Archive pour janvier, 2009

SABATO 17 GENNAIO 2009 – PRIMA SETTIMANA DEL T.O.

SABATO 17 GENNAIO 2009 – PRIMA SETTIMANA DEL T.O.

SANT’ANTONIO ABATE (m)

MESSA DEL GIORNO

Prima Lettura   Eb 4, 12-16
Accostiamoci con piena fi

SABATO 17 GENNAIO 2009 – PRIMA SETTIMANA DEL T.O.

ducia al trono della grazia.

Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Non v’è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e a lui noi dobbiamo rendere conto.
Poiché dunque abbiamo un grande sommo sacerdote, che ha attraversato i cieli, Gesù, Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della nostra fede.
Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, come noi, escluso il peccato.
Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno.

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dalla «Vita di sant’Antonio» scritta da sant’Atanasio vescovo
(Capp. 2-4; PG 26, 842-846)

La vocazione di sant’Antonio
Dopo la morte dei genitori, lasciato solo con la sorella ancor molto piccola, Antonio, all’età di diciotto o vent’anni, si prese cura della casa e della sorella. Non erano ancora trascorsi sei mesi dalla morte dei genitori, quando un giorno, mentre si recava, com’era sua abitudine, alla celebrazione eucaristica, andava riflettendo sulla ragione che aveva indotto gli apostoli a seguire il Salvatore, dopo aver abbandonato ogni cosa. Richiamava alla mente quegli uomini, di cui si parla negli Atti degli Apostoli che, venduti i loro beni, ne portarono il ricavato ai piedi degli apostoli, perché venissero distribuiti ai poveri. Pensava inoltre quali e quanti erano i beni che essi speravano di conseguire in cielo.
Meditando su queste cose entrò in chiesa, proprio mentre si leggeva il vangelo e sentì che il Signore aveva detto a quel ricco: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri, poi vieni e seguimi e avrai un tesoro nei cieli» (Mt 19, 21).
Allora Antonio, come se il racconto della vita dei santi gli fosse stato presentato dalla Provvidenza e quelle parole fossero state lette proprio per lui, uscì subito dalla chiesa, diede in dono agli abitanti del paese le proprietà che aveva ereditato dalla sua famiglia — possedeva infatti trecento campi molto fertili e ameni — perché non fossero motivo di affanno per sé e per la sorella. Vendette anche tutti i beni mobili e distribuì ai poveri la forte somma di denaro ricavata, riservandone solo una piccola parte per la sorella.
Partecipando un’altra volta all’assemblea liturgica, sentì le parole che il Signore dice nel vangelo: «Non vi angustiate per il domani» (Mt 6, 34). Non potendo resistere più a lungo, uscì di nuovo e donò anche ciò che gli era ancora rimasto. Affidò la sorella alle vergini consacrate a Dio e poi egli stesso si dedicò nei pressi della sua casa alla vita ascetica, e cominciò a condurre con fortezza una vita aspra, senza nulla concedere a se stesso.
Egli lavorava con le proprie mani: infatti aveva sentito proclamare: «Chi non vuol lavorare, neppure mangi» (2 Ts 3, 10). Con una parte del denaro guadagnato comperava il pane per sé, mentre il resto lo donava ai poveri.
Trascorreva molto tempo in preghiera, poiché aveva imparato che bisognava ritirarsi e pregare continuamente (cfr. 1 Ts 5, 17). Era così attento alla lettura, che non gli sfuggiva nulla di quanto era scritto, ma conservava nell’animo ogni cosa al punto che la memoria finì per sostituire i libri. Tutti gli abitanti del paese e gli uomini giusti, della cui bontà si valeva, scorgendo un tale uomo lo chiamavano amico di Dio e alcuni lo amavano come un figlio, altri come un fratello.

GIOVEDÌ 15 GENNAIO 2009 – PRIMA SETTIMANA DEL T.O.

GIOVEDÌ 15 GENNAIO 2009 – PRIMA SETTIMANA DEL T.O.

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dal «Discorso contro i pagani» di sant’Atanasio, vescovo
(Nn. 40-42; PG 25, 79-83)

