Archive pour décembre, 2008

Riflessione di Benedetto XVI sul mistero del Natale

dal sito: 

http://www.zenit.org/article-16545?l=italian

Riflessione di Benedetto XVI sul mistero del Natale

Intervento in occasione dell’Udienza generale

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 17 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi pronunciata questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale svoltasi nell’aula Paolo VI.

Nel discorso in lingua italiana, il Santo Padre si è soffermato sul mistero del Natale ormai prossimo.

* * *

Cari fratelli e sorelle!

Iniziano proprio oggi i giorni dell’Avvento che ci preparano immediatamente al Natale del Signore: siamo nella Novena di Natale che in tante comunità cristiane viene celebrata con liturgie ricche di testi biblici, tutti orientati ad alimentare l’attesa per la nascita del Salvatore. La Chiesa intera in effetti concentra il suo sguardo di fede verso questa festa ormai vicina predisponendosi, come ogni anno, ad unirsi al cantico gioioso degli angeli, che nel cuore della notte annunzieranno ai pastori l’evento straordinario della nascita del Redentore, invitandoli a recarsi nella grotta di Betlemme. Là giace l’Emmanuele, il Creatore fattosi creatura, avvolto in fasce e adagiato in una povera mangiatoia (cfr Lc 2,13-14).

Per il clima che lo contraddistingue, il Natale è una festa universale. Anche chi non si professa credente, infatti, può percepire in questa annuale ricorrenza cristiana qualcosa di straordinario e di trascendente, qualcosa di intimo che parla al cuore. E’ la festa che canta il dono della vita. La nascita di un bambino dovrebbe essere sempre un evento che reca gioia; l’abbraccio di un neonato suscita normalmente sentimenti di attenzione e di premura, di commozione e di tenerezza. Il Natale è l’incontro con un neonato che vagisce in una misera grotta. Contemplandolo nel presepe come non pensare ai tanti bambini che ancora oggi vengono alla luce in una grande povertà, in molte regioni del mondo? Come non pensare ai neonati non accolti e rifiutati, a quelli che non riescono a sopravvivere per carenza di cure e di attenzioni? Come non pensare anche alle famiglie che vorrebbero la gioia di un figlio e non vedono colmata questa loro attesa? Sotto la spinta di un consumismo edonista, purtroppo, il Natale rischia di perdere il suo significato spirituale per ridursi a mera occasione commerciale di acquisti e scambi di doni! In verità, però, le difficoltà, le incertezze e la stessa crisi economica che in questi mesi stanno vivendo tantissime famiglie, e che tocca l’intera l’umanità, possono essere uno stimolo a riscoprire il calore della semplicità, dell’amicizia e della solidarietà, valori tipici del Natale. Spogliato delle incrostazioni consumistiche e materialistiche, il Natale può diventare così un’occasione per accogliere, come regalo personale, il messaggio di speranza che promana dal mistero della nascita di Cristo.

Tutto questo però non basta per cogliere nella sua pienezza il valore della festa alla quale ci stiamo preparando. Noi sappiamo che essa celebra l’avvenimento centrale della storia: l’Incarnazione del Verbo divino per la redenzione dell’umanità. San Leone Magno, in una delle sue numerose omelie natalizie, così esclama: «Esultiamo nel Signore, o miei cari, ed apriamo il nostro cuore alla gioia più pura. Perché è spuntato il giorno che per noi significa la nuova redenzione, l’antica preparazione, la felicità eterna. Si rinnova infatti per noi nel ricorrente ciclo annuale l’alto mistero della nostra salvezza, che, promesso, all’inizio e accordato alla fine dei tempi, è destinato a durare senza fine» (Homilia XXII). Su questa verità fondamentale ritorna più volte san Paolo nelle sue lettere. Ai Galati, ad esempio, scrive: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge…perché ricevessimo l’adozione a figli» (4,4). Nella Lettera ai Romani evidenzia le logiche ed esigenti conseguenze di questo evento salvifico: «Se siamo figli (di Dio), siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» (8,17). Ma è soprattutto san Giovanni, nel Prologo del quarto Vangelo, a meditare profondamente sul mistero dell’Incarnazione. Ed è per questo che il Prologo fa parte della liturgia del Natale fin dai tempi più antichi: in esso si trova infatti l’espressione più autentica e la sintesi più profonda di questa festa e del fondamento della sua gioia. San Giovanni scrive: «Et Verbum caro factum est et habitavit in nobis / E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14).

