Archive pour avril, 2009

L’Eucaristia “sacrificium laudis” – Giovanni Paolo II (11 ottobre 2000)

dal sito:

http://www.novena.it/Giovanni_Paolo_II/03.htm

Catechesi Sull’Eucarestia di Giovanni Paolo II

UDIENZA GENERALE – Mercoledì, 11 ottobre 2000 

 L’Eucaristia “sacrificium laudis” 
 
1. “Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria”. Questa proclamazione di lode trinitaria suggella in ogni celebrazione eucaristica la preghiera del Canone. L’Eucaristia, infatti, è il perfetto “sacrificio di lode”, la glorificazione più alta che dalla terra sale al cielo, “la fonte e l’apice di tutta la vita cristiana in cui (i figli di Dio) offrono (al Padre) la vittima divina e se stessi con essa” (LG n.11). Nel Nuovo Testamento la Lettera agli Ebrei ci insegna che la liturgia cristiana è offerta da un “sommo sacerdote santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli”, che ha compiuto una volta per sempre un unico sacrificio “offrendo se stesso” (cfr Eb 7,26-27). “Per mezzo di Lui, dice la Lettera, offriamo a Dio continuamente un sacrificio di lode” (Eb 13,15). Vogliamo oggi evocare brevemente i due temi del sacrificio e della lode che si incontrano nell’Eucaristia, sacrificium laudis.

2. Nell’Eucaristia si attualizza innanzitutto il sacrificio di Cristo. Gesù è realmente presente sotto le specie del pane e del vino, come egli stesso ci assicura: “Questo è il mio corpo… Questo è il mio sangue” (Mt 26,27-28). Ma il Cristo presente nell’Eucaristia è il Cristo ormai glorificato, che nel Venerdì Santo offrì se stesso sulla croce. È ciò che sottolineano le parole da lui pronunziate sul calice del vino: “Questo è il mio sangue dell’alleanza versato per molti” (Mt 26,28; cfr Mc 14,24; Lc 22,20). Se si esaminano queste parole alla luce della loro filigrana biblica, affiorano due rimandi significativi. Il primo è costituito dalla locuzione “sangue versato” che, come attesta il linguaggio biblico (cfr Gen 9,6), è sinonimo di morte violenta. Il secondo consiste nella precisazione “per molti” riguardante i destinatari di questo sangue versato. L’allusione qui ci riporta a un testo fondamentale per la rilettura cristiana delle Scritture, il quarto canto di Isaia: col suo sacrificio, “consegnando se stesso alla morte”, il Servo del Signore “portava il peccato di molti” (Is 53,12; Eb 9,28; 1Pt 2,24).

3. La stessa dimensione sacrificale e redentrice dell’Eucaristia è espressa dalle parole di Gesù sul pane nell’Ultima Cena, così come sono riferite dalla tradizione di Luca e di Paolo: “Questo è il mio corpo che è dato per voi” (Lc 22,19; cfr 1 Cor 11,24). Anche in questo caso si ha un rimando alla donazione sacrificale del Servo del Signore secondo il passo già evocato di Isaia (53,12): “Egli ha consegnato se stesso alla morte…; egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori”. “L’Eucaristia è, dunque, un sacrificio: sacrificio della redenzione e, al tempo stesso, della nuova alleanza, come crediamo e come chiaramente professano anche le Chiese d’Oriente. Il sacrificio odierno – ha affermato, secoli fa, la Chiesa greca (nel Sinodo Costantinopolitano contro Soterico del 1156-57) – è come quello che un giorno offrì l’unigenito incarnato Verbo di Dio, viene da lui offerto oggi come allora, essendo l’identico e unico sacrificio” (Lettera Apostolica Dominicae Cenae n. 9).

4. L’Eucaristia, come sacrificio della nuova alleanza, si pone quale sviluppo e compimento dell’alleanza celebrata sul Sinai quando Mosè ha versato metà del sangue delle vittime sacrificali sull’altare, simbolo di Dio, e metà sull’assemblea dei figli di Israele (cfr Es 24,5-8). Questo “sangue dell’alleanza” univa intimamente Dio e uomo in un legame di solidarietà. Con l’Eucaristia l’intimità diviene totale, l’abbraccio tra Dio e l’uomo raggiunge il suo apice. È il compiersi di quella “nuova alleanza” che aveva predetto Geremia (31,31-34): un patto nello spirito e nel cuore che la Lettera agli Ebrei esalta proprio partendo dall’oracolo del profeta, raccordandolo al sacrificio unico e definitivo di Cristo (cfr Eb 10,14-17).

5. A questo punto possiamo illustrare l’altra affermazione: l’Eucaristia è un sacrificio di lode. Essenzialmente orientato alla comunione piena tra Dio e l’uomo, “il sacrificio eucaristico è la fonte e il culmine di tutto il culto della Chiesa e di tutta la vita cristiana. A questo sacrificio di rendimento di grazie, di propiziazione, di impetrazione e di lode i fedeli partecipano con maggiore pienezza, quando non solo offrono al Padre con tutto il cuore, in unione con il sacerdote, la sacra vittima e, in essa, loro stessi, ma ricevono pure la stessa vittima nel sacramento” (Sacra Congregazione dei Riti, Eucharisticum Mysterium, n. 3 e). Come dice il termine stesso nella sua genesi greca, l’Eucaristia è “ringraziamento”; in essa il Figlio di Dio unisce a sé l’umanità redenta in un canto di azione di grazie e di lode. Ricordiamo che la parola ebraica todah, tradotta “lode”, significa anche “ringraziamento”. Il sacrificio di lode era un sacrificio di rendimento di grazie (crf Sal 50[49], 14.23). Nell’Ultima Cena, per istituire l’Eucaristia, Gesù ha reso grazie a suo Padre (cfr Mt 26,26-27 e paralleli); è questa l’origine del nome di questo sacramento.

