiana e incoraggiarli a viverli pienamente, insistendo soprattutto sulla Confermazione, conferita in vista della testimonianza.

  La confessione della fede cristiana, sin dai tempi più antichi, parla della Chiesa come «communio sanctorum», «comunione dei santi». L’espressione si trova nel Simbolo, detto degli Apostoli, alla fine del secolo IV, subito dopo la menzione della «santa Chiesa», e fa parte della sezione del Credo dedicata alla Terza Persona divina: vi risuona l’eco dell’idea di “koinonìa” dello Spirito Santo, di cui parla il Nuovo Testamento (cf. 2 Cor 13,13). Il primo livello di significato della formula, dunque, è quello, implicito ma fondamentale, che la riferisce all’opera del Consolatore: la «communio sanctorum» è anzitutto «communio Sancti», comunione al Santo, che santifica i suoi. La santità può essere attribuita alla «communio», perché lo Spirito, santo e santificatore, santifica la Chiesa, unificandola nella comunione. Il termine «sanctorum», poi, rimanda ad altri due livelli di significato: intendendo il genitivo come neutro, e perciò riferito alle realtà sante (i «sancta»), l’espressione viene ad indicare la partecipazione ai beni e ai mezzi della salvezza, e quindi ai sacramenti, specialmente al battesimo, alla confermazione ed all’eucaristia. Qualora invece si dia al genitivo «sanctorum» il significato personale, la formula rinvia ai «santi», alle donne e agli uomini santificati dallo Spirito e alla loro comunione nel tempo e per l’eternità. I tre significati di «communio sanctorum» sono tra loro in un rapporto profondo ed inscindibile: è lo  Spirito Santo che attraverso i santi doni edifica la «comunione dei santi». La Chiesa è santa, perché è la comunione di quanti sono santificati dallo Spirito attraverso la partecipazione ai santi doni, da Lui stesso vivificati, per la resurrezione della carne e la vita eterna.

1. La comunione dello Spirito santificante

  Secondo il primo livello di significato, la formula «communio sanctorum» rimanda al fatto che è lo Spirito Santo a santificare la Chiesa, facendone la «comunione dei santi»: perciò essa può venir chiamata Tempio santo, in cui lo Spirito dimora e agisce (cf. Ef 2,21; 2 Cor 6,16; 1 Cor 3,16s.). Come è sceso sul Verbo incarnato, ungendolo e facendone l’Unto, così lo Spirito scende sui singoli battezzati e sulla Chiesa, rivestendola della santa unzione: «È Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo, e ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori» (2 Cor 1,21). Perciò, «la Chiesa si può chiamare la continuazione dell’unzione di Cristo per mezzo dello Spirito Santo» (Heribert Mühlen). Grazie a questa unzione i cristiani formano una sola cosa, una sola «mystica persona»: «Cristo e le sue membra sono un’unica persona mistica, per cui le opere del Capo sono in qualche modo quelle delle membra» (S. Tommaso, De Veritate q. 29 a. 7 ad 11um). È l’idea paolina della Chiesa Corpo di Cristo, resa tale grazie all’opera dello Spirito Santo, che la arricchisce di doni diversi e la unifica nella comunione e nel servizio: «Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore… Tutte queste cose è l’unico e il medesimo Spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole. Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo. E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito» (1 Cor 12,4s. 11-13).
  La Persona divina dello Spirito, dunque, riempiendo i cuori delle persone umane, che formano la Chiesa, le santifica e le costituisce nell’unità del Cristo, misticamente prolungato nel tempo. La santità della Chiesa, la partecipazione cioè alla grazia dello Spirito Santo, è il fondamento della sua esistenza e della sua comunione, ciò per cui la Chiesa è nella storia il popolo di Dio, il Corpo di Cristo, il Tempio santo: «Noi crediamo che la Chiesa è indefettibilmente santa. Infatti Cristo, Figlio di Dio, il quale col Padre e lo Spirito è proclamato “il solo santo”, ha amato la Chiesa come sua sposa e ha dato se stesso per lei, al fine di santificarla (cf. Ef 5,25s.), e l’ha unita a sé come suo corpo e l’ha riempita col dono dello Spirito Santo, per la gloria di Dio» (Lumen Gentium 39). Come l’Incarnazione è il mistero dell’unica Persona divina nelle due nature, umana e divina, così la Chiesa è il mistero dell’unica natura umana, santificata dallo Spirito Santo, nella molteplicità delle persone, unite all’unico Signore, Cristo, in modo da costituire in Lui per la grazia del Suo Spirito una Persona in molte persone. Unificati dallo Spirito, i credenti partecipano della sua santità, sono «separati» da Lui e in Lui per Dio, e in questa partecipazione comunicano fra di loro e con Cristo, realizzando la comunione ecclesiale.
  L’idea della Chiesa, santificata e unificata nello Spirito fino a divenire una sola persona mistica, trova un corrispondente biblico significativo nell’immagine della Chiesa Sposa. Paolo scrive ai Corinzi: «Vi ho promessi ad un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo» (2 Cor 11,2). Nella tradizione paolina il rapporto sponsale fra Cristo e la Chiesa è chiarito nel senso che è Lui a santificarla nel suo amore: «Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata» (Ef 5,25-27). Questo lavacro purificatore, che fa della Chiesa la Sposa bella del Signore, è opera dello Spirito Santo: «Dio ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, perché giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna» (Tt 3,5-7). Così lo Spirito, santificando la Chiesa, la unisce a Cristo come Sposa allo Sposo, realizzando in lei l’alleanza nuziale mediante la sua partecipazione al mistero pasquale del Signore, fino a che giungano a pieno compimento le promesse di Dio e si celebrino le nozze escatologiche dell’Agnello, quando la Sposa sarà pronta (cf. Ap 19,6-8) e la Gerusalemme celeste scenderà dall’alto, «come una sposa adorna per il suo sposo» (Ap 21,2). Intanto, nel canto di invocazione e di lode della Chiesa santa, ininterrottamente «lo Spirito e la Sposa dicono: Vieni!» (Ap 22,17).