Il Verbo del Padre tutto abbellisce, dispone e contiene
Il Padre del Signore nostro Gesù Cristo, nella sua bontà infinita, è di gran lunga superiore a tutte le cose create. Ottimo sovrano qual è , con la sua sapienza e con il suo Verbo, cioè con il Signore nostro e Salvatore Gesù Cristo, governa, ordina e crea in ogni luogo tutte le cose, secondo che si addice alla sua giustizia. Infatti è giusto che le cose siano fatte così come lo sono, e che si compiano come noi le vediamo compiute. Poiché è lui che ha voluto che tutto accada in questo modo e nessuno può avere un motivo ragionevole per negarlo. Infatti se il movimento delle cose create avvenisse senza ragione e il mondo girasse alla cieca, non si dovrebbe più credere nulla di quanto è stato detto. Ma se il mondo è stato organizzato con sapienza e conoscenza ed è stato riempito di ogni bellezza, allora si deve dire che il creatore e l’artista è il Verbo di Dio.
Io penso al Dio vivente e operante, al Verbo del Dio buono, del Dio dell’universo, al Dio che è distinto e differente da tutte le cose create e da tutta la creazione.
E’ lui il solo e proprio Verbo del Padre, lui che ha ordinato l’universo e lo ha illuminato con la sua provvidenza. E’ lui il Verbo buono del Padre buono. E’ lui che ha dato ordine a tutto il creato, conciliando fra loro gli opposti elementi e componendo ogni cosa armonicamente. Egli è l’unico, l’Unigenito, il Dio buono, che procede dal Padre come da fonte di bontà e ordina e contiene l’universo.
Dopo aver fatto tutte le cose per mezzo del verbo eterno e aver dato esistenza alla creazione, Dio Padre non lascia andare ciò che ha fatto alla deriva, né lo abbandona a un cieco impulso naturale che lo faccia ricadere nel nulla. Ma, buono com’è, con il suo Verbo, che è anche Dio, guida e sostenta il mondo intero, perché la creazione, illuminata dalla sua guida, dalla sua provvidenza e dal suo ordine, possa persistere nell’essere. Anzi il mondo diviene partecipe del Verbo del Padre, per essere da questi sostenuto e non cessare di esistere. Ciò certamente accadrebbe se non fosse conservato dal Verbo, perché egli è «immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura» (Col 1, 15); poiché per mezzo di lui e in lui hanno consistenza tutte le cose sia quelle visibili che quelle invisibili, poiché egli è il capo della Chiesa, come nelle Sacre Scritture insegnano i ministri della verità (cfr. Col 1, 16-189.
L’onnipotente e santissimo Verbo del Padre, penetrando tutte le cose, e arrivando ovunque con la sua forza, dà luce ad ogni realtà e tutto contiene e abbraccia in se stesso. Non c’è essere alcuno che si sottragga al suo dominio. Tutte le cose da lui ricevono interamente la vita e da lui in essa vengono mantenute: le creature singole nella loro individualità e l’universo creato nella sua globalità.

UNA ARTICOLO SULL’O.R. DI OGGI PER DOMANI LA « GIORNATA DELL’EBRAISMO », PAPA BENEDETTO: « UN’IATANZA DEL CUORE », LINK

SABATO 17 GENNAIO – GIORNATA DELL’EBRAISMO

La dedizione di Benedetto XVI per il dialogo fra ebrei e cattolici

« Un’istanza del cuore « di Norbert J. Hofman


Segretario della Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo

LINK ALL’OSSERVATORE ROMANO DI OGGI:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/text.html#4
 

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Sant’Ambrogio : « Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati »

dal sito:

http://www.vangelodelgiorno.org/www/main.php?language=IT&localTime=01/17/2009#

Sant’Ambrogio (circa 340-397), vescovo di Milano e dottore della Chiesa
Commento sul vangelo di Luca, 5, 23.27 ; SC 45, 191s

« Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati »
L’apostolo Paolo ha detto: «Vi siete spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo» (Col 3,9-10)… Tale è stata l’opera compiuta da Cristo quando ha chiamato Levi; l’ha rimodellato e ha fatto di lui un uomo nuovo. Per cui in quanto creatura nuova, l’ex-pubblicano offre un banchetto a Cristo, perché Cristo si compiace in lui e perché lui stesso merita di partecipare alla felicità con Cristo… Ora lo segue, felice, allegro, traboccante di gioia.

«Non porto più la maschera del pubblicano, diceva; non porto più il vecchio Levi; ho spogliato Levi, rivestendo Cristo. Sfuggo la mia vita di prima, voglio seguire soltanto te, Signore Gesù, che guarisci le mie ferite. Chi mi separerà dall’amore di Dio, che è in te? Forse la tribolazione, l’angoscia, la fame? Sono attaccato a te dalla fede, come da chiodi, sono trattenuto dai buoni legami dell’amore. Tutti i tuoi comandamenti saranno come un cauterio che terrò applicato sulla mia ferita; il rimedio duole come morsicasse, ma toglie l’infezione dell’ulcera. Togli dunque, Signore Gesù, con la tua spada potente, la putredine dei miei peccati; vieni presto a incidere le passioni nascoste, segrete, molteplici. Purifica ogni infezione con il lavacro nuovo.