6. “Nel Sacrificio eucaristico, tutta la creazione amata da Dio è presentata al Padre attraverso la morte e la risurrezione di Cristo” (CCC 1359). Unendosi al sacrificio di Cristo, la Chiesa nell’Eucaristia dà voce alla lode dell’intera creazione. A ciò deve corrispondere l’impegno di ciascun fedele a offrire la sua esistenza, il suo “corpo” – come dice Paolo – in “sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (Rm 12,1), in una comunione piena con Cristo. In questo modo un’unica vita unisce Dio e l’uomo, il Cristo crocifisso e risorto per tutti e il discepolo chiamato a donarsi interamente a Lui. Questa intima comunione d’amore è cantata dal poeta francese Paul Claudel che pone in bocca a Cristo queste parole: “Vieni con me, dove Io Sono, in te stesso, / e io ti darò la chiave dell’esistenza. / Là dove Io Sono, là eternamente / è il segreto della tua origine… / (…). Dove sono le tue mani che non siano le mie? / E i tuoi piedi che non siano confitti alla stessa croce? / Io sono morto e sono risorto una volta per tutte! Noi siamo vicinissimi l’uno all’altro / (…). Come fare per separarti da me / senza che tu mi strappi il cuore?” (La Messe là-bas)

CHI MANGIA INDEGNAMENTE IL CORPO DEL SIGNORE (1Cor 11,27) PDF

CHI MANGIA INDEGNAMENTE IL CORPO DEL SIGNORE – (1Cor 11,27)

DI L.D. CHRUPCALA, SBF JERUSALEM

anche questo è un PDF difficile da trasferire in una pagina word, anche perché l’impostazione grafica dello studio del docente è importante, credo, dal sito:

http://198.62.75.1/www1/ofm/sbf/Books/LA46/46063LDC.pdf

PAOLO APOSTOLO E TESSITORE DI TENDE, LA BOTTEGA COME LUOGO DI ATTIVITÀ MISSIONARIA

dal sito:

http://www.saverianibrescia.com/missione_oggi.php?centro_missionario=archivio_rivista&rivista=&id_r=44&sezione=alla_luce_della_parola_&articolo=paolo_apostolo_e_tessitore_di_tende&id_a=1301

PAOLO APOSTOLO E TESSITORE DI TENDE

LA BOTTEGA COME LUOGO DI ATTIVITÀ MISSIONARIA

A CURA DELLA REDAZIONE 

L’articolo è tratto liberamente da una riflessione di Ronald F. Hock in The Social Context of Paul’s Ministry: Tentmaking and Apostleship, Philadelphia, Fortress 1980.

In uno dei suoi trattati politici, Plutarco critica alcuni filosofi perché rifiutavano di conversare con le autorità nel timore di essere considerati ambiziosi o troppo ossequienti. Per evitare il diffondersi di una tale situazione, Plutarco suggerisce che l’unica alternativa per l’uomo dalla mente aperta e desideroso di praticare la filosofia è fare l’artigiano, per esempio, il calzolaio, in modo da avere l’opportunità di conversare nella bottega, come Simone il calzolaio aveva fatto con Socrate. Questo suggerimento di Plutarco, che la bottega fosse un luogo che potesse ospitare discorsi intellettuali, è interessante e fa sorgere l’interrogativo se altre botteghe, specialmente quelle usate ai suoi tempi da Paolo, il tessitore di tende, nei suoi viaggi missionari, siano state utilizzate allo stesso modo nelle città della Grecia orientale. Questa tesi, pur avanzata dagli studiosi, non è mai stata studiata a fondo. Questo articolo è un tentativo di approfondire l’esame dei contesti sociali in cui si sono svolti la predicazione e l’insegnamento dei primi cristiani.

È noto che Paolo era un tessitore di tende. Questo suo lavoro è sempre stato considerato come un’eredità della sua tradizione ebraica. L’attività lavorativa di Paolo è considerata come un residuo della sua vita di fariseo ed è spiegata nei termini di un ideale rabbinico che cerca di associare lo studio della Torah con la pratica di un mestiere. Vorremmo ora portare il dibattito al di là dell’aspetto strettamente ebraico. 