2. La comunione ai santi doni

  La «communio Sancti» fa la Chiesa al tempo stesso ontologicamente santa, santificata da Lui e in Lui, ed esistenzialmente pellegrina verso il pieno compimento del dono di santità in essa posta. «Divenire ciò che è» sarà il compito della Chiesa nel tempo, in cammino verso la Patria. In modo particolare, la santificazione, che lo Spirito produce nel cuore dei fedeli e nella comunione ecclesiale, va compiendosi nella storia attraverso le parole e i gesti, in cui Egli comunica la sua grazia secondo la promessa del Signore. Queste sorgenti della santità della Chiesa, questi luoghi dell’incontro con Dio nel tempo, sono i sacramenti. Nella celebrazione sacramentale l’invocazione dello Spirito Santo sui doni da santificare (epiclesi) li trasforma, rendendoli santi e santificanti nella potenza di Colui, che li pervade. Perciò, la «communio sanctorum» è anche, in senso proprio, «communio sacramentorum», comunione ai mezzi e ai doni della salvezza data da Dio in Cristo, attuata in essi dallo Spirito Santo. Nei sacramenti lo Spirito raduna la Chiesa nella concretezza delle diverse situazioni storiche e fonda la nuova prassi della comunità redenta: ripresentando il mistero pasquale di Cristo, unica, vera sorgente di riconciliazione per gli uomini, il Paraclito suscita esistenze riconciliate e raccoglie il popolo dei credenti nell’unità e nella pace, donate dal Signore.
  La santità della Chiesa trova, perciò, la sua fonte e il suo culmine nella celebrazione liturgica dei sacramenti: alle sorgenti della liturgia il cristiano attinge la grazia della sequela Christi, per la quale dimora nella Trinità e ne esprime la vita di comunione, edificandosi in comunione con gli altri credenti come popolo di Dio nella storia, segno e strumento dell’unità dell’intero genere umano. Ed è ancora nell’evento liturgico che la grazia del futuro promesso si fa presente nel tempo come anticipo e caparra di eternità: in tal senso la liturgia, nella tensione fra il dono già ricevuto e sperimentato e la promessa non ancora compiuta, rivela come la santità nella Chiesa non sia altro che un anticipo della gloria nel tempo del pellegrinaggio, e la gloria nient’altro che la santità nel compimento della patria. «Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga» (1 Cor 11,26; cf. Lc 22,18). «La grazia è la gloria nel tempo dell’esilio; e la gloria è la grazia nel tempo della patria» (John Henry Newman).
  La convinzione che il popolo di Dio attinga ai sacramenti l’unione con Cristo, che lo costituisce come Chiesa santa nello Spirito, è stata espressa dai Padri con l’immagine della nascita della Chiesa dal costato trafitto di Cristo in Croce (cf. Gv 19,34): nel sangue e nell’acqua che ne escono, sono stati visti i sacramenti del battesimo e dell’eucaristia, che generano e nutrono la Chiesa. Questo sgorgare ricorda, però, anche l’altro dono, promesso dal Cristo giovanneo, dell’acqua viva che viene da Lui nel cuore dei credenti: e quest’acqua è lo Spirito, effuso particolarmente nel sacramento della confermazione. «Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui» (Gv 7,39). Alla luce della ricchissima interpretazione patristica di questi testi, si può dire allora che lo Spirito è la sintesi di tutti i beni della redenzione messianica, che scaturiscono dal corpo di Cristo, ossia dalla sua morte in croce e dalla sua “glorificazione”. E poiché questa è resa presente dal Paraclito nei sacramenti, sono questi la sorgente concreta dell’acqua viva, il sangue e l’acqua in cui è possibile nascere dall’alto e di nuovo alla santità, a cui i discepoli sono chiamati.
 Al tempo stesso i sacramenti rendono i credenti sorgente di grazia e di vita per gli altri, «santi» contagiosi di «santità»: «Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me; come dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno» (Gv 7,38). La certezza, che attraverso la comunione ai sacramenti la Chiesa generi essa stessa figli per Dio, divenendo sorgente di vita nello Spirito, è testimoniata nella teologia dei Padri dalla bellissima immagine della «Mater Ecclesia»: essa esprime l’idea di una Chiesa che si realizza continuamente nel dono di sé, nello scambio e nella comunicazione dello Spirito dall’uno all’altro dei credenti, ambiente generatore di fede e di santità nella comunione fraterna, nell’unanimità orante, nella partecipazione solidale alla Croce, nella testimonianza comune, vera anticipazione della Gerusalemme celeste, «nostra madre» (Gal 4,26). La Chiesa-Madre nella concezione protopatristica è il concetto centrale di tutto l’anelito cristiano: la generazione alla vita santa, che lo Spirito compie nella celebrazione ecclesiale dei sacramenti, rivela la Chiesa come «madre sempre in atto di generare». La forma di questa mediazione ecclesiale della salvezza è vista nel coinvolgimento di tutti i credenti, perché tutti i figli della Chiesa diventano a loro volta Chiesa Madre verso coloro che nascono alla salvezza, in particolare coloro che hanno ricevuto il dono del ministero e agiscono perciò come ripresentazione di Cristo ed espressione della paternità di Dio. L’esperienza della generosità materna della comunità spiega anche l’amore, che a loro volta i credenti nutrono per chi li ha generati alla vita dello Spirito: la lode dell’amore alla Chiesa risuona costantemente nel mondo dei Padri. I grandi della storia della Chiesa vivono di questo amore per la Madre Chiesa: «La Chiesa, l’amata, noi tutti la vogliamo amare. Noi rimaniamo incrollabilmente fedeli ad essa come ad una madre, che è così amorevole, così premurosa e benigna. Affinché con lei e per mezzo suo possiamo meritare di essere di casa presso Dio, Padre nostro» (Quodvultdeus di Cartagine, Predica Sulla professione di fede per gli aspiranti al battesimo, III,12. 13: PL 16,1200).

