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SABATO 25 APRILE – SAN MARCO EVANGELISTA (FESTA)

SABATO 25 APRILE - SAN MARCO EVANGELISTA (FESTA) dans Lettera agli Efesini

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SABATO 25 APRILE – SAN MARCO EVANGELISTA (FESTA)

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dalla lettera agli Efesini di san Paolo, apostolo 4, 1-16

La distribuzione dei vari doni nell’unico corpo
Fratelli, vi esorto io, il prigioniero del Signore, a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore, cercando di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti.
A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo. Per questo sta scritto:

Ascendendo in cielo ha portato con sé prigionieri,
ha distribuito doni agli uomini (Sal 67, 19).

Ma che significa la parola «ascese», se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per riempire tutte le cose.
E’ lui che ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri, per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo. Questo affinché non siamo più come fanciulli sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, secondo l’inganno degli uomini, con quella loro astuzia che tende a trarre nell’errore. Al contrario, vivendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità.

Responsorio   Cfr. 2 Pt 1, 21; Pro 2, 6
R. Non da volontà umana fu recata a noi la profezia; * mossi da Spirito Santo parlarono quegli uomini da parte di Dio, alleluia.
V. Il Signore dà la sapienza, dalla sua bocca esce scienza e prudenza:
R. mossi da Spirito Santo parlarono quegli uomini da parte di Dio,  alleluia.

Seconda Lettura
Dal trattato «Contro le eresie» di sant’Ireneo, vescovo
(Lib. 1, 10, 1-3; PG 7, 550-554)

La proclamazione della verità
La Chiesa, sparsa in tutto il mondo, fino agli ultimi confini della terra, ricevette dagli apostoli e dai loro discepoli la fede nell’unico Dio, Padre onnipotente, che fece il cielo la terra e il mare e tutto ciò che in essi è contenuto (cfr. At 4, 24). La Chiesa accolse la fede nell’unico Gesù Cristo, Figlio di Dio, incarnatosi per la nostra salvezza. Credette nello Spirito Santo che per mezzo dei profeti manifestò il disegno divino di salvezza: e cioè la venuta di Cristo, nostro Signore, la sua nascita dalla Vergine, la sua passione e la risurrezione dai morti, la sua ascensione corporea al cielo e la sua venuta finale con la gloria del Padre. Allora verrà per «ricapitolare tutte le cose» (Ef 1, 10) e risuscitare ogni uomo, perché dinanzi a Gesù Cristo, nostro Signore e Dio e Salvatore e Re secondo il beneplacito del Padre invisibile «ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua lo proclami» (Fil 2, 10) ed egli pronunzi su tutti il suo giudizio insindacabile.
Avendo ricevuto, come dissi, tale messaggio e tale fede, la Chiesa li custodisce con estrema cura, tutta compatta come abitasse in un’unica casa, benché ovunque disseminata. Vi aderisce unanimemente quasi avesse una sola anima e un solo cuore. Li proclama, li insegna e li trasmette all’unisono, come possedesse un’unica bocca.
Benché infatti nel mondo diverse siano le lingue, unica e identica è la forza della tradizione. Per cui le chiese fondate in Germania non credono o trasmettono una dottrina diversa da quelle che si trovano in Spagna o nelle terre dei Celti o in Oriente o in Egitto o in Libia o al centro del mondo. Come il sole, creatura di Dio, è unico in tutto l’universo, così la predicazione della verità brilla ovunque e illumina tutti gli uomini che vogliono giungere alla conoscenza della verità. E così tra coloro che presiedono le chiese nessuno annunzia una dottrina diversa da questa, perché nessuno è al di sopra del suo maestro.
Si tratti di un grande oratore o di un misero parlatore, tutti insegnano la medesima verità. Nessuno sminuisce il contenuto della tradizione. Unica e identica è la fede. Perciò né il facondo può arricchirla, né il balbuziente impoverirla.

Responsorio   Cfr. 1 Cor 1, 17-18. 21
R. Cristo mi ha mandato a predicare il vangelo: non con discorsi sapienti, perché non venga resa vana la croce di Cristo. * L’annunzio della croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per noi, chiamati alla salvezza, è potenza di Dio, alleluia.
V. Poiché la sapienza del mondo non ha conosciuto Dio, egli ha voluto salvare i credenti con la stoltezza della predicazione.
R. L’annunzio della croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per noi, chiamati alla salvezza, è potenza di Dio, alleluia.

VENERDÌ 25 APRILE 2009 – II SETTIMANA DI PASQUA

VENERDÌ 25 APRILE 2009 – II SETTIMANA DI PASQUA

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dai «Discorsi» di san Teodoro Studita, abate
(Disc. sull’adorazione della croce; PG 99, 691-694, 695. 698-699)

La croce di Cristo, nostra salvezza
O dono preziosissimo della croce! Quale splendore appare alla vista! Tutta bellezza e tutta magnificenza. Albero meraviglioso all’occhio e al gusto e non immagine parziale di bene e di male come quello dell’Eden.
E’ un albero che dona la vita, non la morte, illumina e non ottenebra, apre l’adito al paradiso, non espelle da esso.
Su quel legno sale Cristo, come un re sul carro trionfale. Sconfigge il diavolo padrone della morte e libera il genere umano dalla schiavitù del tiranno. Su quel legno sale il Signore, come un valoroso combattente. Viene ferito in battaglia alle mani, ai piedi e al divino costato. Ma con quel sangue guarisce le nostre lividure, cioè la nostra natura ferita dal serpente velenoso.
Prima venimmo uccisi dal legno, ora invece per il legno recuperiamo la vita. Prima fummo ingannati dal legno, ora invece con il legno scacciamo l’astuto serpente. Nuovi e straordinari mutamenti! Al posto della morte ci viene data la vita, invece della corruzione l’immortalità, invece del disonore la gloria.
Perciò non senza ragione esclama il santo Apostolo: «Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo» (Gal 6, 14).
Quella somma sapienza che fiorì dalla croce rese vana la superba sapienza del mondo e la sua arrogante stoltezza. I beni di ogni genere, che ci vennero dalla croce, hanno eliminato i germi della cattiveria e della malizia. All’inizio del mondo solo figure e segni premonitori di questo legno notificavano ed indicavano i grandi eventi del mondo. Stai attento, infatti tu, chiunque tu sia, che hai grande brama di conoscere. Noè non ha forse evitato per sé, per tutti i suoi familiari ed anche per il bestiame, la catastrofe del diluvio, decretata da Dio, in virtù di un piccolo legno? Pensa alla verga di Mosè. Non fu forse un simbolo della croce? Cambiò l’acqua in sangue, divorò i serpenti fittizi dei maghi, percosse il mare e lo divise in due parti, ricondusse poi le acque del mare al loro normale corso e sommerse i nemici, salvò invece coloro che erano il popolo legittimo. Tale fu anche la verga di Aronne, simbolo della croce, che fiorì in un solo giorno e rivelò il sacerdote legittimo. Anche Abramo prefigurò la croce quando legò il figlio sulla catasta di legna.
La morte fu uccisa dalla croce e Adamo fu restituito alla vita. Della croce tutti gli apostoli si sono gloriati, ogni martire ne venne coronato, e ogni santo santificato. Con la croce abbiamo rivestito Cristo e ci siamo spogliati dell’uomo vecchio. Per mezzo della croce noi, pecorelle di Cristo, siamo stati radunati in un unico ovile e siamo destinati alle eterne dimore.
 