LA BOTTEGA DI PAOLO 

Per una discussione sull’uso missionario della bottega da parte di Paolo, si deve sottolineare l’evidenza che lo colloca nelle botteghe delle città da lui visitate. Luca indica che  Paolo aveva lavorato come tessitore di tende solo in Corinto e Efeso (At 18,3; 20,34); ma le Lettere di Paolo aggiungono Tessalonica (1 Ts 2,9) e – più importante – afferma che in generale la pratica missionaria era di lavorare per potersi mantenere (1 Cor 9,15 – 18). E allora, il riferimento di Paolo al lavoro di Barnaba per sostenere se stesso (1 Cor 9,6) dovrebbe coprire i cosiddetti primi viaggi missionari e la sua permanenza in Antiochia (At 13,1 – 14,25; 14,26-28; 15,30-35), il tempo in cui Luca pone Barnaba come suo compagno di viaggio. Il riferimento di Paolo al suo lavoro a Tessalonica (1 Ts 2,9) e la sua conferma dell’affermazione di Luca riguardante Corinto (1 Cor 4,12) si applicherebbe anche al secondo viaggio missionario (At 16,1 – 18,22). Il riferimento al suo lavoro in Efeso (cfr. 1 Cor 4,11: « fino ad ora »), di nuovo conferma il ritratto di Luca e la sua insistenza nel mantenersi economicamente, durante un futuro viaggio a Corinto (2 Co 12,14), confermerebbe questa pratica anche nel terzo viaggio missionario (At 18,23 – 21,16). In At 28,30 vediamo Paolo presumibilmente lavorare in seguito anche a Roma. In breve, le Lettere e gli Atti mettono in evidenza l’Apostolo nelle botteghe dove predicava e insegnava. Ma che cosa faceva Paolo nella bottega, oltre al suo lavoro di tessitura? Di cosa parlava? Sfruttava l’occasione per una predicazione missionaria?

Una risposta affermativa sembra verosimile, dato il suo impegno nella predicazione del Vangelo. Però né le Lettere, né gli Atti dicono esplicitamente che Paolo utilizzava la bottega per la predicazione. Il silenzio delle Lettere in proposito non è un problema, perché Paolo è di solito silenzioso o vago sulle circostanze della sua predicazione missionaria (cfr. per esempio 1 Cor 2,1-5). Con gli Atti tuttavia la situazione è diversa. 

Il silenzio di Luca negli Atti può essere parzialmente spiegato perché l’evangelista era interessato a raccontare le esperienze di Paolo nella sinagoga. Solo in Atene, il centro della cultura greca e della filosofia, questo interesse è lasciato da parte in deferenza alle esperienze di Paolo al mercato (At 17,17) e specificatamente alle sue conversazioni con i filosofi stoici ed epicurei (ver.18) che portarono al discorso dell’Apostolo  all’Aeropago (22-31). Qui Luca si avvicina molto nel menzionare le conversazioni della bottega, ma non lo fa, poiché le discussioni con i filosofi sono probabilmente da collocarsi sotto i portici della città, forse la Stoà di Attalos ad Atene.

La possibilità di fare conversazioni in bottega è intuibile da un brano delle Lettere di Paolo: il sommario dettagliato dell’attività missionaria dell’Apostolo nella città di Tessalonica (1 Ts 2,1-12). Al versetto 9, il lavoro e la predicazione sono accennati insieme: « Voi ricordate infatti, fratelli, la nostra fatica e il nostro travaglio: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno vi abbiamo annunziato il Vangelo di Dio ».

L’ATTIVITÀ MISSIONARIA

Se questi sei passi scelti dagli Atti e dalle Lettere parlano di Paolo che utilizzava le botteghe come contesti sociali per la sua predicazione missionaria, bisogna interpretare questi contesti come entità a sé, oppure confrontarli con la vita intellettuale delle città che egli ha visitato. Se la bottega è stata un contesto sociale dell’attività missionaria, per Luca questa era solo uno dei tanti luoghi in cui l’Apostolo predicava. Più frequentemente egli indica la sinagoga. Paolo predica nelle sinagoghe di Damasco (At 9,20), Gerusalemme (At 9,29), Salamide (At 13,5), Antiochia di Pisidia (At 13, 14, 44), Iconio (At 14,1), Tessalonica (At 17,1), Berea (At 17,10), Atene (At 17,17), Corinto (At 18,4) e Efeso (At 18,19; 19,8). Un altro contesto missionario importante è la casa, specialmente quelle di Lidia a Filippi (At 16,15, 40), di Tizio Giusto a Corinto (18,7) e di un cristiano non identificato a Triade (20,7-11) e di parecchie persone a Efeso (20, 20). Altre case devono essere incluse, anche se Luca non vi fa menzione di attività missionaria: la casa di Giasone a Tessalonica (17, 5-6), di Aquila e Priscilla a Corinto (18, 3), di Filippo a Cesarea (21, 8), di Mnasone di Cipro, presumibilmente a Gerusalemme (21, 16-17) e forse quelle di parecchi altri (cfr. 16,34; 21, 3-5, 7).

Ulteriori segni che indicano la varietà dei contesti sociali nella missione di Paolo sono la residenza del proconsole di Cipro, Sergio Paolo  (13, 6-12), la porta della città in Listra (14, 7, 15-18), la scuola di Tiranno a Efeso (19, 9-10) e il pretorio a Cesarea (24, 24-26; 25, 23-27). Insomma, se la bottega era un contesto sociale per l’attività missionaria di Paolo, era solo uno dei tanti. 

IL PULPITO, LA PIAZZA E LA BOTTEGA  

La pratica dei filosofi sopra descritta può aiutarci a capire anche ciò che avveniva nella bottega di Paolo. Lo possiamo immaginare nelle lunghe ore al tavolo di lavoro mentre taglia e cuce le pelli per fare tende. Egli si rende autonomo economicamente, ma ha anche possibilità di portare avanti il suo impegno missionario (cfr. 1 Ts 2, 9). Seduti nella sua bottega troviamo i suoi compagni di lavoro o qualche visitatore, clienti e forse qualche curioso che aveva sentito parlare di questo « filosofo » tessitore di tende appena arrivato in città. In ogni caso sono tutti là ad ascoltare e a discutere con lui, che porta il discorso sugli dei ed esorta i presenti ad abbandonare gli idoli e a servire il Dio dei viventi (1, 9-10). In questo modo, certamente qualcuno degli ascoltatori, un compagno di lavoro, un cliente, un giovane aristocratico o forse anche un filosofo cinico, sarebbe stato curioso di sapere di più di Paolo, delle sue chiese, del suo Signore e sarebbe tornato per  un colloquio privato (2, 11-12). Da queste conversazioni di bottega alcuni avrebbero accolto le sue parole come Parola di Dio (2, 13).