3. La comunione dei «santi»

  Quelli che lo Spirito ha raggiunto e reso partecipi della vita divina attraverso gli eventi sacramentali sono i «santi»: il termine è comune nel Nuovo Testamento per designare i credenti (cf. ad esempio Rm 12,13; 15,26. 31; 1 Cor 1,2; 6,1s.; Fil 1,1; 4,21s.; Col 1,2 e 4; Ef 4,12; At 9,13. 32. 41; 26,10. 18; Ap 13,7). La Chiesa, radunata dallo Spirito, è perciò detta a ragione la «comunione dei santi», delle donne e degli uomini, cioè, che fanno parte della “koinonìa” dello Spirito Santo. Questa comunione è attuata già nel presente, ma tende al suo compimento finale: «Fino a che il Signore non verrà nella sua gloria e tutti gli angeli con lui (cf. Mt 25,31) e, distrutta la morte, non gli saranno sottomesse tutte le cose (cf. 1 Cor 15,26-27), alcuni dei suoi discepoli sono pellegrini sulla terra, altri che sono passati da questa vita stanno purificandosi, altri infine godono della gloria contemplando chiaramente Dio uno e trino, qual è; tutti però, sebbene in grado e modo diverso, comunichiamo nella stessa carità di Dio e del prossimo e cantiamo al nostro Dio lo stesso inno di gloria» (Lumen Gentium 49).
  La «communio sanctorum» è la comunione dei discepoli del Signore, nella varietà dei carismi e dei servizi in essi suscitata dallo Spirito, e nella loro convergenza in vista della crescita comune: è la comunione della vita teologale e della corresponsabilità ecclesiale, vissuta nella reciproca accoglienza e solidarietà e nella sollecitudine verso i poveri. Per essere effettivamente vissuta, questa comunione richiede che da parte di ciascuno e di tutti siano detti tre “no” e tre “sì”. Il primo “no” è al disimpegno, cui nessuno ha diritto, perché ognuno è dotato di doni da vivere nel servizio e nella comunione: a questo “no” deve corrispondere il “sì” alla corresponsabilità, per cui ognuno si faccia carico per la propria parte del bene comune da realizzare secondo il disegno di Dio. Il secondo “no” è alla divisione, che parimenti nessuno può sentirsi autorizzato a provocare, perché i carismi vengono dall’unico Signore e sono orientati alla costruzione dell’unico Corpo, che è la Chiesa (cf. 1Cor 12,4-7): il “sì” che ad esso corrisponde è quello al dialogo fraterno, rispettoso della diversità e volto alla costante ricerca della volontà del Signore. Il terzo “no” è alla stasi e alla nostalgia del passato, cui nessuno può acconsentire, perché lo Spirito è sempre vivo ed operante nello svolgersi dei tempi: ad esso deve corrispondere il “sì” alla continua, necessaria purificazione e riforma, per la quale ognuno possa corrispondere sempre più fedelmente alla chiamata di Dio, e la Chiesa tutta possa celebrarne pienamente la gloria. Attraverso questo triplice “no” e questo triplice “sì”, in maniera dunque dinamica e mai del tutto compiuta, la Chiesa si presenta come riflesso luminoso ed irradiante della bellezza di Dio, casa e scuola di quella comunione, rispettosa delle diversità, che è veramente buona novella per tanti uomini e donne prigionieri della solitudine e dell’incapacità di amare.
 Dall’esperienza viva della comunione, suscitata e alimentata dallo Spirito Santo, scaturisce la tensione missionaria nella Chiesa: la Chiesa comunione, pellegrina verso la “patria” di Dio tutto in tutti sotto il soffio dello Spirito, è la Chiesa in stato di missione. Nello Spirito, per Cristo essa va verso il Padre: nella tensione verso questa meta, la Chiesa si riconosce inviata ad estendere la potenza della riconciliazione pasquale a tutte le situazioni della storia fino a che egli torni, annunciando a tutti la buona novella e mostrando con la sua comunione di fede, di speranza e di amore la bellezza di Dio. Ne consegue che la tensione missionaria deve caratterizzare tutto l’essere e l’agire del popolo di Dio: nella forza dello Spirito, la Chiesa è missione! Evangelizzata e in continua conversione, la Chiesa vive in stato permanente di missione verso i vicini e alla ricerca dei lontani, impegnata in prima linea sul fronte dell’evangelizzazione e della catechesi, dell’educazione e del dialogo con la cultura, della solidarietà con i più deboli, col solo scopo di accompagnare la vita di Dio nel cuore di ogni persona umana.
 Per realizzare adeguatamente la sua missione, la Chiesa “comunione dei santi” dovrà essere, però, libera: libera nel riconoscimento dei propri limiti davanti al suo Signore e non di meno libera nel relativizzare le grandezze di questo mondo. Assumendo le speranze umane, essa dovrà verificarle al vaglio della morte e resurrezione di Gesù, che da una parte sostiene ogni impegno autentico di liberazione dell’uomo, dall’altra contesta ogni assolutizzazione di mete terrene. Sta qui l’ispirazione profonda della presenza cristiana nei differenti contesti culturali, politici e sociali: in nome della sua “riserva escatologica”, che è la sua speranza più grande, la Chiesa non può identificarsi con alcuna ideologia, con alcuna forza partitica, con alcun sistema. Essa deve essere coscienza critica, richiamo del giudizio di Dio, stimolo affinché in tutto si tenda a sviluppare tutto l’uomo in ogni uomo, nella grande casa del mondo, che va salvaguardata e amata. La “patria” , che fa stranieri e pellegrini in questo mondo, non è il sogno che aliena dal reale, ma la forza stimolante e critica dell’impegno per la giustizia e per la pace nell’oggi del mondo. Al tempo stesso, la Chiesa dovrà annunciare a tutti la speranza di cui vive, fondata sulla rivelazione delle promesse di Dio, e dovrà farlo nella consapevolezza che è questo il dono d’amore più grande da offrire specialmente alle nuove generazioni. Lo aveva già compreso il Concilio Vaticano II, che afferma: “Legittimamente si può pensare che il futuro della umanità sia riposto nelle mani di coloro che saranno capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza” (Gaudium et Spes 31).
 Il richiamo della patria promessa insegna così alla comunione ecclesiale a relativizzarsi: essa sa di non essere un assoluto, ma uno strumento, non un fine, ma un mezzo, povera e serva. Ogni presunzione di essere arrivati va rifiutata: la Chiesa è chiamata a continua purificazione e ad incessante rinnovamento, inappagata ed inappagabile da qualsiasi conquista umana. Nata ai piedi della Croce e pellegrina in questo lungo Venerdì Santo che è la storia dell’uomo, la Chiesa dello Spirito di Cristo non dovrà mai scambiare le pallide luci di qualche onore terreno con la luce sfolgorante che le è stata promessa nella vittoria di Pasqua. Proprio così, essa testimonierà che la sua patria è nei cieli e che la speranza che la anima può dare senso e bellezza alla vita di tutti. Lo sguardo alla meta promessa riempie la Chiesa comunione di grandissima gioia: essa esulta già nella speranza, che la promessa ha acceso in lei. Essa sa di essere l’anticipazione militante di quanto è stato promesso nella Resurrezione del Crocifisso. Non c’è sconfitta, non c’è vittoria della morte, che possa spegnere nella comunità dei credenti la speranza: l’ultima parola è garantita nella vicenda di Pasqua come parola di gioia, di grazia, di vita che vince la morte. Anche nelle prove del presente, perfino nelle più dure, la Chiesa sa che Cristo è vivo e operante al suo fianco. È Lui la fonte, inesauribile e vittoriosa, della gioia della Chiesa dello Spirito Santo. Verso Cristo, lo Sposo, unita allo Spirito, essa sospira: “Vieni!”. A lei Egli risponde: “Sì, vengo presto” (Ap 22,17.20).