A Natale dunque non ci limitiamo a commemorare la nascita di un grande personaggio; non celebriamo semplicemente ed in astratto il mistero della nascita dell’uomo o in generale il mistero della vita; tanto meno festeggiamo solo l’inizio della nuova stagione. A Natale ricordiamo qualcosa di assai concreto ed importante per gli uomini, qualcosa di essenziale per la fede cristiana, una verità che san Giovanni riassume in queste poche parole: « il Verbo si è fatto carne ». Si tratta di un evento storico che l’evangelista Luca si preoccupa di situare in un contesto ben determinato: nei giorni in cui fu emanato il decreto per il primo censimento di Cesare Augusto, quando Quirino era già governatore della Siria (cfr Lc 2,1-7). E’ dunque in una notte storicamente datata che si verificò l’evento di salvezza che Israele attendeva da secoli. Nel buio della notte di Betlemme si accese, realmente, una grande luce: il Creatore dell’universo si è incarnato unendosi indissolubilmente alla natura umana, sì da essere realmente « Dio da Dio, luce da luce » e al tempo stesso uomo, vero uomo. Quel che Giovanni, chiama in greco « ho logos » – tradotto in latino « Verbum » e in italiano « il Verbo » – significa anche « il Senso ». Quindi potremmo intendere l’espressione di Giovanni così: il « Senso eterno » del mondo si è fatto tangibile ai nostri sensi e alla nostra intelligenza: ora possiamo toccarlo e contemplarlo (cfr 1Gv 1,1). Il « Senso » che si è fatto carne non è semplicemente un’idea generale insita nel mondo; è una « Parola » rivolta a noi. Il Logos ci conosce, ci chiama, ci guida. Non è una legge universale, in seno alla quale noi svolgiamo poi qualche ruolo , ma è una Persona che si interessa di ogni singola persona: è il Figlio del Dio vivo, che si è fatto uomo a Betlemme.

A molti uomini, ed in qualche modo a noi tutti, questo sembra troppo bello per essere vero. In effetti, qui ci viene ribadito: sì, esiste un senso, ed il senso non è una protesta impotente contro l’assurdo. Il Senso ha potere: è Dio. Un Dio buono, che non va confuso con un qualche essere eccelso e lontano, a cui non ci sarebbe mai dato di arrivare, ma un Dio che si è fatto nostro prossimo e ci è molto vicino, che ha tempo per ciascuno di noi e che è venuto per rimanere con noi. E’ allora spontaneo domandarsi: « E’ mai possibile una cosa del genere? E’ cosa degna di Dio farsi bambino? ». Per cercare di aprire il cuore a questa verità che illumina l’intera esistenza umana, occorre piegare la mente e riconoscere la limitatezza della nostra intelligenza. Nella grotta di Betlemme, Dio si mostra a noi umile « infante » per vincere la nostra superbia. Forse ci saremmo arresi più facilmente di fronte alla potenza, di fronte alla saggezza; ma Lui non vuole la nostra resa; fa piuttosto appello al nostro cuore e alla nostra libera decisione di accettare il suo amore. Si è fatto piccolo per liberarci da quell’umana pretesa di grandezza che scaturisce dalla superbia; si è liberamente incarnato per rendere noi veramente liberi, liberi di amarlo.

Cari fratelli e sorelle, il Natale è un’opportunità privilegiata per meditare sul senso e sul valore della nostra esistenza. L’approssimarsi di questa solennità ci aiuta a riflettere, da una parte, sulla drammaticità della storia nella quale gli uomini, feriti dal peccato, sono perennemente alla ricerca della felicità e di un senso appagante del vivere e del morire; dall’altra, ci esorta a meditare sulla bontà misericordiosa di Dio, che è venuto incontro all’uomo per comunicargli direttamente la Verità che salva, e per renderlo partecipe della sua amicizia e della sua vita. Prepariamoci, pertanto, al Natale con umiltà e semplicità, disponendoci a ricevere in dono la luce, la gioia e la pace, che da questo mistero si irradiano. Accogliamo il Natale di Cristo come un evento capace di rinnovare oggi la nostra esistenza. L’incontro con il Bambino Gesù ci renda persone che non pensano soltanto a se stesse, ma si aprono alle attese e alle necessità dei fratelli. In questa maniera diventeremo anche noi testimoni della luce che il Natale irradia sull’umanità del terzo millennio. Chiediamo a Maria Santissima, tabernacolo del Verbo incarnato, e a san Giuseppe, silenzioso testimone degli eventi della salvezza, di comunicarci i sentimenti che essi nutrivano mentre attendevano la nascita di Gesù, in modo che possiamo prepararci a celebrare santamente il prossimo Natale, nel gaudio della fede e animati dall’impegno di una sincera conversione.

Buon Natale a tutti!

Conversion of Saul – by Gustave Doré

Conversion of Saul - by Gustave Doré dans immagini e testi, vAct0903Dore_ConversionOfSaul

http://www.creationism.org/images/DoreBibleIllus/index.htm

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Ruperto di Deutz : « Sarano benedette per la tua discendenza tutte le nazioni della terra » (Gen 28,14) (1Cor)

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/www/main.php?language=FR&localTime=12/17/2008#

Ruperto di Deutz (circa 1075-1130), monaco benedettino
De Divinis Officiis, 3, 18

« Sarano benedette per la tua discendenza tutte le nazioni della terra » (Gen 28,14)