MARTEDÌ 21 APRILE 2009 – II SETTIMANA DI PASQUA

MARTEDÌ 21 APRILE 2009 – II SETTIMANA DI PASQUA

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dai «Libri a Mònimo» di san Fulgenzio di Ruspe, vescovo.
(Lib. 2, 11-12; CCl 91, 46-48)

Sacramento di unità e di carità
L’edificio spirituale del corpo di Cristo si costruisce nell’amore secondo le parole di san Pietro. Con le pietre vive si eleva un edificio spirituale per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo (cfr. 1 Pt 3, 5). Questa opera di costruzione spirituale mai diventa oggetto più appropriato di preghiera come quando il corpo stesso di Cristo, che è la Chiesa, offre il corpo e il sangue di Cristo nel sacramento del pane e del calice.
Infatti il calice che beviamo è la comunione del sangue di Cristo e il pane che spezziamo è la partecipazione del corpo del Signore; poiché vi è un solo pane, noi, pur essendo molti, formiamo un solo corpo; tutti infatti partecipiamo dell’unico pane (cfr. 1 Cor 10, 16-17).
Quella grazia che fece della Chiesa il corpo di Cristo, faccia sì che tutte le membra della carità rimangano compatte e perseverino nell’unità del corpo. Sia questa la nostra preghiera. Sia questo il dono di quello Spirito, che è l’unico Spirito del Padre e del Figlio. Perché la Trinità è per sua natura santità e unità, uguaglianza e amore, la Trinità è un solo e vero Dio, e unanime è l’azione santificatrice operata dalle tre Persone in coloro che sono stati adottati come figli. Ecco perché leggiamo: «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5, 5).
Lo Spirito Santo, che è unico del Padre e del Figlio, dando la grazia dell’adozione divina, opera i medesimi effetti descritti dagli Atti degli Apostoli per coloro che ricevevano lo Spirito Santo: «La moltitudine dei credenti aveva un cuore solo ed un’anima sola» (At 4, 32).
L’unico cuore infatti e l’unica anima della moltitudine di coloro che eran venuti alla fede in Dio li aveva operati l’unico Spirito che è del Padre e del Figlio, e con il Padre e il Figlio è un solo Dio.
L’Apostolo, scrivendo agli Efesini, dice che questa unità di spirito nel vincolo della pace, deve essere conservata con cura: «Io, il prigioniero del Signore, vi esorto a comportarvi in maniera degna della vocazione cui siete stati chiamati, con ogni umiltà, dolcezza e pazienza, sopportandovi gli uni gli altri con amore, cercando di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo, un solo spirito» (cfr. Ef 4, 1-4). Dio, infatti, mentre custodisce per mezzo dello Spirito Santo il suo amore diffuso nella Chiesa, fa della medesima un sacrificio a lui gradito.
Possa essa sempre ricevere la stessa grazia della carità spirituale e, così, presentarsi sempre ostia viva, santa, gradita a Dio.

LUNEDÌ 20 APRILE 2009 – II SETTIMANA DI PASQUA

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dall’«Omelia sulla Pasqua» di un antico autore (PG 59, 723-724)

La Pasqua spirituale
La Pasqua che noi celebriamo è causa di salvezza per tutti, a cominciare dal primo uomo che è salvato e vivificato in tutti.
Le cose imperfette e temporanee di un tempo, così come le antiche immagini e i simboli delle cose eterne, erano destinati ad adombrare quella verità, che attualmente si è compiuta. Ora che la verità è divenuta presente, il simbolo deve cederle il posto. Accade come quando, arrivato il re, nessuno trascura il re vivo per inchinarsi ancora davanti ad una sua immagine.
Da questo appare chiaro quanto il simbolo sia inferiore alla verità, perché il simbolo ricorda la breve esistenza dei primogeniti giudei, la verità, invece, la vita eterna di tutti gli uomini.
Non è gran cosa sfuggire alla morte per breve tempo per colui che è destinato a morire poco dopo, ma è certamente gran cosa sottrarsi del tutto alla morte, come è accaduto a noi per Cristo, per noi sacrificato come nostra Pasqua.
Il nome stesso della festa ci manifesta questo suo alto valore, se viene interpretato nel suo senso esatto. Pasqua infatti significa passaggio, perché l’angelo sterminatore, che faceva morire i primogeniti, passò oltre le case degli Ebrei. Ora il passaggio dello sterminatore si verifica veramente in noi, perché ci oltrepassa senza toccarci. In effetti Cristo ci ha risuscitati alla vita eterna.
Il tempo della Pasqua e della salvezza dei primogeniti era considerato inizio dell’anno. Cosa significa ciò sul piano mistico? Che anche per noi il sacrificio della vera Pasqua segna l’inizio della vita eterna. L’anno poi è il simbolo del mondo, perché è come il circolo che nel suo girare, ritorna costantemente su se stesso senza trovare termine in nessun punto.
Il padre del mondo futuro, Cristo, venne sacrificato per noi quasi per annullare il tempo della nostra vita passata, e farcene incominciare una nuova. Infatti mediante il lavacro di rigenerazione ci ha resi partecipi della sua morte e risurrezione. Perciò chiunque è veramente consapevole che la Pasqua venne immolata per la sua salvezza, consideri inizio della sua vita il momento in cui Cristo si è sacrificato per lui. Riconosca fatta a suo beneficio quell’immolazione. Prenda coscienza e capisca che la vita e la grazia gli sono state conquistate a prezzo di un simile sacrificio.
Conosciuto dunque questo, si affretti a inaugurare una nuova vita, e non ritorni più a quella vecchia e sorpassata. Infatti «Noi che già siamo morti al peccato, come potremo ancora vivere nel peccato?» (Rm 6, 2).
 