Dio, Trinità Santa,
da Te viene la Chiesa, popolo pellegrino nel tempo,
chiamato a celebrare senza fine la lode della Tua gloria.
In Te vive la Chiesa, icona dell’amore trinitario,
comunione nel dialogo e nel servizio della carità.
Verso di Te tende la Chiesa,
segno e strumento della Tua opera
di riconciliazione e di pace nella storia del mondo.
Donaci di amare questa Chiesa come nostra Madre,
e di volerla con tutta la passione del nostro cuore
Sposa bella del Cristo, senza macchia né ruga,
una, santa, cattolica e apostolica,
partecipe e trasparente nel tempo degli uomini
della vita dell’eterno Amore.
E fa’ che, sempre di nuovo contagiati dal dono dello Spirito,
possiamo incessantemente edificare la Tua Chiesa,
comunione nell’unico Santo,
nutrita dalle realtà sante della Parola e dei sacramenti della vita,
per donarci gli uni agli altri nella vivente comunione di santi,
umile icona nel tempo dell’eterna pace della Gloria.
Amen! Alleluia!


Mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto – Catechesi
Venerdì 18 luglio:
 Inviati nel mondo: lo Spirito Santo, protagonista della missione
«Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni» (At 1, 8)

In questa terza catechesi, l’obiettivo è di aiutare i giovani a  prendere coscienza che nella vocazione cristiana non si può mai separare la chiamata alla santità dalla chiamata alla missione (cfr. Redemptoris Missio, 90) e che lo Spirito Santo ci dà la forza e l’audacia di essere testimoni di Cristo nel mondo. Sarà opportuno spiegare perché la missione è una necessità che si impone a ogni cristiano (cfr. 1 Cor 9,16), sottolineando che essa non è un’azione volontaristica o una “parola d’ordine”. È infatti importante mostrare che l’evangelizzazione è una profusione dello Spirito, un traboccare dal cuore (cfr. Redemptoris Missio, 26), e che la fecondità di ogni azione missionaria nella Chiesa è innanzitutto frutto dello Spirito Santo, vero “protagonista” della missione.

 L’origine dalla Trinità rende la Chiesa costitutivamente missionaria: l’Ecclesia de Trinitate è la Chiesa in stato di missione. In quanto scaturisce dalle missioni del Figlio e dello Spirito, la Chiesa è la loro attualizzazione nel tempo, al tempo stesso “kenosi” e “splendore” dell’amore trinitario nella storia (cf. Concilio Vaticano II, Decreto sull’attività missionaria della Chiesa Ad Gentes, nn. 2. 3. 4). Come nella Trinità così – per una non debole analogia – anche nella Chiesa la missione è l’espressione del dinamismo più profondo della comunione, l’irradiazione della sovrabbondanza dell’amore, e si realizza nella storia anzitutto come “kènosi” della gloria divina. La Trinità mette le sue tende nel tempo attraverso la Chiesa con tutto il peso dei limiti che a questa derivano dalla sua dimensione storica e mondana. Di questa “kènosi”, che storicizza la missione divina facendone la missione della Chiesa, artefice principale è lo Spirito: «Lo Spirito Santo – scrive Vladimir Lossky – si comunica alle persone, segnando ogni membro della Chiesa con il suggello di un rapporto personale ed unico con la Trinità, divenendo presente in ogni persona. Come? Qui permane un mistero: il mistero dell’esinanizione, della “kènosi” dello Spirito Santo veniente nel mondo. Se nella “kènosi” del Figlio la persona ci è apparsa mentre la divinità rimaneva nascosta sotto “le sembianze del servo”, lo Spirito Santo, nel suo avvento, manifesta la natura comune della Trinità, ma lascia che la sua persona sia dissimulata sotto la divinità. Rimane non rivelato, nascosto per così dire dal dono, affinché il dono ch’Egli comunica sia pienamente nostro, fatto proprio dalle nostre persone» (La teologia mistica della Chiesa d’Oriente, Bologna 1967, 160s).
 