Ci viene letta la genealogia di Cristo nel vangelo di san Matteo. Questo uso, tradizionale nella santa Chiesa, è ricca di motivi belli e misteriosi. In verità infatti, questa lettura ci presenta la scala che di notte vide Giacobbe, durante il sonno (Gen 28,11s). In cima a questa scala che raggiungeva il cielo, il Signore appoggiato su di essa apparve a Giacobbe e gli promise in eredità la terra… Ora, lo sappiamo, «tutte queste cose accaddero a loro come esempio» (1 Cor 10,11). Cosa dunque prefigurava questa scala se non la stirpe dalla quale Gesù Cristo sarebbe dovuto nascere, stirpe che il santo evangelista, per bocca divina, ha fatto elevarsi in modo che raggiungesse Cristo passando attraverso Giuseppe? Su Giuseppe, il Signore bambino è appoggiato. Per la «porta del cielo» (Gen 28,17)… cioè per la Beata Vergine, il nostro Signore fattosi per noi bambino, esce piangendo. Nel suo sonno, Giacobbe ha udito il Signore dirgli: «Per la tua discendenza saranno benedette tutte le nazioni della terra», e ora questo fatto è adempiuto nella nascità di Cristo.

Proprio questo aveva in vista l’evangelista, quando inseriva nominalmente nella sua genealogia Racab la prostituta e Rut la moabita; vedeva bene infatti che Cristo non era venuto nella carne per i soli giudei, ma anche per i pagani, lui che si è degnato di ricevere delle pagane tra i suoi antenati. Venuti dunque da tutti e due popoli, cioè dai giudei e dai pagani, come dai due lati della scala, gli antichi padri, posti ai differenti gradi, sostengono Cristo Signore che esce dall’alto del cielo. E tutti i santi angeli scendono e salgono lungo questa scala, e tutti gli eletti sono presi nel moto di discesa, per ricevere umilmente la fede nell’incarnazione del Signore, e sono poi elevati per contemplare la gloria della sua divinità.

SU GALATI 4,4 – UN TESTO PER IL NATALE

SU GALATI  4,4 – UN TESTO PER IL NATALE 

 « nato da donna, nato sotto la legge » 