Per Paolo, il missionario, quindi, il pulpito della sinagoga non bastava, ma usciva anche in piazza ed entrava nella sua bottega. « Non è infatti per me un vanto predicare il Vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il Vangelo! » (1 Cor 9,16).       

A CURA DELLA REDAZIONE

Il contesto storico 

Esaminiamo la pratica paolina nel contesto della vita intellettuale della Grecia orientale dei suoi tempi. Ad Atene, nel quinto e quarto secolo a. C., alcuni contesti specifici, inclusa la bottega, erano diventati normali per l’attività intellettuale ed ancora esistevano ai tempi di Paolo. Senofonte descrive Socrate mentre discute di filosofia in varie botteghe, tra cui quelle di un pittore, di uno scultore, di un fabbricante di armature. Platone menziona le bancarelle del mercato come abituale ritrovo di Socrate. Naturalmente la bottega non era il suo solo ritrovo: lo si poteva trovare in altre parti del mercato, come la stoà o altri edifici pubblici, nel ginnasio o nelle case di amici. In un certo senso la pratica di Socrate era tipica dei suoi giorni, data l’abitudine della gente di frequentare i negozi e i banchi del mercato. Ma, in un altro senso, l’abitudine di Socrate era molto atipica, non solo a causa dell’alto contenuto intellettuale delle sue conversazioni, ma anche per l’effetto limitato che questa sua pratica ebbe sui filosofi che lo seguirono. A giudicare da quanto riferisce Diogene Laerzio, i discepoli di Socrate non discutevano di filosofia nella bottega, anche se alcuni di essi da studenti lo avevano accompagnato, per esempio, alla bottega del sellaio. 

I seguaci di Socrate, scegliendo il ginnasio o altri edifici, praticavano una filosofia meno pubblica rispetto al loro maestro. Il numero delle persone che partecipava a queste discussioni nelle botteghe non poteva essere grande. Spesso erano solo in due, Socrate con Simone e Crate con Filisco. Gli argomenti trattati erano molti: dalle discussioni che riguardavano i commerci degli artigiani a temi più interessanti: gli dei, la giustizia, la virtù, il coraggio, la legge, l’amore, la musica, ecc.

III domenica di Pasqua B (2003 anno B) omelia

vi propongo questa omelia, Padre Corrado Maggioni credo che sia un monfortiano, il collegamento con San Paolo non c’è, tuttavia questa omelia appare nei siti della famiglia paolina (è qualcosa no?), dal sito:

http://www.pddm.it/vita/vita_03/n_05/1maggio.htm

Testimoni della Pasqua di Cristo

3a domenica di Pasqua B
4 maggio 2003

 CORRADO MAGGIONI 

At 3,13,15.17-19: Avete ucciso l’autore della vita; ma Dio l’ha risuscitato.
Salmo 4,2.4.6-7.9: Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto.
1Gv 2,1-5a: Cristo è vittima di espiazione per i nostri peccati.
Lc 24,35-48: Il Cristo doveva patire e risuscitare dai morti.
 

Nel Vangelo di Luca, l’annuncio della risurrezione alle donne è seguito, nel medesimo primo giorno della settimana, da una duplice apparizione del Risorto: ai discepoli di Emmaus e quindi – è l’odierno Vangelo – alla comunità riunita. La domenica è infatti memoria della risurrezione del Signore, ma anche delle apparizioni, avvenute tutte il « primo giorno dopo il sabato » (cf Vangelo 2ª domenica di Pasqua).

Il racconto della presenza del Risorto tra i suoi ci aiuta a cogliere la portata della celebrazione eucaristica, nella quale egli continua ad « apparire » tra noi per aprirci la mente all’intelligenza delle Scritture e trasfondere in noi il proprio mistero pasquale, affinché ne diventiamo testimoni nel mondo.
Merita attenzione il versetto dell’acclamazione al Vangelo: « Signore Gesù, facci comprendere le Scritture: arde il nostro cuore mentre ci parli ». Ispirata all’esperienza dei discepoli di Emmaus, l’invocazione esprime l’atteggiamento con cui metterci in ascolto del Signore che parla, ora-qui-a noi, nella proclamazione del Vangelo (cf SC 7). Come non fu immediato per gli apostoli distinguere il Risorto da un fantasma e abbisognarono della sua spiegazione della Pasqua, così noi invochiamo da Lui la luce per comprenderne il messaggio: nella liturgia il suo Spirito ci guida a rivivere quanto vissuto dai discepoli quel primo giorno dopo il sabato.