Responsorio    Cfr. 1 Cor 5, 7-8; Rm 4, 25
R. Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova. Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato: * celebriamo dunque la festa nel Signore, alleluia.
V. Messo a morte per i nostri peccati, è risorto per la nostra giustificazione:
R. celebriamo dunque la festa nel Signore, alleluia.

Sant’Efrem Siro: « Riempirono dodici canestri con i pezzi avanzati »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20090424

Venerdì della II settimana di Pasqua : Jn 6,1-15
Meditazione del giorno
Sant’Efrem Siro (circa 306-373), diacono in Siria, dottore della Chiesa
Commento sul Diatèssaron, 12, 4-5, 11 ; SC 121, 214

« Riempirono dodici canestri con i pezzi avanzati »

In un batter d’occhio, il Signore ha moltiplicato un po’ di pane. Ciò che gli uomini fanno in dieci mesi di lavoro, le sue dieci dita l’hanno fatto in un istante… Eppure, egli ha misurato il miracolo non alla sua potenza, bensì alla fame dei presenti. Se il miracolo fosse stato misurato secondo la sua potenza, sarebbe stato impossibile valutarlo; invece, misurato secondo la fame di quelle migliaia di persone, il miracolo ha sovrabbondato di dodici canestri; negli artigiani, la potenza è inferiore al desiderio dei clienti, non possono fare quanto gli viene chiesto; invece le realizzazioni di Dio superano ogni desiderio…

Saziati nel deserto, come un tempo gli Israeliti in seguito alla preghiera di Mosè, esclamarono: «Questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo». Accennavano alle parole di Mosè: «Il Signore susciterà per te un profeta», non un profeta qualunque, bensì «un profeta pari a me» (Dt 18,15), che vi sazierà di pane nel deserto. Come me, ha camminato sul mare, è apparso nella nube luminosa (Mt 17,5), ha liberato il suo popolo. Come Mosè che ha affidato il suo gregge a Giosuè, egli ha affidato Maria a Giovanni… Ma il pane di Mosè non era perfetto; è stato dato ai soli Israeliti. Volendo accennare che il suo dono superava quello di Mosè, e la chiamata delle nazioni era ancora più perfetta, il nostro Signore disse: «Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno», infatti «il pane di Dio è disceso dal cielo» e viene dato al mondo intero (Gv 6,51).

Padre Cantalamessa: “Tutti coloro che sono guidati dallo Spirito sono figli di Dio” (Rom 8, 14 e altre)

dal sito:

http://www.cantalamessa.org/it/predicheView.php?id=287

“Tutti coloro che sono guidati dallo Spirito sono figli di Dio” (Rom 8, 14) 
 
2009-03-27- Quaresima 2009 alla Casa Pontificia

1. Un’era dello Spirito Santo?

“Non c’è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. Poiché la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte…. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. E se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto a causa del peccato, ma lo spirito è vita a causa della giustificazione. E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi”.
Sono quattro versetti del capitolo ottavo della Lettera ai Romani sullo Spirito Santo e in essi risuona per ben sei volte il nome di Cristo. La stessa frequenza si mantiene nel resto del capitolo, se consideriamo anche le volte che ci si riferisce a lui con il pronome o con il termine Figlio. Questo fatto è di fondamentale importanza; ci dice che per Paolo l’opera dello Spirito Santo non si sostituisce a quella di Cristo, ma la prosegue, la compie e la attualizza.

Il fatto che il neo eletto presidente degli Stati Uniti, durante la sua campagna elettorale, si sia riferito per tre volte a Gioacchino da Fiore, ha riacceso l’interesse per la dottrina di questo monaco del medio evo. Pochi di quelli che disquisiscono su di lui, specialmente su internet, sanno, o si preoccupano di sapere, cosa ha detto esattamente questo autore. Ogni idea di rinnovamento ecclesiale o mondiale viene disinvoltamente messa sotto il suo nome, perfino l’idea di una novella Pentecoste per la Chiesa, invocata da Giovanni XXIII.

Una cosa è certa. Sia o no da attribuirsi a Gioacchino da Fiore, quella di una terza era dello Spirito che succederebbe a quella del Padre nell’Antico Testamento e di Cristo nel Nuovo è falsa ed eretica perché intacca il cuore stesso del dogma trinitario. Ben diversa da essa è l’affermazione di san Gregorio Nazianzeno. Egli distingue tre fasi nella rivelazione della Trinità: nell’Antico Testamento, si è rivelato pienamente il Padre ed è stato promesso ed annunciato il Figlio; nel Nuovo Testamento, si è rivelato pienamente il Figlio ed è stato annunciato e promesso lo Spirito Santo; nel tempo della Chiesa, si conosce finalmente appieno lo Spirito Santo e si gode della sua presenza [1].

Solo per avere citato in un mio libro questo testo di san Gregorio sono finito anch’io nella lista dei seguaci di Gioacchino da Fiore, ma san Gregorio parla dell’ordine della manifestazione dello Spirito, non del suo essere o del suo agire, e in tal senso la sua affermazione esprime una verità incontestabile, accolta pacificamente da tutta la tradizione.

La tesi cosiddetta gioachimita è esclusa alla radice da Paolo e da tutto il Nuovo Testamento. Per essi lo Spirito Santo altro non è che lo Spirito di Cristo: oggettivamente perché è il frutto della sua Pasqua, soggettivamente perché è lui che lo effonde sulla Chiesa, come dirà Pietro alle folle il giorno stesso di Pentecoste: “Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire” (Atti 2, 33). Il tempo dello Spirito è perciò co-estensivo al tempo di Cristo.

Lo Spirito Santo è lo Spirito che procede primariamente dal Padre, che è sceso e si è “riposato” in pienezza su Gesú, storicizzandosi e abituandosi in lui, dice sant’Ireneo, a vivere tra gli uomini, e che nella Pasqua-Pentecoste viene da lui effuso sull’umanità. La riprova di tutto ciò è proprio il grido “Abbà” che lo Spirito ripete nel credente (Gal 4,6) o insegna a ripetere al credente (Rom 8, 15). Come può lo Spirito gridare Abbà al Padre? Egli non è generato dal Padre, non è suo Figlio… Può farlo, nota Agostino, perché è lo Spirito del Figlio e prolunga il grido di Gesú.