di Padre ALBERTO VALENTINI, monfortiano, biblista, 

GAL 4,4 – NATO DA DONNA – LETTURE INTERDISCIPLINARI 

Rivista Theotokos, Anno I- 1993/2 – Editoriale 

pagg. 3-6 

Il testo di Galati 4,4ss appare emblematico: vi è racchiuso, per così dire, il mistero di Maria, donna umile e sublime. Colei che primeggia tra i poveri del Signore ed è l’eccelsa Figlia di Sion e la kecharitoméne. [NOTA]  Gli studiosi si accostano a questa pericope con molta circospezione: premettono che essa si riferisce a Maria solo in maniera indiretta, quasi incidentale, ma finiscono generalmente con accenti di entusiasmo, che possono anche lasciare perplessi: Essi parlano, in conclusione, di « preziosissima testimonianza di Paolo », di mariologia in germe, di condensato e anticipo degli sviluppi presenti nei vangeli dell’infanzia. « Dal punto di vista dogmatico – afferma G. Söll – l’enunciato di Gal 4,4 è il testo mariologicamente più significativo del NT… Con Paolo ha inizio l’aggancio della mariologia con la cristologia, proprio mediate l’attestazione della divina maternità di Maria e la prima intuizione di una considerazione storico-salvifica del suo significato ». Effettivamente il testo di Galati presenta una sintesi notevole, di tale densità da orientare validamente la mariologia di ogni tempo. Se ci si fosse attenuti a tali linee sobrie, ma di straordinaria concretezza, la storia della mariologia sarebbe probabilmente ben diversa. Il « mistero » della donna in Gal 4,4ss è totalmente inserito in un disegno cristologico-trinitario-ecclesiale. La donna, di cui non si menziona neppur il nome – ma tutti sanno chi sia – è interamente al servizio dell’evento salvifico che impegna la stessa Trinità ed è a vantaggio di tutti gli uomini. Ella è coinvolta nella realtà della pienezza del tempo, decisa non dalla semplice maturazione della storia, né da eventi mondani e da scelte umane, ma dalla libertà e sovrana decisione del Padre di inviare il proprio Figlio. La missione del Figlio di Dio non è conseguenza della pienezza del tempo, ma è proprio il suo ingresso nella storia che realizza tale pienezza, trasformando il chrónos in kairó. « Il tempo della fine è il tempo in cui il « principio » divino della nostra esistenza, Gesù Cristo, è penetrato in essa. La comparsa di Gesù Cristo in questo eone si basa sull’atto dell’invio e consiste nell’incarnazione. Il Figlio di Dio così inviato, si inserisce nella natura umana, determinata dalla donna, come il «   (H. Schlier).  Il testo di Galati è pieno di paradossi e di confronti sconcertanti. Da una parte c’è Dio, il Padre, che prende l’iniziativa e invia il Figlio nel mondo; dall’altra c’è la donna, e con lei la condizione di fragilità, caducità, povertà radicale. Nascendo da donna, il Figlio di Dio nasce sotto la Legge, in condizione di non libertà – secondo la visione paolina – pur essendo erede e il Signore di tutto (cfr. Gal 4,1). C’è in questo evento l’infinita condiscendenza del Padre e la kénosi estrema del Figlio. Nella donna si nasconde la povertà della terra, con la quale, tuttavia, Dio non ha mai cessato di dialogare e nella quale, realizzando la pienezza del tempo, va ad abitare. Se è paradossale il fatto che il Figlio di Dio nasca da donna, sotto la legge, in condizione di fragilità e di schiavitù, non è meno paradossale la logica che intende redimere gli uomini e renderli figli proprio attraverso tale condivisione di povertà esistenziale e non-libertà. Come può un nato da donna conferire la dignità di figli di Dio, e come può uno schiavo liberare quanti attendono di essere affrancati? Nella nascita del Figlio di Dio dalla donna e nell’assunzione della condizione di schiavitù si manifesta effettivamente il mistero della follia di Dio che è più sapiente degli uomini e della debolezza di Dio che è più forte degli uomini (cfr. 1Cor 1,25). La donna diventa così il segno visibile della kénosi di Dio, ma anche l’itinerario attraverso il quale gli uomini possono ottenere la loro dignità. Parafrasando l’antico afflato liturgico, si può affermare che il Figlio di Dio è nato da dona perché tutti i figli di donna siano resi figli di Dio. E a coloro che sono diventati tali, il Padre (che ha inviato il Figlio) invia lo Spirito, come garanzia e sigillo di libertà. Animati dallo Spirito del Signore, essi possono finalmente gridare l’Abbà della confidenza, in totale parresia  e nell’inconcussa certezza di essere non più schiavi, ma figli ed eredi, per grazia di Dio.  Colpisce in questo testo « mariologico » il protagonismo trinitario, del Padre, del Figlio e dello Spirito. Da questo punto di vista siamo di fronte ad una testimonianza esemplare dell’agire divino nell’opera della salvezza.  Anzitutto il Padre, il quale appare con evidenza come l’iniziatore e il perfezionatore della salvezza. Le due proposizioni principali che costruiscono i pilastri della pericope di Gal 4,4-7, hanno per soggetto il Padre e per verbo principale l’ « inviare », concernete la missione del Figlio e dello Spirito. Il Padre non soltanto si trova in posizione dominante, come soggetto dei verbi principali, ma è collocato all’inizio e alla fine dei vv. 4-7, formando una significativa inclusione. Egli appare con evidenza – lo ribadiamo – come il principio e il fine dell’opera salvifica. Anche il Figlio, ovviamente, ha una posizione di rilievo: il testo è marcatamente cristologico e il riferimento al Figlio è posto al centro del discorso, tra il Padre e lo Spirito. Egli appare implicitamente nella sua preesistenza divina ed esplicitamente nel suo essere « nato da donna ». È l ‘ »inviato » del Padre, il redentore e colui che comunica agli uomini la figliolanza divina. Il Figlio di Dio incarnato è operatore della nostra salvezza.  L’invio del Figlio, atto escatologico di Dio, che ha posto fine alla schiavitù dell’umanità con la grazia della dignità filiale, non esaurisce tuttavia il dono di Dio. La condizione di figliolanza richiede la presenza dello Spirito, che conferisce il carattere e la coscienza dei figli con tutta la libertà che ne consegue. Questo secondo dono è postulato dal primo: all’invio del Figlio corrisponde, come necessario complemento, la missione dello Spirito. Il testo è esplicito in tal senso: lo stesso verbo col quale Dio manda il Figlio viene ripetuto per il dono dello Spirito. Non ci si limita alla trasformazione oggettiva, ma si è introdotti nell’esperienza personale, nella coscienza beata di sentirsi figli. Insieme con la dimensione trinitaria, in questo testo che parla di schiavi liberati, è presente anche una nota essenziale, ma preziosa, di soteriologia e di antropologia soprannaturale, concernente la condizione nuova in Cristo e nello Spirito di quanti, sottratti alla schiavitù della legge e degli elementi mondani, sono diventati liberi, figli ed eredi, per grazia di Dio.  Tutte queste dimensioni – fondamentali nell’opera divina e nella salvezza delle genti – dicono riferimento più o meno diretto, ma imprescindibile, alla « donna » dalla quale è nato il Figlio di Dio. La sua figura appare in qualche modo un crocevia nei disegni divini. Alla luce di questo antico e autorevole testo paolino acquistano concretezza le parole solenni del Concilio: « Maria…per la sua intima partecipazione alla storia della salvezza, riunisce per così dire e riverbera i massimi dati della fede (LG 65). Non a caso il testo di Galati viene citato con grande frequenza dai Padri e trova ampia valorizzazione nella liturgia della Chiesa. Anche i documenti magisteri ali vi ricorrono volentieri. Con questo brano si apre il Capitolo VIII della Lumen Gentium e con il medesimo testo ha inizio l’enciclica Redemptoris Mater. Giovanni Paolo II non si limita a citarlo, ma ne sottolinea l’eccezionale portata trinitaria, ecclesiale e storico salvifica: « Sono parole infatti che celebrano congiuntamente l’amore del Padre, la missione del Figlio, il dono dello Spirito, al donna da cui nacque il Redentore, la nostra filiazione divina, nel mistero della pienezza del tempo » (Red. Mat.1). 