 Veramente apparso

Gesù in persona appare tra i suoi. Si è già mostrato a Simone e ai due di Emmaus (cf Lc 24,34-35), ma è la comunità la depositaria dell’incontro con il Risorto e del mandato di testimoniarlo.
Le prime parole proferite dall’Apparso sono: « Pace a voi! » (come in Giovanni). Non è un semplice saluto né un augurio formale, quanto l’offerta ai discepoli del dono messianico per eccellenza, da sempre invocato e atteso dai giusti d’Israele. La parola di Gesù – come quella di Dio – ha potere creativo: ciò che dice, si compie! E la « pace » non è soltanto « assenza » del peccato (con quanto porta con sé: divisioni, guerra, violenza), quanto « presenza » della comunione con Dio, sorgente di armonia nelle relazioni umane e con il creato. La signoria di Cristo, instaurata nel mondo con la Pasqua, reca il sigillo della pacificazione elargita a chi ha il cuore pronto ad accoglierla. Perdonando il peccato del mondo (aspetto negativo), il Risorto rigenera alla vita l’intera creazione (aspetto positivo).
La reazione degli apostoli è lo stupore e lo spavento, come davanti a un fantasma. E’ salutare sapere che anche i primi discepoli furono attraversati dal dubbio. Gesù li rasserena, rivolgendo ad essi l’interrogativo: « Perché siete turbati e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? ». Tante volte, davanti ai prodigi compiuti, Gesù rivolgeva agli apostoli la stessa domanda per risvegliarli alla coscienza dei fatti che stavano vivendo. Quindi, li rassicura mostrando loro le mani e i piedi feriti dalla crocifissione: « Sono proprio io! Toccatemi e guardate ».
La seconda reazione dei discepoli è la « grande gioia » che lascia increduli e stupefatti: non aprono bocca, poiché non credono ai propri occhi! Il Risorto dà allora un ulteriore segno della sua non fantastica identità: mangia davanti a loro una porzione di pesce arrostito. Il veramente apparso è Gesù veramente risorto!

 L’omelia del Risorto

Dopo i gesti e i segni che provano la verità dell’accaduto, il Risorto apre la mente dei discepoli all’intelligenza delle Scritture (Legge di Mosè, Profeti e Salmi). Spiega il proprio mistero, culmine della rivelazione divina: « Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare il terzo giorno e nel suo nome saranno predicate a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme ». La conclusione dell’omelia del Risorto è la chiamata rivolta ai discepoli: « Di questo voi siete testimoni ».
Oltre che illustrativo dell’agire liturgico (il mistero è dischiuso agli apostoli – come oggi a noi – mediante parole ed azioni), il brano di Luca fa trasparire un racconto di vocazione, secondo lo schema: apparizione divina, turbamento, rassicurazione, segno, spiegazione del mistero, chiamata.
Testimoni della Pasqua, nel nome di Gesù i discepoli predicano la conversione e il perdono dei peccati. E’ ciò che fa Pietro (cf prima lettura). Il contenuto del suo discorso è la morte e risurrezione di Gesù, qualificato come il Servo, il Santo, il Giusto, l’Autore della vita, messo a morte per ignoranza dei disegni divini. In tal modo, paradossalmente, si è compiuta la promessa preannunciata da Dio per bocca dei profeti riguardo al Cristo. Per chi ascolta non resta molto da fare, conclude l’apostolo: « Pentitevi e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati ». Così facendo, Pietro asseconda la vocazione ricevuta dal Risorto di predicare la conversione e il perdono dei peccati.
Dall’annuncio della Pasqua nasce la fede e dalla fede principia la conversione della vita: « Risplenda su di noi la luce del tuo volto » invoca il ritornello del salmo responsoriale. L’ombra della morte brama il chiarore della grazia pasquale: siamo perdonati da Cristo per vivere da risorti con Lui, in Lui e per Lui. Lo richiama nella seconda lettura l’apostolo Giovanni, il quale esorta chi ha peccato ad affidare la propria causa all’Avvocato che abbiamo presso il Padre. Non è l’invito a sottovalutare la gravità del peccato, ma a conoscere la misericordia di Gesù Cristo, « vittima di espiazione per i peccati di tutto il mondo ». La conoscenza-esperienza di Cristo è provata dall’osservanza fedele, sincera e amorosa, della sua parola: « Chi dice «lo conosco» e non osserva i comandamenti è un bugiardo; ma chi osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente perfetto ».

 La gioia della Chiesa in preghiera

A far sì che la domenica sia davvero il giorno del Signore è dunque l’incontro con Lui, « toccabile » mediante i santi segni. La sua presenza viva e reale rallegra la celebrazione ecclesiale, come sottolinea la letizia che connota il tempo pasquale. Basta considerare l’odierna antifona d’ingresso, costituita dal quadruplice invito che dà il tono al convenire dei credenti: « acclamate al Signore, cantate, rendetegli gloria, elevate la lode ».
L’Eucaristia domenicale concentra, infatti, il rendimento di grazie a Dio dei rigenerati in Cristo, nell’attesa della gioia eterna, come ricorda la colletta: « Esulti sempre il tuo popolo, o Padre, per la rinnovata giovinezza dello spirito, e come oggi si allieta per il dono della dignità filiale, così pregusti nella speranza il giorno glorioso della risurrezione ». Dalla memoria del giorno della risurrezione, celebrata nel pellegrinaggio terreno, alla piena partecipazione alla risurrezione nella gloria del cielo. Su questo tema ritorna anche l’orazione sulle offerte: « Accogli, Signore, i doni della tua Chiesa in festa, e poiché le hai dato il motivo di tanta gioia, donale anche il frutto di una perenne letizia ».
Il mistero della Pasqua non è fantasia agitata da un fantasma, ma comunione con Colui che cambia la vita di chi crede, coinvolgendola in una conversione incessante: « Irradia sulla tua Chiesa la gioia pasquale, o Signore; unisci alla tua vittoria i rinati nel battesimo » (Liturgia delle Ore). L’Eucaristia aggiorna nei nostri cuori l’adesione battesimale al Cristo: « in lui morto è redenta la nostra morte, in lui risorto tutta la vita risorge » (prefazio). Nell’accostarci al convito eucaristico del Risorto deve accompagnarci la coscienza che se, da una parte, siamo i destinatari della predicazione apostolica della Pasqua, dall’altra siamo chiamati ad esserne i testimoni (cf antifona alla comunione).

