Archive pour janvier, 2009

Leggenda dei tre compagni di S. Francesco d’Assisi : San Francesco guarito dalle sue paure da un lebbroso

dal sito:

http://www.vangelodelgiorno.org/www/main.php?language=IT&localTime=01/15/2009#

Leggenda dei tre compagni di S. Francesco d’Assisi (circa 1244)
§ 11

San Francesco guarito dalle sue paure da un lebbroso
Francesco, mentre un giorno cavalcava nei paraggi di Assisi, incontrò sulla strada un lebbroso. Di questi infelici egli provava un invincibile ribrezzo, ma stavolta, facendo violenza al proprio istinto, smontò da cavallo e offrì al lebbroso un denaro, baciandogli la mano. E ricevendone un bacio di pace, risalì a cavallo e seguitò il suo cammino. Da quel giorno cominciò a svincolarsi dal proprio egoismo, fino al punto di sapersi vincere perfettamente, con l’aiuto di Dio.

Trascorsi pochi giorni, prese con sé molto denaro e si recò all’ospizio dei lebbrosi; li riunì e distribuì a ciascuno l’elemosina, baciandogli la mano. Nel ritorno, il contatto che dianzi gli riusciva repellente, quel vedere cioè e toccare dei lebbrosi, gli si trasformò veramente in dolcezza. Confidava lui stesso che guardare i lebbrosi gli era talmente increscioso, che non solo si rifiutava di vederli, ma nemmeno sopportava di avvicinarsi alle loro abitazioni. Capitandogli di transitare presso le loro dimore o di vederne qualcuno, …. voltava sempre la faccia dall’altra parte e si turava le narici. Ma per grazia di Dio diventò compagno e amico dei lebbrosi così che, come afferma nel suo Testamento, stava in mezzo a loro e li serviva umilmente. Queste visite ai lebbrosi accrebbero la sua bontà.

Publié dans:SANTI, Santi - scritti |on 15 janvier, 2009 |Pas de commentaires »

ABRAHAM AND THE THREE ANGELS…

ABRAHAM AND THE THREE ANGELS... dans immagini sacre 17%20ECKHOUT%20ABRAHAM%20AND%20THE%20THREE%20ANGELS

di solito non metto immagini su questo blog se non quelle per la domenica, però questa è molto bella e, dentro di me, mi spinge a pensieri che non sono capace di esprimere, di speranza credo;

ECKHOUT ABRAHAM AND THE THREE ANGELS  

http://www.artbible.net/firstestament_fr.html

Publié dans:immagini sacre |on 14 janvier, 2009 |Pas de commentaires »

SAN PAOLO: UN MISSIONARIO PIU’ ATTUALE CHE MAI

CENTRO MISSIONARIO DIOCESANO - NOVARA

http://www.novaramissio.it/EditorialiMario/SanPaolo.htm

Nell’anno paolino indetto dal Papa, la grande famiglia missionaria riflette sui metodi di comunicazione che portarono l’Apostolo delle genti, ad annunciare la Buona Notizia del Vangelo a persone diverse, di genti diverse, con lingua, tradizioni e cultura diverse

SAN PAOLO: UN MISSIONARIO PIU’ ATTUALE CHE MAI

Per ogni missionario è difficile sottrarsi al fascino e alla personalità di San Paolo, per chi ha l’orizzonte dell’uomo e i confini del mondo piantati nel cuore, difficilmente riesce a non misurarsi con la figura di Paolo. Nell’immaginario collettivo della grande famiglia missionaria, Paolo è il primo vero autentico missionario, colui che sfruttando le maestose strade imperiali dell’antica Roma seppe portare il Vangelo da una delle province più periferiche nel cuore stesso dell’Urbe, allora « Caput Mundi »; i chilometri fatti a piedi, a cavallo e le miglia marittime percorse sulle trireme del tempo sorpassano ogni nostra immaginazione. Paolo, toccato nell’intimo della sua coscienza dall’incontro con Cristo sulla via di Damasco, dedicò tutta la sua vita a portare il Vangelo nel tessuto sociale delle città pulsanti dell’Impero dove si elaborava e si costruiva la vita ed il pensiero di popoli assai diversi tra di loro. Ma se colpisce l’ansia missionaria che portò Paolo a compiere diversi viaggi e ad inoltrarsi in lande sconosciute, sorprende ancora di più il coraggio con cui egli seppe guardare a viso aperto uomini e problemi del suo tempo e confrontarsi alla luce dell’insegnamento di Cristo sul destino dell’uomo.
Paolo, compiacente spettatore della lapidazione di Stefano e accanito persecutore dei primi cristiani, dopo l’incontro con Gesú di Nazareth (un incontro che possiamo definire un autentico mistero di fede) diventa egli stesso un Apostolo capace di suscitare nel cuore di molte persone il desiderio sincero di conoscere e seguire il Cristo.
Il Nuovo Testamento nel suo insieme ci presenta molto di più della vita di Paolo che non di quella di Gesù, le sue lettere che proclamiamo ed ascoltiamo nelle nostre Eucaristie domenicali, dimostrano quanta passione e quanto fuoco gli ardeva in cuore, le comunità da lui fondate e alle quali si rivolgeva sperimentano sulla loro pelle, allo stesso tempo rimproveri e tenerezza, correzione fraterna ed affettuosità. Paolo è un uomo eccezionale, pieno di passione e di vigore, di luce e di fuoco, in lui orgoglio ed umiltà, fascino e fortezza sono un’unica cosa. Ebreo osservante, esecutore zelante della legge di Mosè, diventa l’intrepido annunciatore del Vangelo che libera dalla legge facendo scoprire ad ogni uomo che egli è salvo, reso giusto non in virtù di vuoti ritualismi e precetti osservati scrupolosamente, ma per la gratuità sconfinata della Croce di Cristo; la fede nel Maestro rende giusto il peccatore e lo fa partecipe di quel mistero di Grazia in cui ciascuno si sente amato da Dio. Se il messaggio di Gesù imperniato sull’amore a Dio e al prossimo, che aveva come cardine il perdono da offrire anche al malvagio, era rivolto a tutti, nessuno escluso, anzi proprio coloro che erano i reietti, i peccatori, gli emarginati per eccellenza in una parola i « piccoli », si trovano ad essere i depositari privilegiati di quest’annuncio, che dà loro una dignità ed una coscienza di se stessi che nessun filosofo aveva mai osato affermare, questa tenerezza che fa del’ultimo degli schiavi un figlio prediletto di Dio e lo pone sullo stesso piano del più nobile tra gli aristocratici del tempo e dello stesso Imperatore, sarà vista come un messaggio pericolosissimo da bloccare con qualunque mezzo al fine di non scardinare un sistema di potere basato sulla schiavitù, sul dominio e sull’oppressione. Paolo porterà questo messaggio là dove era necessario che esso fosse conosciuto, inquietando in tal modo i governatori e gli imperatori di turno, ma egli non defletterà neanche di una virgola da questo compito che gli era stato affidato. Pur essendo l’ultimo arrivato tra gli Apostoli sarà quello che si opporrà anche a Pietro a viso aperto, ritenendo la sua apertura alle genti, autenticamente vicina al messaggio del Maestro.
Un personaggio così, che cosa può dire al cristiano d’oggi ed in modo particolare a chi ne ricalca le orme sui sentieri della missione? La risposta sta nello stile e nel modo di presentare il Vangelo tipico di Paolo: avere il coraggio di andare oltre, sempre! Senza fermarsi al dato acquisito o alla comunità calda, accogliente e gratificante che suadente ti invita a … restare! In secondo luogo guardare negli occhi – come Paolo – uomini e problemi che ti stanno davanti, le Agorà di oggi non sono meno problematiche ed inquietanti di quelle di allora, la grande tentazione per i cristiani di ogni tempo è di rinchiudersi in ovili protetti scantonando quelle che sono le sfide più crude che il mondo continuamente ti getta in faccia. Inoltre, la franchezza del linguaggio paolino, resta un valore oggi come ieri, anche se il modo di parlare paludato e « curiale » di certi ambienti ecclesiastici stride in maniera costante con il modo di fare di Paolo. Non ultimo la tenerezza che Paolo avvertì dentro di se dopo l’incontro con Gesù e che riversò abbondantemente sulle persone che incontrò e le comunità con le quali ebbe a che fare, ci ricordano come la buona notizia di Gesù di Nazareth è innanzi tutto amore sconfinato verso chi il mondo ignora, emargina o disprezza. Nell’anno Paolino voluto da Papa Ratzinger, riscoprire questi aspetti squisitamente missionari, ci aiuterebbe a recuperare quell’afflato paolino che certamente alberga in ciascuno di noi, un compito al quale non possiamo sottrarci.