«Ascoltatemi, uomini attaccati alla terra, con il pensiero ubriacato dai vostri peccati. Anch’io, Levi, ero ferito da passioni simili. Ma ho trovato il medico che abita in cielo e elargisce i suoi rimedi sulla terra. Lui solo può guarire le mie ferite perché ne è esente: lui solo può togliere dal cuore il dolore e dall’anima il languore, perché conosce quanto è nascosto.

Mitzvà – Viaggio intimo e profondo nell’essere-ebreo [articolo di giornale]

mi è capitato di leggere questo articolo, mi ha affascinato, devo approfondire il pensiero del giornalista e dello scrittore del libro, quindi, per il momento non ho un giudizio mio, mi è piaciuto e ve lo propongo; San Paolo è appena citato, ma nel sottofondo del pensiero comunque, e comunque nelle relazioni con il popolo di Israele, inevitabilmente, ci sta;

http://www.loccidentale.it/articolo/viaggio+intimo+e+profondo+nell%27essere-ebreo.0057819#comment-63383

Mitzvà – Viaggio intimo e profondo nell’essere-ebreo

Cultura – ebraismo
elkann – libri
  
di Raffaele Iannuzzi -
14 Settembre 2008 [articolo del]

Ho riscoperto un piccolo libro di Alain Elkann, Mitzvà, edito da Bompiani nel 2004. Il tema è l’ebraismo, anzi l’essere ebreo o, come credo dovremmo dire: l’essere-ebreo, con quel trattino che racchiude l’essere e la condizione particolare di estraneità e appartenenza alla Promessa, che sigla la verità dell’ebraismo.

Mitzvà “vuol dire insieme senso del dovere, carità, rispetto di Dio e degli altri” (p.79). E’ l’atto di suprema giustizia che apre il cuore dell’uomo alla grazia, unica, di vedere nel volto dell’altro il tracciato di redenzione segnato da Dio. L’essere-ebreo è condizione che mi ha sempre perturbato e commosso. Ai tempi dell’università, a Pisa, divoravo, con un carissimo amico, oggi agregé de philosophie in Francia, Benjamin, con un ardore che, noi atei, potevamo sentire per quel tanto di alterità che l’essere-ebreo comporta. Non c’è ateismo che tenga: l’ebraicità è condizione ontologica, ecco perché quel trattino è fondamentale: essere-ebreo. Benjamin, sul piano della teologia cattolica, che amo e studio, sapendo di essere ancora troppo poco illuminato come credente, è una summa di eresie, ma non riesco a disfarmene e me lo tengo stretto.

Amo meno Ernst Bloch, che trovo troppo marxisteggiante quando fa l’ebreo e troppo messianico quando spiega il mondo. Elkann è ebreo e sente questa condizione come natura: “Ritengo che ognuno debba vivere come è nato, perché, se è nato in quel modo, ci deve essere una ragione che non spetta a noi capire” (p.60). E’ teologia naturale, questa, e senso della nascita che designa un’alterità, ma è, insieme, quel disegno originario da rispettare e che faceva rileggere il Talmud ad uno dei più grandi filosofi del ‘900, Lévinas, come se, dentro quelle pagine, vi fosse la realtà soda, tutt’intera, la sabbia del deserto e la scienza del mondo, la Kabbala attraversata da Scholem, non a caso fraterno amico di Benjamin. Le amicizie, nella vita e nei disegni divini, sono segnavia per la redenzione.

Noi siamo spiritualmente dei semiti, affermava Pio XI: ho sentito questa frase, meravigliosa, da don Giussani, e non l’ho mai dimenticata. Ho ritrovato in essa quel senso di riscoperta della sabbia del deserto calcato da Gesù e quella fede di Maria, che costituisce la porta vivente dell’incarnazione di Dio. La mia autenticità abbraccia quella degli altri e, per Elkann, essere ebreo significa essere se stesso. Ognuno deve stare al suo posto e ritrovare tutto il mondo negli occhi della scoperta originaria, dello stupore estatico. L’ebreo errante è la figura che ricalca la nomadicità degli uomini che conquistano il deserto e lo riempiono di frutta, come nella profezia di Isaia, la terra dove sgorga latte e miele; ma l’appartenenza alla Promessa è la rivelazione di Dio. Gesù è ebreo e questo fatto – fatto! – desta stupore ancora oggi. Perché ebreo, Gesù? Perché l’assegnazione di un posto tra quelle mura, Gerusalemme, con quella lingua scarna, di cui ho digerito, con fatica, i significati, affrontando l’Antico Testamento nella lingua dei padri? Perché? Lévinas ha posto la domanda centrale, che, paradossalmente, mi ha reso intimo con gli ebrei: perché un Dio-uomo? Scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani, dice san Paolo. Ma incarnazione significa la sabbia del deserto, la Palestina e Gerusalemme.