 1. La missione come “kénosi” dello Spirito nel tempo

 Sotto l’azione dello Spirito la tensione missionaria costitutiva dell’essere ecclesiale ha assunto forme diverse, sviluppatesi anche in rapporto alle diverse situazioni storiche del cristianesimo: è possibile individuare alcuni modelli fondamentali, in cui si è compiuta nella storia la “kénosi” delle missioni divine nella missione della Chiesa. Il primo si produce nel tempo della Chiesa dei martiri: l’urgenza dominante è quella di portare dovunque il fermento del Vangelo e l’attività missionaria della Chiesa è intesa soprattutto come missione in atto, come animazione, cioè, che si realizza dappertutto grazie alla forza espansiva della presenza dei cristiani vivificati dallo Spirito. Questo comportamento è ispirato al principio giovanneo dell’essere nel mondo ma non del mondo (cf. Gv 17,11. 14) ed è descritto con efficacia dalla Lettera a Diogneto (II sec.): «Ciò che è l’anima nel corpo, lo sono i cristiani nel mondo. L’anima è diffusa in tutte le membra del corpo, i cristiani lo sono nelle città della terra. L’anima, pur abitando nel corpo, non è del corpo; i cristiani, pur abitando nel mondo, non sono del mondo. L’anima invisibile è custodita nel corpo visibile; i cristiani sono noti al mondo, ma resta invisibile la loro adorazione di Dio…» (Ad Diognetum VI,1-7: Funk I, 318s). La fecondità della missione scaturisce dunque dalla sovrabbondanza dell’esistenza trasformata dallo Spirito, vissuta nei luoghi e negli ambienti più diversi per una spontanea irradiazione del dono di Dio, che viene a pervadere la società in cui si è immersi.
 Col delinearsi della situazione di cristianità, caratterizzata dall’osmosi fra la Chiesa e l’Impero, la coscienza missionaria tende a indebolirsi e il modello della missione in atto cede sempre più il posto a quello della missione compiuta: la tensione si sposta dall’esterno all’interno della comunità, perché sembra che la buona novella abbia ormai raggiunto l’intero spazio del cosmo conosciuto e debba perciò essere proclamata e celebrata soprattutto a favore della vita spirituale e liturgica dei cristiani. In tal modo, la specifica operosità missionaria della comunità passa dal centro al margine dell’autocoscienza ecclesiale: l’impegno dell’evangelizzazione ne risulta impoverito e la concezione della Chiesa non è per nulla determinata dal suo dinamismo missionario. La sua principale attività non è la missione né l’evangelizzazione, bensì quella che si chiama l’attività pastorale: la “missio ad intra” diventa la forma ordinaria della vita ecclesiale, la “missio ad extra” quella straordinaria ed eccezionale. Col tramonto del Medio Evo la scoperta di nuovi mondi totalmente da evangelizzare e il profilarsi del confronto dialettico fra la Chiesa e la modernità provocano una profonda modifica nei modelli dominanti, cui si ispira la missione.
 Si delinea la straordinaria stagione della missione “ad gentes”: i nuovi mondi da evangelizzare costituiscono un richiamo troppo forte alla coscienza credente per poter essere eluso. La fioritura missionaria, che ne consegue, porterà la Chiesa non solo ad espandersi nelle terre del nuovo mondo, ma anche a conoscere in se stessa una vigorosa ripresa dell’anelito alla missione. Vissuta con una prodigiosa ricchezza di mobilitazione di uomini e mezzi e con una non meno straordinaria fecondità di frutti, nonostante tutti i limiti e le contaminazioni con l’opera colonizzatrice delle potenze imperialiste, la missione “ad gentes” è stata concepita anzitutto come predicazione del Vangelo per chiamare alla fede i non cristiani e offrire così loro la salvezza eterna, e quindi anche come costituzione della struttura ecclesiale presso tutti i popoli (la cosiddetta “plantatio Ecclesiae”), in modo da offrire a tutti, in maniera efficace ed accessibile nel proprio mondo culturale, il luogo e i mezzi della salvezza. La missione “ad gentes” viene così ad implicare una forte coscienza della necessità della Chiesa per la salvezza e, ancor più radicalmente, presuppone una precisa affermazione dell’assolutezza del cristianesimo, della singolarità, cioè, del tutto unica e irripetibile del Salvatore del mondo, Gesù Cristo, che nella Chiesa si rende presente ed opera grazie al suo Spirito.
 Il modello della missione “ad gentes” è stato sempre più integrato a partire dal Concilio Vaticano II con un modello, che vede l’urgenza missionaria come elemento costitutivo dell’essere ecclesiale nella sua pienezza, a prescindere anche dalle condizioni contingenti che accentuino l’uno o l’altro aspetto dell’azione apostolica: questo modello è quello che potrebbe definirsi della cattolicità della missione. La comunione ecclesiale è, in altre parole, inseparabilmente un dono e un compito: la Chiesa universale, già realizzata in una vastissima molteplicità di Chiese locali, richiede di attuarsi ancora in pienezza sia dove non esiste, sia dove la sua realizzazione è incompleta, sia dove, sebbene presente, la pienezza cattolica deve ancora esprimere tutta la ricchezza delle sue potenzialità. In questo senso, dovunque c’è la Catholica, c’è la missione, come realtà in atto o come esigenza imprescindibile: la missione si presenta come l’aspetto dinamico della cattolicità, il suo effettivo compiersi nella storia della salvezza, sotto l’azione dello Spirito Santo. Se la “plantatio Ecclesiae” continuerà, allora, ad essere un’urgenza ineliminabile dell’attività missionaria, l’azione missionaria “ad intra” sarà non di meno sempre necessaria al popolo di Dio, per rinnovarsi incessantemente nella fedeltà alla fede apostolica e nell’apertura alle sorprese dello Spirito, che lo conduce verso il compimento pieno delle promesse di Dio.
 2. La missione come “splendore” dello Spirito: la cattolicità del soggetto missionario – Tutta la Chiesa è chiamata ad evangelizzare!