CAMMINANDO OGGI SULLE ORME DI SAN PAOLO

Per un cristiano e ancor di più per un missionario, misurarsi con la figura e l’opera di San Paolo è quasi impossibile, ci si sente piccoli, insignificanti, di fronte a colui che viene unanimemente riconosciuto non solo come l’Apostolo delle genti, ma come chi attraverso i suoi viaggi portò il Vangelo di Gesù di Nazareth dalla Palestina, una delle province più periferiche e sperdute, al cuore delle città dell’Asia Minore e della Grecia, per arrivare infine a Roma capitale dell’Impero. Dai testi del Nuovo Testamento, sappiamo molto più della vita di Paolo che non di quella di Gesù, proprio per questo – in vista anche dell’imminente Anno Paolino – cercare di accostarci con rispetto e attenzione a questo discepolo di Cristo, per carpirne metodi e strategie missionarie adattabili all’uomo d’oggi, ci sembra per lo meno un tentativo necessario proprio per non disperdere l’immenso patrimonio che ci ha lasciato. E, attraverso i suoi scritti porci delle domande che aiutino la nostra vita a misurarsi più in profondità con il Vangelo.
La prima cosa che colpisce in Paolo è la determinazione delle sue scelte. Determinato come giudeo osservante nel perseguire con la spada la nascente comunità cristiana, ancor più determinato nell’annunciare la Buona Novella di Cristo dopo la « conversione » sulla via di Damasco. Proviamo a chiederci: quanto di questa sua determinazione alberga dentro i nostri cuori oggi? Un altro aspetto della personalità di San Paolo che balza subito agli occhi, è il suo carattere. Di solito si dice che una persona che ha carattere, ce l’ha pessimo, quello di Paolo doveva essere orribile! Lo scontro con Pietro e i diverbi con questo o quell’altro discepolo, puntualmente segnalati dagli Atti degli Apostoli, ci mostrano un San Paolo che nella franchezza del linguaggio e nel coraggio nell’esporre le proprie idee era un testimone straordinario del fascino che Cristo aveva esercitato su di lui. Quanti di noi possono dire lo stesso? Nonostante il caratteraccio e la parresia di linguaggio, San Paolo seppe trasformare i suoi conflitti in una fonte di spiritualità, lo possiamo vedere in diversi passaggi delle sue lettere, dove dopo alcune sottolineature un po’ « pepate » sa arrivare ai suoi interlocutori utilizzando un linguaggio carico di attenzione e tenerezza. Quanti di noi riescono a fare altrettanto?
Abituati come siamo ad utilizzare mezzi di trasporto superveloci, non riusciamo più a percepire la straordinaria vitalità di quest’uomo che, a piedi, a cavallo, o su imbarcazioni alquanto malsicure, seppe percorrere nei suoi molteplici viaggi, le vie consolari dell’Impero e muoversi nel mar Mediterraneo come se fosse un lago. Gli itinerari di San Paolo portano dritti nelle grandi città del tempo ed è proprio in queste città: Antiochia, Corinto, Efeso, Atene, ecc. che Paolo si misura con la cultura del suo tempo e a viso aperto propone l’annuncio del Cristo crocifisso: scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani! Questo suo atteggiamento è ancora patrimonio comune per i cristiani, oppure siamo lentamente scivolati verso un’edulcorazione del messaggio di Gesù che abbiamo talmente incrostato di orpelli inutili e superflui da offuscarne lo splendore originario? Un altro aspetto caratteristico di San Paolo rivendicato con forza da lui stesso, è quello in cui Paolo sottolinea il fatto di essere un lavoratore che annuncia il Vangelo, Paolo non era un predicatore itinerante, un estroso naif che si spostava di città in città contando belle storielle, era un uomo chiamato da Cristo a portare il Vangelo nel cuore stesso dei popoli estranei a Israele, e per fare questo egli si guadagnava da vivere svolgendo un lavoro manuale che gli consentiva di non pesare su alcuno. Questa sua indipendenza lo metteva nella condizione di essere libero interiormente ed esternamente di fronte a qualsiasi interlocutore. Quanti di noi oggi possono dire altrettanto?
« Vivo ma ormai non sono più io che vivo; è Cristo che vive in me »; « Completo nella mia carne quello che manca alla passione di Cristo »; « Quando mi sento debole allora sono veramente forte »; « Fede, speranza, amore, il più grande dei tre è l’amore »; basterebbero queste poche citazioni tratte dall’immenso epistolario paolino, per capire quanto ancora oggi ognuno di noi deve misurarsi su questi nodi cruciali che interpellano la nostra vita e pongono delle domande ineludibili nel conteso della realtà nella quale siamo inseriti. Anche oggi ci sono delle Agorà, delle piazze, nelle quali scendere e dentro le quali misurarsi con la cultura dominante, anche oggi ci sono città sterminate, megalopoli dove la « Plantatio Ecclesiae » ovvero il germe di una piccola, magari insignificante comunità di gente che vive nel nome di Cristo è seme di un germoglio che darà i suoi frutti proprio come avvenne al tempo di Paolo; occorre crederci, e ancor di più occorre gettare questo seme sui vasti terreni che lo Spirito Santo ci indica continuamente.
Lungo gli anni della sua vita, Paolo affrontò dei passaggi che richiesero una transizione complessa e conflittuale a livello personale sia sul piano psicologico che sul piano della fede, difatti passò dal mondo ebraico al mondo greco, dal contesto rurale ad un contesto urbano, dalle sicurezze del giudaismo, al mondo pluralista e conflittuale delle grandi città dell’Impero, da una Chiesa di soli ebrei convertiti a una Chiesa che spalancava le porte per accogliere quanti erano disposti a vivere il Vangelo, da una religione legata a un popolo a una nuova religione aperta a tutta l’umanità. Si può dire che Paolo compì dentro di sé un esodo straordinario – ancor più affascinante dei suoi viaggi – i suoi ripetuti passaggi dal vecchio al nuovo ebbero certamente i dolori del parto, ma ciò che di nuovo nacque attraverso di lui con la Grazia di Cristo è divenuto patrimonio comune per tutte le generazioni seguenti. Fare in modo che questa novità di vita inaugurata da San Paolo non invecchi mai nei nostri cuori, ma ci rigeneri continuamente nella luce di Cristo, sarebbe il modo migliore per acquisire il messaggio di San Paolo e crediamo anche un modo originale per celebrare l’anno a lui dedicato. 

Don Mario Bandera

Benedetto XVI e le Lettere paoline ai Colossesi e agli Efesini (udienza del 14.1.2009)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-16789?l=italian

Benedetto XVI e le Lettere paoline ai Colossesi e agli Efesini

Intervento in occasione dell’Udienza generale

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 14 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi pronunciata questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale svoltasi nell’aula Paolo VI.

Nel discorso in lingua italiana, il Santo Padre, continuando il ciclo di catechesi su San Paolo Apostolo, si è soffermato sulle Lettere ai Colossesi e agli Efesini.

* * *

Cari fratelli e sorelle,

tra le Lettere dell’epistolario paolino, ce ne sono due, quelle ai Colossesi e agli Efesini, che in una certa misura si possono considerare gemelle. Infatti, l’una e l’altra hanno dei modi di dire che si trovano solo in esse, ed è stato calcolato che più di un terzo delle parole della Lettera ai Colossesi si trova anche in quella agli Efesini. Per esempio, mentre in Colossesi si legge letteralmente l’invito a « esortarvi con salmi, inni, canti spirituali, con gratitudine cantando a Dio con i vostri cuori » (Col 3,16), in Efesini si raccomanda ugualmente di « parlare tra di voi con salmi e inni e canti spirituali, cantando e lodando il Signore con il vostro cuore » (Ef 5,19). Potremmo meditare su queste parole: il cuore deve cantare, e così anche la voce, con salmi e inni per entrare nella tradizione della preghiera di tutta la Chiesa dell’Antico e del Nuovo Testamento; impariamo così ad essere insieme con noi e tra noi, e con Dio. Inoltre, in entrambe le Lettere si trova un cosiddetto « codice domestico », assente nelle altre Lettere paoline, cioè una serie di raccomandazioni rivolte a mariti e mogli, a genitori e figli, a padroni e schiavi (cfr rispettivamente Col 3,18-4,1 e Ef 5,22-6,9).

Più importante ancora è constatare che solo in queste due Lettere è attestato il titolo di « capo », kefalé, dato a Gesù Cristo. E questo titolo viene impiegato a un doppio livello. In un primo senso, Cristo è inteso come capo della Chiesa (cfr Col 2,18-19 e Ef 4,15-16). Ciò significa due cose: innanzitutto, che egli è il governante, il dirigente, il responsabile che guida la comunità cristiana come suo leader e suo Signore (cfr Col 1,18: « Egli è il capo del corpo, cioè della Chiesa »; e poi l’altro significato è che lui è come la testa che innerva e vivifica tutte le membra del corpo a cui è preposta (infatti, secondo Col 2,19 bisogna « tenersi fermi al capo, dal quale tutto il corpo riceve sostentamento e coesione »): cioè non è solo uno che comanda, ma uno che organicamente è connesso con noi, dal quale viene anche la forza di agire in modo retto.

In entrambi i casi, la Chiesa è considerata sottoposta a Cristo, sia per seguire la sua superiore conduzione – i comandamenti -, sia anche per accogliere tutti gli influssi vitali che da Lui promanano. I suoi comandamenti non sono solo parole, comandi, ma sono forze vitali che vengono da Lui e ci aiutano.

Questa idea è particolarmente sviluppata in Efesini, dove persino i ministeri della Chiesa, invece di essere ricondotti allo Spirito Santo (come 1 Cor 12) sono conferiti dal Cristo risorto: è Lui che « ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri » (4,11). Ed è da Lui che « tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, … riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità » (4,16). Cristo infatti è tutto teso a « farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata » (Ef 5,27). Con questo ci dice che la forza con la quale costruisce la Chiesa, con la quale guida la Chiesa, con la quale dà anche la giusta direzione alla Chiesa, è proprio il suo amore.

Quindi il primo significato è Cristo Capo della Chiesa: sia quanto alla conduzione, sia, soprattutto, quanto alla ispirazione e vitalizzazione organica in virtù del suo amore. Poi, in un secondo senso, Cristo è considerato non solo come capo della Chiesa, ma come capo delle potenze celesti e del cosmo intero. Così in Colossesi leggiamo che Cristo « ha privato della loro forza i principati e le potestà e ne ha fatto pubblico spettacolo dietro al corteo trionfale » di Lui (2,15). Analogamente in Efesini troviamo scritto che, con la sua risurrezione, Dio pose Cristo « al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si possa nominare non solo nel secolo presente ma anche in quello futuro » (1,21). Con queste parole le due Lettere ci consegnano un messaggio altamente positivo e fecondo. Questo: Cristo non ha da temere nessun eventuale concorrente, perché è superiore a ogni qualsivoglia forma di potere che presumesse di umiliare l’uomo. Solo Lui « ci ha amati e ha dato se stesso per noi » (Ef 5,2). Perciò, se siamo uniti a Cristo, non dobbiamo temere nessun nemico e nessuna avversità; ma ciò significa dunque che dobbiamo tenerci ben saldi a Lui, senza allentare la presa!

Per il mondo pagano, che credeva in un mondo pieno di spiriti, in gran parte pericolosi e contro i quali bisognava difendersi, appariva come una vera liberazione l’annuncio che Cristo era il solo vincitore e che chi era con Cristo non aveva da temere nessuno. Lo stesso vale anche per il paganesimo di oggi, poiché anche gli attuali seguaci di simili ideologie vedono il mondo pieno di poteri pericolosi. A costoro occorre annunciare che Cristo è il vincitore, così che chi è con Cristo, chi resta unito a Lui, non deve temere niente e nessuno. Mi sembra che questo sia importante anche per noi, che dobbiamo imparare a far fronte a tutte le paure, perchè Lui è sopra ogni dominazione, è il vero Signore del mondo.

Addirittura il cosmo intero è sottoposto a Lui, e a Lui converge come al proprio capo. Sono celebri le parole della Lettera agli Efesini, che parla del progetto di Dio di « ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra » (1,10). Analogamente nella Lettera ai Colossesi si legge che « per mezzo di Lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili » (1,16) e che « con il sangue della sua croce … ha rappacificato le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli » (1,20). Quindi non c’è, da una parte, il grande mondo materiale e dall’altra questa piccola realtà della storia della nostra terra, il mondo delle persone: tutto è uno in Cristo. Egli è il capo del cosmo; anche il cosmo è creato da Lui, è creato per noi in quanto siamo uniti a Lui. È una visione razionale e personalistica dell’universo. E direi una visione più universalistica di questa non era possibile concepire, ed essa conviene soltanto al Cristo risorto. Cristo è il Pantokrátor, a cui sono sottoposte tutte le cose: il pensiero va appunto al Cristo Pantocratòre, che riempie il catino absidale delle chiese bizantine, a volte raffigurato seduto in alto sul mondo intero o addirittura su di un arcobaleno per indicare la sua equiparazione a Dio stesso, alla cui destra è assiso (cfr Ef 1,20; Col 3,1), e quindi anche la sua ineguagliabile funzione di conduttore dei destini umani.

Una visione del genere è concepibile solo da parte della Chiesa, non nel senso che essa voglia indebitamente appropriarsi di ciò che non le spetta, ma in un altro duplice senso: sia in quanto la Chiesa riconosce che in qualche modo Cristo è più grande di lei, dato che la sua signoria si estende anche al di là dei suoi confini, e sia in quanto solo la Chiesa è qualificata come Corpo di Cristo, non il cosmo. Tutto questo significa che noi dobbiamo considerare positivamente le realtà terrene, poiché Cristo le ricapitola in sé, e in pari tempo dobbiamo vivere in pienezza la nostra specifica identità ecclesiale, che è la più omogenea all’identità di Cristo stesso.