Le pagine di Mitzvà sembrano mantenere questi nodi grumosi e affascinanti sullo sfondo, mentre la vita fa il suo corso e l’autobiografia decide tempi e modi narrativi, ma balza come un’ulteriorità, ai miei occhi, un distinto senso religioso, una domanda inestinguibile di verità, fondata sulla fede nel Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Fede di un uomo moderno e laico, laicamente appassionato alla condizione moderna e viaggiatore per destino e scelta, ma pur sempre fede. La religiosità significa vivere il reale fino in fondo, fin nei suoi più minuti dettagli. L’essere-ebreo e la Berakhà, la benedizione che Dio ha riversato sui Suoi eletti, prima di tutto, ed Elkann è un Cohen che può dare la benedizione. Bene-dire è il sì alla vita, essenziale atto che recupera il divino in noi. E la vita è pesante, nel senso di consistente, materica, non materiale, spirituale e, per ciò, densa, kabbed, è l’imperativo usato dall’ebraico biblico per soppesare il valore, direi ontologico, del padre e della madre, come prescrive il quarto comandamento: onora tuo padre e tua madre – kabbed – soppesa, metti sulla bilancia e osserva, guarda, quantifica i valori di ciò che vedi. Così mi insegnava Virgilio Galli, discepolo di don Zeno di Nomadelfia, e grande esperto di ebraismo, amante di Israele – come chi scrive –, spiritualmente – e forse non solo spiritualmente – semita. Il peso e il valore dei guerrieri democratici che hanno difeso Israele, il popolo eletto e la comunità concreta, democratica, di fronte agli attacchi dei nemici, nella Guerra dei Sei Giorni: il generale Moshe Dayan, soprattutto, un simbolo, un eroe, che mio padre, che oggi non c’è più, ammirava come un eroe risorgimentale italiano. La benda del soldato sull’occhio perso in battaglia e il coraggio di non piegare mai le ginocchia. Di fronte a nessuno. Quando la furia nazista ha disseminato di morte e vergogna l’Europa, occupata a contrattare il male minore – questa è la Shoà -, l’essere spiritualmente dei semiti si è ricongiunto, in qualche modo, con l’essere-ebreo, con il trattino. Una novità assoluta nell’universo umano e religioso, un ponte ben più forte del dialogo interreligioso come mantra cosmopolita. Il silenzio di Dio, come ricordò Giovanni Paolo II, non lasciò indifferenti i cristiani, e disegnò un futuro possibile. Una Mitzvà

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Catechismo della Chiesa cattolica: « Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati »

dal sito:

http://www.vangelodelgiorno.org/www/main.php?language=IT&localTime=01/16/2009#

Catechismo della Chiesa cattolica
§ 976-982

« Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati »
«Credo la remissione dei peccati». Il Simbolo degli Apostoli lega la fede nel perdono dei peccati alla fede nello Spirito Santo, ma anche alla fede nella Chiesa e nella comunione dei santi. Proprio donando ai suoi Apostoli lo Spirito Santo, Cristo risorto ha loro conferito il suo potere divino di perdonare i peccati: « Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi » (Gv 20,22-23).

«Un solo Battesimo per la remissione dei peccati»: Nostro Signore ha legato il perdono dei peccati alla fede e al Battesimo: « Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo » (Mc 16,15-16). Il Battesimo è il primo e principale sacramento per il perdono dei peccati perché ci unisce a Cristo messo a morte per i nostri peccati e risuscitato per la nostra giustificazione, affinché « anche noi possiamo camminare in una vita nuova » (Rm 6,4). « La remissione dei peccati nella Chiesa avviene innanzi tutto quando l’anima professa per la prima volta la fede. Con l’acqua battesimale, infatti, viene concesso un perdono talmente ampio che non rimane più alcuna colpa — né originale né ogni altra contratta posteriormente — e viene rimessa ogni pena da scontare… La grazia del Battesimo, peraltro, non libera la nostra natura dalla sua debolezza; anzi non vi è quasi nessuno » che non debba lottare « contro la concupiscenza, fomite continuo del peccato ».
In tale combattimento contro l’inclinazione al male, chi potrebbe resistere con tanta energia e con tanta vigilanza da riuscire ad evitare ogni ferita del peccato? « Fu quindi necessario che nella Chiesa vi fosse la potestà di… perdonare a qualsiasi peccatore pentito i peccati commessi dopo il Battesimo, fino all’ultimo giorno della vita ».  È per mezzo del sacramento della Penitenza che il battezzato può essere riconciliato con Dio e con la Chiesa…

Non c’è nessuna colpa, per grave che sia, che non possa essere perdonata dalla santa Chiesa. « Non si può ammettere che ci sia un uomo, per quanto infame e scellerato, che non possa avere con il pentimento la certezza del perdono ». Cristo, che è morto per tutti gli uomini, vuole che, nella sua Chiesa, le porte del perdono siano sempre aperte a chiunque si allontani dal peccato.