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 25 avril, 2009 |Pas de commentaires »

DOMENICA 26 APRILE – III DI PASQUA

DOMENICA 26 APRILE - III DI PASQUA dans LETTURE DAL NUOVO TESTAMENTO (non paoline) 16%20KULMBACH%20LE%20SERMON%20DE%20PIERRE

LE SERMON DE PIERRE (prima lettura)

http://www.artbible.net/2NT/ACTS%2002%20PENTECOST%20AND%20PREACHING…PENTECOTE%20ET%20PREDICATION_/index5.html

DOMENICA 26 APRILE – III DI PASQUA

MESSA DEL GIORNO, LINK:

http://www.maranatha.it/Festiv2/pasqB/PasqB3Page.htm

non c’è San Paolo in nessuna delle letture questa domenica, metto ugualmente le due letture dell’Ufficio:

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni, apostolo 6, 1-17

L’Agnello apre il libro di Dio
Quando l’Agnello sciolse il primo dei sette sigilli, vidi e udii il primo dei quattro esseri viventi che gridava come con voce di tuono: «Vieni». Ed ecco mi apparve un cavallo bianco e colui che lo cavalcava aveva un arco, gli fu data una corona e poi egli uscì vittorioso per vincere ancora.
Quando l’Agnello aprì il secondo sigillo, udii il secondo essere vivente che gridava: «Vieni». Allora uscì un altro cavallo, rosso fuoco. A colui che lo cavalcava fu dato potere di togliere la pace dalla terra perché si sgozzassero a vicenda e gli fu consegnata una grande spada.
Quando l’Agnello aprì il terzo sigillo, udii il terzo essere vivente che gridava: «Vieni». Ed ecco, mi apparve un cavallo nero e colui che lo cavalcava aveva una bilancia in mano. E udii gridare una voce in mezzo ai quattro esseri viventi: «Una misura di grano per un danaro e tre misure d’orzo per un danaro! Olio e vino non siano sprecati».
Quando l’Agnello aprì il quarto sigillo, udii la voce del quarto essere vivente che diceva: «Vieni». Ed ecco, mi apparve un cavallo verdastro. Colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli veniva dietro l’Inferno. Fu dato loro potere sopra la quarta parte della terra per sterminare con la spada, con la fame, con la peste e con le fiere della terra.
Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano resa. E gridarono a gran voce:
«Fino a quando, Sovrano,
tu che sei santo e verace,
non farai giustizia
e non vendicherai il nostro sangue
sopra gli abitanti della terra?».
Allora venne data a ciascuno di essi una veste candida e fu detto loro di pazientare ancora un poco, finché fosse completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli che dovevano essere uccisi come loro.
Quando l’Agnello aprì il sesto sigillo, vidi che vi fu un violento terremoto. Il sole divenne nero come sacco di crine, la luna diventò tutta simile al sangue, le stelle del cielo si abbatterono sopra la terra, come quando un fico, sbattuto dalla bufera, lascia cadere i fichi immaturi. Il cielo si ritirò come un volume che si arrotola e tutti i monti e le isole furono smossi dal loro posto. Allora i re della terra e i grandi, i capitani, i ricchi e i potenti, e infine ogni uomo, schiavo o libero, si nascosero tutti nelle caverne e fra le rupi dei monti; e dicevano ai monti e alle rupi: Cadete sopra di noi e nascondeteci dalla faccia di Colui che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello, perché è venuto il gran giorno della loro ira, e chi vi può resistere?

Responsorio    Cfr. Ap 6, 9. 10. 11
R. Vidi sotto l’altare di Dio le anime di coloro che furono immolati. Gridarono a gran voce: Fino a quando non vendicherai il nostro sangue? * E fu detto loro di pazientare ancora un poco, finché fosse completo il numero dei loro fratelli, alleluia.
V. Venne data a ciascuno di essi una veste candida.
R. E fu detto loro di pazientare ancora un poco, finché fosse completo il numero dei loro fratelli, alleluia.