C’è poi anche un concetto speciale, che è tipico di queste due Lettere, ed è il concetto di « mistero ». Una volta si parla del « mistero della volontà » di Dio (Ef 1,9) e altre volte del « mistero di Cristo » (Ef 3,4; Col 4,3) o addirittura del « mistero di Dio, che è Cristo, nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza » (Col 3,2-3). Esso sta a significare l’imperscrutabile disegno divino sulle sorti dell’uomo, dei popoli e del mondo. Con questo linguaggio le due Epistole ci dicono che è in Cristo che si trova il compimento di questo mistero. Se siamo con Cristo, anche se non possiamo intellettualmente capire tutto, sappiamo di essere nel nucleo del « mistero » e sulla strada della verità. È Lui nella sua totalità, e non solo in un aspetto della sua persona o in un momento della sua esistenza, che reca in sé la pienezza dell’insondabile piano divino di salvezza. In Lui prende forma quella che viene chiamata « la multiforme sapienza di Dio » (Ef 3,10), poiché in Lui « abita corporalmente tutta la pienezza della divinità » (Col 2,9). D’ora in poi, quindi, non è possibile pensare e adorare il beneplacito di Dio, la sua sovrana disposizione, senza confrontarci personalmente con Cristo in persona, in cui quel « mistero » si incarna e può essere tangibilmente percepito. Si perviene così a contemplare la « ininvestigabile ricchezza di Cristo » (Ef 3,8), che sta oltre ogni umana comprensione. Non che Dio non abbia lasciato delle impronte del suo passaggio, poiché è Cristo stesso l’orma di Dio, la sua impronta massima; ma ci si rende conto di « quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità » di questo mistero « che sorpassa ogni conoscenza » (Ef 3,18-19). Le mere categorie intellettuali qui risultano insufficienti, e, riconoscendo che molte cose stanno al di là delle nostre capacità razionali, ci si deve affidare alla contemplazione umile e gioiosa non solo della mente ma anche del cuore. I Padri della Chiesa, del resto, ci dicono che l’amore comprende di più che la sola ragione.

Un’ultima parola va detta sul concetto, già accennato sopra, concernente la Chiesa come partner sponsale di Cristo. Nella seconda Lettera ai Corinzi l’apostolo Paolo aveva paragonato la comunità cristiana a una fidanzata, scrivendo così: « Io provo per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo » (2 Cor 11,2). La Lettera agli Efesini sviluppa quest’immagine, precisando che la Chiesa non è solo una promessa sposa, ma è la reale sposa di Cristo. Egli, per così dire, se l’è conquistata, e lo ha fatto a prezzo della sua vita: come dice il testo, « ha dato se stesso per lei » (Ef 5,25). Quale dimostrazione d’amore può essere più grande di questa? Ma, in più, egli è preoccupato per la sua bellezza: non solo di quella già acquisita con il battesimo, ma anche di quella che deve crescere ogni giorno grazie ad una vita ineccepibile, « senza ruga né macchia », nel suo comportamento morale (cfr Ef 5,26-27). Da qui alla comune esperienza del matrimonio cristiano il passo è breve; anzi, non è neppure ben chiaro quale sia per l’autore della Lettera il punto di riferimento iniziale: se sia il rapporto Cristo-Chiesa, alla cui luce pensare l’unione dell’uomo e della donna, oppure se sia il dato esperienziale dell’unione coniugale, alla cui luce pensare il rapporto tra Cristo e la Chiesa. Ma ambedue gli aspetti si illuminano reciprocamente: impariamo che cosa è il matrimonio nella luce della comunione di Cristo e della Chiesa, impariamo come Cristo si unisce a noi pensando al mistero del matrimonio. In ogni caso, la nostra Lettera si pone quasi a metà strada tra il profeta Osea, che indicava il rapporto tra Dio e il suo popolo nei termini di nozze già avvenute (cfr Os 2,4.16.21), e il Veggente dell’Apocalisse, che prospetterà l’incontro escatologico tra la Chiesa e l’Agnello come uno sposalizio gioioso e indefettibile (cfr Ap 19,7-9; 21,9).

Ci sarebbe ancora molto da dire, ma mi sembra che, da quanto esposto, già si possa capire che queste due Lettere sono una grande catechesi, dalla quale possiamo imparare non solo come essere buoni cristiani, ma anche come divenire realmente uomini. Se cominciamo a capire che il cosmo è l’impronta di Cristo, impariamo il nostro retto rapporto con il cosmo, con tutti i problemi della conservazione del cosmo. Impariamo a vederlo con la ragione, ma con una ragione mossa dall’amore, e con l’umiltà e il rispetto che consentono di agire in modo retto. E se pensiamo che la Chiesa è il Corpo di Cristo, che Cristo ha dato se stesso per essa, impariamo come vivere con Cristo l’amore reciproco, l’amore che ci unisce a Dio e che ci fa vedere nell’altro l’immagine di Cristo, Cristo stesso. Preghiamo il Signore che ci aiuti a meditare bene la Sacra Scrittura, la sua Parola, e imparare così realmente a vivere bene.

DUE CRISTOLOGIE NELLA LETTERA AGLI EBREI? (P. Garuti, SBF Jerusalem)

avevo già messo questo testo con il collegamento al PDF in data 1 maggio 2008, ora l’ho messo su una pagina word e lo ripropongo perché mi sembra (è) molto bello, inoltre la Lettera agli Ebrei è proposta nella liturgia eucaristica di questi giorni come prima lettura; non ho potuto mettere tutti i testi in corsivo come nell’originale, ho messo le citazioni bibliche, perché su un blog è un po’ difficile, ma credo si capisca; ho fatto il meglio possibile; io, personalmente, devo rileggere tutta l’esegesi del testo e studiarlo meglio, per quello che ho capito ad una prima – e seconda lettura – ossia lo devo ristudiare, dal sito:

http://198.62.75.1/www1/ofm/sbf/Books/LA49/49237PG.pdf

DUE CRISTOLOGIE NELLA LETTERA AGLI EBREI?

P. Garuti (SBF Jerusalem)

Quella che siamo soliti chiamare « Lettera agli Ebrei » presenta, tanto al predicatore che all’esegeta, una profonda discontinuità di tematiche, un andare sinusoidale sconcertante, a dispetto della profondità di pensiero e del forte pathos di certi passaggi. Un fenomeno peculiare, all’interno di tale problematica, è la presenza di pericopi in cui si mette in rilievo la dimensione terrena del sacrificio di Cristo, nella chiave di quella che potremmo definire una « cristologia bassa »,(1) in apparente opposizione ad altre (i cc. 8 e 9, in particolare), in cui sembra essere più accentuato l’aspetto celeste di tale sacrificio. Questo contributo vuole impostare uno status quaestionis di tale problematica, indicandone una via di soluzione a partire da una teoria circa la storia redazionale di Ebrei.(2)

a. Un triplice mistero

La qualifica « mistero » (Rätsel), utilizzata a proposito di Ebrei da W. Wrede (3) e da F. Burggaller (4) nel 1908 quanto all’ambito letterario, è stata rilanciata recentissimamente da E. Grässer (5) come mistero tanto letterario che storico.  Questi, dopo avere scorso i maggiori commentari pubblicati o ripubblicati nei vent’anni precedenti il 1991, rileva che non si sono fatti sostanziali passi avanti sulla via della sua soluzione. Il dibattito verte essenzialmente sulla valutazione da darsi del « biglietto » di Eb 13,22-25 (è un’aggiunta epistolare ad un’omelia? È di mano dell’autore, oppure di un imitatore che diviene così il responsabile dell’inserzione di Ebrei nel Corpus paulinum?):

Vi raccomando, fratelli, accogliete questa parola di esortazione; proprio per questo molto brevemente vi ho scritto. Sappiate che il nostro fratello Timoteo è stato messo in libertà; se arriva presto, vi vedrò insieme con lui. Salutate tutti i vostri capi e tutti i santi. Vi salutano quelli d’Italia. La grazia sia con tutti voi. (13,22-25)

Queste parole, di sapore indubbiamente paolino, seguono una dossologia, in sé già conclusiva (i vv. 20-21, che si chiudono con un Amen), e stupiscono per quel « molto brevemente vi ho scritto » che contrasta, evidentemente, con la relativa lunghezza della lettera (13 capitoli). (6) La tesi predominante vuole si tratti di una postilla, un biglietto appunto, destinato a raccomandare alla lettura una omelia – « accogliete questa parola di esortazione » – o un trattatello utile a sostenere la fede della comunità destinataria. Ma il mistero storico rimane: chi ha scritto il biglietto? Chi il trattatello? A chi si rivolge? Se Eb 13,22-25 fosse opera di un imitatore di Paolo (di qui il vaghissimo riferimento a Timoteo), intenzionato a fare passare a nome dell’Apostolo uno scritto suo o di altri, perché non ha completato l’opera aggiungendo anche un indirizzo prima dell’inizio solenne di Eb 1,1-3 o, comunque, una qualche nota « personale » di introduzione, immancabile nel resto del Corpus? (7) Sarebbe quasi più semplice pensare che Paolo stesso abbia composto il biglietto e che lui, o un altro più tardi, l’abbia giustapposto ad un testo che, se risente senza dubbio della teologia paolina, non di meno sin dall’antichità è chiaramente sembrato non attribuibile all’Apostolo. (8) Se questi interrogativi non bastassero, fa problema anche l’identificazione dei capi. Anzitutto, perché la lettera non è rivolta a loro, ma a persone che devono salutarli? Forse si tratta di responsabili di una zona, non presenti fisicamente alla (o alle) comunità cui il biglietto si rivolge. A questi hêgoumenoi si riferisce anche il v. 17, ad essi bisogna obbedire e star sottomessi. Sono quindi autorità in carica secondo un linguaggio non paolino, ma lucano. (9) Ma, in 13,7, lo stesso termine hêgoumenos è impiegato per definire degli annunciatori della Parola la cui vita ha già avuto un esito. Personaggi del passato, di cui ricordarsi e da imitare, non capi presenti. Il primo mistero avvolge, dunque, le coordinate concrete (occasione, mittente, destinatari) non solo del testo in quanto tale, ma pure dell’invio di cui il biglietto sembra fare fede. Anche il saluto da parte di quelli apotês Italias (dall’Italia, dell’Italia?), non permette di capire se si tratti di abitanti in Italia (non necessariamente nativi), di persone che si trovano altrove ma provengono dall’Italia (ancora, non necessariamente nativi, datosi il moto, naturale nel I secolo e dell’Impero e della nostra era, da e per Roma), o, come si è supposto, di giudei e cristiani, anche italiani di nascita, cacciati dalla capitale sotto Claudio (49 d.C.).