Mercoledì, 18 febbraio 1987 [Cristo come sacerdote ]

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/1987/documents/hf_jp-ii_aud_19870218_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 18 febbraio 1987 [Cristo come sacerdote firma2.jpg ]

1. Il nome “Cristo” che, come sappiamo, è l’equivalente greco della parola “Messia”, cioè “Unto”, oltre al carattere “regale”, di cui abbiamo trattato nella catechesi precedente, include, secondo la tradizione dell’Antico Testamento, anche quello “sacerdotale”. Quali elementi appartenenti alla medesima missione messianica, i due aspetti, diversi tra loro, sono tuttavia complementari. La figura del Messia, delineata nell’Antico Testamento, li comprende entrambi manifestando l’unità profonda della missione regale e sacerdotale.

2. Questa unità ha la sua prima espressione, quasi un prototipo e una anticipazione, in Melchisedek, re di Salem, misterioso contemporaneo di Abramo. Di lui leggiamo nel Libro della Genesi, che uscendo incontro ad Abramo, “offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abramo con queste parole: Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra” (Gen 14, 18-19).

La figura di Melchisedek, re-sacerdote, entrò nella tradizione messianica, come attesta anzitutto il salmo 109 – il salmo messianico per antonomasia -. In questo salmo infatti, Dio-Jahvè si rivolge “al mio Signore” (cioè al Messia) con le parole: “Siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi. Lo scettro del tuo potere stende il Signore da Sion: “Domina in mezzo ai tuoi nemici . . .” (Sal 110, 1-2).

A queste espressioni, che non possono lasciare alcun dubbio sul carattere regale di colui, al quale Jahvè si rivolge, segue il preannunzio: “Il Signore ha giurato e non si pente: Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedek” (Sal 110, 4). Come si vede, colui al quale Dio-Jahvè si rivolge, invitandolo a sedere “alla sua destra”, sarà nello stesso tempo re e sacerdote “al modo di Melchisedek”.

3. Nella storia di Israele l’istituzione del sacerdozio dell’antica alleanza ha inizio nella persona di Aronne, fratello di Mosè, e sarà ereditariamente legata con una delle dodici tribù d’Israele, quella di Levi.

A questo proposito, è significativo quel che leggiamo nel Libro del Siracide: “(Dio) innalzò Aronne . . . suo fratello (cioè di Mosè), della tribù di Levi. Stabilì con lui un’alleanza perenne e gli diede il sacerdozio tra il popolo . . .” (Sir 45, 6-7). “(Il Signore) lo scelse tra tutti i viventi perché gli offrisse sacrifici, incenso e profumo come memoriale e perché compisse l’espiazione per il suo popolo. Gli affidò i suoi comandamenti, il potere sulle prescrizioni del diritto, perché insegnasse a Giacobbe i decreti e illuminasse Israele nella sua legge” (Sir 45, 16-17). Deduciamo da questi testi che l’elezione sacerdotale è in funzione del culto, per l’offerta dei sacrifici dell’adorazione e dell’espiazione, e che a sua volta il culto è legato all’insegnamento su Dio e sulla sua Legge.

4. Sempre nello stesso contesto sono significative anche; queste parole del Libro del Siracide: “Ci fu (da parte di Dio) anche una alleanza con Davide . . . la successione regale dal padre a uno solo dei figli, la successione di Aronne a tutta la sua discendenza” (Sir 45, 25).

Secondo questa tradizione, il sacerdozio si colloca “accanto” alla dignità regale. Ora Gesù non proviene dalla stirpe sacerdotale, dalla tribù di Levi, ma da quella di Giuda, per cui non sembra che il carattere sacerdotale del Messia gli si addica. I suoi contemporanei scoprono in lui anzitutto il maestro, il profeta, alcuni addirittura il loro “re”, erede di Davide. Si direbbe dunque che in Gesù la tradizione di Melchisedek, il re-sacerdote, è assente.