[segue qualche riga di presentazione della rivista

NOTA 

Per quanto riguarda il termine kecharitoméne, una bella spiegazione di Papa Giovanni Paolo II due udienze: 

Giovanni Paolo II – udienza 8 maggio 1996 

La « piena di grazia » 

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/1996/documents/hf_jp-ii_aud_19960508_it.html

Giovanni Paolo II – udienza 15 maggio 1996 

La perfetta santità di Maria 

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/1996/documents/hf_jp-ii_aud_19960515_it.html

CARD. CARLO MARIA MARTINI (temi: la speranza; Lettere: Rm; 1Cor)

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/martini_virtu6.htm

CARD. CARLO MARIA MARTINI (temi: la speranza; Lettere: Rm; 1Cor)
LA SPERANZA (*)

Premessa

Desidero iniziare la riflessione sulla speranza raccontandovi un’intuizione, molto semplice, che ho avuto trentaquattro anni fa, nel 1959, celebrando per la prima volta la Messa al Santo Sepolcro, a Gerusalemme. Si tratta di una piccola cella e per entrarvi bisogna curvarsi a fatica. In quel luogo misterioso e affascinante si venera la pietra su cui è stato deposto il corpo di Gesù morto. Era il 13 luglio, anniversario della mia ordinazione sacerdotale, tra le quattro e le cinque del mattino. Ricordo ancora con grande impressione il pensiero che mi illuminava: tutte le religioni – dicevo a me stesso – hanno considerato il problema della morte, il senso di questo evento, e si sono chieste se esista qualcosa al di là di esso. E io sto celebrando nel posto in cui Cristo morto ha riposato e da dove è risorto vivo. Qui è la risposta unica, cristiana, alla domanda universale: che cosa si può sperare dopo la morte?
Il tema della speranza riguarda anzitutto il momento drammatico, di non ritorno, che è la morte: ecco a che cosa si riferisce la virtù, la forza della speranza. Al problema della morte nessuno può sfuggire; anche se poi l’arco delle attese di futuro diventa amplissimo, coglie tutta l’esistenza umana, il destino e le speranze dei popoli, del mondo inteso come unità. I molteplici interrogativi su ciò che sarà di me, di noi, dell’umanità, hanno a che fare con la speranza, perché sperare è vivere, è dare senso al presente, è camminare, è avere ragioni per andare avanti.

(*) Questa catechesi è stata tenuta dall’Arcivescovo nel Duomo di Milano, dove erano convenute migliaia di persone da tutta la diocesi.

Abbiamo speranza?

Il punto focale della nostra riflessione si riassume in una sola domanda: noi che siamo radunati insieme, abbiamo speranza? ho in me la speranza cristiana? oppure è soltanto una parola? la speranza cristiana abita davvero dentro di me?
Occorre rispondere seriamente, non avendo paura di riconoscere che, forse, la nostra speranza si riduce a un lumicino (e sarebbe già molto).

Un esegeta contemporaneo, Heinrich Schlier, descrive, partendo da san Paolo, gli effetti della mancanza di speranza nel mondo, in questi termini: « Dove la vita umana non è protesa verso Dio, dove non è impegnata al suo appello e invito, ci si sforza di superare la spossatezza, la vacuità e la tristezza che nascono da tale mancanza di speranza » . E aggiunge che i sintomi della non speranza sono « la verbosità dei vuoti discorsi, l’esigenza costante della discussione, l’insaziabile curiosità, la sbrigliata dispersione nella molteplicità e nell’arruffio, l’intima ed esteriore irrequietezza » – noi diremmo: le varie forme di nevrosi – « la mancanza di calma, l’instabilità nella decisione, il rincorrersi di continuo verso sempre nuove sensazioni » .
Cercherò dunque di aiutarvi a rispondere alla domanda su che cosa sia la speranza, per verificare se e in quale misura ci abiti.

Che cos’è la speranza cristiana?

Da quando ho pensato di preparare la lettera pastorale Sto alla porta, ho continuato a riflettere sulla speranza cristiana e, più vi rifletto, più mi appare indicibile.
La speranza è come un vulcano dentro di noi, come una sorgente segreta che zampilla nel cuore, come una primavera che scoppia nell’intimo dell’anima; essa ci coinvolge come un vortice divino nel quale veniamo inseriti, per grazia di Dio, ed è appunto difficilmente descrivibile.

Tuttavia desidero darvi un tentativo di definizione attraverso sei brevi tesi.

1. La prima tesi paragona la speranza cristiana con le speranze del mondo. Perché la speranza è un fenomeno universale, che si trova ovunque c’è umanità, un fenomeno costituito da tre elementi: la tensione piena di attesa verso il futuro; la fiducia che tale futuro si realizzerà; la pazienza e la perseveranza nell’attenderlo.
La vita umana è inconcepibile senza una tensione verso il futuro, senza progetti, programmi, attese, senza pazienza e perseveranza. Ma è pure intessuta di delusioni e quindi è permeata dalla speranza e anche dalla disperazione.
Ora – è la prima tesi – la speranza cristiana è qualcosa di tutto ciò, ed è diversa da tutto ciò: è diversa da ogni forma che il mondo chiama speranza, perché ha a che fare sì e no con le speranze di questo mondo.