Il secondo mistero, il « mistero letterario », non è di minore complessità e ne fanno esperienza predicatori, catechisti e quant’altri si sia trovato a spiegare, o leggere col metodo della lectio continua, la nostra Lettera. Alcuni brani, messi in onore dalla liturgia, meravigliano per la profondità e la concentrazione del pensiero, quella che Origene chiamava synthesis; l’analisi strutturale ha ben messo in luce il corrispondersi speculare delle sezioni e dei temi nella macrostruttura di Ebrei, sembra che questa conduca il lettore a concentrare la sua attenzione sul punto capitale (cf. 8,1, introduzione ai capitoli 8 e 9), la liturgia celeste, per poi riespandersi a ritroso riprendendo in ordine inverso i grandi temi del sacerdozio di Cristo, della fede perseverante, della consumazione escatologica. A queste due osservazioni, tuttavia, paiono opporsi caratteristiche letterarie di segno opposto: l’oscurità e l’inesattezza nell’analizzare il deposito veterotestamentario d’alcuni passaggi (si pensi all’ingarbugliato ragionamento a proposito dell’eredità in 9,15-22, o all’imprecisa descrizione della Tenda all’inizio dello stesso capitolo), il senso di vertigine che prova chi legge di seguito la Lettera, per il comparire e lo scomparire improvviso di alcuni temi fondamentali, cui si ritorna faticosamente dopo excursus, anch’essi interrotti brutalmente, per essere richiamati in seguito. Aggiungiamo che una analisi attenta del linguaggio mostra lo stile del parlato e per alcuni passaggi è quasi indispensabile ammettere che si tratti di note relative a un discorso in presentia: la loro comprensibilità dipende da testi legali cui si allude ma che non sono direttamente citati, come se gli ascoltatori li avessero sotto gli occhi. Per non fare che un esempio, in 7,8, gli avverbi « qui » e « là » fanno riferimento a due testi dell’A.T., Gn 14 e Nm 18,25-32, di cui solo il primo è letteralmente ma non esplicitamente citato. Il secondo doveva in qualche modo essere presente agli ascoltatori. Come si può conciliare questo « parlare in diretta » con la struttura concentrica denunziata sopra? Se il lettore può cogliere le corrispondenze delle parti, l’ascoltatore (come i citati predicatori o lettori impegnati) si sperde inesorabilmente. In più, il nostro oratore sarebbe stato considerato dai suoi stessi contemporanei un pessimo stratega: porre al centro il punto capitale vuole dire relegarlo al momento in cui minore è l’attenzione dell’uditorio, naturalmente più proclive a registrare l’attacco e la finale di un discorso. (10).Siamo al cuore del mistero letterario, tanto spesso indagato con alterne risultanze dagli esegeti: Ebrei nasce come omelia da recitarsi, come lettera o come trattato? È, in altri termini, la questione del genere letterario, di recente rilanciata come indagine circa il genere retorico. Il terzo mistero, il mistero teologico, nasce dalla presenza di due « prospettive » circa il sacrificio di Cristo. Per valutare i termini del problema basta comparare due serie di testi e cercarne le coordinate spazio-temporali:

Serie I:
Proprio per questo nei giorni della sua carne egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote alla maniera di Melchisedek. (5,7-10)
Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. [...] Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre. (10,5.10)

Serie II:
Se Gesù fosse sulla terra, egli non sarebbe neppure sacerdote, poiché vi sono quelli che offrono i doni secondo la legge. (8,4 )
Cristo infatti non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore, e non per offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui. In questo caso, infatti, avrebbe dovuto soffrire più volte dalla fondazione del mondo. Ora invece una volta sola, alla pienezza dei tempi, è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. (9,24-26)
Avendo dunque, fratelli, piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, per questa via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne. (10,19-20)

Nella serie II il luogo del sacrificio (prospherein « offrire » è termine tecnico) è il mondo (kosmos), il tempo è la vita terrena (così C.E.I. interpreta il più forte « giorni della sua carne » di 5,7), l’oggetto è il corpo o la preghiera con forti grida e lacrime, entrambi segnati dalla debolezza creaturale. Nella serie II è, innanzitutto, escluso che l’esercizio del sacerdozio di Cristo sia terreno (8,4), o che la « tenda »-santuario appartenga a questa creazione: il luogo è, quindi, il cielo. L’oggetto non è più inerente alla dimensione carnale, che diviene il velo da attraversare, ma il sangue, sede della vita, in un gesto d’offerta che segue la morte. Il tempo è l’eternità che sta al di là di « questa creazione ». Alle due prospettive soggiacciono due figure sacrificali tratte dal rituale del Tempio. Nel primo caso, il sacrificio consacratorio dei sacerdoti, il perfezionamento secondo il linguaggio della Bibbia greca (teleiôsis, cf. 7,11): per essere « perfezionato » e divenire causa di salvezza eterna, Gesù ha vissuto il suo dramma messianico come « offerta ». Come affermato in Es 29 e Lv8, era questo sacrificio, assieme all’unzione e alla vestizione, che abilitava il sacerdote al suo ufficio e soprattutto ad entrare al cospetto di Dio nel santuario. È un gesto di intronizzazione, festoso. Nel secondo caso, è invece il sacrificio annuale del Kippur, il gran giorno dell’Espiazione, che fa da modello (cf. Lv 16): il contatto con Dio è assicurato dalla duplice aspersione col sangue sacrificale, per sé e per il popolo, che una volta l’anno il sommo sacerdote compie nel Santo dei Santi e sull’altare. Questo gesto avviene nello spazio di Dio, l’inviolabile cella vuota. Il corpo dell’animale, a parte il sangue ed il grasso, verrà bruciato « fuori dal campo » (cf. Eb 13,11), è stato solo un mezzo e porta in sé traccia d’iniquità. Il tono della celebrazione è mesto, in un giorno di grande digiuno. Due immagini accostate in un unico plesso simbolico? I due momenti si potrebbero, a rigor di logica, vedere come successivi: prima consacrato, il Cristo ha poi celebrato in cielo una sorta di Kippur. È questa senza dubbio l’eredità che Ebrei ci lascia. Tuttavia, insiste in entrambi i casi sull’unicità del sacrificio, avvenuto « una volta per sempre », e confondere i due sacrifici può, come spesso avviene, confondere le idee. Si consideri anche che uno dei testi citati nella prima serie, 10,5-10, è successivo nel correre del discorso ai testi della seconda serie, senza che Ebrei si preoccupi di dirci che sta riprendendo un tema abbandonato, di fatto, al capitolo settimo, ma su cui ritorna in 10,1-18. Per ora basti avere posto il problema: altri indizi letterari potranno meglio illuminare il senso e i motivi di questo alternarsi di registri. E basti pure a confermarci nell’idea che il problema non va sottovalutato. Tanto più che da questa ambivalenza scaturisce in parte il dibattito teologico circa sacerdozio cristiano e sacramenti. Se il sacrificio di Cristo ha solo un aspetto terreno ed è irripetibile, se ne può celebrare la memoria in funzione di una imitazione della obbedienza di Gesù, ma non lo si può riattualizzare. È l’aspetto messo da sempre in luce da parte di quanti hanno fatto prevalere l’agire morale su quello rituale, le scelte individuali o di gruppo sull’istituzione, l’ortoprassia sull’ortodossia. Riassumendo il suo pensiero col commentare Eb 10,1-18 (testo della serie I), Calvino – ad esempio – così conclude:

L’Apostolo, quando si tratti di chiedere perdono dei nostri peccati, ci comanda di far ricorso a quest’unico sacrificio, che Cristo ha offerto una volta per tutte sulla croce: ed in tal modo ci differenzia dai Padri (dell’Antico Testamento), poiché l’uso di sacrificare ogni giorno è stato abolito dalla venuta del Cristo. Quelli invece (les Papistes), perché la morte di Cristo possa apportare frutto ed esserci profittevole, pretendono di applicarla ogni giorno per mezzo di sacrificio: così che i Cristiani non sono per nulla diversi dagli Ebrei, se non nei segni esteriori. (11)

Se di sacrificio celeste si tratta, invece, esso resta immoto nell’eternità, compresente a tutta la storia umana. Per riattualizzarne gli effetti si è ritenuto necessario mettere l’umanità « in contatto » con questa dimensione. Su questa linea, S. Tommaso scrive a commento di 8,2 (serie II, si notino i verbi al presente):

Gli antichi ministri erano rivestiti del ministero per occuparsi delle cose sante e servire al tabernacolo. Ora, il Cristo adempie a questa funzione in modo sopraeminente, essendo anch’egli Ministro, non in quanto Dio (come tale è piuttosto l’autore del ministero), ma in quanto uomo, come si legge in Lc 12,37: « Li farà mettere a tavola e li servirà (Vulg.: ministrabit) ». La natura umana, in Cristo, è lo strumento della divinità. Egli è pertanto « il ministro del santuario » perché amministra i sacramenti della grazia nel tempo presente, e quelli della gloria nel futuro. Inoltre, è ministro del « vero tabernacolo », il quale altro non è che la Chiesa militante secondo Sal 88,1: « O Signore degli eserciti, quanto sono amabili le tue dimore (Vulg.: tabernacula) »; o quella trionfante. (12)

E come questa può essere in contatto col « Ministro », se non ricorrendo a quella sorta di « gioco », di estraneamento dal profano e dal quotidiano, che il rito garantisce come spostamento simbolico nella sfera del divino? Ma, in questa seconda prospettiva, che è quella che giace alla base della dottrina tradizionale sui sacramenti, si rischia di ricostituire tutto quel meccanismo di mediazioni umane e successive separazioni gerarchiche che la lettera sembra contestare. Per noi, oggi, il problema, anche se non pare più esprimersi in eresie formalmente dichiarate, è ancora più acuto, perché la seconda prospettiva è fortemente impregnata di quello che siamo soliti chiamare platonismo: il mondo umano « imita » il vero livello del reale, l’iperuranio sede dei modelli eterni di cui il nostro kosmos non è se non copia imperfetta. Venuto meno questo impiantito ideologico, non è difficile verificare come, in molti, sussista una mentalità magica: a proposito dei gesti sacramentali, battesimo ed eucarestia in particolare, di queste « astrazioni » dal vissuto in cui si lava un bambino senza lavarlo e si mangia senza mangiare, molti credenti sono convinti che in essi Dio compia senz’altro qualcosa, ma sarebbe impresa foriera di non poche sorprese chiedere quale rapporto tutto ciò abbia col sacerdozio ed il sacrificio di Gesù di Nazareth. Se non un rapporto d’esemplarità, che ci ripiomba nella prima prospettiva.

b. Una ipotesi

Per formulare l’ipotesi di soluzione del triplice mistero, è indispensabile ripercorrere brevemente la storia della ricerca. Alcuni dati letterari, infatti, hanno colpito da tempo i commentatori. Sulla loro identificazione, l’accordo è sostanzialmente unanime, ma diversi sono i « modelli interpretativi » adottati dagli studiosi.

b. 1 I « pilastri »

Nel 1892, in quattro scarne paginette, (13) H. von Soden propone una divisione della lettera secondo i canoni sanciti dalla retorica classica per un discorso ben ordinato, che prevedeva un esordio, una narratio (la proposizione dei fatti di cui si discute), una discussione dei fatti (argumentatio) ed un epilogo. Per identificare queste quattro tappe, von Soden isola il tema generale di Ebrei: « Gesù è il sommo sacerdote per il quale abbiamo accesso al santuario ». Tre paradigmi, dunque: sacerdozio, santuario ed effetto salvifico. Questo tema si trova enunciato in tre passaggi cruciali, che possono, così, rivestire il ruolo di « pilastri ». La strategia dell’autore consisterebbe nel richiamare l’attenzione sul punto che gli sta a cuore, prima di attaccare un nuovo sviluppo o per concludere una sezione. Il tema appare per intero, anche se in termini ancora generici, in 4,14-16, di cui leggiamo l’inizio. (14)

Poiché dunque abbiamo un grande sommo sacerdote, che ha attraversato i cieli, Gesù, Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della nostra fede. (4,14)

Simile a questo passaggio, 6,19-20, con in più un’allusione a Sal 110,4, filo conduttore della dimostrazione che occuperà per intero il capitolo settimo.

In essa infatti noi abbiamo come un’Ancora della nostra vita, sicura e salda, la quale penetra fin nell’interno del velo del santuario, dove Gesù è entrato per noi come precursore, essendo divenuto « sommo sacerdote per sempre alla maniera di Melchisedek ». (6,19-20)

In 10,19-23, le stesse idee sono riprese con maggiore ampiezza, quasi a mo’ di conclusione. Di fatto, il discorso sacerdotale sarà poi in parte accantonato nei tre capitoli seguenti.