2. Lo Spirito come guida nella Scrittura

Dopo questa premessa, vengo al versetto del capitolo ottavo della Lettera ai Romani sul quale vorrei oggi soffermarmi. “Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio” (Rom 8,14).

Il tema dello Spirito Santo-guida non è nuovo nella Scrittura. In Isaia tutto il cammino del popolo nel deserto viene attribuito alla guida dello Spirito. “Lo Spirito del Signore li guidava al riposo” (Is 63, 14). Gesù stesso fu “condotto (ductus) dallo Spirito nel deserto” (Mt 4,1). Gli Atti degli apostoli ci mostrano una Chiesa che è, passo passo, “condotta dallo Spirito”. Lo stesso disegno di san Luca di far seguire al vangelo gli Atti degli apostoli ha lo scopo di mostrare come lo stesso Spirito che aveva guidato Gesù nella sua vita terrena, ora guida la Chiesa, come Spirito “di Cristo”. Pietro va verso Cornelio e i pagani? E lo Spirito che glielo ordina (cf. At 10,19;11,12); a Gerusalemme, gli apostoli prendono delle decisioni importanti? È lo Spirito che le ha suggerite (15, 28).

La guida dello Spirito si esercita non solo nelle grandi decisioni, ma anche nelle cose piccole. Paolo e Timoteo vogliono predicare il vangelo nella provincia dell’Asia, ma “lo Spirito Santo lo vieta loro”; fanno per dirigersi verso la Bitinia, ma “lo Spirito di Gesù non lo permette loro” (At 16, 6 s.). Si capisce in seguito il perché di questa guida così incalzante: lo Spirito Santo spingeva in questo modo la Chiesa nascente ad uscire dall’Asia ed affacciarsi su un nuovo continente, l’Europa (cf. At 16,9).

Per Giovanni, la guida del Paraclito si esercita soprattutto nell’ambito della conoscenza. Egli è colui che “guiderà” i discepoli alla verità tutta intera (Gv 16,3); la sua unzione “insegna ogni cosa”, al punto che chi la possiede non ha bisogno di altri maestri (cf. 1 Gv 2, 27). Paolo introduce un’importante novità. Per lui lo Spirito Santo non è solo “il maestro interiore”; è un principio di vita nuova (“quelli che sono guidati da lui diventano figli di Dio”!); non si limita a indicare il da farsi, ma dà anche la capacità di fare ciò che comanda.

In ciò, la guida dello Spirito si differenzia essenzialmente da quella della Legge che permette di vedere il bene da compiere, ma lascia la persona alle prese con il male che non vuole (cf. Rom 7, 15 ss.). “Se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete più sotto la legge”, aveva detto l’Apostolo in precedenza, nella Lettera ai Galati (Gal 5,18).

Questa visione paolina della guida dello Spirito, più profonda e ontologica (in quanto tocca l’essere stesso del credente) non esclude quella più comune di maestro interiore, di guida alla conoscenza della verità e della volontà di Dio, e in questa occasione è proprio di ciò che vorrei parlare.

Si tratta di un tema che ha avuto un ampio sviluppo nella tradizione della Chiesa. Se Gesù Cristo è “la via” (odòs) che conduce al Padre (Gv 14, 6), lo Spirito Santo, dicevano i Padri, è “la guida lungo la via” (odegòs) [2]. “Questi è lo Spirito, scrive sant’Ambrogio, nostro capo e guida (ductor et princeps), che dirige la mente, conferma l’affetto, ci attira dove vuole e volge verso l’alto i nostri passi” [3]. L’inno Veni creator raccoglie questa tradizione nei versetti: “Ductore sic te praevio vitemus omne noxium”: con te che ci fai da guida eviteremo ogni male. Il concilio Vaticano II si inserisce in questa linea quando parla di se stessa come “del popolo di Dio che crede di essere condotto dallo Spirito del Signore” [4].

3. Lo Spirito guida attraverso la coscienza

Dove si esplica questa guida del Paraclito? Il primo ambito, o organo, è la coscienza. C’è una relazione strettissima tra coscienza e Spirito Santo. Cos’è la famosa “voce della coscienza”, se non una specie di “ripetitore a distanza”, attraverso cui lo Spirito Santo parla a ogni uomo? “Me ne dà testimonianza la mia coscienza, nello Spirito Santo”, esclama san Paolo, parlando del suo amore per i connazionali ebrei (cf. Rom 9, 1).

Attraverso questo “organo”, la guida dello Spirito Santo si estende anche fuori della Chiesa, a tutti gli uomini. I pagani “mostrano che, quanto la legge esige, è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza” (Rom 2, 14 s.). Proprio perché lo Spirito Santo parla in ogni essere ragionevole attraverso la coscienza, diceva san Massimo Confessore, “vediamo molti uomini, anche tra i barbari e nomadi, volgersi a una vita decorosa e buona, e disprezzare le leggi selvagge che fin dalle origini avevano dominato tra di loro”[5].
La coscienza è anch’essa una specie di legge interiore, non scritta, diversa e inferiore rispetto a quella che esiste nel credente per la grazia, ma non in disaccordo con essa, dal momento che proviene dallo stesso Spirito. Chi non possiede che questa legge “inferiore”, ma le obbedisce, è più vicino allo Spirito di chi possiede quella superiore che viene dal battesimo, ma non vive in accordo con essa.

Nei credenti questa guida interiore della coscienza è come potenziata ed elevata dall’unzione che “insegna ogni cosa, è veritiera e non mentisce” (1 Gv 2, 27), guida cioè infallibilmente, se ascoltata. Proprio commentando questo testo, sant’Agostino ha formulato la dottrina dello Spirito Santo come “maestro interiore”. Cosa vuol dire, si domanda, “non avete bisogno che alcuno vi istruisca”? Forse che il singolo cristiano sa già tutto per conto suo e che non ha bisogno di leggere, di istruirsi, di ascoltare nessuno? Ma se fosse così, a che scopo l’apostolo avrebbe scritto questa sua lettera? La verità è che c’è bisogno di ascoltare maestri esterni e predicatori esterni, ma che solo capirà e approfitterà di quello che essi dicono colui al quale parla nell’intimo lo Spirito Santo. Questo spiega perché molti ascoltano la stessa predica e lo stesso insegnamento, ma non tutti capiscono allo stesso modo [6].

Quale consolante sicurezza da tutto ciò! La parola che un giorno risuonò nel vangelo: “Il maestro è qui e ti chiama!” (Gv 11, 28), è vera per ogni cristiano. Lo stesso maestro di allora, Cristo, che parla ora attraverso il suo Spirito, è dentro di noi e ci chiama. Aveva ragione san Cirillo di Gerusalemme di definire lo Spirito Santo “il grande Didascalo, cioè maestro, della Chiesa” [7].