2. La speranza cristiana viene da Dio, dall’alto, è una virtù teologale la cui origine non è terrena. Infatti essa non si sviluppa dalla nostra vita, dai nostri calcoli, dalle nostre previsioni, dalle nostre statistiche o inchieste, ma ci è donata dal Signore. Spesso dimentichiamo questa verità e consideriamo la speranza cristiana come « qualcosa in più », che si aggiunge alle altre cose.
Dunque, sperare è vivere totalmente abbandonati nelle braccia di Dio che genera in noi la virtù, la nutre, l’accresce, la conforta.
Mentre la prima tesi paragonava la speranza cristiana con le speranze di questo mondo, asserendo che in qualche modo è uguale alle altre ma anche diversa, la seconda tesi ci dà la ragione della diversità: la speranza è da Dio soltanto, è fondata sulla sua fedeltà.

3. Dobbiamo allora comprendere qual è il contenuto, l’oggetto della speranza cristiana. Sappiamo che, essendo virtù divina, ci rende partecipi della vita di Dio, è un mistero ineffabile, inimmaginabile, inesplicabile, indicibile appunto. Scrive san Paolo, nella Lettera ai Romani: « Ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? » (Rm 8, 24). In un’altra Lettera afferma che « mai cuore umano ha potuto gustare ciò che Dio ha preparato a coloro che lo amano » (1Cor 2,9): mai cuore ha potuto gustare, dunque neppure il nostro cuore, che è il centro di noi stessi. La speranza è uno strumento conoscitivo di straordinaria lungimiranza, acutezza, lucidità. Neppure il nostro cuore può comprendere, con tutti i suoi sogni, aspirazioni e desideri, quel bene senza limiti che Dio ci prepara, che è l’oggetto della nostra speranza: qualcosa che è al di là di ogni attesa e di ogni desiderio, anche se li colma e li riempie in modo indescrivibile. Il contenuto della speranza cristiana è quello di cui Dio ci riempie e ci riempirà, se ci fidiamo totalmente di lui.

4. La speranza cristiana ha però un termine, un punto di riferimento come suo oggetto: guarda a Gesù Cristo e al suo ritorno. A questo si appunta, perché ciò che Dio ci prepara, nel suo amore infinito, non è un’incognita: è Gesù, il Signore della gloria.
Noi speriamo che Gesù si incontrerà pienamente, svelatamente, in tutta la sua divina potenza di Crocifisso-Risorto, con ciascuno di noi, con la Chiesa, e ci farà entrare nella sua gloria di Figlio accanto al Padre: sarà il regno di Dio, la celeste Gerusalemme, la vita in Dio.
La nostra speranza è che vivremo sempre con lui, saremo con lui, nostro amore, e lui sarà con noi; saremo, come figli nel Figlio, nella gloria del Padre, nella pienezza del dono dello Spirito.
Questo è il termine della speranza cristiana.

5. Dobbiamo fare, tuttavia, un chiarimento importante. Il ritorno di Gesù, che noi speriamo, è anche un giudizio. È necessario sottolinearlo in questi giorni in cui si parla tanto di giustizia, di crisi. La manifestazione di Cristo Gesù sarà pure un giudizio, una « crisi » nel senso originario della parola greca, che significa appunto « giudizio ». Quando Cristo apparirà, nell’ora voluta dal Padre, si verificherà per ogni uomo la decisione definitiva sulla sua vita, sarà per ciascuno di noi e per l’umanità intera il momento critico, la crisi per eccellenza, il giudizio finale.
Nella nostra vita terrena e nella vita delle nostre società ci sono spesso crisi, grandi o piccole, personali o familiari, economiche, sociali, politiche, congiunturali, strutturali. Ma tutte queste crisi, anche quando ci sembrano quasi totali, raggiungono sempre soltanto una parte dell’esistenza umana e ne lasciano intatti altri aspetti. Non si dà sotto il sole una crisi davvero totale; e dunque nessuna crisi dovrebbe turbarci, spaventarci, se non in relazione alla crisi provocata dalla manifestazione definitiva del Signore, l’unica totale, l’unica in cui il giudizio sarà irrevocabile e irresistibile.
Per questo san Paolo avverte di « non giudicare nulla prima del tempo finché venga il Signore, il quale metterà in luce ciò che è nascosto nelle tenebre e renderà manifesti i pensieri dei cuori; allora ciascuno avrà la sua lode da Dio » (lCor 4, 5). In quel momento del giudizio e della crisi finale, tutto ciò che è stato sepolto nelle profondità delle coscienze e tutto ciò che è stato rimosso di fronte agli altri o addirittura a noi stessi, sarà rivelato e consegnato al tribunale inappellabile della decisione divina. In pubblico sarà emanato il giudizio pieno e definitivo di ciascuno e di tutti: giudizio imparziale, vero, sicuro.