5. È tuttavia un’assenza apparente. Gli avvenimenti pasquali svelarono il vero senso del “Messia-re” e del “re-sacerdote al modo di Melchisedek” che, presente nell’Antico Testamento, ha trovato il suo compimento nella missione di Gesù di Nazaret. È significativo che durante il processo davanti al sinedrio, al sommo sacerdote che gli chiede: “. . . se tu sei Cristo, il Figlio di Dio”, Gesù risponde: “Tu l’hai detto . . . anzi io vi dico: d’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio . . .” (Mt 26, 63-64). È un chiaro riferimento al salmo messianico (Sal 110), nel quale trova espressione la tradizione del re-sacerdote.

6. Si deve tuttavia dire che la piena manifestazione di questa verità si trova soltanto nella Lettera agli Ebrei”, che affronta il rapporto tra il sacerdozio levitico e quello di Cristo.

L’autore della Lettera agli Ebrei tocca il tema del sacerdozio di Melchisedek, per dire che in Gesù Cristo si è compiuto il preannuncio messianico legato a questa figura, che per predestinazione superiore già dai tempi di Abramo era stata iscritta nella missione del popolo di Dio.

Leggiamo infatti di Cristo che “. . . reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote alla maniera di Melchisedek” (Eb 5, 9-10). Quindi, dopo aver ricordato ciò che su Melchisedek scrive il Libro della Genesi (Gen 14, 18), la Lettera agli Ebrei continua “. . . il suo nome tradotto significa re di giustizia, inoltre è anche re di Salem, cioè re di pace. Egli, senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio, rimane sacerdote in eterno” (Eb 7, 2-3).

7. Facendo poi uso di analogie con il rituale del culto, con l’arca e con i sacrifici dell’antica alleanza, l’autore della Lettera agli Ebrei presenta Gesù Cristo come il compimento di tutte le figure e le promesse dell’Antico Testamento, ordinato “a un servizio che è una copia e un’ombra delle realtà celesti” (Eb 8, 5). Cristo invece, sommo sacerdote misericordioso e fedele (Eb 2, 17; cf. 3, 2. 5), porta in sé un “sacerdozio che non tramonta” (Eb 7, 24), avendo offerto “se stesso senza macchia a Dio” (Eb 9, 14).

8. Vale la pena di riportare per intero alcuni brani particolarmente eloquenti di questa Lettera. Entrando nel mondo Gesù Cristo dice a Dio suo Padre:

“Tu non hai voluto né sacrificio, né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10, 5-7).

“Tale era infatti il sommo sacerdote che ci occorreva” (Eb 7, 26). “. . . Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e fedele nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo” (Eb 2, 17). Abbiamo dunque “un sommo sacerdote . . . provato in ogni cosa, come noi, escluso il peccato”, un sommo sacerdote che sa “compatire le nostre infermità” (Eb 4, 15).

9. Leggiamo più avanti che tale sommo sacerdote, “non ha bisogno ogni giorno, come gli altri sommi sacerdoti, di offrire sacrifici prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo, poiché egli ha fatto questo una volta per tutte, offrendo se stesso” (Eb 7, 27). E ancora: “Cristo, venuto come sommo sacerdote dei beni futuri . . . entrò una volta per sempre nel santuario . . . con il proprio sangue, dopo averci ottenuto una redenzione eterna” (Eb 9, 11-12). Di qui la nostra certezza che “il sangue di Cristo, il quale con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente” (Eb 9, 14).

Si spiega così l’attribuzione al sacerdozio di Cristo di una perenne forza salvifica, per cui “. . . può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, essendo sempre vivo per intercedere a loro favore” (Eb 7, 25).

10. Possiamo infine osservare che nella Lettera agli Ebrei viene affermato in modo netto e convincente, che Gesù Cristo ha compiuto con tutta la sua vita, e soprattutto con il sacrificio della croce, ciò che è stato iscritto nella tradizione messianica della rivelazione divina. Il suo sacerdozio è messo in riferimento al servizio rituale dei sacerdoti dell’antica alleanza, che però viene da lui oltrepassato, come sacerdote e come vittima. In Cristo dunque viene adempiuto l’eterno disegno di Dio che dispose l’istituzione del sacerdozio nella storia dell’alleanza.

11. Secondo la Lettera agli Ebrei il compimento messianico è simboleggiato dalla figura di Melchisedek. Vi si legge infatti che per volontà di Dio “sorge, a somiglianza di Melchisedek, un sacerdote differente, che non è diventato tale per ragione di una prescrizione carnale (ossia per istituzione legale) ma per la potenza di una vita indefettibile!” (Eb 7, 15-16). Si tratta dunque di un sacerdozio eterno (Eb 7, 3.24).

La Chiesa, custode e interprete fedele di questi e di altri testi contenuti nel Nuovo Testamento, ha riaffermato a più riprese la verità del Messia-Sacerdote, come attestano, ad esempio, il Concilio ecumenico di Efeso (431), quello di Trento (1562) e, ai nostri giorni, il Concilio Vaticano II (1962-65).