In questo ambito intimo e personale della coscienza, lo Spirito Santo ci istruisce con le “buone ispirazioni”, o le “illuminazioni interiori” di cui tutti hanno fatto qualche esperienza nella vita. Sono spinte a seguire il bene e a fuggire il male, attrazioni e propensioni del cuore che non si spiegano naturalmente, perché spesso vanno in direzione opposta a quella che vorrebbe la natura.

È proprio basandosi su questa componente etica della persona che taluni eminenti scienziati e biologi odierni sono giunti a superare la teoria che vede l’essere umano come risultato casuale della selezione delle specie. Se la legge che governa l’evoluzione è solo la lotta per la sopravvivenza del più forte, come si spiegano certi atti di puro altruismo e perfino di sacrificio di sé per la causa della verità e della giustizia?[8]

4. Lo Spirito guida attraverso il magistero della Chiesa

Fin qui, il primo ambito in cui si esercita la guida dello Spirito Santo, quello della coscienza. Ne esiste un secondo che è la Chiesa. La testimonianza interna dello Spirito Santo si deve coniugare con quella esterna, visibile e oggettiva, che è il magistero apostolico. Nell’apocalisse, al termine di ognuna delle sette lettere, ascoltiamo l’ammonimento: “Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese” (Ap 2, 7 ss.).

Lo Spirito parla anche alle chiese e alle comunità, non solo agli individui. San Pietro negli Atti riunisce le due testimonianze -interiore ed esteriore, personale e pubblica- dello Spirito Santo. Ha appena finito di parlare alle folle di Cristo messo a morte e risuscitato, e quelle si sono sentite “compunte” (cf. At 2, 37); ha fatto lo stesso discorso davanti ai capi del sinedrio, e quelli si sono infuriati (cf. At 4, 8 ss). Stesso discorso, stesso predicatore, ma effetto del tutto diverso. Come mai? La spiegazione è in queste parole che l’apostolo pronuncia in quella circostanza: “Di queste cose siamo testimoni noi e lo Spirito Santo che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a lui” (At 5,32).

Due testimonianze devono unirsi perché possa sbocciare la fede: quella degli apostoli che proclamano la parola e quella dello Spirito che permette di accoglierla. La stessa idea è espressa nel vangelo di Giovanni, quando, parlando del Paraclito, Gesù dice: “Egli mi renderà testimonianza e anche voi mi renderete testimonianza” (Gv 15, 26).

È ugualmente fatale pretendere di fare a meno dell’una o dell’altra delle due guide dello Spirito. Quando si trascura la testimonianza interiore, si cade facilmente nel giuridismo e nell’autoritarismo; quando si trascura quella esteriore, apostolica, si cade nel soggettivismo e nel fanatismo. Nell’antichità, rifiutavano la testimonianza apostolica, ufficiale, gli gnostici. Contro di essi, sant’Ireneo scriveva le note parole:
“Alla Chiesa è stato affidato il Dono di Dio, come il soffio alla creatura plasmata…Di lui non sono partecipi quelli che non corrono alla Chiesa… Separatisi dalla verità, essi si agitano in ogni errore lasciandosi sballottare da esso; secondo i momenti, pensano sempre diversamente sugli stessi argomenti, senza mai avere un pensiero stabile” [9].

Quando si riduce tutto al solo ascolto personale, privato, dello Spirito, si apre la strada a un processo inarrestabile di divisioni e suddivisioni, perché ognuno crede di essere nel giusto e la stessa divisione e moltiplicazione delle denominazioni e delle sette, spesso in contrasto tra loro su punti essenziali, dimostra che non può essere in tutti lo stesso Spirito di verità a parlare, perché altrimenti egli sarebbe in contraddizione con se stesso.

Questo, si sa, è il pericolo a cui è maggiormente esposto il mondo protestante, avendo eretto la “testimonianza interna” dello Spirito Santo a unico criterio di verità, contro ogni testimonianza esterna, ecclesiale, che non sia quella della sola Parola scritta [10]. Alcune frange estreme andranno tanto oltre da staccare la guida interiore dello Spirito anche dalla parola della Scrittura; si avranno allora i vari movimenti di “entusiasti” e di “illuminati” che hanno punteggiato la storia della Chiesa, sia cattolica che ortodossa e protestante. L’approdo più frequente di questa tendenza, che concentra tutta l’attenzione sulla testimonianza interna dello Spirito, è che insensibilmente lo Spirito… perde la lettera maiuscola e viene a coincidere con il semplice spirito umano. È quello che è successo con il razionalismo.

Dobbiamo però riconoscere che esiste anche il rischio opposto: quello di assolutizzare la testimonianza esterna e pubblica dello Spirito, ignorando quella individuale che si esercita attraverso la coscienza illuminata dalla grazia. In altre parole, di ridurre la guida del Paraclito al solo magistero ufficiale della Chiesa, impoverendo così l’azione variegata dello Spirito Santo. Facilmente prevale, in questo caso, l’elemento umano, organizzativo e istituzionale; si favorisce la passività del corpo e si apre la porta alla emarginazione del laicato e alla eccessiva clericalizzazione della Chiesa.

Anche in questo caso, come sempre, dobbiamo ritrovare l’intero, la sintesi, che è il criterio veramente “cattolico”. L’ideale è una sana armonia tra l’ascolto di ciò che lo Spirito dice a me, singolarmente, con ciò che dice alla Chiesa nel suo insieme e attraverso la Chiesa ai singoli. Con il suo decreto sulla libertà di coscienza il concilio Vaticano II ha voluto operare appunto questa sintesi.

5. Il discernimento nella vita personale

Veniamo ora alla guida dello Spirito nel cammino spirituale di ogni credente. Essa va sotto il nome di discernimento degli spiriti. Il primo e fondamentale discernimento degli spiriti è quello che permette di distinguere “lo Spirito di Dio” dallo “spirito del mondo” (cf. 1 Cor 2, 12). San Paolo dà un criterio oggettivo di discernimento, lo stesso che aveva dato Gesù: quello dei frutti. Le “opere della carne” rivelano che un certo desiderio viene dall’uomo vecchio peccaminoso, “i frutti dello Spirito” rivelano che viene dallo Spirito (cf. Gal 5, 19-22). “La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne” (Gal 5, 17).
A volte però questo criterio oggettivo non basta perché la scelta non è tra bene e male, ma è tra un bene e un altro bene e si tratta di vedere qual è la cosa che Dio vuole, in una precisa circostanza. Fu soprattutto per rispondere a questa esigenza che sant’Ignazio di Loyola sviluppò la sua dottrina sul discernimento. Egli invita a guardare soprattutto una cosa: le proprie disposizioni interiori, le intenzioni (gli “spiriti”) che stanno dietro a una scelta.