 Nella cattolicità della missione viene ad esprimersi, dunque, la ricchezza dell’azione dello Spirito Santo nella Chiesa, lo “splendore” irradiante della Sua presenza. E ciò a vari livelli: il primo soggetto della missione è la Chiesa universale, la Catholica unita e vivificata dallo Spirito nella comunione dello spazio, espressa dalla comunione delle Chiese locali intorno alla Chiesa di Roma, che presiede nell’amore, e nella comunione del tempo, manifestata dalla continuità ininterrotta della tradizione apostolica: la responsabilità di portare il Vangelo fino agli estremi confini della terra e di impiantare dovunque la Chiesa, continuamente lasciandosi evangelizzare dalla stessa buona novella oggetto dell’annuncio, è di tutta la Chiesa e di tutti nella Chiesa. Tutti hanno ricevuto lo Spirito, tutti devono donarlo: «Ad ogni discepolo di Cristo incombe il dovere di diffondere per parte sua la fede» (Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, 17). In modo particolare, questa responsabilità missionaria investe il ministero al servizio della comunione: il Vescovo di Roma, anzitutto, in quanto ministro dell’unità della Chiesa universale, è caricato della “sollicitudo omnium ecclesiarum”, che si esprime particolarmente nell’ansia missionaria di far crescere ovunque la Catholica, sia nell’integralità della fede e della vita apostolica, sia nella sua dilatazione presso tutte le genti.
 Nella solenne testimonianza della fede, attraverso il suo ministero profetico, liturgico e pastorale, nella promozione e nel sostegno della vitalità missionaria della Chiesa, ovunque diffusa, nell’esercizio del suo ministero di unità, come centro e riferimento dell’apostolicità e della cattolicità dell’Una Sancta, il Papa si fa missionario del Vangelo per il mondo intero, come per la Chiesa e nella Chiesa, tutta in missione. Questa responsabilità universale il Vescovo di Roma la condivide con il collegio episcopale, cui spetta non di meno la sollecitudine per tutte le Chiese, e perciò l’impegno in vista dell’attività missionaria intrinseca alla Catholica, in esse presente (cf. Lumen Gentium, 23). Così, attraverso i loro vescovi in comunione col vescovo di Roma, tutte le Chiese partecipano alla sollecitudine dell’evangelizzazione e della missione universali, e sono chiamate a contribuire ad essa secondo i doni che lo Spirito ha dato a ciascuna, non isolatamente, ma nella fecondità della cooperazione e dello scambio, in cui ciascuna al tempo stesso dona alle altre e riceve da loro.
 Soggetto plenario dell’invio missionario è pure la Chiesa locale o particolare, in cui la Catholica si attua nella concretezza di uno spazio e di un tempo determinati: il popolo di Dio, radunato dalla Parola e dal Pane eucaristico, in cui nello Spirito Cristo si fa presente per la salvezza di tutti, è inviato ad estendere la potenza della riconciliazione pasquale a tutte le situazioni in cui vive ed opera. Tutta la Chiesa locale è inviata ad annunciare tutto il Vangelo a tutto l’uomo, ad ogni uomo: alla cattolicità, propria della Chiesa locale sul piano della “communio”, deve corrispondere la cattolicità sul piano della missione. Che tutta la Chiesa locale sia inviata, vuol dire che, in forza del dono dello Spirito ricevuto nel battesimo e nell’eucaristia, non c’è nessuno nella comunità ecclesiale che possa ritenersi esentato dal compito missionario. Fermo restando lo specifico del ministero di unità, cui spetta discernere e coordinare i carismi in vista dell’azione missionaria, ogni battezzato deve impegnare i doni ricevuti al servizio della missione ecclesiale: a nessuno è lecito il disimpegno, come a nessuno è lecita la separazione dagli altri. Tutta la Chiesa è chiamata ad annunciare il Vangelo!
 Tutti, nella corresponsabilità e nella comunione, sono chiamati a partecipare attivamente alla missione della Chiesa: se ciò implica da una parte l’esigenza di riconoscere e valorizzare il carisma di ciascuno, esige dall’altra lo sforzo di crescere in comunione con tutti, in modo che la stessa comunione sia la prima forma della missione: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). La missione, pertanto, non è opera di navigatori solitari, ma va vissuta nella barca di Pietro, che è la Catholica in tutte le sue espressioni, in comunione di vita e di azione con tutti i battezzati, ciascuno secondo il dono ricevuto dallo Spirito. La testimonianza del singolo, quale che sia il suo carisma e il ministero che è chiamato ad esercitare, come pure quella delle varie forme comunitarie di ministerialità nella Chiesa, non esauriscono la vocazione ecclesiale alla missione, che richiede sempre una prassi di comunione nell’azione evangelizzatrice: tutti, ciascuno secondo il proprio carisma e il proprio ministero sono chiamati alla missione nell’unità intorno al ministero ordinato. L’unico Spirito datore dei doni fonda l’esigenza della comunione come condizione necessaria della missione di tutti e di ciascuno.

 3. La cattolicità del messaggio e dei destinatari: tutta la Chiesa annuncia tutto il Vangelo a tutto l’uomo, ad ogni uomo