6. Se attendiamo il giudizio di Dio, come mai possiamo guardare a esso con speranza?
La risposta è semplice: perché ci aggrappiamo ancora una volta a Gesù nostra speranza, che ci giudicherà come Salvatore di quanti hanno sperato in lui; come colui che ha dato la vita morendo per salvarci dai nostri peccati; come colui che ha uno sguardo misericordioso per coloro che hanno creduto e sperato, che sono stati battezzati nella sua morte e risorti con lui nel Battesimo, che gli sono stati uniti nel banchetto dell’Eucaristia, che si sono nutriti della sua Parola e riconciliati con lui nel Sacramento del perdono, che si sono addormentati in lui sostenuti dal sacramento dell’Unzione dei malati.
La speranza è, quindi, fin da ora la fiducia incrollabile che Dio non ci farà mancare in nessun momento gli aiuti necessari per andare incontro al giudizio finale con l’animo abbandonato in Colui che salva dal peccato e fa risorgere i morti.
Gesù, nostra speranza, nostra salvezza, nostra redenzione, nostra certezza, ci sostiene nei cammini difficili della vita e ci permette di superare, giorno dopo giorno, le piccole e grandi crisi della quotidianità e della società. E noi camminiamo guardando a un termine di gioia perfetta, di giustizia piena, di riconciliazione totale in lui che, nell’Eucaristia, continuamente si offre per noi sull’altare unendoci alla sua misericordia e ci immerge nell’amore del Padre.

Domande per la riflessione personale

Dopo aver cercato di descrivere la speranza cristiana, il suo orizzonte, il suo termine e che cosa comporta di gioia e di vigilanza fin da ora, vi propongo quattro domande per la riflessione personale.

1. Noi cristiani, io stesso, il nostro tempo, la nostra società, abbiamo davvero speranza? siamo adeguati all’ampiezza della speranza cristiana? Se constatiamo di avere una speranza fioca, tenue, di orizzonte ristretto, già questo può diventare motivo di preghiera: Donaci, o Padre, la speranza, donaci il pane quotidiano della speranza; rimetti a noi i nostri peccati di poca speranza!
È importante esprimere al Signore il desiderio che lui infonda la speranza vera.

2. Quali sono, in me e intorno a me, nella società, i segni di mancanza di speranza? Ne abbiamo indicati alcuni citando l’esegeta Heinrich Schlier: ogni cedimento al malumore, al nervosismo, all’inquietudine, all’amarezza; ogni mancanza di calma, la verbosità di discorsi vuoti, la voglia di discutere sempre, la. curiosità, la dispersione nella molteplicità delle cose, l’instabilità di decisioni nella vita. Sono tutti segni di non speranza.
E, nella società, sono segni di mancanza di speranza la non chiarezza, la non obiettività, la non linearità, l’incoerenza, la disonestà. Talora, guardandoci intorno con occhio indagatore, ci sembra di scorgere dietro a tante forme di vita dei segnali dolorosi di disperazione nascosta, che attende di essere curata, lenita, medicata, guarita.
Quali sono, dunque, in me e intorno a me, i segni di mancanza di speranza?

3. Quali, al contrario, i segni positivi che vedo in me di speranza teologale? Non semplicemente segnali di buon umore, di buona salute (pur se sono doni di Dio), ma segni di vera speranza. Per esempio, quando nelle difficoltà non mi perdo d’animo; quando nelle crisi personali, familiari e sociali so contemplare la provvidenza di Dio che ci viene incontro, ci purifica, ci ricopre con la sua misericordia; quando so guardare all’eternità, al giudizio di Dio con serenità. Ci sono in noi questi piccoli o grandi segni di speranza teologale? e quali i segni positivi che scorgo nella comunità, nella parrocchia, nella società?

4. Dove ho più bisogno di speranza? Dobbiamo porci questa domanda cercando di pregare sui punti deboli della nostra speranza, perché la speranza è vita e senza di essa non siamo cristiani, anzi non possiamo neppure essere persone umane capaci di sostenere il peso dell’esistenza. La speranza ci è necessaria come l’aria, come l’acqua, come il pane, come il respiro.
Signore, dona speranza a noi e alla nostra società che ne ha tanto bisogno!

Conclusione

Desidero concludere con una preghiera, bellissima, di un nostro carissimo prete, don Luigi Serenthà, morto a 48 anni, nel settembre 1986:

« Signore Gesù, tu sei i miei giorni.
Non ho altri che te nella mia vita.
Quando troverò un qualcosa che mi aiuta,
te ne sarò intensamente grato.
Però, Signore,
quand’anche io fossi solo,
quand’anche non ci fosse nulla che mi dà una mano,
non ci fosse neanche un fratello di fede che mi sostiene,
tu, Signore, mi basti,
con te ricomincio da capo.
Tu sei il mio desiderio! ».

Angelus II domenica di Avvento -Benedetto XVI: la vicinanza di Dio è una questione di amore (Fil; 1Ts)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-16505?l=italian

Benedetto XVI: la vicinanza di Dio è una questione di amore

Discorso introduttivo alla preghiera dell’Angelus

CITTA’ DEL VATICANO, domenica, 14 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’intervento pronunciato questa domenica a mezzogiorno da Benedetto XVI in occasione della recita della preghiera mariana dell’Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini riuniti in Piazza San Pietro in Vaticano.