Avendo dunque, fratelli, piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, per questa via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne; avendo noi un sacerdote grande sopra la casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è fedele colui che ha promesso. (10,19-23)

Il santuario è identificato con differenti espressioni quasi sinonime: attraverso i cieli, attraverso il velo, santuario. L’idea conduttrice è, come enucleato sopra, il « sacrificio celeste ». I « tre pilastri » così identificati permettono a von Soden di suddividere le quattro parti: 1,1-4,13 proemio; 4,14-6,20 narrazione; 7,1-10,18 dimostrazione; 10,19-13,21 epilogo. Nonostante che questa strutturazione retorica non sia stata accettata da tutti ed altre siano state proposte, (15)  le osservazioni di von Soden circa la presenza del « tema » in questi passaggi mantengono la loro validità. Vanno tuttavia completate, poiché altri spezzoni hanno caratteristiche simili.

Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e fedele nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova. (2,17-18)

Questo testo, oltre alla menzione del sommo sacerdote, sembra ripreso nella immediata continuazione di 4,14, citato sopra. (16) Nel versetto 16 ritorna l’idea di « accesso a Dio », costitutiva, per von Soden, del « tema ».

Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno. (4,15-16)

Ruolo simile di rilancio del tema riveste un altro celebre passo, 8,1-2, che più esplicitamente annuncia l’azione sacerdotale del Cristo in cielo.

Il punto capitale delle cose che stiamo dicendo è questo: noi abbiamo un sommo sacerdote così grande che si è assiso alla destra del trono della maestà nei cieli, ministro del santuario e della vera tenda che il Signore, e non un uomo, ha costruito. (8,1-2)

Il « pilastro » di 6,19-20, a sua volta, pare riecheggiare, al termine di un excursus che abbandona il tema sacerdotale, l’ultima apparizione della citazione di Sal 110,4 in 5,9-10.

[...] e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio « sommo sacerdote alla maniera di Melchisedek ». (5,9-10)

Il parallelo risulta ancora più marcato se si considera che reso perfetto può essere tradotto con consacrato [perfettamente] sacerdote. Possiamo costruire una tabella delle ricorrenze dei termini identici o sinonimi, seguendo la proposta di von Soden, ma integrandola coi testi che abbiamo aggiunto.

2,17-18 sommo sacerdote………………… …………….espiare
4,14-16 sommo sacerdote………… cieli………….. ..accostiamoci
5,9-10 sommo sacerdote……………………………….. .causa di salvezza
6,19-20 sommo sacerdote……….. santuario……. per noi precursore
8,1-2 s .sacerdote grande…………. santuario / cieli
10,1-23 sacerdote grande…………. Santuario…….entrare / accostiamoci

La successiva analisi strutturale ha avuto il merito di mostrare il ruolo di questi passaggi. Nello schema disegnato da A. Vanhoye, che mette in luce l’alternarsi di sezioni dottrinali (D) a sezioni parenetiche (E, vedi seconda colonna), la struttura concentrica e le corrispondenze speculari (ultima colonna), molti di essi hanno un ruolo chiave: (17)

a- 1,1-4 introduzione -cf. z
I-1,5-2,18- D il nome superiore a quello degli angeli-cf. V

[2,17-18 Annuncio delle due sezioni (A e B) della seconda parte]

II-3,1-4,14-Gesù Sommo Sacerdote degno di fede- cf. IV B.

[4,14 Conclusione-inclusione di A 4,15-16 Introduzione dià e parenesi]

-B.4,15-5,10 D -Gesù Sommo Sacerdote compassionevole-cf. IV A.

[5,9-10 Annuncio delle tre sezioni (A, B e C) della terza parte]

III-p.-5,11-6,20- E esortazione preliminare-f. III f.
-A. 7,1-28-D Gesù S.Sac. sec. l’ordine di Melchisedec- cf. III C.

[8,1 Introduzione generale alla "sezione centrale"]

-B. 8,1-9,28 D giunto al compimento-CENTRO
-C. 10,1-18 D causa di salvezza eterna- cf. III A. .
[10,19-25 Punto A dell'esortazione finale: passaggio dall'esposizione alla parenesi]
 

f. 10,19-39 E esortazione finale-cf. III p.
IV-A.-11,1-40-D la fede degli antenati-f. II B.
B. 12,1-13- la perseveranza necessaria-f. II A.
V-12,14-13,19-il sentiero-cf. I
z-13,20-21-conclusione-cf. a

Nella sua complessa discourse analysis di Ebrei, L.L. Neeley (18) scopre tre principali « discorsi incastrati » (ED: embedded discourses). Essi sono: ED1: 1,1-4,13; ED2: 4,14-10,18; ED3: 10,19-13,21. Questi si suddividono in ulteriori sottodiscorsi secondo due livelli subordinati, ad esempio ED2a, ED2b suddividibili in ED2a1, ED2a2, ecc. Uno dei principi base di questa analisi è che in un discorso una serie di tematiche possono incastrarsi e con esse degli excursus o sezioni che riportano materiale d’appoggio. Ma in tal caso è necessario che di tanto in tanto si ritorni al backbone, al tema di base, con ricapitolazioni e brevi sommari di questo, perché l’ascoltatore non si perda. Che fungano da introduzione o da conclusione, i brani segnalati sopra hanno evidentemente questa funzione, almeno quanto al discorso sacerdotale. Essa è segnalata – secondo il metodo Neeley – anche da particelle di richiamo: dunque (4,14; 10,19), infatti (6,19; 4,15), perciò (2,17). Simile, anche se basata su criteri lessicali più estesi, l’analisi di G.H. Guthrie.19 Nel registrare in uno schema generale il diverso tenore delle differenti sezioni di Ebrei, a seconda che gli paiano di indole esortativa o dogmatica, egli attribuisce a 2,18; 5,10; 6,13-20 e 10,19-25 il ruolo di chiusura di una sezione dogmatica: 10,19-25 ha nello stesso tempo quello di apertura della sezione seguente (è quindi una sorta di cerniera, overlap per Guthrie). Uguale funzione ha, pure se all’interno di una sezione dogmatica
omogenea, 4,14-16.

b. 2 La sinfonia e il « Leitmotiv »

La storia della ricerca fin qui brevemente riassunta ha permesso di evidenziare alcune caratteristiche della lettera agli Ebrei, che vale la pena di riassumere.
a. Pur nell’alternarsi delle diverse sezioni, non unitarie quanto a indole, (20) il « tema centrale » compare in brevi ricapitolazioni. (21) Come nei movimenti di una sinfonia, (22) il Leitmotiv emerge in momenti strategici per « condurre » l’ascoltatore, attraverso l’intreccio delle diverse fasi, all’acme dell’attenzione.
b. Tali brevi ricapitolazioni hanno una funzione strutturante: aprono o chiudono le maggiori suddivisioni, ne annunciano la tematica o la riprendono, spesso assicurano la transizione, sovrapponendo parole chiave (23) dei due sviluppi fra i quali fanno « cerniera ».
c. La loro presenza, tuttavia, denuncia indirettamente la coscienza del redattore di Ebrei circa il pericolo che il destinatario del suo messaggio si perda per gli eccessivi spostamenti del centro di interesse. Di qui la necessità di ripetuti richiami al backbone, al filone centrale dell’argomentazione.
Malgrado la scoperta di questi « pilastri », o grazie ad essa, il mistero letterario denunciato sopra resta intatto. La conclusione di Guthrie, il più recente ad averlo affrontato, non è molto positiva né incoraggiante, nel suo minimalismo:

Il discorso non fu concepito per accomodarsi al disegno ordinato e tematicamente progressivo che noi vorremmo. Fu pensato per avere un impatto su degli ascoltatori. Lo slittare avanti e indietro fra una esposizione logicamente condotta ed una esortazione che li sfidasse potrebbe essere stato altamente efficace. Il fatto che l’autore introduca la proclamazione del Figlio a sommo sacerdote (5,1-10) e poi, immediatamente, si interrompa per mettere gli uditori di fronte al loro problema concreto (5,11-6,3), può sconvolgere il nostro schema, ma potrebbe aver avuto un impatto retorico. (24)

La testimonianza che Guthrie porta è quella di san Giovanni Crisostomo (25) che, da quell’abile oratore che era, loda l’autore proprio a proposito dell’inserzione di 5,11-6,3 perché facendo così a lungo attendere il seguito del suo discorso ha ottimamente preparato l’uditorio ad accoglierlo. Ma questa annotazione dell’uomo dalla Bocca d’Oro chiede un minimo di critica: egli visse nel tempo in cui gli ultimi intellettuali pagani – quali Libanio, che gli fu probabilmente maestro di retorica – avversavano la povera oratoria semiticheggiante dei primi cristiani ed in essa vedevano una delle cause della corruzione culturale dell’Impero. Era uno dei punti caldi della Kulturkampf intentata da Giuliano l’Apostata e che, fra gli altri, costrinse anche Agostino a comporre il celebre De doctrina christiana, capolavoro di finezza e d’apologetica letteraria. Se Crisostomo sente il bisogno di segnalare il fenomeno, e di giustificarlo addirittura in una omelia pubblica (26) come se fosse in classe, è forse precisamente perché qualcosa suonava falso alle sue orecchie o a quelle del suo uditorio. E tanto può bastare anche come rispettosa critica a ricostruzioni di un ipotetico pubblico antico, opposto ad un « noi » detto dei moderni. (27)

b. 3 Un approccio « progressivo »

Dall’indagine di von Soden a quelle più vicine a noi, il problema letterario si è delineato, tuttavia, con sempre maggiore chiarezza. Ebrei appare come uno schedario – se mi è consentito un esempio irrispettoso – in cui, singolarmente prese, le schede sono ben fatte e per lo più coerentemente composte. Non sempre, ma si pensi ad esempio alla stupenda armonia del capitolo 11, ritmato dal ripetersi all’inizio di ogni periodo dell’espressione « per fede », interrotto solo ogni tanto per evitare la monotonia. Anche le suddivisioni dello schedario paiono ben collegate fra loro, almeno per gruppi tematici: sacerdozio, fede, liturgia celeste, perseveranza, ecc. Ma, nel nostro schedario, regna una notevole confusione: lo sviluppo di un tema si interseca con quello d’un altro, le connessioni sono spesso faticose. In vista di una soluzione, vale riconsiderare in prospettiva tematica i dati letterari cui sopra abbiamo fatto cenno. Confrontiamo il primo dei « pilastri » con quello che immediatamente gli fa seguito:

Perciò doveva esser fatto in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e fedele nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova. (2,17-18)
Poiché dunque abbiamo un grande sommo sacerdote, che ha attraversato i cieli, Gesù, Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della nostra fede.
Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in tutto, secondo similitudine, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno. (4,14-16)