Sant’Ignazio ha suggerito dei mezzi pratici per applicare questi criteri [11]. Uno è questo. Quando si è davanti a due possibili scelte, giova soffermarsi prima su una, come se si dovesse senz’altro seguire quella, rimanere in tale stato per un giorno o più; quindi valutare le reazioni del cuore di fronte a tale scelta: se dà pace, se si armonizza con il resto delle proprie scelte; se qualcosa dentro di te ti incoraggia in quella direzione, o al contrario se la cosa lascia un velo di inquietudine…Ripetere il processo con la seconda ipotesi. Il tutto in un clima di preghiera, di abbandono alla volontà di Dio, di apertura allo Spirito Santo.

Una abituale disposizione di fondo a fare, in ogni caso, la volontà di Dio, è la condizione più favorevole per un buon discernimento. Gesù diceva: “Il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato” (Gv 5, 30).

Il pericolo, in alcuni modi moderni di intendere e praticare il discernimento, è di accentuare a tal punto gli aspetti psicologici, da dimenticare l’agente primario di ogni discernimento che è lo Spirito Santo. C’è una profonda ragione teologica di ciò. Lo Spirito Santo è lui stesso la volontà sostanziale di Dio e quando entra in un’anima “si manifesta come la volontà stessa di Dio per colui nel quale si trova” [12].

Il frutto concreto di questa meditazione potrebbe essere una rinnovata decisione di affidarci in tutto e per tutto alla guida interiore dello Spirito Santo, come per una sorta di “direzione spirituale”. E’ scritto che “quando la nube s’innalzava e lasciava la Dimora, gli israeliti levavano l’accampamento, e se la nube non si innalzava, essi non partivano” (Es 40, 36-37). Anche noi, non dobbiamo intraprendere nulla se non è lo Spirito Santo, di cui la nuvola, secondo la tradizione, era figura, a muoverci e senza averlo consultato prima di ogni azione.
Ne abbiamo il più luminoso esempio nella vita stessa di Gesù. Egli non intraprese mai nulla senza lo Spirito Santo. Con lo Spirito Santo andò nel deserto; con la potenza dello Spirito Santo ritornò e iniziò la sua predicazione; “nello Spirito Santo” si scelse i suoi apostoli (cf At 1,2); nello Spirito pregò e offrì se stesso al Padre (cf. Eb 9, 14).

San Tommaso parla di questa conduzione interiore dello Spirito come di una specie di “istinto proprio dei giusti”: “Come nella vita corporale il corpo non è mosso se non dall’anima che lo vivifica, così nella vita spirituale ogni nostro movimento dovrebbe provenire dallo Spirito Santo” [13]. È così che agisce la “legge dello Spirito”; questo è ciò che l’Apostolo chiama un “lasciarsi guidare dallo Spirito” (Gal 5,18).

Dobbiamo abbandonarci allo Spirito Santo come le corde dell’arpa alle dita di chi le muove. Come bravi attori, tenere l’orecchio proteso alla voce del suggeritore nascosto, per recitare fedelmente la nostra parte nella scena della vita. È più facile di quanto si pensi, perché il nostro suggeritore ci parla dentro, ci insegna ogni cosa, ci istruisce su tutto. Basta a volte una semplice occhiata interiore, un movimento del cuore, una preghiera. Di un santo vescovo del II secolo, Melitone di Sardi, si legge questo bell’elogio che vorrei si potesse ripetere di ognuno di noi dopo morte: “Nella sua vita fece ogni cosa mosso dallo Spirito Santo” [14].

[1] Cf. S. Gregorio Nazianzeno, Discorsi, XXXI, 26 (PG 36, 161 s.).
[2] S. Gregorio Nisseno, Sulla fede (PG 45, 1241C): cf. Ps.-Atanasio, Dialogo contro i Macedoniani, 1, 12 (PG 28, 1308C).
[3] S. Ambrogio, Apologia di David, 15, 73 (CSEL 32,2, p. 348).
[4] Gaudium et spes, 11.
[5] S. Massimo Confessore, Capitoli vari, I, 72 (PG 90, 1208D).
[6] Cf. S. Agostino, Sulla prima lettera di Giovanni, 3,13; 4,1 (PL 35, 2004 s.).
[7] S. Cirillo di Gerusalemme, Catechesi, XVI, 19.
[8] Cf. F. Collins, The Language of God
[9] S. Ireneo, Contro le eresie, III, 24, 1-2.
[10] Cf. J.-L. Witte, Esprit-Saint et Eglises séparées, in Dict.Spir. 4, 1318-1325.
[11] Cf. S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, quarta settimana (ed. BAC, Madrid 1963, pp. 262 ss).
[12] Cf. Guglielmo di St. Thierry, Lo specchio della fede, 61 (SCh 301, p. 128).
[13] S. Tommaso, Sulla lettera ai Galati, c.V, lez.5, n.318; lez. 7, n. 340.
[14] Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, V, 24, 5. 

Fr. Raniero Cantalamessa: “Fino alla morte, e alla morte di croce” (Lettere)

dal sito:

http://www.cantalamessa.org/it/predicheView.php?id=301

Fr. Raniero Cantalamessa, ofmcap

“Fino alla morte, e alla morte di croce” 
 
2009-04-10- Predica del Venerdì Santo 2009 nella Basilica di S. Pietro

“Christus factus est pro nobis oboediens usque ad mortem, mortem autem crucis”: “Per noi Cristo si è fatto obbediente fino alla morte. E alla morte di croce”. Nel bi-millenario della nascita dell’apostolo Paolo, riascoltiamo alcune sue fiammeggiati parole sul mistero della morte di Cristo che stiamo celebrando. Nessuno meglio di lui può aiutarci a comprenderne il significato e la portata.

Ai Corinzi scrive a modo di manifesto: “I Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio” (1 Cor 1, 22-24). La morte di Cristo ha una portata universale: ”Uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti” (2 Cor 5, 14). La sua morte ha dato un senso nuovo alla morte di ogni uomo e di ogni donna.