Seconda Lettura
Dalla «Prima Apologia e favore dei cristiani» di san Giustino, martire
(Cap. 66-67; PG 6, 427-431)

La celebrazione dell’Eucaristia
A nessun altro è lecito partecipare all’Eucaristia, se non a colui che crede essere vere le cose che insegniamo, e che sia stato purificato da quel lavacro istituito per la remissione dei peccati e la rigenerazione, e poi viva così come Cristo ha insegnato.
Noi infatti crediamo che Gesù Cristo, nostro Salvatore, si è fatto uomo per l’intervento del Verbo di Dio. Si è fatto uomo di carne e sangue per la nostra salvezza. Così crediamo pure che quel cibo sul quale sono state rese grazie con le stesse parole pronunciate da lui, quel cibo che, trasformato, alimenta i nostri corpi e il nostro sangue, è la carne e il sangue di Gesù fatto uomo.
Gli apostoli nelle memorie da loro lasciate e chiamate vangeli, ci hanno tramandato che Gesù ha comandato così: Preso il pane e rese grazie, egli disse: «Fate questo in memoria di me. Questo è il mio corpo». E allo stesso modo, preso il calice e rese grazie, disse: «Questo è il mio sangue» e lo diede solamente a loro.
Da allora noi facciamo sempre memoria di questo fatto nelle nostre assemblee e chi di noi ha qualcosa, soccorre tutti quelli che sono nel bisogno, e stiamo sempre insieme. Per tutto ciò di cui ci nutriamo benediciamo il creatore dell’universo per mezzo del suo Figlio Gesù e dello Spirito Santo.
E nel giorno, detto del Sole, si fà l’adunanza. Tutti coloro che abitano in città o in campagna convengono nello stesso luogo, e si leggono le memorie degli apostoli o gli scritti dei profeti per quanto il tempo lo permette.
Poi, quando il lettore ha finito, colui che presiede rivolge parole di ammonimento e di esortazione che incitano a imitare gesta così belle.
Quindi tutti insieme ci alziamo ed eleviamo preghiere e, finito di pregare, viene recato pane, vino e acqua. Allora colui che presiede formula la preghiera di lode e di ringraziamento con tutto il fervore e il popolo acclama: Amen! Infine a ciascuno dei presenti si distribuiscono e si partecipano gli elementi sui quali furono rese grazie, mentre i medesimi sono mandati agli assenti per mano dei diaconi.
Alla fine coloro che hanno in abbondanza e lo vogliono, danno a loro piacimento quanto credono. Ciò che viene raccolto, è deposto presso colui che presiede ed egli soccorre gli orfani e le vedove e coloro che per malattia o per altra ragione sono nel bisogno, quindi anche coloro che sono in carcere e i pellegrini che arrivano da fuori. In una parola, si prende cura di tutti i bisognosi.
Ci raduniamo tutti insieme nel giorno del Sole, sia perché questo è il primo giorno in cui Dio, volgendo in fuga le tenebre e il caos, creò il mondo, sia perché Gesù Cristo nostro Salvatore risuscitò dai morti nel medesimo giorno. Lo crocifissero infatti nel giorno precedente quello di Saturno e l’indomani di quel medesimo giorno, cioè nel giorno del Sole, essendo apparso ai suoi apostoli e ai discepoli, insegnò quelle cose che vi abbiamo trasmesso perché le prendiate in seria considerazione.

Sant’Ireneo di Lione: « Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20090425

San Marco, evangelista – Festa : Mc 16,15-20
Meditazione del giorno
Sant’Ireneo di Lione (circa130-circa 208), vescovo, teologo e martire
Contro le eresie, III, 1

« Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura »

Il Signore di tutte le cose ha dato ai suoi apostoli il potere di proclamare il Vangelo. E per mezzo di loro abbiamo conosciuto la verità, cioè l’insegnamento del Figlio di Dio. A loro il Signore ha detto: «Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato» (Lc 10,16). Noi infatti non abbiamo conosciuto il disegno della nostra salvezza se non per mezzo di coloro che ci hanno trasmesso il Vangelo.

Questo Vangelo, l’hanno prima predicato. Poi, per la volontà di Dio, ce l’hanno trasmesso nelle Scritture, perché diventasse «colonna e sostegno» della nostra fede (1 Tm 3,15). Non è lecito dire che abbiano predicato prima di essere giunti alla conoscenza perfetta. Questo lo  pretendono alcuni, che osano correggere gli apostoli e se ne vantano. Infatti, dopo che il nostro Signore é risuscitato dai morti e che gli apostoli sono stati «rivestiti di potenza dall’alto» per la discesa dello Spirito Santo, sono stati ricolmi di certezza su ogni argomento e hanno posseduto la conoscenza perfetta. Allora andarono «fino ai confini del mondo» (Sal 18,5 ; Rm 10,18) proclamando la Buona Novella dei beni che ci vengono da Dio e annunciando agli uomini la pace del Cielo. Possedevano, tutti ugualmente e ognuno in modo particolare, il Vangelo di Dio.

Qual è la sorgente della speranza cristiana?

dal sito:

http://www.taize.fr/it_article1198.html

COMUNITÀ DI TAIZÉ

La speranza

Qual è la sorgente della speranza cristiana?

In un tempo in cui spesso si fatica a trovare delle ragioni per sperare, coloro che mettono la propria fiducia nel Dio della Bibbia hanno più che mai il dovere di «rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in loro» (1 Pietro 3,15). Spetta a loro cogliere ciò che la speranza della fede contiene di specifico, per poter viverlo.

Ora, anche se per definizione la speranza guarda al futuro, per la Bibbia essa si radica nell’oggi di Dio. Nella Lettera 2003, frère Roger lo ricorda: «[La sorgente della speranza] è in Dio, che non può che amare e che instancabilmente ci cerca».

Nelle Scritture ebraiche, questa Sorgente misteriosa della vita che noi chiamiamo Dio si fa conoscere perché chiama gli esseri umani a entrare in una relazione con lui: stabilisce un’alleanza con loro. La Bibbia definisce le caratteristiche del Dio dell’alleanza con due parole ebraiche: hesed e emet (per es. Esodo 34,6; Salmi 25,10; 40,11-12; 85,11). Generalmente, si traducono con «amore» e «fedeltà». Dapprima ci dicono che Dio è bontà e benevolenza senza limiti e si prende cura dei suoi, e in secondo luogo, che Dio non abbandonerà mai quelli che ha chiamati ad entrare nella sua comunione.