 La cattolicità della missione non investe solo il soggetto di essa, ma anche il suo oggetto e i suoi destinatari. La cattolicità del messaggio, lo “splendore” della sua verità salvifica, esige che la Chiesa, tutta impegnata nell’annuncio, si faccia portatrice del Vangelo nella sua interezza: tutta la Chiesa annuncia tutto il Vangelo! La buona novella da annunciare non è una semplice dottrina, ma una persona, il Cristo: è lui, vivente nello Spirito, l’oggetto della fede e il contenuto dell’annuncio, ed insieme è lui il soggetto che opera nello Spirito in chi evangelizza. Il Cristo evangelizzato è al tempo stesso il Cristo evangelizzante nei suoi testimoni. Ne consegue per la Chiesa l’esigenza di non appartenere che a lui, di essere la sua memoria vivente, lasciandosi sempre nuovamente evangelizzare da lui, per essere sempre di nuovo rigenerata dalla sua Parola (Ecclesia creatura Verbi!). La missione esige la testimonianza integrale del Cristo: in ciò, anzitutto, consiste la cattolicità del messaggio, la pienezza senza la quale esso viene adulterato e svilito. Questa testimonianza integrale abbraccia la comunione della fede nel tempo e nello spazio, è voce della comunione dello Spirito, che, attraverso la tradizione apostolica, rende la Chiesa identica a se stessa nel fondamento della sua cattolicità, perché la identifica nel mistero al suo principio sempre presente, il Cristo riconciliatore annunciato dagli apostoli.
 La cattolicità del messaggio richiede pertanto che vengano fuggiti due opposti riduzionismi, in cui è vanificata in maniera diversa, anche se in fondo convergente, la forza dello scandalo evangelico: da una parte, la riduzione secolare; dall’altra, quella spiritualista. La riduzione secolare assolutizza il presente, identificando la parola della fede con una delle forze in gioco nella storia: la testimonianza è ridotta a una presenza fra le presenze della vicenda umana; il Vangelo è svuotato della sua forza di provocazione, risolvendosi in ideologia, calcolo e progetto mondani, incapaci di aprirsi alla novità dell’Avvento. Contro questo rischio occorre ribadire la densità sempre sovversiva della Parola di Dio e l’azione sorprendente dello Spirito: non si evangelizza, se non si testimonia la novità del Vangelo; non si amano veramente gli altri, se non si ha il coraggio di essere anche diversi dagli altri, per amore loro e in obbedienza alle esigenze del Dio vivente. La Chiesa è chiamata ad essere coscienza critica della cultura in cui è posta, segno di contraddizione, che porta nel concreto delle diverse situazioni storiche il fermento della sua “riserva escatologica”.
 L’altra riduzione, quella spiritualista, assolutizza invece la definitività del “già” compreso nella fede, tanto da perdere di vista l’inquietante problematicità dei diversi contesti e delle differenti storie personali, a cui il Vangelo è annunciato. Qui la cattolicità è impoverita, perché è ridotta a dare risposte pronte per tutto, senza la mediazione interpretativa, al tempo stesso fedele e creativa, che è richiesta dall’incontro con le culture e le persone reali, e che è resa possibile precisamente dall’azione dello Spirito Santo. Lo spiritualismo disincarnato sa dire i “no” dell’esigenza evangelica, ma trascura spesso i “sì”, anche umili e provvisori, di cui tutti hanno bisogno per vivere e per morire. Il Dio dell’evangelo non è così: egli non è il Dio delle esigenze impossibili, ma il Dio con noi! Contro ogni evasione spiritualista è necessario che la Chiesa si faccia compagna di strada degli uomini, cui annuncia il Vangelo: il Cristo passa attraverso gesti di fraternità quotidiana, di compassione vissuta, lì dove l’amore si fa concreto e personalizzato nella condivisione della vita e nelle scelte di campo a favore degli ultimi.
 La cattolicità del messaggio comporta anche inseparabilmente la cattolicità del destinatario della missione: tutta la Chiesa annuncia tutto il Vangelo a tutto l’uomo ad ogni uomo! La buona novella è risuonata per tutti ed esige di raggiungere tutti; lo “splendore” della verità è comunicato per mediarsi nella “kènosi” dei linguaggi e delle culture più diverse. «Andate e fate discepole tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,19s). È proprio nello slancio missionario, proteso a raggiungere tutto l’uomo in ogni uomo, che il Cristo garantisce la presenza della sua fedeltà al suo popolo: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (v.20). Egli è là, dove il testimone annuncia il suo mistero pasquale, dove la Chiesa lo rende presente e chiama alla sequela di lui: per mezzo del ministero ecclesiale è Cristo che «predica la Parola di Dio a tutte le genti e continuamente amministra ai credenti i sacramenti della fede» (Lumen Gentium, 21). In questo senso, la missione non è diretta a uno spazio definito dall’esterno, ma alla profonda verità di ogni essere umano, bisognoso di incontrare Cristo e di farne sempre nuovamente esperienza. La frontiera dell’evangelizzazione non è la linea di demarcazione esteriormente riconoscibile fra spazio sacro e spazio profano, ma è anzitutto il luogo della decisione salvifica, il cuore umano, lì dove la totalità di un’esistenza raggiunta dallo Spirito Santo si decide per Cristo o si chiude a lui.
 In questa decisione, possibile solo nell’incontro della libertà della persona con la Parola della fede e lo Spirito che dà vita, il tempo quantificato diventa tempo qualificato, ora di grazia, oggi di salvezza: il “krònos”, tempo pesante del succedersi lineare degli istanti,  attraverso la svolta dell’esistenza intera (“metànoia”), si trasforma in “kairòs”, tempo determinato dal contenuto della grazia (cf. ad esempio Mt 8,29; 26,188; Mc 1,15; Lc 19,44; 21,8; Gv 7,6-8; At 1,7; 1 Ts 5,1ss.; Ef 5,16; Col 4,5; ecc.). La frontiera della missione passa nelle scelte fondamentali che qualificano la vita, e perciò anche all’interno della comunità ecclesiale, che, evangelizzando, ha sempre nuovamente bisogno di essere evangelizzata e di decidersi per il suo Signore nel vivo delle situazioni sempre nuove della storia. La Chiesa evangelizza, continuamente si evangelizza, lasciandosi purificare e rinnovare dal giudizio della Parola di Dio e dal fuoco dello Spirito, nel concreto del suo cammino storico e delle prese di posizione, che le vengono richieste: così sta “sub Verbo Dei”, e può celebrare fiduciosamente i divini misteri per la salvezza del mondo. La Chiesa tutta in stato di missione è veramente “semper reformanda”!
 La costante apertura alla cattolicità del messaggio non è tuttavia ancora pienamente realizzata, se non si attua la contemporanea apertura all’ampiezza dei bisogni umani e della destinazione dell’evangelo a tutte le genti: è qui che si pone l’esigenza imprescindibile per ogni battezzato, come per ogni Chiesa particolare e per la Chiesa universale, di impegnarsi affinché l’annuncio raggiunga veramente ogni persona umana e non vi sia spazio o dimensione di storia cui non pervenga il messaggio. La Parola della salvezza non è fatta per restare nel chiuso delle coscienze o dei ghetti, che si può essere tentati di costruire: essa esige la libertà dai pregiudizi e dalle paure, la generosità audace per essere gridata dai tetti, fino agli ultimi confini della terra. La “kènosi” della Parola e dello Spirito è rivolta a raggiungere ogni creatura in tutta la sua consistenza. Ciò esige l’impegno in un processo di inculturazione, analogo al dinamismo dell’Incarnazione: «La Chiesa, per poter offrire a tutti il mistero della salvezza e la vita portata da Dio, deve inserirsi in tutti i diversi raggruppamenti umani con lo stesso movimento, con cui Cristo stesso, attraverso la sua incarnazione, si legò alle determinate condizioni sociali e culturali degli uomini, con cui visse» (Ad Gentes, 10).
 Cattolicità del soggetto, del messaggio e della destinazione della missione vengono così a saldarsi nell’unica cattolicità della Chiesa, la cui missione è inseparabilmente “kènosi” e “splendore” dello Spirito nella storia: questo implica, in particolare, il coinvolgimento di ciascuna Chiesa locale o particolare nell’azione missionaria della Catholica. Se il Signore non chiederà conto ai suoi discepoli dei salvati, perché la salvezza è un mistero di grazia e di libertà di cui nessuno può disporre dall’esterno, chiederà loro conto degli evangelizzati: in tal senso, una Chiesa locale senza urgenza e passione missionaria tradisce la propria intrinseca cattolicità, è un campo di morti, e non la comunità dei risorti nel Risorto. Certamente, il coinvolgimento missionario delle singole Chiese dovrà avvenire nella comunione con tutte le altre, in cui solo pienamente si esprime la Catholica: la comunione fra le Chiese esige di esprimersi nella corresponsabilità per la missione, nel reciproco scambio e nell’aiuto che esse possono darsi in ordine all’annuncio del Vangelo a tutte le genti, sotto la guida del Successore di Pietro e del collegio dei Vescovi con lui.
 È anche attraverso questa comunione operativa per la missione che la Chiesa risplende tra i popoli come il popolo della raccolta escatologica, cui tutte le genti sono chiamate a convergere nel mistero dell’alleanza. Così, la Chiesa locale appare nella luce dello Spirito soggetto della missione nelle coordinate concrete dello spazio in cui è situata, ma coinvolta in un compito missionario globale, che abbraccia i suoi confini e li supera, e che deve essere fatto proprio da tutti i credenti per rivolgersi a tutti gli uomini. In questa luce, appare chiaro anche come la cattolicità della missione escluda la figura del missionario isolato: il soggetto della missione resta sempre la Chiesa tutta, unita dallo Spirito nel suo realizzarsi concreto nelle Chiese locali, per cui il singolo deve sapersi inviato dall’intera comunità come segno di comunione e dono efficace per la Chiesa in cui opererà, già presente o da impiantare che sia. Questa Chiesa, da parte sua, accogliendo il missionario che l’ha generata nello Spirito o viene ad arricchirla dei suoi doni, recepisce nella sua vita più profonda la Chiesa inviante: in tal modo, la cooperazione missionaria fra le Chiese diventa una delle espressioni più alte della loro comunione cattolica nell’unico Spirito di vita e una forma densissima di realizzazione della loro costitutiva vocazione alla missione nello stesso Spirito.
 La missione della Chiesa appare dunque come la “kènosi” e lo “splendore” dello Spirito Santo agente nella storia: ecco perché la vita secondo lo Spirito è inseparabile dalla comunione ecclesiale e questa dallo slancio misionario. Afferma Agostino: «Tanto si ha lo Spirito Santo, quanto si ama la Chiesa di Cristo» (S. Agostino, In Iohan. Evang. Tract., 32,8). E quando si ama la Chiesa e si opera al servizio della missione cui lo Spirito la sospinge, si avverte più che mai la bellezza della sua unità, anticipo d’eterno, dono della Trinità alla storia perché la storia tenda all’approdo della patria, che è il Dio amore, tutto in tutti:  «Non separarti dalla Chiesa! Nessuna potenza ha la sua forza. La tua speranza, è la Chiesa. La tua salvezza, è la Chiesa. Il tuo rifugio, è la Chiesa. Essa è più alta del cielo e più grande della terra. Essa non invecchia mai: la sua giovinezza è eterna» (San Giovanni Crisostomo, Homilia De capto Eutripio, c. 6: PG 52,402).