Le espressioni in corsivo si ritrovano identiche nei due testi, ma, oltre al cambiamento di « luogo » che abbiamo registrato sopra, si noterà pure un sottile slittamento nella cristologia. In 2,17, l’ »esser fatto simile » (verbo homoioô all’aoristo passivo) è totale. Non è indispensabile vedere, in questo « passivo divino » (28), adombrato il mistero dell’incarnazione di un Messia preesistente: la volontà di Dio ha sancito che non fosse estraneo alla sua esperienza nulla di ciò che comporta l’essere umani proprio dei « fratelli ». (29) In 4,15 il kata panta « in tutto » è attribuito alla sola prova e limitato da « eccetto il peccato ». Forse, questa espressione è motivata dalla paura che la precedente inducesse a vedere in Gesù un uomo arrivato alla perfezione attraverso l’esperienza di « tutto » l’umano, e quindi dell’errore, del peccato. Ma ingenera un assurdo: Gesù non è stato provato « in tutto ». Ha subito l’oltraggio di una condanna infamante, dell’abbandono da parte degli amici, del tradimento, è vero. Forse ha anche dovuto subire le difficoltà di una vita raminga da pellegrino o da filosofo distaccato dagli onori: non fu un privilegiato. Ma non si può dire che abbia subito tutte le prove: non è stato militare, o schiavo, né ha patito le doglie del parto. Nello stesso versetto, kath’homoiotêta « secondo somiglianza » assume un curioso valore. È usato, il termine homoiotês, come se fosse un termine tecnico, la cui comprensione non necessita, per gli ascoltatori, d’altre determinazioni. (30) Le traduzioni, di solito, aggiungono « nostra », poiché per il lettore moderno la risonanza del vocabolo non è immediata. Nel testo greco di Gn 1,11-12, a proposito delle piante che si riproducono « secondo la propria specie », leggiamo kata genos kai kath’homoiotêta (genere e specie), ma parlando dell’uomo (Gn 1,26) la stessa traduzione greca preferisce homoiôsis di Dio. Se rinuncia a quest’ultima parola, che non sarebbe stata opportuna nel contesto della prova, può darsi senz’altro che Ebrei faccia allusione ad una traduzione greca di Gn 1,11-12 a noi sconosciuta o verta direttamente l’ebraico. È difficile sostenere tali ipotesi, poiché bisognerebbe supporre che un traduttore altro dai Settanta, rinunciando alla loro terminologia, ne abbia tuttavia seguito il metodo. La traduzione detta dei Settanta, infatti, sdoppia in kata genos kai kath’homoiotêta « secondo genere e specie » il semplice e meno filosofico leminhû « secondo la sua fattezza » dell’ebraico.
Ritengo sia più semplice pensare che 4,15 alluda al testo di 2,17 ed al linguaggio tecnico che ivi si riflette. Ma, se abbiamo dovuto valutare uno slittamento nel senso che assumono le parole in questo nuovo « arrangiamento », dobbiamo ammettere che Ebrei è stata « riscritta » da una seconda mano. L’analisi comparativa di due versetti non è ovviamente sufficiente a sostenere una opinione così radicale, ma se ritorniamo alle nostre precedenti considerazioni circa la presenza di due prospettive (le serie di testi che abbiamo raccolto nei gruppi I e II), questa impressione sembra confermarsi. 2,17, infatti, appartiene alla serie I e 4,14-16 alla serie II.
Uguali considerazioni si possono fare a proposito del « pilastro » 6,19-20 che rilancia la citazione di Sal 110,4 già presente in 5,10. A queste possiamo aggiungere che il cambiamento di prospettiva spazio-temporale conduce l’immagine all’assurdo. Rileggiamo quei versetti ed il
loro contesto:

Perciò Dio, volendo mostrare più chiaramente agli eredi della promessa l’irrevocabilità della sua decisione, intervenne con un giuramento perché grazie a due atti irrevocabili, nei quali è impossibile che Dio mentisca, noi che abbiamo cercato rifugio in lui avessimo un grande incoraggiamento nell’afferrarci saldamente alla speranza che ci è posta davanti. In essa infatti noi abbiamo come un’ ancora della nostra vita, sicura e salda, la quale penetra fin nell’interno del velo del santuario, dove Gesù è entrato per noi come precursore, essendo divenuto « sommo sacerdote per sempre alla maniera di Melchisedek ». (6,17-20)

Il testo stampato in caratteri normali corre sufficientemente logico, anche se dobbiamo considerare la parola « ancora » come metonimia (la parte per il tutto) dell’intero sistema d’ancoraggio: aggrapparsi all’ancora propriamente detta, infatti, vorrebbe dire annegare sicuramente, mentre si può immaginare che, su di una imbarcazione travolta dai flutti, « afferrarsi saldamente » alla gomena cui l’ancora è legata dia una certa sicurezza. Ma dove va poi a ficcarsi – è il caso di dirlo – quell’ancora nel testo stampato in corsivo? Evidentemente nel « santuario », oltre il « velo », che è come dire « in cielo », poiché è là che « Gesù è entrato per noi come precursore ». (31).
L’immagine risulta stiracchiata oltre il tollerabile da un richiamo al tema, secondo la prospettiva celeste dei testi della serie II, dopo che, a partire da 5,11, una sequenza di precauzioni oratorie aveva distolto l’attenzione da esso. Questa chiusa è ricalcata su 5,10, che invece appartiene ad un segmento di testo (5,1-10) ove, secondo la logica della serie I, l’offerta sacerdotale di Gesù si realizza « nei giorni della sua carne ».
Osservando un altro dei « pilastri » (10,19-25), nel suo contesto prossimo, notiamo che anch’esso è una zeppa, interrompe il corso dei pensieri, che trascriviamo in corsivo:

  »E non mi ricorderò più dei loro peccati e delle loro iniquità ». Ora, dove c’è il perdono di queste cose, non c’è più bisogno di offerta per il peccato.
(19) Avendo dunque, fratelli, piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, per questa via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne, avendo noi un sacerdote grande sopra la casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è fedele colui che ha promesso. Cerchiamo anche di stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone, senza disertare le nostre riunioni, come alcuni hanno l’abitudine di fare, ma invece esortandoci a vicenda; tanto più che potete vedere come il giorno si avvicina. (26) Infatti, se pecchiamo volontariamente dopo aver ricevuto la conoscenza della verità, non rimane più alcun sacrificio per i peccati, ma soltanto una terribile attesa del giudizio e la vampa di un fuoco che dovrà divorare i ribelli.

Il dunque del v. 19 non si ricollega alla frase precedente, sulla irripetibilità di una offerta per il peccato (tematica prossima a quella dei testi della serie I), mentre ad essa si connette piuttosto la particella « infatti » del v. 26. A meno di non ammettere che il peccato volontario imperdonabile sia la … diserzione delle riunioni comunitarie. In 10,19-25 abbiamo già notato l’insistenza sul sangue piuttosto che sul corpo (divenuto « velo ») e la collocazione celeste del sacrificio, mentre 10,1-18 insiste sull’opera di Gesù in terra (« entrando nel mondo Cristo dice: … ») e sull’offerta del corpo (« un corpo mi hai preparato »). Lo spezzone pare inserito, dunque, in un contesto che non gli è proprio. Ma vale osservare un ulteriore dato.
10,19-25 sembra ricapitolare una serie di affermazioni sparse nella lettera, come per cementarne i diversi elementi, prima di abbandonare in tutto, o quasi, il discorso sacerdotale. Notiamo i riferimenti letterali:

Avendo, dunque, fratelli piena libertà 3,1.12
per l’entrata nel santuario 8,2; 9,8.12.24
per mezzo del sangue di Gesù, 9,12.14
per questa via nuova e vivente 3,10; 9,8 (7,25; 4,12)
che egli ha inaugurato per noi 9,18
attraverso il velo, cioè la sua carne, 6,19; 9,3 (5,7)
avendo noi un sacerdote grande 4,14
sopra la casa di Dio, 3,6
accostiamoci con cuore sincero nella pienezza della fede, 4,16
con i cuori 3,12; 4,12; 8,10; 10,16
purificati 9,13.19.21
da ogni cattiva coscienza 9,9.14
e il corpo lavato con acqua pura. 9,19
Manteniamo senza vacillare 4,14
la professione della nostra speranza, 3,6
perché è fedele colui che ha promesso. 3,1; 6,13

Si noterà che, a parte il riferimento alla carne, che in 5,7 e 10,19 ha tuttavia funzione diversa (in 5,7 è il luogo del sacrificio, come sappiamo, in 10,19 deve invece essere attraversata, come il velo) ed una vaga allusione a 7,25 (« via vivente » che richiama « sempre vivente » detto del Cristo in 7,25), tutti i paralleli non banali (32) agganciano il nostro brano a tre categorie di testi:

a. I « pilastri » che abbiamo attribuito alla serie II (4,14-16; 6,19-20).
b. I capitoli 8 e 9. Il nono specialmente.
c. Il capitolo terzo, in cui inizia un discorso sulla fede che, almeno
immediatamente, si conclude in 4,12-13, il celebre inno alla « Parola viva
ed efficace », anch’esso richiamato.

Non una parola sui testi che abbiamo attribuito alla serie I. La ricapitolazione, di fatto, riguarda solo temi relativi alla liturgia celeste del Kippur e qualche elemento dello sviluppo sulla fede.
Prima di giungere ad una conclusione, ritorniamo a questo sviluppo, cui abbiamo accennato sopra al punto c. Esso è solo abbandonato in 4,13; riprenderà nel capitolo 11, la carrellata di personaggi dell’Antico Testamento, esempi di fede. Perché questo salto di sei capitoli? E perché un altro curioso fenomeno, ahimè rilevabile solo nel testo greco? Tutti i personaggi veterotestamentari sono nominati, anche più volte (Abramo, Mosè), non lo sono solamente i protagonisti dei vv. 28-29. Cerco di tradurre letteralmente: « Per fede egli fece la Pasqua e l’aspersione del sangue, perché lo sterminatore non toccasse i primogeniti loro (di chi?). Per fede essi (chi?) attraversarono il Mar Rosso come fosse terra asciutta: tentando di far lo stesso gli Egiziani furono inghiottiti ». « Egli » è Mosè, nominato poche righe prima. Quanto agli altri, noi sappiamo, ovviamente, di chi si tratta: della generazione uscita dall’Egitto. Ma perché non citarli e nominare, invece, gli Egiziani? L’imbarazzo dei traduttori moderni, che si sentono obbligati ad inserire la parola « Israeliti », è già in sé indicativo. Della generazione del deserto aveva già parlato lo spezzone 3,1-4,11, ma è troppo lontano (sei capitoli, appunto) perché basti una allusione.33 A meno che, in origine, i due testi non fossero più strettamente collegati ed una omelia sulla fede (e sulla mancanza di fede) si sviluppasse in una sorta di dittico a partire dalle memorie del passato: l’esempio negativo della prima generazione uscita con entusiasmo dalla schiavitù,34 ma poi caduta nella apistia, opposto a tanti modelli di fiducia eroica. Rendendosi conto di questa rottura tematica (ma lasciando come residuo gli « innominati »), chi ne fu all’origine ha sentito il bisogno di riprendere il tema abbandonato. Per questo ritornano certe espressioni del terzo capitolo. Chi ha avuto la pazienza di seguirmi sin qui, si sarà accorto che un « approccio progressivo » si è andato delineando. Cerchiamo di disegnarne le tappe.
a. Diverse prospettive teologiche e differenti tematiche combinate a scatola cinese rimandano come spiegazione naturale all’utilizzo, in fase di redazione, di materiale eterogeneo. Poco importa se proveniente dalla stessa mano, anche se in tal caso ci si potrebbe attendere una maggiore coerenza di terminologia e di composizione.
b. Una operazione redazionale, a partire dalla prospettiva teologica che si esprime pienamente nei capitoli otto e nove, ha unificato, in un solo percorso, materiale proveniente da uno scritto precedente. Forse 1,1-4, certamente 2,5-18; 5,1-10; 7,1-28; 10,1-18, ricalcando su 2,17-18 il « pilastro » 4,14-15 e su 5,10 quello di 6,19-20 ed, infine, « riassumendo » la sua opera in 10,19-25 e 13,10-15. La funzione di tali cerniere è precisamente quella di dare unità all’opera, come certi « raccordi » cronologici nei Vangeli, che la comparazione sinottica denunzia come artificiali. All’unità così ottenuta il redattore ha voluto aggiungere una omelia sulla fede, spezzata in due o più parti e probabilmente risalente allo stesso strato della prima omelia sul sacerdozio, ed altri commenti suoi (1,5-14, ad esempio). Questa operazione ha dato ad Ebrei il suo carattere vagamente concentrico, ma ne ha fatto un’opera da leggersi in poltrona e non un discorso da ascoltare.
c. Ad uno stadio successivo si può attribuire la trasformazione in « lettera », ad immagine di quelle di Paolo, forse addirittura conservando tratti autentici dell’Apostolo: il « biglietto » che tanto ha intrigato la critica. Il capitolo 13 ha subito, soprattutto, profonde trasformazioni, con l’inserzione delle raccomandazioni (ancora, secondo l’uso di Paolo), ma pure la pericope 5,11-6,20 è stata ritoccata. Quest’ultima rifinitura è forse responsabile dell’inserzione di Ebrei nell’epistolario paolino. Ipotesi basata su congetture, senza dubbio. Ma, a parte il fatto che l’antichità conosce questi fenomeni di « edizione » fondati più sull’amore alla verità che sul principio del copyright (35), essa permette di vedere un testo ed una teologia in crescita, ma ancora pieni di tensioni. L’ambiente ideale per collocare tale crescita è una comunità d’ambito paolino che, assieme all’Antico Testamento, rimedita i testi che in essa hanno preso forma e ne
sono diventati il deposito geloso. Preferisco questa immagine a quella dell’autore unico che ripensa la sua opera e la ritocca, poiché rende maggiormente ragione degli slittamenti terminologici e di una diversa concezione dell’opera nel suo insieme. Essa rende poi inutile la ricerca dei destinatari, salvo, forse, quanto all’ultimo ritocco epistolare.
Collocarsi al livello che ritengo più antico, quanto alla teologia del sacerdozio di Gesù, non significa, ovviamente, escludere gli sviluppi successivi da una corretta interpretazione del mistero, ma cercare di comprenderne l’origine. (36)