Una evidente testimonianza di questa verità la troviamo nel sacrificio eucaristico che per istituzione di Cristo la Chiesa offre ogni giorno sotto le specie del pane e del vino, cioè “al modo di Melchisedek”.

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 18 febbraio 1987

1. Il nome “Cristo” che, come sappiamo, è l’equivalente greco della parola “Messia”, cioè “Unto”, oltre al carattere “regale”, di cui abbiamo trattato nella catechesi precedente, include, secondo la tradizione dell’Antico Testamento, anche quello “sacerdotale”. Quali elementi appartenenti alla medesima missione messianica, i due aspetti, diversi tra loro, sono tuttavia complementari. La figura del Messia, delineata nell’Antico Testamento, li comprende entrambi manifestando l’unità profonda della missione regale e sacerdotale.

2. Questa unità ha la sua prima espressione, quasi un prototipo e una anticipazione, in Melchisedek, re di Salem, misterioso contemporaneo di Abramo. Di lui leggiamo nel Libro della Genesi, che uscendo incontro ad Abramo, “offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abramo con queste parole: Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra” (Gen 14, 18-19).

La figura di Melchisedek, re-sacerdote, entrò nella tradizione messianica, come attesta anzitutto il salmo 109 – il salmo messianico per antonomasia -. In questo salmo infatti, Dio-Jahvè si rivolge “al mio Signore” (cioè al Messia) con le parole: “Siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi. Lo scettro del tuo potere stende il Signore da Sion: “Domina in mezzo ai tuoi nemici . . .” (Sal 110, 1-2).

A queste espressioni, che non possono lasciare alcun dubbio sul carattere regale di colui, al quale Jahvè si rivolge, segue il preannunzio: “Il Signore ha giurato e non si pente: Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedek” (Sal 110, 4). Come si vede, colui al quale Dio-Jahvè si rivolge, invitandolo a sedere “alla sua destra”, sarà nello stesso tempo re e sacerdote “al modo di Melchisedek”.

3. Nella storia di Israele l’istituzione del sacerdozio dell’antica alleanza ha inizio nella persona di Aronne, fratello di Mosè, e sarà ereditariamente legata con una delle dodici tribù d’Israele, quella di Levi.

A questo proposito, è significativo quel che leggiamo nel Libro del Siracide: “(Dio) innalzò Aronne . . . suo fratello (cioè di Mosè), della tribù di Levi. Stabilì con lui un’alleanza perenne e gli diede il sacerdozio tra il popolo . . .” (Sir 45, 6-7). “(Il Signore) lo scelse tra tutti i viventi perché gli offrisse sacrifici, incenso e profumo come memoriale e perché compisse l’espiazione per il suo popolo. Gli affidò i suoi comandamenti, il potere sulle prescrizioni del diritto, perché insegnasse a Giacobbe i decreti e illuminasse Israele nella sua legge” (Sir 45, 16-17). Deduciamo da questi testi che l’elezione sacerdotale è in funzione del culto, per l’offerta dei sacrifici dell’adorazione e dell’espiazione, e che a sua volta il culto è legato all’insegnamento su Dio e sulla sua Legge.

4. Sempre nello stesso contesto sono significative anche; queste parole del Libro del Siracide: “Ci fu (da parte di Dio) anche una alleanza con Davide . . . la successione regale dal padre a uno solo dei figli, la successione di Aronne a tutta la sua discendenza” (Sir 45, 25).

Secondo questa tradizione, il sacerdozio si colloca “accanto” alla dignità regale. Ora Gesù non proviene dalla stirpe sacerdotale, dalla tribù di Levi, ma da quella di Giuda, per cui non sembra che il carattere sacerdotale del Messia gli si addica. I suoi contemporanei scoprono in lui anzitutto il maestro, il profeta, alcuni addirittura il loro “re”, erede di Davide. Si direbbe dunque che in Gesù la tradizione di Melchisedek, il re-sacerdote, è assente.

5. È tuttavia un’assenza apparente. Gli avvenimenti pasquali svelarono il vero senso del “Messia-re” e del “re-sacerdote al modo di Melchisedek” che, presente nell’Antico Testamento, ha trovato il suo compimento nella missione di Gesù di Nazaret. È significativo che durante il processo davanti al sinedrio, al sommo sacerdote che gli chiede: “. . . se tu sei Cristo, il Figlio di Dio”, Gesù risponde: “Tu l’hai detto . . . anzi io vi dico: d’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio . . .” (Mt 26, 63-64). È un chiaro riferimento al salmo messianico (Sal 110), nel quale trova espressione la tradizione del re-sacerdote.