Ecco la sorgente della speranza biblica. Se Dio è buono e non cambia mai il suo atteggiamento né ci abbandona mai, allora, qualunque siano le difficoltà – se il mondo così come lo vediamo è talmente lontano dalla giustizia, dalla pace, dalla solidarietà e dalla compassione – per i credenti non è una situazione definitiva. Nella loro fede in Dio, i credenti attingono l’attesa di un mondo secondo la volontà di Dio o, in altre parole, secondo il suo amore.

Nella Bibbia, questa speranza è spesso espressa con la nozione di promessa. Quando Dio entra in relazione con gli esseri umani, in generale questo va di pari passo con la promessa di una vita più grande. Ciò inizia già con la storia di Abramo: «Ti benedirò, disse Dio ad Abramo. E in te saranno benedette tutte le famiglie della terra» (Genesi 12,2-3).

Una promessa è una realtà dinamica che opera delle possibilità nuove nella vita umana. Questa promessa guarda verso l’avvenire, ma si radica in una relazione con Dio che mi parla qui e ora, che mi chiama a fare delle scelte concrete nella mia vita. I semi del futuro si trovano in una relazione presente con Dio.

Questo radicamento nel presente diventa ancora più forte con la venuta di Gesù Cristo. In lui, dice san Paolo, tutte le promesse di Dio sono già una realtà (2 Corinzi 1,20). Certo, ciò non si riferisce unicamente a un uomo che è vissuto in Palestina 2000 anni fa. Per i cristiani, Gesù è il Risorto che è con noi nel nostro oggi. «Sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del tempo» (Matteo 28,20).

Un altro testo di san Paolo è ancora più chiaro. «La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Romani 5,5). Lungi dall’essere un semplice augurio per l’avvenire senza garanzia di realizzazione, la speranza cristiana è la presenza dell’amore divino in persona, lo Spirito Santo, fiume di vita che ci porta verso il mare di una piena comunione.

Come vivere della speranza cristiana?
La speranza biblica e cristiana non significa una vita nelle nuvole, il sogno di un mondo migliore. Non è una semplice proiezione di quello che vorremmo essere o fare. Essa ci porta a vedere i semi di questo mondo nuovo già presente oggi, grazie all’identità del nostro Dio che si manifesta nella vita, morte e risurrezione di Gesù Cristo. Questa speranza è inoltre una sorgente di forza per vivere in un altro modo, per non seguire i valori di una società fondata sul desiderio di possesso e sulla competizione.

Nella Bibbia, la promessa divina non ci chiede di sederci e attendere passivamente che si realizzi, come per magia. Prima di parlare ad Abramo di una vita in pienezza che gli è offerta, Dio gli disse: «Vattene dal tuo paese e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò» (Genesi 12,1). Per entrare nella promessa di Dio, Abramo è chiamato a fare della sua vita un pellegrinaggio, a vivere un nuovo inizio.

Così pure, la buona novella della risurrezione non è un modo per distoglierci dai compiti di quaggiù, ma una chiamata a metterci in cammino. «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? … Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura… Voi mi sarete testimoni… fino agli estremi confini della terra» (Atti 1,11; Marco 16,15; Atti 1,8).

Sotto l’impulso dello Spirito del Cristo, i credenti vivono una solidarietà profonda con l’umanità priva dalle sue radici in Dio. Scrivendo ai Romani, san Paolo evoca le sofferenze della creazione in attesa, paragonandole alle doglie del parto. Poi continua: «Anche noi che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente» (Romani 8,18-23). La nostra fede non ci fa dei privilegiati fuori dal mondo, noi «gemiamo» con il mondo, condividendo il suo dolore, ma viviamo questa situazione nella speranza, sapendo che, nel Cristo, «le tenebre stanno diradandosi e la vera luce già risplende» (1 Giovanni 2,8).

Sperare, è dunque scoprire dapprima nelle profondità del nostro oggi una Vita che va oltre e che niente può fermare. Ancora, è accogliere questa Vita con un sì di tutto il nostro essere. Gettandoci in questa Vita, siamo portati a porre, qui e ora, in mezzo ai rischi del nostro stare in società, dei segni di un altro avvenire, dei semi di un mondo rinnovato che, al momento opportuno, porteranno il loro frutto.

Per i primi cristiani, il segno più chiaro di questo mondo rinnovato era l’esistenza di comunità composte da persone di provenienze e lingue diverse. A causa di Cristo, quelle piccole comunità sorgevano ovunque nel mondo mediterraneo. Superando divisioni di ogni tipo che li tenevano lontani gli uni dagli altri, quegli uomini e quelle donne vivevano come fratelli e sorelle, come famiglia di Dio, pregando insieme e condividendo i loro beni secondo il bisogno di ciascuno (cfr. Atti 2,42-47). Si sforzavano ad avere «un solo spirito, uno stesso amore, i medesimi sentimenti» (Filippesi 2,2). Così brillavano nel mondo come dei punti di luce (cfr. Filippesi 2,15). Sin dagli inizi, la speranza cristiana ha acceso un fuoco sulla terra.

Lettera da Taizé: 2003/3

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