Agli occhi di Paolo la croce assume una dimensione cosmica. Su di essa Cristo ha abbattuto il muro di separazione, ha riconciliato gli uomini con Dio e tra di loro, distruggendo l’inimicizia (cf. Ef. 2,14-16). Da qui la primitiva tradizione svilupperà il tema della croce albero cosmico che con il braccio verticale unisce cielo e terra e con il braccio orizzontale riconcilia tra loro i diversi popoli del mondo. Evento cosmico e nello stesso tempo personalissimo: “Mi ha amato e ha dato se stesso per me!” (Gal 2, 20). Ogni uomo, scrive l’Apostolo, è “uno per cui Cristo è morto” (Rom 14,15).

Da tutto ciò nasce il sentimento della croce, non più come castigo, rimprovero o argomento di afflizione, ma gloria e vanto del cristiano, cioè come una giubilante sicurezza, accompagnata da commossa gratitudine, alla quale l’uomo si innalza nella fede: “Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo” (Gal 6, 14).

Paolo ha piantato la croce al centro della Chiesa come l’albero maestro al centro della nave; ne ha fatto il fondamento e il baricentro di tutto. Ha fissato per sempre il quadro dell’annuncio cristiano. I vangeli, scritti dopo di lui, ne seguiranno lo schema, facendo del racconto della passione e morte di Cristo il fulcro verso cui tutto è orientato.

Si resta stupiti di fronte all’impresa portata a termine dall’Apostolo. Per noi oggi è relativamente facile vedere le cose in questa luce, dopo che la croce di Cristo, come diceva Agostino, ha riempito la terra e brilla ora sulla corona dei re [1]. Quando Paolo scriveva, essa era ancora sinonimo della più grande ignominia, qualcosa che non si doveva neppure nominare tra persone educate.

Lo scopo dell’anno paolino non è tanto quello di conoscere meglio il pensiero dell’Apostolo (questo gli studiosi lo fanno da sempre, senza contare che la ricerca scientifica richiede tempi più lunghi di un anno); è piuttosto, come ha ricordato in più occasioni il Santo Padre, quello di imparare da Paolo come rispondere alle sfide attuali della fede.

Una di queste sfide, forse la più aperta mai conosciuta fino ad oggi, si è tradotta in uno slogan pubblicitario scritto sui mezzi di trasporto pubblico di Londra e di altre città europee: “Dio probabilmente non esiste. Dunque smetti di tormentarti e goditi la vita”: There’s probably no God. Now stop worrying and enjoy your life.”

L’elemento di maggior presa di questo slogan non è la premessa “Dio non esiste”, ma la conclusione: “Goditi la vita!” Il messaggio sottinteso è che la fede in Dio impedisce di godere la vita, è nemica della gioia. Senza di essa ci sarebbe più felicità nel mondo! Paolo ci aiuta a dare una risposta a questa sfida, spiegando l’origine e il senso di ogni sofferenza, a partire da quella di Cristo.

Perché “era necessario che il Cristo patisse per entrare nella sua gloria”? (Lc 24, 26). A questa domanda si dà talvolta una risposta “debole” e, in un certo senso, rassicurante. Cristo, rivelando la verità di Dio, provoca necessariamente l’opposizione delle forze del male e delle tenebre e queste, come era avvenuto nei profeti, porteranno al suo rifiuto e alla sua eliminazione. “Era necessario che il Cristo patisse” andrebbe dunque inteso nel senso di “era inevitabile che il Cristo patisse”.

Paolo da una risposta “forte” a quella domanda. La necessità non è di ordine naturale, ma soprannaturale. Nei paesi di antica fede cristiana si associa quasi sempre l’idea di sofferenza e di croce a quella di sacrificio e di espiazione: la sofferenza, si pensa, è necessaria per espiare il peccato e placare la giustizia di Dio. È questo che ha provocato, in epoca moderna, il rigetto di ogni idea di sacrificio offerto a Dio e, per finire, l’idea stessa di Dio.

Non si può negare che talvolta noi cristiani abbiamo prestato il fianco a questa accusa. Ma si tratta di un equivoco che una migliore conoscenza del pensiero di san Paolo ha ormai definitivamente chiarito. Egli scrive che Dio ha prestabilito Cristo “a servire come strumento di espiazione” (Rom 3,25), ma tale espiazione non opera su Dio per placarlo, ma sul peccato per eliminarlo. “Si può dire che sia Dio stesso, non l’uomo, che espia il peccato… L’immagine è più quella della rimozione di una macchia corrosiva o la neutralizzazione di un virus letale che quella di un’ira placata dalla punizione”[2].

Cristo ha dato un contenuto radicalmente nuovo all’idea di sacrificio. In esso “non è più l’uomo ad esercitare un’influenza su Dio perché questi si plachi. Piuttosto è Dio ad agire affinché l’uomo desista dalla propria inimicizia contro di lui e verso il prossimo. La salvezza non inizia con la richiesta di riconciliazione da parte dell’uomo, bensì con la richiesta di Dio: ‘Lasciatevi riconciliare con Lui” (1 Cor 2,6 ss)”[3].

Il fatto è che Paolo prende sul serio il peccato, non lo banalizza. Il peccato è, per lui, la causa principale dell’infelicità degli uomini, cioè il rifiuto di Dio, non Dio! Esso rinchiude la creatura umana nella “menzogna” e nella “ingiustizia” (Rom 1, 18 ss.; 3, 23), condanna lo stesso cosmo materiale alla “vanità” e alla “corruzione” (Rom 8, 19 ss.) ed è la causa ultima anche dei mali sociali che affliggono l’umanità.

Si fanno analisi a non finire della crisi economica in atto nel mondo e delle sue cause, ma chi osa mettere la scure alla radice e parlare di peccato? L’elite finanziaria ed economica mondiale era diventata una locomotiva impazzita che avanzava a corsa sfrenata, senza darsi pensiero del resto del treno rimasto fermo a distanza sui binari. Stavamo andando tutti “contromano”.

L’Apostolo definisce l’avarizia insaziabile una “idolatria” (Col 3,5) e addita nella sfrenata cupidigia di denaro “la radice di tutti i mali” (1 Tim 6,10). Possiamo dargli torto? Perché tante famiglie ridotte al lastrico, masse di operai che rimangono senza lavoro, se non per la sete insaziabile di profitto da parte di alcuni? E perché, nel terremoto degli Abruzzi di questi giorni, sono crollati tanti palazzi costruiti di recente? Cosa aveva indotto a mettere sabbia di mare al posto del cemento?