* * *

Cari fratelli e sorelle,

questa domenica, la terza del tempo di Avvento, è detta « Domenica gaudete », « siate lieti », perché l’antifona d’ingresso della Santa Messa riprende un’espressione di san Paolo nella Lettera ai Filippesi che così dice: « Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti ». E subito dopo aggiunge la motivazione: « Il Signore è vicino » (Fil 4,4-5). Ecco la ragione della gioia. Ma che cosa significa che « il Signore è vicino »? In che senso dobbiamo intendere questa « vicinanza » di Dio? L’apostolo Paolo, scrivendo ai cristiani di Filippi, pensa evidentemente al ritorno di Cristo, e li invita a rallegrarsi perché esso è sicuro. Tuttavia, lo stesso san Paolo, nella sua Lettera ai Tessalonicesi, avverte che nessuno può conoscere il momento della venuta del Signore (cfr 1 Ts 5,1-2) e mette in guardia da ogni allarmismo, quasi che il ritorno di Cristo fosse imminente (cfr 2 Ts 2,1-2). Così, già allora, la Chiesa, illuminata dallo Spirito Santo, comprendeva sempre meglio che la « vicinanza » di Dio non è una questione di spazio e di tempo, bensì una questione di amore: l’amore avvicina! Il prossimo Natale verrà a ricordarci questa verità fondamentale della nostra fede e, dinanzi al Presepe, potremo assaporare la letizia cristiana, contemplando nel neonato Gesù il volto del Dio che per amore si è fatto a noi vicino.

In questa luce, è per me un vero piacere rinnovare la bella tradizione della benedizione dei « Bambinelli », le statuette di Gesù Bambino da deporre nel presepe. Mi rivolgo in particolare a voi, cari ragazzi e ragazze di Roma, venuti stamattina con i vostri « Bambinelli », che ora benedico. Vi invito a unirvi a me seguendo attentamente questa preghiera:

Dio, nostro Padre,
tu hai tanto amato gli uomini
da mandare a noi il tuo unico Figlio Gesù,
nato dalla Vergine Maria,
per salvarci e ricondurci a te.

Ti preghiamo, perché con la tua benedizione
queste immagini di Gesù, che sta per venire tra noi,
siano, nelle nostre case,
segno della tua presenza e del tuo amore.

Padre buono,
dona la tua benedizione anche a noi,
ai nostri genitori, alle nostre famiglie e ai nostri amici.

Apri il nostro cuore,
affinché sappiamo ricevere Gesù nella gioia,
fare sempre ciò che egli chiede
e vederlo in tutti quelli
che hanno bisogno del nostro amore.

Te lo chiediamo nel nome di Gesù,
tuo amato Figlio, che viene per dare al mondo la pace.

Egli vive e regna nei secoli dei secoli.
Amen.

Ed ora recitiamo insieme la preghiera dell’Angelus Domini, invocando l’intercessione di Maria affinché Gesù, che nascendo porta agli uomini la benedizione di Dio, sia accolto con amore in tutte le case di Roma e del mondo.

1 Tessalonicesi 5, 16-24, la lettura del vangelo di oggi III domenica di Avvento, commento biblico (francese/italiano)

1Ts 5,16-24, la lettura di oggi, versione originale francese e traduzione (mia) dal sito: Bible Service:

http://www.bible-service.net/site/378.html

1 Thessaloniciens 5,16-24
 

Ces quelques versets sont la conclusion de la première lettre aux Thessaloniciens. Ce texte a été choisi à cause de l’exhortation à la joie, thème de ce troisième dimanche. On remarquera une note caractéristique : l’invitation au discernement. La joie, fondée sur la certitude du Jour du Seigneur qui vient, exige une double attitude : accueillir sans réserve le don de l’Esprit, mais ne pas être dupe des fausses bonnes nouvelles.

Paul utilise des mots forts : toujours… sans relâche… en toute circonstance. La joie, la prière, l’action de grâce ne sont pas, pour Paul, des sentiments de passage, des actes de circonstance. Tout cela doit habiter le chrétien, être comme sa respiration. Pour être toujours dans la joie, rendre grâce en toute circonstance, il faut une bonne dose de foi, surtout à certains moments de l’existence. Paul sait trouver les mots pour encourager :  » Il est fidèle, le Dieu qui vous a appelé « .

1 Tessalonicesi 5,16-24

Questi versetti sono la conclusione della prima lettera ai Tessalonicesi. Questo testo è stato scelto a causa della esortazione alla gioia, tema di questa terz domenica. Si deve rimarcare una nota carateristica: l’invito al discernimento. La gioia, fondata sulla certezza del « Giorno del Signore »" che viene, esige una doppia attitudine: accogliere senza riserve il dono dello Spirito, ma non essere vitime di false buone novelle.

Paolo utilizza delle parole forti: tutti i giorni… incessantemente…in tutte le circostanze. La gioia, la preghiera, l’azione di grazie, non sono per Paolo, dei sentimenti di passaggio, degli atti di circostanza. Tutto questo deve vivere (abitare in francese) il cristiano, essere come il suo respiro. Per essere sempre nella gioia, rendere grazie in tutte le circostanze, c’è bisogno di una buona dose di fede, soprattutto in certi momenti dell’esistenza. Paolo sa trovare le parole per incoraggiare: « Colui che vi chiama è fedele » (traduzione CEI)

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