6. Si deve tuttavia dire che la piena manifestazione di questa verità si trova soltanto nella Lettera agli Ebrei”, che affronta il rapporto tra il sacerdozio levitico e quello di Cristo.

L’autore della Lettera agli Ebrei tocca il tema del sacerdozio di Melchisedek, per dire che in Gesù Cristo si è compiuto il preannuncio messianico legato a questa figura, che per predestinazione superiore già dai tempi di Abramo era stata iscritta nella missione del popolo di Dio.

Leggiamo infatti di Cristo che “. . . reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote alla maniera di Melchisedek” (Eb 5, 9-10). Quindi, dopo aver ricordato ciò che su Melchisedek scrive il Libro della Genesi (Gen 14, 18), la Lettera agli Ebrei continua “. . . il suo nome tradotto significa re di giustizia, inoltre è anche re di Salem, cioè re di pace. Egli, senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio, rimane sacerdote in eterno” (Eb 7, 2-3).

7. Facendo poi uso di analogie con il rituale del culto, con l’arca e con i sacrifici dell’antica alleanza, l’autore della Lettera agli Ebrei presenta Gesù Cristo come il compimento di tutte le figure e le promesse dell’Antico Testamento, ordinato “a un servizio che è una copia e un’ombra delle realtà celesti” (Eb 8, 5). Cristo invece, sommo sacerdote misericordioso e fedele (Eb 2, 17; cf. 3, 2. 5), porta in sé un “sacerdozio che non tramonta” (Eb 7, 24), avendo offerto “se stesso senza macchia a Dio” (Eb 9, 14).

8. Vale la pena di riportare per intero alcuni brani particolarmente eloquenti di questa Lettera. Entrando nel mondo Gesù Cristo dice a Dio suo Padre:

“Tu non hai voluto né sacrificio, né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10, 5-7).

“Tale era infatti il sommo sacerdote che ci occorreva” (Eb 7, 26). “. . . Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e fedele nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo” (Eb 2, 17). Abbiamo dunque “un sommo sacerdote . . . provato in ogni cosa, come noi, escluso il peccato”, un sommo sacerdote che sa “compatire le nostre infermità” (Eb 4, 15).

9. Leggiamo più avanti che tale sommo sacerdote, “non ha bisogno ogni giorno, come gli altri sommi sacerdoti, di offrire sacrifici prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo, poiché egli ha fatto questo una volta per tutte, offrendo se stesso” (Eb 7, 27). E ancora: “Cristo, venuto come sommo sacerdote dei beni futuri . . . entrò una volta per sempre nel santuario . . . con il proprio sangue, dopo averci ottenuto una redenzione eterna” (Eb 9, 11-12). Di qui la nostra certezza che “il sangue di Cristo, il quale con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente” (Eb 9, 14).

Si spiega così l’attribuzione al sacerdozio di Cristo di una perenne forza salvifica, per cui “. . . può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, essendo sempre vivo per intercedere a loro favore” (Eb 7, 25).

10. Possiamo infine osservare che nella Lettera agli Ebrei viene affermato in modo netto e convincente, che Gesù Cristo ha compiuto con tutta la sua vita, e soprattutto con il sacrificio della croce, ciò che è stato iscritto nella tradizione messianica della rivelazione divina. Il suo sacerdozio è messo in riferimento al servizio rituale dei sacerdoti dell’antica alleanza, che però viene da lui oltrepassato, come sacerdote e come vittima. In Cristo dunque viene adempiuto l’eterno disegno di Dio che dispose l’istituzione del sacerdozio nella storia dell’alleanza.

11. Secondo la Lettera agli Ebrei il compimento messianico è simboleggiato dalla figura di Melchisedek. Vi si legge infatti che per volontà di Dio “sorge, a somiglianza di Melchisedek, un sacerdote differente, che non è diventato tale per ragione di una prescrizione carnale (ossia per istituzione legale) ma per la potenza di una vita indefettibile!” (Eb 7, 15-16). Si tratta dunque di un sacerdozio eterno (Eb 7, 3.24).

La Chiesa, custode e interprete fedele di questi e di altri testi contenuti nel Nuovo Testamento, ha riaffermato a più riprese la verità del Messia-Sacerdote, come attestano, ad esempio, il Concilio ecumenico di Efeso (431), quello di Trento (1562) e, ai nostri giorni, il Concilio Vaticano II (1962-65).

Una evidente testimonianza di questa verità la troviamo nel sacrificio eucaristico che per istituzione di Cristo la Chiesa offre ogni giorno sotto le specie del pane e del vino, cioè “al modo di Melchisedek”.

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