Con la sua morte, Cristo però non ha soltanto denunciato e vinto il peccato; ha anche dato un senso nuovo alla sofferenza, anche a quella che non dipende dal peccato di nessuno, come, appunto, il dolore di tante vittime del terremoto che ha sconvolto la vicina regione dell’Abruzzo. Ne ha fatto una via alla risurrezione e alla vita. Il senso nuovo dato da Cristo alla sofferenza non si manifesta tanto nella sua morte, quanto nel superamento della morte, cioè nella risurrezione. “È morto per i nostri peccati, è risorto per la nostra giustificazione” (Rom 4, 25): i due eventi sono inseparabili nel pensiero di Paolo e della Chiesa.

E’ un’esperienza umana universale: in questa vita piacere e dolore si susseguono con la stessa regolarità con cui, al sollevarsi di un’onda nel mare, segue un avvallamento e un vuoto che risucchia indietro il naufrago. “Un so che di amaro – ha scritto il poeta pagano Lucrezio – sorge dall’intimo stesso di ogni piacere e ci angoscia in mezzo alle delizie”[4]. L’uso della droga, l’abuso del sesso, la violenza omicida, sul momento danno l’ebbrezza del piacere, ma conducono alla dissoluzione morale, e spesso anche fisica, della persona.

Cristo, con la sua passione e morte, ha ribaltato il rapporto tra piacere e dolore. Egli “in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottomise alla croce” (Eb 12,2). Non più un piacere che termina in sofferenza, ma una sofferenza che porta alla vita e alla gioia. Non si tratta solo di un diverso susseguirsi delle due cose; è la gioia, in questo modo, ad avere l’ultima parola, non la sofferenza, e una gioia che durerà in eterno. “Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui” (Rom 6,9). E non lo avrà neppure su di noi.
Questo nuovo rapporto tra sofferenza e piacere si riflette nel modo di scandire il tempo della Bibbia. Nel calcolo umano, il giorno inizia con la mattina e termina con la notte; per la Bibbia comincia con la notte e termina con il giorno: “E fu sera e fu mattina: primo giorno”, recita il racconto della creazione (Gen 1,5). Non è senza significato che Gesù morì di sera e risorse di mattino. Senza Dio, la vita è un giorno che termina nella notte; con Dio è una notte che termina nel giorno, e un giorno senza tramonto.

Cristo non è venuto dunque ad aumentare la sofferenza umana o a predicare la rassegnazione ad essa; è venuto a darle un senso e ad annunciarne la fine e il superamento. Quello slogan sui bus di Londra e di altre città viene letto anche da genitori che hanno un figlio malato, da persone sole, o rimaste senza lavoro, da esuli fuggiti dagli orrori della guerra, da persone che hanno subito gravi ingiustizie nella vita… Io cerco di immaginare la loro reazione nel leggere le parole: “Probabilmente Dio non c’è: goditi dunque la vita!” E con che?

La sofferenza resta certo un mistero per tutti, specialmente la sofferenza degli innocenti, ma senza la fede in Dio essa diventa immensamente più assurda. Le si toglie anche l’ultima speranza di riscatto. L’ateismo è un lusso che si possono concedere solo i privilegiati della vita, quelli che hanno avuto tutto, compresa la possibilità di darsi agli studi e alla ricerca.

Non è la sola incongruenza di quella trovata pubblicitaria. “Dio probabilmente non esiste”: dunque, potrebbe anche esistere, non si può escludere del tutto che esista. Ma, caro fratello non credente, se Dio non esiste, io non ho perso niente; se invece esiste, tu hai perso tutto! Dovremmo quasi ringraziare chi ha promosso quella campagna pubblicitaria; essa ha servito alla causa di Dio più che tanti nostri argomenti apologetici. Ha mostrato la povertà delle sue ragioni ed ha contribuito a scuotere tante coscienze addormentate.

Dio però ha un metro di giudizio diverso dal nostro e se vede la buona fede, o una ignoranza incolpevole, salva anche chi in vita si è affannato a combatterlo. Ci dobbiamo preparare a delle sorprese, a questo riguardo, noi credenti. “Quante pecore ci sono fuori dell’ovile, esclama Agostino, e quanti lupi dentro!”: “Quam multae oves foris, quam multi lupi intus! ”[5].

Dio è capace di fare dei suoi negatori più accaniti, i suoi apostoli più appassionati. Paolo ne è la dimostrazione. Che cosa aveva fatto Saulo di Tarso per meritare quell’incontro straordinario con Cristo? Che cosa aveva creduto, sperato, sofferto? A lui si applica ciò che Agostino diceva di ogni elezione divina: “Cerca il merito, cerca la giustizia, rifletti e vedi se trovi altro che grazia” [6]. È così che egli spiega la propria chiamata: “Io non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono” (1 Cor 15, 9-10).

La croce di Cristo è motivo di speranza per tutti e l’anno paolino un’occasione di grazia anche per chi non crede ed è in ricerca. Una cosa parla a loro favore davanti a Dio: la sofferenza! Come il resto dell’umanità, anche gli atei soffrono nella vita, e la sofferenza, da quando il Figlio di Dio l’ha presa su di sé, ha un potere redentivo quasi sacramentale. È un canale, scriveva Giovanni Paolo II nella “Salvifici doloris”, attraverso cui le energie salvifiche della croce di Cristo sono offerte all’umanità[7].

All’invito a pregare “per coloro che non credono in Dio”, seguirà, tra poco, una toccante preghiera in latino del Santo Padre. Tradotta in italiano, essa dice così: “Dio onnipotente ed eterno, tu hai messo nel cuore degli uomini una così profonda nostalgia di te, che solo quando ti trovano hanno pace: fa’ che, al di là di ogni ostacolo, tutti riconoscano i segni della tua bontà e, stimolati dalla testimonianza della nostra vita, abbiano la gioia di credere in te, unico vero Dio e Padre di tutti gli uomini. Per Cristo nostro Signore.

[1] S. Agostino, Enarr. in Psalmos, 54, 12 (PL 36, 637).
[2] J. Dunn, La teologia dell’apostolo Paolo, Paideia, Brescia 1999, p. 227.
[3] G. Theissen – A. Merz, Il Gesù storico. Un manuale, Queriniana, Brescia 20032, p. 573.
[4] Lucrezio, De rerum natura, IV, 1129 s.
[5] S. Agostino, In Ioh. Evang. 45,12.
[6] S. Agostino, La predestinazione dei santi 15, 30 (PL 44, 981).
[7] Cf. Enc. “Salvifici doloris”, 23. 

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