Vieni, Spirito Santo,
fa’ di noi i testimoni innamorati e contagiosi
della verità che salva!
Vieni a renderci irradianti della luce e della gioia
che il Verbo della vita comunica ai cuori nella fede.
Effondi in noi l’amore di Dio,
che faccia di ciascuno di noi
trasparenza del Suo volto per il nostro prossimo
nelle piccole e grandi storie della carità che salva.
Sii Tu in noi ardente speranza,
anticipazione militante dell’eterno futuro,
pegno e caparra della gloria, sospirata ed attesa:
e fa’ che con la nostra vita
possiamo tirare nel presente del mondo
l’avvenire della promessa di Dio,
come testimoni credibili della speranza che non delude.
Amen! Alleluia!

San Basilio : « Perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20090421

Martedì della II settimana di Pasqua : Jn 3,7-15
Meditazione del giorno
San Basilio (circa 330-379), monaco e vescovo di Cesarea in Cappadocia, dottore della Chiesa
Sullo Spirito Santo, 14

« Perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna »

La figura è un modo di esporre, mediante una similitudine, le cose che attendiamo. Per esempio, Adamo è la prefigurazione dell’Adamo nuovo (1 Cor 15,45) e la pietra [nel deserto durante l'Esodo] figura Cristo; l’acqua che sgorga dalla pietra è la figura della potenza vivificante del Verbo (Es 17,3; 1 Cor 10,4), poiché egli ha detto: «Chi ha sete venga a me e beva» (Gv 7,37). La manna è la prefigurazione del «pane vivo, disceso dal cielo» (Gv 6,51); e il serpente alzato sopra un’astra è la figura della Passione, della nostra salvezza compiuta sulla croce, poiché coloro che lo guardavano erano salvati (Num 21,9). Allo stesso modo, ciò che la Scrittura dice degli Israeliti quando escono dall’Egitto è stato raccontato come una prefigurazione di coloro che sarebbero salvati mediante il battesimo; infatti i primogeniti degli Israeliti sono stati salvati… per mezzo della grazia concessa a coloro che erano stati segnati dal sangue dell’agnello pasquale e questo sangue prefigurava il sangue di Cristo…

Quanto al mare e alla nube (Es 14), in quel tempo, conducevano alla fede mediante la meraviglia  che ispiravano; ma per il futuro, prefigurava la grazia che doveva venire. «Chi è saggio osservi queste cose» (Sal 106,43). Comprenderà che il mare, prefigurando il battesimo separava dal faraone, come il battesimo ci fa scampare dalla tirannia del diavolo. Un tempo, il mare ha soffocato in sé il nemico; oggi muore l’inimicizia che ci separava da Dio. Dal mare il popolo è uscito sano e salvo; e noi risaliamo dalle acque come risorti dai morti, salvati per mezzo della grazia di Colui che ci ha chiamati. Quanto alla nube, era l’ombra del dono dello Spirito, che rinfresca le nostre membra spegnendo la fiamma delle passioni.

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