NOTE:

1. In particolare Eb 1,1-4; 2,5-18; 5,1-10; 7,1-28; 10,1-18.26-37. Un mio commento ad alcuni di questi passaggi è stato pubblicato in opere esegetiche (cf. Garuti P., “L’incipit della Lettera agli Ebrei (Eb 1,1-4)”, Sacra Doctrina 34/6 [1989] 533-556; “Ebrei 7,1-28: un problema giuridico”, Divus Thomas 97/8 [1994] 9-105; “Alcune strutture argomentative nella Lettera agli Ebrei”, Divus Thomas 98/10 [1995] 197-224), cui ci si potrà rifare per un approfondimento e per una bibliografia più completa.
2. Le note qui riassunte sono sviluppate nel terzo capitolo del mio commento retorico a Ebrei (Garuti P., Alle origini dell’omiletica cristiana. La lettera agli Ebrei. Note di analisi retorica (SBF.An 38), Gerusalemme 1995, 185-315).
3. Wrede W., Das literarische Rätsel des Hebräerbriefes (Forschungen zur Religion und Literatur des Alten und Neuen Testament 8), Göttingen 1906.
4. Cf. Burggaller E., “Das literarische Problem des Hebräerbriefes”, ZNW 9 (1908) 110-131.
5. Cf. Grässer E., “Neue Kommentare zum Hebräerbrief”, Theologische Rundschau 56 (1991) 113-139; An die Hebräer 1. Teilband: Hebr 1 – 6 (Evangelisch-Katholischer Kommentar zum Neuen Testament 17), Zürich – Neukirchen 1990, 13-38. Cf. Garuti P., LA 49 (1999) 237-258, “Strutture retoriche della Lettera agli Ebrei: alcuni recenti commentari” (Bulletin), RB 102 (1995) 154-156. 
6. Spicq C., L’Epître aux Hébreux. II. Commentaire, Paris 1953, 437 riporta simili frasi di cortese umiltà anche al termine di scritti piuttosto lunghi. Dal canto suo, Trudinger L.P., “Kai gar dia bracheôn epesteila hymin. A note on Hebrews xiii,22”, JTS 23 (1972) 128130, considera epesteila come “vi ho comandato” e non “vi ho inviato uno scritto” (= “vi ho scritto” nello stile epistolare) e ritiene che il “molto brevemente” sia relativo alle sole raccomandazioni contenute nel capitolo 13.
7. Anche Efesini, che pure inizia con una lunga benedizione in forma innica (Ef 1,3-14), fa precedere un indirizzo indicante l’autore, i destinatari ed un saluto.
8. Il favore degli antichi nell’attribuzione andava a Clemente Romano, a Luca o a Barnaba. Secondo Origene (in Eusebio III,38,2), Luca sarebbe il traduttore di uno scritto di Paolo, originariamente in ebraico. Questa opinione, diffusasi anche grazie all’autorità di Clemente d’Alessandria, non manca d’interesse, per i rapporti lessicali e stilistici che Ebrei pare avere e con Atti e con le Pastorali.
9. Il participio hêgoumenos con valore di « superiore », capo, si trova in Mt 2,6, citazione di Mi 5,1 « da te (Betlemme) sorgerà un capo », ma solo Luca lo attribuisce a persone aventi autorità in ambito ecclesiale. In At 15,22 Giuda chiamato Barsabba e Sila sono detti andras hêgoumenous en tois adelphois « uomini aventi autorità fra i fratelli », ma soprattutto Lc 22,26 presenta il logion di Gesù che in Mc 10,44 suona: « chi vuole essere il primo (prôtos) tra voi sarà il servo (doulos) di tutti » (cf. Mt 20,27), svolgendolo « il capo (ho êgoumenos) sia come chi serve (hôs ho diakonôn) ». Le altre ricorrenze del participio in Atti descrivono
Giuseppe « amministratore sull’Egitto » (7,10) e Paolo « prevalente » su Barnaba nel parlare (14,12: hêgoumenos tou logou).
10. Quintiliano (Institutio oratoria V,12,14; cf. VII,1,10) cita l’ordo homericus o « nestoriano » (dalla scelta di Nestore, in Iliade IV 291-300, di collocare alle ali del suo schieramento le truppe più forti) come il più conveniente. Un ordine che ponga gli argomenti più forti al principio può rivelarsi utile, mentre quello che li colloca alla fine del discorso è reso inefficace dal fatto che il pubblico arriva al « piatto forte » stremato da una
catena di futilità (cf. Cicerone de oratore II,314).
11. Sur l’Epître aux Hébreux, ad l., traduzione dell’autore.
12. Expositio super Epistolam S. Pauli Apostoli ad Hebraeos, Cap. VIII lect. I, traduzione e corsivo dell’autore. Di seguito, Tommaso deve affrontare l’ovvia obiezione che la carne di Cristo era ben terrestre. Ammettendo che materialiter lo era e che, per questo, è stata consegnata nelle mani degli empi (VulgGb 9,24: « terra data est in manus impii »), afferma che già per il mistero dell’incarnazione la si può dire celeste: era unita a Dio, era stata formata in Maria dallo Spirito Santo, era destinata ad acquistarci beni celesti e non terrestri. L’Aquinate sembra considerare lo stato di esaltazione del Figlio, cui allude Eb 8,2, come in continuità con il suo mistero terreno.
13. Soden H. von, Hebräerbrief, Briefe des Petrus, Jacobus, Judas (Hand-Kommentar zum Neuen Testament III/2), Freiburg 1892, 6-10. L’analisi retorica è giustamente stata rivalutata di recente, non tanto perché si supponga che lo scrittore sacro fosse tenuto a conoscere e seguire i dettami che ritroviamo nei manuali classici, da Aristotele a Quintiliano, ma perché questi descrivono le attese diffuse e condivise dall’omileta come dal suo uditorio. Per il suo carattere utilitario (politico, giuridico o celebrativo), infatti, il discorso « retorico » non può scostarsi troppo dal linguaggio comune. Per convincere l’interlocutore, sia questi un giudice, un’assemblea che deve decidere o il pubblico di una celebrazione ufficiale, non servono né il freddo linguaggio della dimostrazione scientifica (volta all’evidente, non al possibile o al probabile), né il volo poetico, ma un quid medium, che abbia il fascino della poesia ed una certa logicità, almeno apparente. Per il fatto che erano destinati ad educare il futuro politico o il futuro avvocato, i manuali dell’antichità classica offrono, appunto, un ritratto dei gusti letterari e della mentalità non tanto del « convincitore », quanto dei « convincibili » (il target, nel linguaggio pubblicitario), fra i quali possiamo collocare gli autori e i destinatari degli scritti neotestamentari.
14. Per comodità del lettore, le tre componenti del tema enucleato da von Soden sono presentate nei testi citati con fatture tipografiche differenti: Gesù è il sommo sacerdote per il quale abbiamo accesso al santuario.
15. Si vedano i riferimenti in Vanhoye A., La structure littéraire de l’Epître aux Hébreux, Clamency 21979, 16-17 ed Attridge H.W., Hebrews (Hermeneia), Philadelphia 1989, 16 nota 135.
16. Le nostre bibbie comunemente accludono i vv. 14-16 allo sviluppo del capitolo quinto, mostrandone l’unità tematica.
17. Cf. Vanhoye, La structure littéraire de l’Epître aux Hébreux, 59 e i titoletti nel testo greco strutturato alle pp. 274-303.
18. Neeley L.L., « A Discourse Analysis of Hebrews », OPTT 3-4 (1987) 1-146; si vedano soprattutto gli schemi alle pagine 41, 66, 86, 114.
19. Guthrie G.H., The Structure of Hebrews: A Text-Linguistic Analysis (Supplements to Novum Testamentum 73) Leiden 1994, 144 (schema riassuntivo).
 20. È questo uno dei maggiori elementi di diversificazione di Ebrei rispetto a Paolo. Nelle lettere dell’Apostolo, infatti, i temi squisitamente dottrinali occupano solitamente la prima arte dello sviluppo, mentre le raccomandazioni trovano posto alla fine dello scritto. Se questo non sempre è vero, lo si deve al carattere occasionale di alcune lettere (1Cor per esempio), che Paolo redige per intervenire in situazioni concrete.
21. In 8,1 il greco kephalaion è oggi abitualmente tradotto con « punto capitale », ma è una valutazione recente. Gli antichi commentatori esitano fra capitulum (traduzione letterale del termine greco, derivato diminutivo da kephalê « capo, testa ») nel senso di « ricapitolazione », e capitulum come sviluppo particolare all’interno d’uno svolgimento più ampio, senso passato all’italiano « capitolo ». L’antica interpretazione è la più corretta.
22. L’esempio è, in parte, tratto da Gutrie, The Structure of Hebrews, 147. 23. In uno studio giustamente celebre, L. Vaganay ha evidenziato la funzione di « parole rampino » (mots-crochet) che certi termini assumono nelle transizioni (cf. Vaganay L., « Le plan de l’Epître aux Hebreux », in AA.VV. Memorial Lagrange, Paris 1940, 269-277).
24. Guthrie, The Structure of Hebrews, 146.
25. Cf. Homilia in Epistolam ad Hebraeos XII, PG LXIII 423.
26. Le Homiliae su Ebrei non ci sono malauguratamente giunte di prima mano: dei discepoli le hanno compilate dai suoi appunti.
27. A rischio d’uscire di tema, segnalo agli appassionati che altri esegeti odierni che, come Guthrie, si rifanno giustamente alla retorica classica, tendono al contrario a prendere troppo sul serio i consigli che i manuali antichi danno circa la composizione di un discorso ordinato e conseguente, dimenticando che esiste un divario notevole fra scuola e vita e che molti trattatisti, forse per l’esser nati sotto il bel sole d’Italia, erano tanto rigidi nel dettare regole, quanto possibilisti nella pratica.
28. Spesso, nel N.T., un passivo senza complemento d’agente indica – evitando di nominarlo per rispetto – la persona di Dio in quanto operante.
 29. Forse, questa espressione è da prendersi come l’analogo aforisma di Terenzio: Homo sum, et nihil humani a me alienum puto « Sono uomo e non mi penso estraneo nulla d’umano ». Già la condizione di Re-Messia poteva indurre l’idea di un qualche privilegio o di qualche speciale segno della divina predilezione (cf. Sal 45, ove anche la bellezza fisica era vista come segno della regalità messianica). Per Gesù così non fu.
30. Quando uso un termine tecnico, all’interno di un dato linguaggio (« zona Cesarini », nell’ambito del linguaggio delle telecronache calcistiche, per esempio), faccio riferimento alla cosiddetta « enciclopedia », ovvero alle cognizioni condivise da un certo gruppo umano (i patiti del calcio, nel nostro esempio). Quando si analizza il Nuovo Testamento, i due ambiti linguistici cui si fa immediatamente riferimento sono, da un lato, l’Antico Testamento greco o ebraico e la meditazione rabbinica, dall’altro, il mondo greco-romano in un qualche suo aspetto. Dobbiamo, tuttavia, ammettere altre due possibilità: che il termine tecnico appartenga all’enciclopedia di un gruppo a noi sconosciuto (come era il linguaggio di Qumran prima che si scoprissero i rotoli del Mar Morto), oppure che, con lo svilupparsi della catechesi e della riflessione cristiana, l’enciclopedia cui si riferisce un testo tardivo sia costituita dal linguaggio notestamentario primitivo.
31. Salvare l’immagine marinaresca affermando – come in Spicq, L’Epître aux Hébreux, II. Commentaire, 164 – che per gli antichi ebrei sopra il firmamento era un oceano  significa obbligare ad un percorso mentale troppo tortuoso, poiché, in ogni caso, l’ancora trapassa il mare per approdare ad un santuario, mentre la base dell’immagine prevede che essa si arresti sul fondo, ma pur sempre nel mare.
32. Delle ricorrenze di « sacerdote » ho tenuto solo quelle con « sommo sacerdote grande ».
33. In quello sviluppo, poi, l’autore aveva piuttosto parlato del fallimento della marcia nel deserto (morirono tutti) e della non definitività, sul piano della salvezza, della conquista guidata da Giosuè. Abbastanza ovviamente, in 11,30, trasporta il popolo direttamente dal Mar Rosso a Gerico, dopo quell’esperienza ritenuta da lui negativa.
34. Pare essere un luogo comune della catechesi neotestamentaria, che confronta i fatti narrati soprattutto nel libro dei Numeri col Sal 78 (1Cor 10), col Sal 95 (Ebrei) o con Dt 18,15 (Gv 6).
35. L’Epistola detta di Barnaba e la lettera di Clemente ai Corinti hanno subito trasformazioni analoghe.
36. Dedico questo lavoro a mia sorella Elisabetta, al suo sposo Andrea ed ai loro bimbi, nel momento in cui si preparano ad un rinnovato impegno di cooperazione volontaria nello Zambia. 

Paolo Garuti, op
École Biblique et Archéologique Française, Jérusalem

San Girolamo : Taci ! Esci da quell’uomo »

dal sito:

http://www.vangelodelgiorno.org/www/main.php?language=IT&localTime=01/13/2009#

San Girolamo (347-420), sacerdote, traduttore della Bibbia, dottore della Chiesa
Commento sul vangelo di Marco, 2 ; PLS 2, 125s

« Taci ! Esci da quell’uomo »
«Gesù sgridò il demonio dicendo: «Taci ! Esci da quell’uomo». La verità non ha nessun bisogno della testimonianza del Menzoniere… «Non ho bisogno di essere riconosciuto da colui che destino alla perdizione. Taci! La mia gloria scoppi nel tuo silenzio. Non voglio che la tua voce faccia il mio elogio, bensì i tuoi tormenti; il mio trionfo infatti è il tuo strazio… Taci ! Esci da quell’uomo!» Sembra dire : «Esci da casa mia, cosa fai sotto il mio tetto? Io desidero entrare: allora, taci, e esci da quell’uomo, dall’uomo, da quell’essere dotato di ragione. Lascia questa dimora preparata per me. Il Signore desidera la sua casa: esci da quell’uomo»…

Vedete quanto l’anima dell’uomo sia preziosa. Questo si oppone a coloro che pensano che noi, uomini, e gli animali, siamo dotati di un’animo simile e che siamo animati da un medesimo spirito. In un altro momento, il demonio viene scacciato fuori da un uomo per essere mandato in una mandria di duemila porci (Mt 8,32); lo spirito prezioso si oppone allo spirito vile, l’uno è salvato, l’altro è rovinato. «Esci da quell’uomo, entra nei porci, va dove vuoi, vatene nelle abissi. Lascia l’uomo, perché sarebbe un’ingiuria per me che ti installassi in lui al posto mio. Ho assunto un corpo umano, abito nell’uomo. Esci da quell’uomo».

Liturgia, tempo liturgico: IN LITURGIA L’ORDINARIO…DIVENTA STRAORDINARIO!

non c’è  la data di questo scritto, presumo l’anno scorso, dal sito:

http://www.parrocchiasantaluciafermo.it/files/Tempo%20Ordinario%201luglio08.pdf

IN LITURGIA L’ORDINARIO…DIVENTA STRAORDINARIO!  

Da qualche settimana stiamo vivendo un tempo liturgico particolare: un tempo che noi chiamiamo Ordinario…ma che è ben più importante di una semplice copertura di una parte dell’anno civile.

Per prima cosa c’è da ricordare che il Tempo Ordinario è scandito dalle Domeniche: celebrazioni settimanali del Mistero di Cristo che si manifesta che appare anche oggi dopo la sua risurrezione nel cenacolo in cui si raduna la comunità cristiana. Poi, sempre nel Tempo Ordinario, la Chiesa fa memoria in alcune date particolari della Beata Vergine Maria e di alcuni Santi.

Per tracciare un profilo storico del Tempo Ordinario, possiamo rifarci a San Paolo e alla sua instancabile opera di ricentramento della vita delle comunità Cristiane sul Mistero di Cristo che esse credono e che celebrano: le feste sono si importanti, ma al di là della festa c’è da salvaguardare l’aspetto di permanenza che il Mistero di Cristo ha per tutta la durata del tempo umano (a questo proposito utile è leggere Gal. 4,10-11 e Col. 2,16).

Potremmo dire che a Paolo sta a cuore che le comunità cristiane siano capaci di fare una esperienza permanente di Cristo, quotidiana, perché il Mistero del Risorto coinvolge l’uomo nella sua interezza e nella totalità di quel tempo in cui egli vive; questo al di là di occasioni particolari, extra-ordinarie.

Dal II secolo possiamo vedere, come prassi abbastanza affermata dalla Didakè (cap. 8), che ci sono giorni particolari in cui si fanno digiuni due volte alla settimana per ricordare il tradimento di Gesù prima della cena pasquale e la Passione del Signore; però il centro della vita del Cristiano, sin dalle origini, è la Domenica.

Fatta salva la Domenica che dà luce a tutta la settimana, ben presto si inizia a conferire valore particolare ai giorni feriali:

o Alcuni (quasi tutti) vengono dedicati alle memorie dei Martiri e dei Santi;
o altri sono considerato importanti per due generi di motivi:
1. in relazione alla Domenica: quindi il Venerdì memoria della Passione,
il Sabato memoria di Maria…
2. in relazione alle devozioni ad alcuni Santi o a particolari aspetti della
fede (non ci dimentichiamo che la Domenica assumerà anch’essa un
aspetto devozionale: non più giorno del Signore Risorto, ma giorno in
cui si venera la Trinità).

Questo nell’antichità.

Oggi non abbiamo più una sistematizzazione devozionale del calendario feriale del Tempo Ordinario: è possibile quindi agire con molta libertà nella scelta dei testi del Lezionario e dell’eucologia (le preghiere della Messa). 

Il Tempo Ordinario oggi comprende 34 o 33 settimane. Comincia il lunedì dopo la domenica che segue il 6 gennaio, e si protrae fino all’inizio della Quaresima; riprende poi il lunedì dopo la domenica di Pentecoste e termina il sabato che precede la prima domenica di Avvento.

Credo che il punto di forza di questo Tempo Ordinario sia quello che inizialmente potrebbe sembrare una debolezza. Non avendo una specificità, una connotazione particolare come i tempi liturgici forti, esso, con maggiore determinazione, esprime quanto la lettera agli Ebrei ci ha tramandato: « Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre! » (Eb. 13,8).

La Chiesa, in esso, celebra gli eventi fondamentali che ci hanno dimostrato la fedeltà di Dio alla nostra vita: primo fra tutti l’evento di salvezza operato dalla risurrezione del Signore…questa salvezza non è qualche cosa di confinato in un angolo del tempo o di astratto, ma nella concretezza della nostra quotidianità, noi possiamo fare esperienza della fedeltà del Signore verso di noi e leggere l’ineluttabile trascorrere del kronos, del tempo cronologico, come l’occasione che Dio coglie di farci esperire la sua misericordia questo è il kairos): in questo senso il tempo assume una connotazione fortemente sacramentale.

Nella Liturgia delle Ore quotidiana, abbiamo continuamente davanti a noi gli eventi di questa salvezza; ogni giorno è pieno del Mistero Pasquale di Gesù:

o Alle Lodi: facciamo memoria della risurrezione del Signore sin dal mattino in
cui i nostri occhi si aprono a contemplare il nuovo giorno: in esso il sole che
sorge ci fa ricordare il nuovo astro che per noi è sorto, Cristo Gesù che
illumina di novità la nostra esistenza per mezzo della luce sfolgorante della
sua risurrezione.
o A Terza: facciamo memoria della Pentecoste.
o A Sesta: facciamo memoria dell’Ascensione
o A Nona: ricordiamo la morte del Signore.
o A Vespro ricordiamo il Sacrificio di Gesù consumatosi sulla Croce per salvare
noi dalla notte del male e del peccato; a lui eleviamo la preghiera dei discepoli
di Emmaus: « Rimani con noi, perché si fa sera… » (Lc. 24,29).
o A Mattutino: I cristiani vegliano in preghiera, perché attendono di essere
introdotti nel giorno senza tramonto, quando l’umanità intera entrerà nel
riposo di Dio (Cfr. Prefazio X delle Domeniche del T.O.).

Per quanto riguarda l’Eucaristia quotidiana essa è il kairos, (il tempo opportuno in cui Dio agisce) per eccellenza: il Mistero Pasquale viene ad illuminare tutta la nostra vita nel nostro quotidiano abbracciare la croce e morire, per risorgere con lui.

In questo senso l’Eucaristia accolta nella ferialità, si fa viatico (pane del viaggio) di noi, popolo pellegrinante sulla terra e ci dona il coraggio della carità del Signore, segno escatologico per l’umanità, che attende da noi il senso del proprio quotidiano pellegrinare. 

Don Osvaldo Riccobelli

1...678910...13

Une Paroisse virtuelle en F... |
VIENS ECOUTE ET VOIS |
A TOI DE VOIR ... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | De Heilige Koran ... makkel...
| L'IsLaM pOuR tOuS
| islam01